La questione del carattere degli edifici

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La questione del carattere degli edifici Evoluzione e continuità della nozione di carattere in architettura dal Settecento all’esperienza di tre architetti contemporanei

Politecnico di Milano Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni - MI Corso di Laurea in Progettazione dell’Architettura

A.A. 2017-2018 Sessione di Laurea Settembre 2018 Sara Spiriti 860411 Relatore: Piergiorgio Vitillo



La questione del carattere degli edifici Evoluzione e continuità della nozione di carattere in architettura dal Settecento all’esperienza di tre architetti contemporanei

Candidata: Sara Spiriti 860411 Relatore: Piergiorgio Vitillo

In copertina: Paul Klee, Stage Construction Site, 1928.


H. Hertzberger, Scuola Apollo, Amsterdam, 1980-1983. “Vediamo che la forma genera se stessa, e che non è tanto una questione di inventare quanto di ascoltare attentamente ciò che gli uomini e gli oggetti vogliono essere”.


caràttere s. m. [dal lat. character -ĕris, gr. χαρακτήρ -ήρος, propr. «impronta»] Segno distintivo, qualità propria che contraddistingue una persona, un organismo, un fenomeno collettivo, una cosa, da altri: i c. di un genere di piante; i c. comuni di un gruppo di lingue; i c. della letteratura contemporanea. Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1941-2016.



Indice

Abstract.......................................................................................................................................................7 1. Il carattere degli edifici nella storia.............................................................................................................9 1.1 Discussioni intorno alla nozione di carattere.........................................................................................9 1.2 Leggibilità del carattere degli edifici. La materia come veicolo espressivo dell’architettura.......................17 1.3 Decorazione e ornamento.................................................................................................................23 2. Il carattere degli edifici oggi . ...................................................................................................................31 2.1 Rafael Moneo: la solitudine degli edifici nella realtà............................................................................31 2.2 Herzog & de Meuron: la conquista dell’originario...............................................................................39 2.3 Álvaro Siza: fra architettura e poesia.................................................................................................47 Bibliografia.................................................................................................................................................54 Sitografia...................................................................................................................................................56


Adolf Loos, Looshaus (Goldman & Salatsch Building), Michaelerplatz, Vienna 1910.


Abstract

La questione del carattere dell’architettura

A discussion on the notion of character in architecture

Evoluzione e continuità della nozione di carattere in architettura dal Settecento all’esperienza di tre architetti contemporanei

Evolution and continuity of the notion of character in architecture from the eighteenth century to the experience of three contemporary architects

L’elaborato si propone di indagare il significato e l’evoluzione del concetto di carattere in architettura attraverso le teorie proposte da diversi autori dal Settecento ad oggi. Alla luce della tesi sviluppata da Quatremère de Quincy nell’edizione del 1832 del suo Dictionnaire in merito alla questione del carattere, sono sviluppate due tematiche: la materia, da intendersi non come semplice mezzo costruttivo, ma come veicolo espressivo, e la decorazione, ancora oggi fra le questioni architettoniche più dibattute. La seconda parte della ricerca approfondisce alcune interpretazioni del ruolo del carattere all’interno dell’orizzonte architettonico odierno, sulla base delle declinazioni esaminate in precedenza. L’analisi dell’approccio progettuale di Rafael Moneo e delle sue opere e testi critici fornisce delle chiavi di lettura significative del panorama architettonico contemporaneo. Sono prese in considerazione l’esperienza di Herzog & de Meuron, con il loro rifiuto dell’iconografia come rinuncia all’espressione individuale, e quella di Álvaro Siza, che a partire da un’accurata conoscenza del luogo ricerca l’essenza dell’architettura all’interno di una “realtà fluida”.

The essay aims at exploring the meaning and the evolution of the notion of character in architecture through the theories of many authors from the eighteenth century to the contemporaneity. Starting from Quatremère de Quincy’s position about architectural character, written in his Dictionnaire, two issues are developed: the material, which is not to be intended as a constructive means, but as a vehicle of expression, and the decoration, that is still an essential matter in the contemporary architectural debate. The second phase of this research considers some interpretations of the current role of character, according to the previous analysis. The investigation of Rafael Moneo’s approach to design through his works and theoretical writings provides keys to a meaningful reading of the contemporary architectural scene. The experience of Herzog & de Meuron, with their refusal of the iconography as a renunciation of individual expression, and the one of Álvaro Siza, who looks for the architectural essence in a “shifting reality”, starting from an accurate knowledge of the place, are deeply examined.

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Fig.1 Sir John Soane, Lincoln’s Inn Fields, London, 1792-1824 “La casa di Soane in Lincoln’s Inn Fields rappresenta una sorta di dimostrazione delle varie idee di carattere in voga alla fine del XVIII secolo: non solo l’edificio si presentava come la casa di un architetto, ma al suo interno Soane sperimentò gli effetti di luce e ombra allo scopo di creare differenti umori o caratteri appropriati ai diversi stadi di una storia o di una rappresentazione teatrale”. A. Forty, Parole e edifici. Un vocabolario per l’architettura moderna, Pendragon, Bologna 2004.


1 Il carattere degli edifici nella storia 1.1 Discussione intorno alla nozione di carattere Carattere è un termine ricco di significati, cui un fiume di metafore può a malapena alludere. Louis Sullivan, Kindergarten Chats, 1976

È con questa citazione che Adrian Forty, nel suo vocabolario per l’architettura moderna Parole e edifici, esordisce sotto la voce Carattere, alludendo alla vastità di significati ad essa attribuibili. Il termine “non consente apparati definitori; interpretazioni, piuttosto”1. Introdotta nel discorso architettonico nel XVIII secolo, la parola carattere deriva dal greco χαράσσειv (lett. “incidere, imprimere una marca, un segno distintivo”2) e, per quanto non esista “nulla che non sia dotato d’una varietà distintiva, a qualsiasi grado”, secondo Quatremère de Quincy “l’impiego della parola carattere […] indica nell’opere dell’arte non ogni distinzione qualunque […], ma una distinzione sovreminente che le fa considerare come di primo ordine”2. Qualsiasi riferimento al carattere solleva “problemi di significato”3, trattandosi non di un principio estetico, ma bensì di una qualità riferita al contenuto dell’opera architettonica. “Una questione espressiva, nel senso di ciò che l’architettura comunica attraverso il perché delle sue forme”4.

Grande interprete della teoria del carattere è Quatremère de Quincy, che nell’edizione del 1832 del suo Dictionnaire5 ne rielabora una definizione semplificata rispetto a quella del 1788. L’autore si sofferma su tre locuzioni adottate per l’uso della parola carattere: -il carattere essenziale, che si manifesta quando un’opera è dotata di qualità, intesa come forza, grandezza e sublimità morale; -il carattere distintivo o accidentale, che si verifica quando un’opera è dotata di originalità e non è cioè una copia, ma ha un’impronta speciale e individuale, senza ripudiare completamente il passato; -il carattere relativo, che è la proprietà dell’edificio di mostrare il suo carattere, da intendersi come potere di un’opera di manifestare la sua particolare natura e destinazione (proprietà dimostrativa). Se da un lato le prime due locuzioni hanno il limite di rendere quella del carattere una teoria storica, per cui un monumento fu forte o originale nelle circostanze

1 Eleonora Mantese, voce Carattere. In: Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, diretto da Luciano Semerani, Fondazione Angelo Masieri, Edizioni C.E.L.I., Gruppo editoriale Faenza, Faenza editrice, Venezia-Faenza 1993, cit. p. 41. 2 A. Quatremère de Quincy, Carattere. In : A. Quatremère de Quincy, Dizionario storico di architettura, Marsilio, Padova 1992, cit. p. 152.

3 A. Forty, Parole e edifici. Un vocabolario per l’architettura moderna, Pendragon, Bologna 2004, cit. p. 120. 4 Vittorio Uccelli, La biblioteca Sainte-Genevieve di Henri Labrouste e la questione del carattere degli edifici, Aion, 2013. cit. p. 118. 5 A. Quatremère de Quincy, Carattere. In : A. Quatremère de Quincy, Dizionario storico di architettura, Marsilio, Padova 1992, pp. 151-160.

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in cui fu pensato e costruito, ma la didattica non ne trarrebbe insegnamenti nell’attuale, la terza invece, in qualità di arte di imprimere a ciascun edificio una maniera di essere totalmente adattata alla sua natura e destinazione attraverso mezzi esterni quali la forma di pianta e alzato, la scelta e la misura degli ornamenti e della decorazione, il genere della costruzione e i materiali, non è più storica, ma se ne possono insegnare i segreti attraverso documenti, introducendo quindi il tema didattico, molto caro all’autore.

tipo di edificio”8. Con Boffrand, ci troviamo quindi di fronte all’uso della parola carattere come espressione della funzione particolare di un edificio, in analogia a A. Laugier che nel 1753, nel suo Essai sur l’architecture9, parla della “vrai destination”, l’essenza della destinazione, che, quando è scelta insieme al genere, è in grado di fissare il carattere dell’edificio. J. -F. Blondel sviluppa in modo più sistematico l’idea di Boffrand, esprimendo in un suo saggio del 1766 l’importanza della funzione degli edifici nella determinazione della loro forma generale ed essenza. “Per ottenere un carattere distintivo” occorrono “la giusta disposizione delle masse generali, la scelta delle forme e di uno stile di base”10, adatto solo a quel tipo di edifici.

Il carattere come espressione della funzione Sebbene sia la terza locuzione di Quatremère, quella della proprietà dimostrativa di un edificio, ad interessare maggiormente questa sede, è opportuno prendere in esame le diverse teorie del carattere che si sono delineate nel corso del Settecento. Adrian Forty ci guida attraverso questa ricerca, sostenendo che il termine carattere sia stato introdotto in architettura dallo scrittore e architetto francese Germain Boffrand, nel suo Livre d’Architecture6. Secondo Boffrand, l’architettura “è capace di diversi generi”7 che costituiscono il suo linguaggio. Riassumendo la sua posizione, Boffrand scrive: “Differenti edifici, attraverso la loro disposizione, la costruzione e il modo in cui sono decorati, dovrebbero trasmettere allo spettatore la loro funzione”7. “[…] in ciascuno dei modi, o degli ordini, dell’architettura si possono trovare i caratteri che sono più adatti a ogni

Il carattere come evocazione di stati d’animo Nel dibattito della fine del XVIII secolo sul carattere, il tentativo di percepire l’architettura attraverso sensazioni analoghe a quelle suscitate dalla natura acquisisce un ruolo centrale. J.-D LeRoy suggerisce che i temi architettonici potrebbero essere ricavati dalla natura, in grado di evocare specifici stati d’animo con i suoi spettacoli come le grandi opere umane11. I due teorici Lord Kames e Thomas Wathely, rispettivamente in Elements of Criticism (1762)12 e in Observation on Modern Gardening (1770)13, presentano due studi di estetica. Kames, in particolare,

6 G. Boffrand, Livre d’architecture, Parigi 1745. 7 Ibidem p. 16. 8 Ibidem p. 26. 9 A. Laugier, Essai sur l’architecture, 1753. 10 J.-F. Blondel, Cours d’architecture, vol. II, pp. 229-230. 11 J.-D. Le Roy, Histoire de la disposition et des formes différents que

les chrétiens ont donnés à leurs temples depuis la règne de Constantin le Grand à nos jours, Parigi 1764. 12 Lord Kames, Elements of Criticism (1792), 2 voll., Bell-Bradfute, Edinburgh 1817. 13 T. Whately, Observations on Modern Gardening, T. Payne, Londra 1770.

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Fig. 2 Jean Baptiste Claude Chatelain, The Rotunda and the Queen’s Theatre, Stowe, 1753

Fig. 3 Jardin de Monceau, près de Paris appartenant à son altesse sérénissime monseigneur le Duc de Chartres, Carmontelle, 1779.

oltre ad essere stato il primo in Inghilterra a utilizzare il termine carattere in architettura con la stessa connotazione di Boffrand, ossia come espressione della destinazione di un edificio, si sofferma “sull’idea di utilità intesa come fonte di piacere”14, ponendosi invece in antitesi con quegli espedienti letterari ed emblematici, tesi a creare “emozioni e sentimenti piacevoli e rassicuranti”14. Whately classifica più precisamente il carattere in tre tipi, emblematico, imitativo e originale. I caratteri emblematici (come ad esempio gli ornamenti allegorici) hanno il grande limite di dover essere “esaminati, paragonati e persino spiegati”15 perché il loro disegno venga compreso. Il carattere imitativo “controlla il flusso di pensiero che l’apparenza suggerisce naturalmente”16. Il carattere originale è considerato da Whately il più meritevole, poiché “immediatamente si perdono di vista i mezzi con cui tale carattere si forma”17.

È proprio quest’ultima idea, per cui “l’architettura può rivolgersi allo spirito senza essere mediata da alcuna riflessione mentale”18, ad affascinare gli architetti francesi alla fine del XVIII secolo, in particolare Le Camus de Mézières, Boullée e Ledoux. In Le Génie de l’architecture19, Le Camus de Mézières approfondisce la questione del carattere legata agli spazi interni di un edificio, sostenendo che ogni spazio faccia desiderare l’altro, lasciando in sospeso il nostro spirito. “Ogni stanza deve avere il proprio carattere. L’analogia, il rapporto delle proporzioni, determina le nostre sensazioni”20. Secondo Boullée, come afferma Eleonora Mantese, “la questione del carattere impone una scelta che sta prima del progetto architettonico, perché corrisponde alla natura del soggetto e ne costituisce la parte evocativa, emozionale”21.

14 A. Forty, Parole e edifici. Un vocabolario per l’architettura moderna, Pendragon, Bologna 2004, cit. p. 124. 15 T. Whately, Observations on Modern Gardening, T. Payne, Londra 1770, cit. p. 158. 16 Ibidem p. 159. 17 Ibidem p. 163.

18 A. Forty, Op. cit., p. 125. 19 N. Le Camus de Mézières, The Genius of Architecture; or the Analogy of that Art with Our Sensations (1780), trad. di D. Britt, Getty Center, Santa Monica 1992. 20 Ibidem, p. 88. 21 Eleonora Mantese, Op. cit., p. 44.

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Carattere come espressione di un luogo Se finora si sono analizzate principalmente due posizioni circa la teoria del carattere, quella di carattere come espressione della funzione particolare di un edificio e come evocazione di specifici stati d’animo, ne va aggiunta una terza: quella di carattere come espressione di un luogo. Secondo Adrian Forty, quest’accezione di carattere ha origine nel passo di Alexander Pope nella sua Epistle to Lord Burlington del 1731: To build, to plant, whatever you intend, To rear the Column, or the Arch to bend, To swell the Terras, or sink the Grot; In all, let Nature never be forgot. Consult the Genius of the Place in all.

Fig. 4 Sir John Soane, Old Colonial Office in the Bank of England ,1818.

singolo carattere, un dettaglio anche piccolo di un edificio, e non solo alle sue caratteristiche generali, non è mai troppa; […] Chi si accontenta di mettere pietra su pietra è un bravo muratore e può aumentare il suo profitto, può erigere una casa comoda per il suo cliente, ma non sarà mai un artista […]. E non riuscirà nemmeno a toccare i sentimenti dell’umanità. Anche se è stato dichiarato il contrario, state certi, miei giovani amici, che l’architettura nelle mani degli uomini di genio può assumere qualunque carattere le venga richiesto. Ma per raggiungere tale scopo, per produrre tale varietà, è necessario che ogni edificio sia conforme agli usi per cui esso è inteso e che esprima chiaramente la sua destinazione e il suo carattere […].I medesimi tratti distintivi devono essere mantenuti negli interni e nelle decorazioni.[…] Gli edifici che mancano di chiarezza di carattere possono essere comodi e soddisfare le funzioni per le quali sono stati costruiti, tuttavia essi non verranno mai additati come esempi da imitare[…]”24.

Un altro entusiasta esponente del carattere è Sir John Soane. Forty spiega che “la sua notevole conoscenza del pensiero architettonico francese e la familiarità con i principi del pittoresco, fecero sì che egli giungesse ad una profonda comprensione di questo concetto in tutte le sue sfumature; e nelle sue conferenze alla Royal Academy, carattere e semplicità […] si riferiscono a tutto ciò che riscuoteva il suo plauso”22. Soane usa carattere in tutte le accezioni sinora considerate: con il significato di pittoresco, per descrivere la relazione tra architettura e il suo ambiente naturale; con quello di espressione architettonica in relazione allo scopo dell’edificio; con l’accezione di “stato d’animo determinato dalla luce”23. In particolare, secondo Soane il carattere è da considerarsi necessario in architettura perché: “[…]l’attenzione che si presta a un 22 A. Forty, Parole e edifici. Un vocabolario per l’architettura moderna, Pendragon, Bologna 2004, cit. p. 126. 23 Ibidem p. 127.

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Carattere come espressione dell’invidualità

Il declino del termine carattere in architettura

Forty evidenzia infine un’altra teoria celebre nel corso del XVIII secolo, ossia quella dei romantici tedeschi, promossa da Goethe. Egli, all’interno del saggio Sull’architettura tedesca, “nel considerare la cattedrale di Strasburgo, definisce il suo carattere come l’espressione dell’anima di Erwin Von Stainbach, il suo architetto”25. Goethe deduce quindi che “la verità di tutta l’arte e dell’architettura sta nel grado in cui esse esprimono il carattere dei loro creatori”25. Sebbene i precedenti significati di carattere, soprattutto quello connesso allo scopo dell’edificio, continuarono ad essere utilizzati durante il XIX secolo, è la teoria del carattere espressivo, prevalente in Germania e nei paesi di lingua inglese, a rappresentare l’accezione più ricca del termine. Non mancano però le critiche, mosse prevalentemente da Ruskin (nonostante il suo entusiasmo per le teorie romantiche tedesche sull’architettura portatrice dell’anima dei suoi costruttori) e da Viollet-le-Duc. Ruskin in particolare dedica il primo volume di The stone of Venice26 ad una problematica: come il soggetto che osserva l’architettura possa essere certo di comprendere in modo consono il pensiero del suo creatore. La critica di Viollet-le-Duc invece, sotto la voce Costruzione nel suo Dictionnaire raisonné27, esprime in termini razionalisti che un edificio non possa essere definito “fanatico, oppressivo, o tirannico”, ma “buono o cattivo, benpensato o privo di una qualunque giustificazione razionale”28.

Il declino del carattere, sotto a tutti i punti di vista, all’inizio del XX secolo, secondo Adrian Forty potrebbe “essere stato causato dall’influenza del razionalismo strutturale”29. Interessante, a questo proposito, è la visione di W.R. Lethaby, che terminò la sua lezione razionalista del 1910 The Architecture of Adventure30 definendo il carattere come una questione poetica obsoleta per i suoi tempi, in cui una “mente moderna” può comprendere il metodo del disegno solo in senso “scientifico o ingegneristico”31. Come illustrato da Eleonora Mantese, con il Movimento Moderno, la nozione di carattere segna un grande punto di discontinuità, poiché tocca il punto critico del valore universale dell’opera d’arte in rapporto al valore dell’espressione individuale. Non perché la questione scompaia, ma, come spiega Colin Rowe in Carattere e Composizione, per il fatto che “il termine era degenerato in un catalogo incontrollato di registri architettonici, in un vocabolario senza grammatica”32. “Appena ci si discosta dalle strade maestre dell’architettura del movimento moderno”, prosegue la Mantese, “tuttavia, si possono trovare architetti che lavorano al tema dell’appropriatezza del progetto rispetto al tema specifico e al singolo luogo, conferendo identità e caratteri propri alle opere”32. 27 E.-E. Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonné de l’architecture française (1863;1872), 10 voll., trad. di K.D. Whitehead, George Brazilier, New York 1990. 28 Ibidem, vol. I, p. 116. 29 A. Forty, Parole e edifici. Un vocabolario per l’architettura moderna, Pendragon, Bologna 2004, cit. p. 131. 30 W.R. Lethaby, The Architecture of Adventure (1910), in Form in Civilization, pp. 66-95. 31 Ibidem p. 95. 32 Eleonora Mantese,Op. cit., p. 48.

24 Sir J. Soane, Royal Academy Lectures (1810-1819), in D. Watkins, Sir John Soane. Enlightenment Thought and the Royal Academy Lectures, Cambridge University Press, Cambridge 1996. 25 A. Forty, Parole e edifici. Un vocabolario per l’architettura moderna, Pendragon, Bologna 2004, cit. p. 128. 26 J. Ruskin, The Stones of Venice, Londra 1853, vol. II.

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La questione del carattere oggi Assistendo ad una tale varietà di posizioni, si evince che molti degli architetti e dei teorici, a partire dal Settecento, hanno sentito la necessità di esprimersi circa la questione del carattere. Una questione che, secondo la Mantese, contribuisce a rendere il progetto “operazione artistica complessa, perché rispondente ad aspetti di eloquenza, di appropriatezza, di necessità”33. L’autrice, nella consapevolezza della “presenza ingombrante del termine nell’attuale pluralismo linguistico”33, ripropone il concetto di carattere attraverso la terza interpretazione fornita da Quatremère de Quincy, secondo cui un’opera ha il “suo” carattere. L’aggettivo suo si riferisce a un carattere di proprietà rispetto al tema e al luogo, a una “specifica necessità rispetto ad essi”33. In questo senso, “l’arte di caratterizzare ogni edificio, vale a dire di rendere sensibili colle forme materiali e di far comprendere le qualità e proprietà inerenti alla sua destinazione, è forse di tutti i segreti dell’architettura […] il meno facile ad essere indovinato”34. Sorgono pertanto due quesiti: perché Quatremère avvalora proprio questa terza teoria e, soprattutto, come possiamo applicarla nell’attuale per indovinare il segreto dell’architettura? Il motivo è, afferma Vittorio Uccelli, che “ogni progetto di architettura dovrebbe ambire ad essere esemplare” senza “esaurirsi nella sua singola esperienza”35.

33 Ibidem p. 46 34 A. Quatremère de Quincy, Carattere. In : A. Quatremère de Quincy, Dizionario storico di architettura, Marsilio, Padova 1992, cit. p. 156. 35 Vittorio Uccelli, La biblioteca Sainte-Genevieve di Henri Labrouste e la questione del carattere degli edifici, Aion, 2013. cit. p. 20.

Fig. 5 e 6 Rafael Moneo, Museo nazionale dell’arte romana, Mérida, Spagna, 1985. Moneo attua, in ogni suo progetto, una sottomissione della soggettività, in favore di una ricerca “sull’appropriatezza del tono al tema, esercitando una forma di autocontrollo sulla necessità dell’opera rispetto al luogo” 32.

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Fig. 7 H. Labrouste, Bibliothèque Sainte-Geneviève, pianta del piano terra, 1838-1850. “L’intenzione della Sainte-Geneviève è quella di essere una biblioteca esemplare [...]. Lo scopo della Sainte-Geneviève è quindi di essere un progetto a disposizione, pronto per essere replicato, pronto per essere utilizzato perchè ha già affrontato le questioni generali sollevate dal tema”. (Vittorio Uccelli, Op. cit., p. 114.)

Egli aggiunge: “Un tema cerca la sua soluzione architettonica definitiva[…]. Una soluzione architettonica alla quale si possa ambire perché sia ripetibile, perché possa servire da modello […] e si adatti senza problemi a luoghi differenti”4. Ecco qui presentato il tema didattico, cui faceva riferimento lo stesso Quatremère alla fine del XVIII secolo. Per mettere in pratica tali insegnamenti, illustra Quatremère, l’artista deve agire secondo due modalità, due sentimenti: “conoscere la destinazione speciale del monumento” e “i mezzi esterni, che l’arte può mettere in opera per corrispondere alla espressione che dev’essere manifestata agli occhi”34. Tali mezzi esterni sono appunto la forma di pianta e alzato, la scelta e la misura degli ornamenti e della decorazione, il genere della costruzione e i materiali. Preso atto dell’importanza della coerenza e tra pianta e alzato, la cui forma non va scelta secondo ciò che si può materialmente fare, ma secondo una morale che segua una gerarchia di mezzi sicuri, necessari per indicare la destinazione degli edifici, Quatremère

afferma che in architettura si debbano applicare “con grande discernimento ed economia” e “in giusta proporzione al senso morale di ogni edificio”, quei segni “corrispondenti a tutte le impressioni ch’ella vuol produrre”, al fine di “conservar loro la proprietà di essere un linguaggio intelligibile a tutti”36. Il fine dell’architettura è quindi, secondo l’autore, quello di consentire allo spettatore di leggerne il linguaggio, ossia il significato che si cela dietro all’esteriorità dell’edificio. Tale linguaggio è comprensibile attraverso la lettura di quei mezzi esterni sopra citati, che, insieme, concorrono alla determinazione del carattere di un edificio. A partire dalla teoria del carattere proposta da Quatremère de Quincy, i paragrafi successivi cercheranno di sviscerare la leggibilità del carattere degli edifici, attraverso un’analisi del rapporto tra materia ed espressione dell’architettura e il ruolo che, secondo la critica, decorazione e ornamento rivestono oggi. 36 A. Quatremère de Quincy, Carattere. In : A. Quatremère de Quincy, Dizionario storico di architettura, Marsilio, Padova 1992, cit. p. 158.

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Fig. 8 Cartesio, La distribuzione della materia nello spazio, in Principi di filosofia ,1640.


1.2 Leggibilità del carattere degli edifici: la materia come veicolo espressivo dell’architettura Dico materia e la parola mi rimane in bocca, la lingua si attorciglia su se stessa. Dico materia e ne avverto la pesante densità del concetto. […] Dico ma/te/ria, e mi manca la saliva per ammorbidirne il suono; la parola si blocca nella bocca, conosco bene il suo sapore. Fernando Espuelas, Madre materia, 2009

Quatremère de Quincy tratta del tema della costruzione, non da intendersi come semplice edificazione, ma come “quell’arte speciale che, col sussidio del gusto, sa trarre partito dalla scienza per produrre favorevoli effetti sui nostri sensi e sulla nostra immaginazione”1. Secondo l’autore, è proprio nella fase della costruzione che i materiali concorrono come mezzo fisicamente attivo alla determinazione del carattere di un edificio, a patto che non se ne alterino le naturali qualità e peculiarità.

Xavier Zubiri parla di materia come “essenza costitutiva della realtà materiale”3, alludendo all’esistenza di una realtà più profonda di cui “la materia è la parte che viene offerta, come la punta di un iceberg, a noi e ai nostri sensi”4. È proprio in questo senso che, oltre a “servire a qualcosa”, a rivestire la funzione di “mediazione tra uomo e Natura”4, la materia ha una funzione non solo quantitativa (come massa dotata di un peso), ma è anche portatrice di un significato più profondo di ciò che costituisce (nel nostro caso, l’architettura). Lo stesso Quatremère esorta a comprendere la materia dell’architettura e a utilizzarla nel modo più consono all’uso cui l’edificio è destinato, proprio “per produrre favorevoli effetti sui nostri sensi e sulla nostra immaginazione”1. Espuelas, all’interno del suo scritto Madre materia, sostiene di voler assumere la posizione di MerleauPonty nella sua ricerca sul ruolo della materia in architettura, liberandosi “dall’autorità esclusiva” della scienza, rivendicando il “primato dell’esperienziale”5.

La materia come veicolo di espressione Nel paragrafo precedente emerge che trattare del carattere degli edifici sollevi questioni di significato. Il dilemma base, secondo A. Forty, è se gli edifici abbiano o meno un significato, e, se ce l’hanno, come si arrivi ad identificarlo. “Il carattere di un edificio deriva da ciò che questo esprime o evoca attraverso le sue forme”2.

3 Xavier Zubiri, Espacio, Tiempo, Materia, Alianza, 1996, p. 345. 4 F. Espuelas, Identità. In: F. Espuelas, Madre Materia (2009), Christian Martinotti, Milano 2012, cit. p. 16. 5 Ibidem p. 25.

1 A. Quatremère de Quincy, Carattere. In : A. Quatremère de Quincy, Dizionario storico di architettura, Marsilio, Padova 1992, cit. p. 159. 2 G. Grassi, Il carattere degli edifici. Prolusione all’anno accademico 2003-2004 pronunciata presso la Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano il 4 dicembre 2003. Pubblicata in Casabella 722, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, maggio 2004.

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La materia di cui si serve l’architettura, infatti, risiede proprio negli “aspetti percettivi, emotivi, semiotici”6 che la caratterizzano. Nonostante l’esteriorità, che Pardo definisce “il tessuto indomito del significato”7, costituisca un ostacolo all’individuazione dei significati, Gadamer sostiene che “l’essere che può venire compreso è il linguaggio”, che non è altro che “l’ambito del significato”7. Lo scopo è, secondo Espuelas, quello di “imparare a leggere questo frammento di Physis che ci è dato e che chiamiamo materia” per “capirla e utilizzarla al meglio”8.

del significato dell’architettura giungendo ad una conclusione interessante: se i significati si definiscono a partire da impressioni personali, allora “capire l’architettura diventa un dialogo con la società”9. Secondo l’autore “un edificio non è che una lunga conversazione, della quale l’architetto stabilisce il tono e suggerisce la prima frase. La materia è invece il timbro della voce, la sua modulazione e intensità”9. È pertinente, in questo caso, la considerazione di Paul Valéry su prosa e poesia: la prosa ha una funzione comunicativa, la poesia ne ha una espressiva. “Quel linguaggio (la prosa) che ha ormai assolto il suo compito, svanisce non appena si è manifestato. […] E sarò certo di essere stato capito. […] La poesia invece, non muore per il fatto di aver vissuto: essa è fatta per rinascere dalle proprie ceneri […] nella forma medesima entro la quale si manifesta, stimolando il lettore a ricostruirla nella sua identità”10. Espuelas applica questa teoria al mondo dell’architettura, distinguendo gli edifici-prosa, che “servono ad una funzionalità immediata”11, destinati ad essere dimenticati velocemente, dagli edifici-poesia, che invece ci attraggono e si innestano nella nostra memoria poiché scaturiscono il desiderio di essere visti e toccati di nuovo. Per completare questo ragionamento, Espuelas paragona la materia per l’architettura alla poetica per la scrittura. La poetica, infatti, in quanto “suono delle parole”, ha la capacità di “dotare un testo di un primo significato”11. Il nostro obiettivo deve essere quello di ascoltare la materia dell’architettura.

Interpretazione del significato della materia Espuelas illustra varie possibilità operative per comprendere il significato della parola materia: da un lato, l’ipotesi di Merleau-Ponty, secondo cui è l’uomo stesso a far esistere il mondo e, di conseguenza, ha la possibilità di attivare la materia in sé come qualcosa che ha bisogno di esprimersi; dall’altro lato emergono la teoria nominalista di Deleuze, che propone di sostituire il nome della materia, alla ricerca di nuovi predicati, e quella di Rorty, che invece esorta a mantenere il nome originale, modificandone però il significato, proprio perché l’uomo ha una “illimitata capacità di conoscenza”3. Si tratta quindi di “individuare le operazioni necessarie per attribuire nuovamente significato a tutto ciò che si riferisce alla fisicità dell’architettura”9. Espuelas riflette sul ruolo della materia nell’espressione 6 Ibidem p. 27. 7 José Luis Pardo, Sobre los espacios. Pintar; escribir; pensar, Ediciones del Serial, 1991, p. 21. 8 F. Espuelas, Madre Materia (2009), Christian Martinotti, Milano 2012, cit. p. 28. 9 Ibidem p. 31.

10 Paul Valery, Poésie et pensée abstraite, 1957 (trad. it. Poesia e pensiero astratto, in Varietà, Rizzoli, Milano, 1971, cit. p. 322). 11 F. Espuelas, Madre Materia (2009), Christian Martinotti, Milano 2012, cit. p. 32.

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Fig. 9 SANAA, Padiglione del vetro, Toledo (Ohio), 2006.

Fig.10 Peter Zumthor, Kunsthaus, Bregenz, 1997.

Il nuovo ruolo della materia Espuelas riscontra nella società attuale una crisi della capacità di “accogliere i nuovi aspetti di una materialità mutante”12. È interessante la teoria espressa da Ezio Manzini, il quale sostiene che l’identità dei materiali derivi da un “intreccio di proprietà fisiche e valori culturali”13. L’autore mette in evidenza il rapporto tra la perdita di spessore fisico dei materiali e di densità culturale della materia, il cui significato si è gradualmente spostato dalla profondità alla superficie: “l’oggetto contemporaneo tende ad essere tutto contenuto nel suo strato superficiale”14. Se di solito “l’architettura affida alla materia una parte importante della sua capacità di significazione”15, oggi, secondo Espuelas, la materia è muta, relegata ad una funzione di supporto, privata della sua fisicità. E a scontrarsi con questa tendenza, architetti come SANAA, Zumthor, Herzog & de Meuron oppongono

resistenza alla perdita di spessore, “usando addirittura l’aria come un vero e proprio strato”15 dotato di una sua materialità. Non solo Quatremère de Quincy, ma anche Espuelas e, con il loro lavoro, Herzog & de Meuron si rendono conto dell’importanza della “presenza attiva della materia architettonica”, in un momento in cui ha solamente il ruolo passivo di “attivatrice di effetti progettati”16. In questo contesto, sostiene Espuelas, Herzog & de Meuron hanno fatto della materia il loro “tratto stilistico”16, rendendola protagonista della loro indagine. “Ogni loro opera parte dalla messa in discussione della natura di un materiale e delle sue proprietà espressive”17. Il loro stile, che è un “non stile”17, è volto ad esaltare la materia concreta, che diviene “lingua” dell’architettura. Essi ne hanno compreso l’irrinunciabile “ruolo interlocutorio, di negoziazione, tra necessità utilitaristiche e Cultura”17.

12 Ibidem p. 34. 13 Ezio Manzini, Artefatti. Verso una nuova ecologia dell’ambiente artificiale, Domus Academy, Milano, 1990, cit. p. 45. 14 Ibidem p. 25.

15 F. Espuelas, Madre Materia (2009), Christian Martinotti, Milano 2012, cit. p. 38. 16 Ibidem p. 39. 17 Ibidem p. 40.

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Come può l’uomo utilizzare la materia rendendola mezzo fisicamente attivo nell’architettura?

Sulla questione della manipolazione dei materiali è molto interessante la posizione di Ezio Manzini, che individua in essa tre fasi: la fase di complessità subita, di complessità normata e di complessità gestita. Se la prima fase si occupa di un tipo di manipolazione del materiale che si adatta alle sue peculiarità naturali, le altre due trattano rispettivamente della standardizzazione e della progettazione di materiali. La fase di complessità gestita, in particolare, dà luogo a materiali che non sono più entità date dalla Natura, ma entità progettate ad hoc, per ottenere esiti progettuali. È proprio questo l’atteggiamento contro cui si schierava Quatremère de Quincy, ed Espuelas avvalora la sua tesi sostenendo che “la complessità dell’architettura” sia “contraria a tali modi di programmazione di oggetti specifici”22.

Il termine chiave di questa domanda è il verbo utilizzare, che riveste un ruolo fondamentale all’interno teoria esposta da Martin Heidegger in Sein und Zeit (Essere e Tempo)18. Utilizzabilità (Zuhandenheit) è il modo di essere delle cose, degli enti, che l’uomo, l’Esserci (Dasein), usa come mezzi e strumenti per conseguire i propri scopi7. Il mondo heideggeriano non è una semplice somma degli oggetti esistenti, ma l’orizzonte globale di utilizzabilità delle cose. Vediamo dunque che, pur non parlando di materia in senso letterale, forse perché “troppo pratica per il suo pensiero ontologico”19, non possiamo che interpretarla come parte della Physis, in cui è la semplice presenza a definire ciò che è fisico. Espuelas, ripercorrendo i passi di Heidegger, sostiene che l’homo faber scopre, con uno “sguardo avido e utilitaristico”, la materia, addormentata “nella sua condizione naturale”20. Essa così “rinuncia a far parte della Natura per interpretare nuovi ruoli nella commedia umana”20. Utilizzare la materia implica stabilire con quegli stessi frammenti rimossi dalla Natura relazioni, secondo “un’idea di proprietà”21. “Il riconoscimento di un’utilità è dunque una prima legittimazione dell’atto di possedere”21. La sostantivazione dell’aggettivo materiale si riferisce alla capacità della materia di offrirsi in “molteplici manifestazioni, individuate […] in virtù delle loro prestazioni”21.

Materiali monofunzionali e materiali sintesi Un altro aspetto molto attuale sulla questione dell’utilizzo della materia è quello di isolare e valorizzare una sola delle qualità dei materiali, portando alla “proliferazione di materiali monofunzionali”22 e rinunciando una volta per tutte all’idea di materiale sintesi, che comprenda in sé tutte o quasi le prestazioni usuali. Il declino dell’uso del cemento (pietra liquida) in architettura , materiale sintesi per eccellenza, è forse dovuto al fatto che “mal risponde al nuovo valore del riciclaggio”3. Gli atteggiamenti possibili, dunque, sono due: quello di unire elementi differenti tramite il montaggio, sovrapponendo materiali con caratteristiche diverse, che è per esempio l’approccio di Alejandro de la Sota o di Mies, oppure quello di Le Corbusier, Saarinen, Lewerentz, che modellano l’opera nel suo insieme, rendendola “atto unico” ed “escludendo ogni possibile idea di riciclaggio”23.

18 Martin Heidegger, Sein und Zeit, 1927 (trad. it. Essere e tempo, Mondadori, Milano, 2011) 19 F. Espuelas, Madre materia, Christian Martinotti, Milano 2012, cit. p. 14. 20 Ibidem p. 59. 21 Ibidem p. 61. 22 Ibidem p. 63.

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Fig. 11 Shigeru Ban, Cattedrale temporanea in cartone per il terremoto di Christchurch, Nuova Zelanda, 2013.

Società liquida Infine, citando José Louis Pardo, Espuelas riflette sull’odierno “dominio dell’effimero”24, oppure, usando parole di Zygmunt Bauman, su ciò che è liquido. Viviamo in una realtà in cui viene rimossa “la qualità delle cose”25. “E quali implicazioni ha tale dinamica in campo architettonico? Sarà forse la mancanza di qualsiasi caratterizzazione (un’architettura senza attributi) la strategia per non lasciare alcun segno, ne’

durante la vita utile, ne’ dopo, quando verrà dismessa e smontata? Nessun riposo per la materia? È terminato il tempo delle rovine?”25. Può essere che la materia dell’architettura “perda la memoria di ciò che fu”26, poiché pur essendo veicolo espressivo, è in realtà “l’architettura stessa a conferire alla materia la possibilità e capacità di esprimersi, di raccontare del lavoro che l’ha trasformata, della propria capacità di durare, delle proprie origini, della propria provenienza”26.

23 Ibidem p. 64. 24 Ibidem p. 71.

25 Ibidem p. 72. 26 Ibidem p. 73.

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Fig. 12 Freres Perret e Alexandre Bigot, dettaglio della 25 bis Av. Benjamin Franklin, lavoro del ceramista Alexandre Bigot, Passy, Parigi 1903.


1.3 Decorazione e ornamento Decorazione Dekoration

Ornamento Ornament

Il termine definisce addobbi o abbellimenti, in particolare di edifici, ambienti e oggetti artistici. […] La definizione corrente, secondo cui “la decorazione inizia dove finisce la costruzione”, non è sufficiente, per il fatto che non è chiaro in quale punto la funzione “puramente costruttiva” possa dirsi superata. Ad esempio, il costolone di una volta gotica a nervature rappresenta indubbiamente un importantissimo elemento costruttivo, ma anche un elemento decorativo di prim’ordine. […] Il rapporto tra costruzione e decorazione è estremamente vario: spesso l’una è indispensabile per la comprensione dell’altra.

Il termine definisce elementi decorativi in genere, in particolare nelle arti figurative e in architettura. […] Si distinguono principalmente elementi ornamentali naturalistici (tardo gotico e rinascimento) ed elementi ornamentali stilizzati (arte antica). Ornamenti semplici si trovano già in oggetti preistorici, il che induce a considerare il bisogno di ornamento come bisogno primario del gioco e dell’arte. I primi accenni di arte ornamentale sono riscontrabili nell’usanza di abbellire il proprio corpo. Da un punto di vista storico è interessante notare come elementi che in origine avevano una funzione esclusivamente costruttiva finirono sovente con l’essere utilizzati come mera forma ornamentale.

Quatremère de Quincy definisce “decorazione ed ornamento” come “il mezzo di caratterizzare gli edifici, e ad un tempo il più facile ad essere definito e compreso”1. Si tratta, secondo l’autore, di mezzi immensi per imprimere ai monumenti il loro segno distintivo, i quali “non saranno che elementi di confusione fintantoché lo spirito che ne regolerà l’impiego, non si appoggerà a qualche regola di critica”. Quatremère elabora due “regole” per un utilizzo critico e proprio di questi mezzi. In primo luogo, se la decorazione è “l’arte d’impiegare tutte le ricchezze dell’architettura”, è altresì vero che “l’espressione della ricchezza non potrebbe convenire a tutti gli edifici, né soprattutto al medesimo grado, tanta è diversa la natura delle loro destinazioni! […] Spetta dunque al genere caratteristico di ogni edificio il determinare la decorazione da impiegarsi per la sua espressione”. La seconda regola consiste nel considerare la decorazione come “una specie di

linguaggio, i cui segni […] devono avere, ed hanno un rapporto necessario con un certo numero di idee. Se la decorazione non raggiunge questo scopo, diventa una lingua morta […]”, che offre “allo spirito enigmi” . Dunque, se lo scopo dei mezzi decorativi è quello di chiarificare la destinazione di ciascun edificio, occorre che l’artista ne faccia un uso intelligente, motivato e, soprattutto, con “riserva economica”, poiché un “abuso eccessivo de’ mezzi decorativi […] perde il pregio del suo carattere” 1.

traduzione della voce in Wastmuths Lexikon der der Baukunst, Berlin 1929-37, II, pp. 141-142.

traduzione della voce in Wastmuths Lexikon der der Baukunst, Berlin 1929-37, II, p. 724. (Leo Adler)

1 A. Quatremère de Quincy, Carattere. In : A. Quatremère de Quincy, Dizionario storico di architettura, Marsilio, Padova 1992, cit. p. 158.

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La questione della decorazione

All’interno del Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno2, diretto da Luciano Semerani, le due voci Decorazione e Ornamento vengono presentate separatamente, nonostante siano sovente analizzate insieme. Come precisato da Cesare Brandi, l’ornato non è decorazione, non è “incrostazione arbitraria”, ma “originaria integrazione della nudità funzionale della tettonica per ascendere all’immagine”3. Lo stesso Brandi non esclude che “l’ornato possa scadere a incrostazione, a motivo pedestremente edonistico”4, ma ne riconosce l’importanza nel mondo dell’architettura. Per ornamento si intende dunque qualcosa che si integra, che concorre al completamento di un’opera che in origine si presenta nuda. La nudità dell’edificio allude ad una metafora contenuta nel De re aedificatoria, dove si afferma che l’edificio deve esser finito nudo, cioè grezzo, prima di esser rivestito di ornamenti (“nudum enim absolvisse oportet opus, antequam vestias”5): la struttura viene così separata dall’ornamento. È proprio a partire da questo trattato rinascimentale che ha inizio il dibattito sul rapporto tra struttura e ornamento, con una valutazione a sfavore del secondo, che graverà sulle successive formulazioni teoriche.

Decorazione è un termine che apre una questione estremamente dibattuta, in particolare alle soglie dell’esperienza del movimento moderno in Europa, quando la ricerca di un nuovo stile, ossia quella di un “linguaggio comune e unitario per l’architettura”6, poneva anche questo problema. Sappiamo con certezza che la linea adottata in merito alla decorazione fu in quel momento, come spiega Maria Grazie Eccheli, ostracizzante. “Un ostracismo che rivela, nelle sue probabili motivazioni, […] la particolare natura della decorazione: il suo essere […] elemento gratuito, aggiunto […] e senza scopo pratico”7. L’autrice sostiene che però siano state proprio le opere del moderno, paradossalmente, a dimostrare la necessità della decorazione, la quale “istituisce una gerarchia nelle scelte progettuali”, rendendo necessaria “una processualità nella progettazione che si fonda su una sostanziale analiticità dell’architettura”8. In merito alla questione della decorazione è molto interessante lo scritto di Giorgio Grassi del 19709, poiché contiene una riconsiderazione in termini attuali delle teorie del movimento moderno. L’autore prende in esame le teorie di quattro maestri che hanno avuto il coraggio di “gettare via tutto” e di “riproporsi da capo il discorso dell’architettura”10, ridando “piena dignità al problema della decorazione”8. Il fine è quello di “individuare una possibile generalità al problema, non limitata all’innegabile e riconosciuta maestria del singolo protagonista”8.

2 Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, diretto da Luciano Semerani, Fondazione Angelo Masieri, Edizioni C.E.L.I., Gruppo editoriale Faenza, Faenza editrice, Venezia-Faenza 1993. 3 Cesare Brandi, Eliante o dell’Architettura, cit. p. 163. 4 Idem. 5 Leon Battista Alberti, L’Architettura, IX, 8, cit., p. 845. 6 G. Grassi, La questione della decorazione (1970). In: G. Crespi, S. Pierini (a cura di), Giorgio Grassi. I progetti, le opere e gli scritti, Electa Milano, 1996, pp. 358-362. 7 Maria Grazia Eccheli, voce Decorazione, pp. 127-137. In: Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, diretto da Luciano Semerani, Fondazione Angelo Masieri, Edizioni C.E.L.I., Gruppo editoriale Faenza, Faenza editrice, Venezia-Faenza 1993.

8 Ibidem p. 127. 9 G. Grassi, La questione della decorazione (1970). In: G. Crespi, S. Pierini (a cura di), Giorgio Grassi. I progetti, le opere e gli scritti, Electa Milano, 1996, pp. 358-362. 10 Ibidem p. 358.

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Fig. 13 J.J.P. Oud, Palazzo della Shell , L’Aia, Olanda, 1937-1942.

Fig.14 Le Corbusier, interno della Chapelle de Notre-Dame du Haut, Ronchamp, 1951-1955.

Il tradimento di J.J.P. Oud

Le Corbusier: la decorazione come pure création de l’ésprit

Il primo autore preso in considerazione da Grassi è J.J.P. Oud, che in un suo famoso intervento difende l’edificio della Shell del 1951, per il quale era stato accusato di “tradimento” da parte della critica. Secondo Oud, “l’architetto deve tornare a essere un artista”, in un momento in cui il funzionalismo è diventato “da mezzo a fine”. E Grassi chiarisce: “la ricerca per una nuova architettura è in primo luogo un processo di riappropriazione di tutti gli elementi che la definiscono come tale. […] Il problema della decorazione diventa […] una fase definita dall’indagine sul linguaggio dell’architettura, una fase di arricchimento e completamento del linguaggio stesso”10. L’edificio della Shell si fa manifesto di questo messaggio, poiché “è uno sforzo per ritrovare l’architettura come espressione dell’anima” e , continua Oud, “l’ornamento non è usato qui per nascondere difetti compositivi […], ma la sua funzione è di sottolineare il significato dell’edificio”10.

Altrettanto sperimentale è la posizione di Le Corbusier, che secondo Grassi è forse l’unico architetto del movimento moderno che entra in lizza con l’architettura del passato e affronta nei suoi progetti tutti i problemi che vi sono tradizionalmente connessi. Egli vede la decorazione come pure création de l’ésprit: “ideazione formale, fatto plastico per eccellenza, che trova in sé la propria ragione di essere”10. In Vers une architecture Le Corbusier arriva alla conclusione che “il Partenone non è opera di Ictinos e di Callicrate, gli architetti ufficiali, ma di Fidia che ne ha scolpito i rilievi e la modanatura”11. “Davanti alla modanatura si riconosce il plasticien […] prosegue Grassi, citando Le Corbusier - L’architettura è il gioco sapiente, corretto, magnifico dei volumi sotto la luce”11. Per Le Corbusier è dunque plasticamente che tutti i problemi architettonici possono essere risolti.

11 Ibidem p. 359.

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Adolf Loos: da Ornamento e delitto al Chicago Tribune Adolf Loos, autore del saggio Ornamento e delitto, è un punto fermo per la formulazione delle teorie del moderno sulla questione della decorazione. In realtà, l’interpretazione delle teorie loosiane da parte del movimento moderno derivano da “una lettura limitativa e restrittiva di Ornamento e delitto”, la quale “ha per lungo tempo segnato […] la distanza tra architettura moderna e ornamento, generalizzando e volgarizzando quella che negli intenti di Loos era polemica soprattutto contro la presunzione degli inventori fin de siècle di ornamenti moderni”12. Grassi cerca di riabilitare l’opera di Loos, mostrando come gli argomenti di una polemica “siano fatti per essere superati”11. Il progetto per il Chicago Tribune, infatti, con la sua colonna dorica come fatto inevitabile, mostra l’altra faccia della medaglia rispetto a quanto affermato in Ornamento e delitto. Ciò che aveva portato Loos a ripudiare l’ornamento era proprio la sua gratuità, il suo essere “un fatto apparentemente senza scopo”11. Tuttavia, nell’opera dell’autore non mancano “figure, immagini, ornamenti che vanno ben oltre la semplicistica e presunta pura espressione tecnico costruttiva”12. Ciò è dovuto al fatto che Loos, come Tessenow, ammette la decorazione, ma solo se si tratta di una citazione: “né l’uno né l’altro credono a un nuovo ornamento. Non credono al nuovo, in ogni caso: il loro interesse è rivolto alla tradizione”13. “L’ornamento - scrive Loos in Trotzdem nel 1931 non è più una produzione naturale della nostra civiltà […] L’ornamento realizzato oggigiorno non ha nessun rapporto con noi […] nessun rapporto con l’ordine del mondo […]. Nessun ornamento può più essere inventato da chi vive al nostro livello di civiltà” (Loos 1972).

Fig. 15 Adolf Loos, progetto per il Chicago Tribune, Illinois, 1922. 12 Francesco Collotti, voce Ornamento, pp. 139-143. In: Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, diretto da Luciano Semerani, Fondazione Angelo Masieri, Edizioni C.E.L.I., Gruppo editoriale Faenza, Faenza editrice, Venezia-Faenza 1993. 13 Ibidem p. 360.

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H. Tessenow: l’astratto, lo sciocco o l’inesplicabile

e obiettivi, alla luce delle sue riflessioni su questi architetti, che hanno il limite di trattare “soluzioni troppo evidentemente legate alla personale ricerca di ciascuno di essi”14. L’impostazione corretta di questo problema, secondo l’autore, sta nell’ipotesi teorica del razionalismo, in quanto afferma “la continuità storica dell’architettura e la misura fissa e immutabile che è l’esperienza storica per il progetto”14. Grassi esamina inoltre “una scelta operativa che è inscindibile dall’esperienza architettonica del razionalismo”: la semplificazione, ossia l’operazione che mette in evidenza “quell’elemento di generalità che risalta dall’analisi dell’architettura nel tempo”14. La questione della semplificazione, infatti, trova il suo legame con la decorazione nel fatto che “gli elementi della decorazione classica per diventare tali hanno subito un processo di semplificazione: cioè un processo di riduzione archetipica”14.

Heinrich Tessenow, insegnante presso la scuola di architettura di Berlino, ossessionato dalla precisione e dal rigore, ha un atteggiamento più aperto e problematico rispetto a quello di Loos. Egli “sembra quasi aver trovato la chiave di lettura delle forme classiche della decorazione nel legame che le unisce alla vita quotidiana, come in una sorta di confronto diretto con le forme dettate invece dall’uso. […] Vi è un richiamo all’esperienza del passato, che tronca di netto con il problema della decorazione in termini attuali: ma la cosa singolare è che questa aggiunta alla composizione, invece di introdurre un elemento di enfaticità, riporta quest’ultima a una condizione di naturalezza e di familiarità abbastanza inaspettata”13. La posizione di Tessenow è riassumibile in questa sua frase: “Il meglio per quanto riguarda l’ornamento è l’astratto, lo sciocco o l’inesplicabile”.

Decorazione e non-finito: il teatro romano di Grassi

Decorazione e semplificazione: la scuola razionalista

M. G. Eccheli si chiede come l’antinomia tra il riconoscimento di una necessità e l’impossibilità della praticabilità della decorazione possa lasciare traccia nell’opera realizzata oggi. “[…] l’idea di frammento, di non-finito […] quasi diviene una risposta adeguata, dall’interno del progetto, al progetto della decorazione, fino all’immagine della sua impossibilità”. Se da un lato il frammento, la rovina, “trattiene il proprio compimento virtuale”, pur non essendo completabile, il non-finito si traduce in “una condizione di attesa dell’opera”15.

Abbiamo dunque osservato due posizioni antitetiche riguardo alla questione della decorazione, quella di Loos e di Tessenow, che non vede la possibilità di un nuovo ornamento, e l’altra di queste due uniche scelte possibili, rappresentata dalla la posizione sperimentale di Le Corbusier, che considera l’ornamento come pura creazione dello spirito e percepisce la necessità di “una rifondazione dell’architettura come linguaggio che continuamente si rinnova”, manifestando così la sua “certezza di poter arrivare a una nuova decorazione”13. Grassi a questo punto si chiede se la questione della decorazione possa porsi ancora in termini generali

15 Maria Grazia Eccheli, voce Decorazione, cit. p. 130. In: Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, diretto da Luciano Semerani, Fondazione Angelo Masieri, Edizioni C.E.L.I., Gruppo editoriale Faenza, Faenza editrice, Venezia-Faenza 1993.

14 Ibidem p. 361.

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Fig. 16 Giorgio Grassi, Il teatro Romano a Sagunto , Sagunto, Spagna, 1985-1986.

L’autrice cita, come esempio di risposta al problema della decorazione oggi, alcune opere, tra cui il teatro romano a Sagunto dello stesso Giorgio Grassi. La Eccheli riscontra un’incoerenza tra la “sicurezza” manifestata nelle analisi teoriche dell’architetto sulla questione della decorazione e il “disagio”, nonché l’assenza di quest’ultima all’interno del suo progetto. “Della sua riconosciuta necessità - della decorazione - rimangono nella costruzione solo le tracce […]. La risposta di Grassi al problema della decorazione sembrerebbe tradursi in un’omissione cosciente: non, quindi, in negazione”16. Nonostante la necessità della decorazione, in questo caso tipologica (lo scenofronte di un teatro romano, infatti, vede la decorazione come “elemento essenziale alla propria definizione”16),

Grassi la omette, la lascia in sospeso a causa dell’ “inadeguatezza dei mezzi a disposizione per la soluzione”. La sua decorazione sta nella “ricostruzione della rovina”16: la strategia adottata dall’architetto, infatti, risponde all’impossibilità di coprire le dimensioni della scena attraverso la ricostruzione della sola parte basamentale, rompendo la “scatola magica” del teatro e “rivelando così contemporaneamente sia la finzione scenica […], sia la sezione dell’edificio, la prima delle antichità romane del museo che sostituiranno la decorazione”16.

16 Ibidem p.132.

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Che la risposta sia il non-finito, la ricostruzione della rovina, la citazione, la pure création de l’ésprit, si può fare un’osservazione a partire dallo scritto sopra citato di Grassi, quando tratta della biblioteca Laurenziana di Michelangelo: “[…] possiamo descriverne la struttura architettonica, possiamo parlare della distribuzione dello spazio, della definizione dei volumi, di molte altre cose ancora e infine possiamo parlare esclusivamente dei particolari costruttivi e decorativi di questo fatto architettonicamente unitario. Questo principalmente in quanto Michelangelo, per ogni dettaglio dà una soluzione autentica, completamente nuova, ma sempre a partire dagli elementi dell’architettura classica”14. Non una sperimentazione formale fine a sé stessa, ma un approfondimento di quegli stessi elementi. Nelle sue forme nuove, Michelangelo fa i conti con l’esperienza concreta del passato. A partire quindi da una scelta individuale, che è “condizione preliminare”, necessaria per l’architettura intesa come “opera collettiva”, occorre, secondo Grassi, “privilegiare nel campo delle forme quelle che chiamiamo un po’ ambiguamente architetture di riferimento: quei punti fermi […] che hanno il carattere di risposte definitive e compiute nel campo delle forme architettoniche”17.

17 G. Grassi, La questione della decorazione (1970). In: G. Crespi, S. Pierini (a cura di), Giorgio Grassi. I progetti, le opere e gli scritti, Electa Milano, 1996, cit. p. 362.

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Fig.17 Rafael Moneo, Bankinter,Madrid, 1972-76. Il taglio diagonale genera una “prua” verso l’ingresso dalla calle Marqués de Riscal.


2 Il carattere degli edifici oggi 2.1 Rafael Moneo: la solitudine degli edifici nella realtà Entro la strategia di un’interpretazione del carattere in architettura che segue il filo di questioni messe a punto dal Settecento in poi, […] Moneo si colloca come il personaggio più moderno e ad un tempo più antico della nostra epoca, perché il suo lavoro non si consuma entro il tempo cronologico del presente. Eleonora Mantese, Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, 1993

Sotto alla voce Carattere del Dizionario critico illustrato, Eleonora Mantese annovera Rafael Moneo tra quegli architetti, quali Venturi, Johnson, lo stesso Semerani, i quali hanno cercato nelle ragioni d’essere dei loro edifici una “vigilanza sul carattere dell’architettura, sulla sua rispondenza di genere e di tono all’aspettativa del luogo”1. Se nel primo capitolo, tra le varie posizioni in merito al carattere emergeva quella di Goethe, secondo cui “la verità di tutta l’arte e dell’architettura sta nel grado in cui esse esprimono il carattere dei loro creatori”2, Moneo, antiteticamente, ritiene “che la presenza dell’architetto scompaia rapidamente e che, una volta terminati, gli edifici intraprendano una vita per loro conto”3.

È proprio questa la solitudine degli edifici cui l’autore fa riferimento nei suoi scritti, ponendo così un “imperativo etico di comprensione delle condizioni del luogo in cui l’edificio dovrà sostenersi da solo, misurando la coerenza delle idee nella dura realtà delle opere costruite, oltre il concetto, oltre la teoria”3. L’architetto afferma che ci sia una distanza naturale tra l’artista e l’opera, in particolare in campo architettonico: “mantenere questa distanza significa riconoscere la realtà dell’architettura, ma anche porre delle condizioni all’inizio del progetto. […] Le nostre soddisfazioni derivano dallo sperimentare questa distanza, quando vediamo che il nostro pensiero viene mantenuto da una realtà che non ci appartiene più”4.

1 Eleonora Mantese, voce Carattere. In: Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, diretto da Luciano Semerani, Fondazione Angelo Masieri, Edizioni C.E.L.I., Gruppo editoriale Faenza, Faenza editrice, Venezia-Faenza 1993, cit. p. 48. 2 J. W. von Goethe, On German Architecture (1772), trad. di N.

Pevsner e G. Grigson, in “Architectural review”, dicembre 1945. 3 R. Moneo, La solitudine degli edifici e altri scritti. In: R. Moneo: La solitudine degli edifici e altri scritti [vol.II], Allemandi, Torino 2004, cit. p. 159. 4 Ibidem p. 160.

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Luogo

Metodo

“È tuttavia all’interpretazione di una realtà del luogo che Moneo lega la sua ricerca di coerenza tra costruzione e immagine”5. Lo stesso luogo dà un contributo fondamentale alla determinazione del “carattere e il significato dell’architettura che è o sarà edificata su di esso” e senza di lui “l’architettura non si può manifestare”6. L’autore spiega che la sua strategia non implica che una semplice analisi e conoscenza del contesto, o un suo eccessivo rispetto, generi automaticamente l’architettura, poiché “comprendere e rispondere alla natura del luogo” può “alterarne radicalmente il carattere. […] L’architettura necessariamente cambia le condizioni del luogo”7.

Il modus operandi di Moneo, pur nella varietà degli esiti, è caratterizzato da “un’unità molto serrata e rigorosa di pensiero”, che persegue “un’idea di consistenza della costruzione, e un carattere di permanenza” piegando “la matrice tipologica in diverse direzioni, combinazioni, reinvenzioni”5. Eleonora Mantese afferma: “In Moneo […] il tema del carattere coincide con il tema dell’appropriatezza dell’edificio a una realtà reinterpretata. L’unica realtà negata è quella delle apparenze, dei simulacri, delle immagini”5. Gli esiti di Rafael Moneo sono sempre “architetture imprevedibili ma attese”9, poiché il suo metodo progettuale comprende una “rifondazione della forma […] di diretta derivazione dalla sua interpretazione del nodo tipologico”, ricorrendo “alla metamorfosi di cose conosciute in altre fondamentalmente nuove”5. Si prenderà ora in esame un’opera di Rafael Moneo, l’edificio per la compagnia assicurativa “Previsión Española” a Siviglia (1982-87), lasciando la parola all’autore attraverso una lettura critica della sua raccolta Remarks on 21 Works10. La scelta di questo’opera è dovuta al fatto che, pur non essendo tra i suoi lavori più famosi, è molto chiaro per un’accurata analisi e comprensione del suo approccio progettuale.

Materia/li Secondo la Mantese, la peculiarità dell’architettura di Moneo sta nel suo procedimento, che affida ai materiali “il rapporto tra l’astrazione di cui si nutre ogni progetto di architettura e la realtà in cui si colloca […], come testimoniano le concrezioni scultoree di San Sebastian, la terracotta di Bankinter, il mattone di Merida, la tessitura di Siviglia”5. E sono proprio tali “modi diversi - prosegue l’autrice - in cui di volta in volta si traduce il rapporto tra materialità e astrazione” a determinare “le diverse identità, i diversi caratteri degli edifici rispetto ai luoghi e ai temi”5. L’uso del materiale da parte di Moneo ha un solo fine: quello di mantenerne viva l’identità senza dissolverlo nella realtà dell’elemento architettonico8.

6 R. Moneo, Su luogo, tempo e specificità in architettura. In: L’altra modernità. Considerazioni sul futuro dell’architettura, Marinotti, 2012, cit. p. 39. 7 Ibidem p. 41. 8 R. Moneo, La solitudine degli edifici e altri scritti. In: R. Moneo: La solitudine degli edifici e altri scritti [vol.II], Allemandi, Torino 2004, cit. p. 148. 9 Eleonora Mantese, Op. cit., p. 51. 10 R. Moneo, Remarks on 21 Works, Monacelli Press, New York 2010.

5 Eleonora Mantese, voce Carattere, cit. p. 49. In: Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, diretto da Luciano Semerani, Fondazione Angelo Masieri, Edizioni C.E.L.I., Gruppo editoriale Faenza, Faenza editrice, Venezia-Faenza 1993.

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Fig. 18 Ignazio Gardella, Casa delle zattere, Venezia, 1953-1958.

Fig.19 BBPR, Torre Velasca, Milano, 1956-1958.

Rafael Moneo, Edificio per la compagnia assicurativa Previsión Española, Siviglia, Spagna 1982-1987 Il progetto parte da una questione che Moneo definisce tutta italiana: quella di costruire in una città storica, caratterizzata dall’abbondanza di “preesistenze ambientali”11. Dopo aver passato in rassegna diversi interventi incentrati su questo tema, individua tra i “lavori di grande interesse” la Torre Velasca a Milano dei BBPR e la Casa delle Zattere a Venezia di Gardella, riconoscendo rispettivamente ai BBPR una grande capacità mimetica nello skyline della Milano medievale e a Gardella una similarità con l’atteggiamento progettuale di Asplund, dovuta alla ricerca di una “prossimità formale con il contesto attraverso il volume, la texture, il colore […] e anche includendo delle citazioni letterali degli elementi architettonici

esistenti”11. È proprio alla luce di queste esperienze progettuali che, secondo Moneo, ha avuto origine un canonico modus operandi per quei lavori che cercavano di insediarsi in un contesto, soprattutto se connotato da un forte carattere, a volte incappando in abusi quali una “semplificazione stilistica” o addirittura una “sottomissione influenzata”11. Negli anni ottanta, quando gli echi di questa discussione erano ancora fortemente presenti, Moneo si trova a progettare in una città come Siviglia, la cui stratificazione determina grande ricchezza e complessità. L’atteggiamento dell’architetto di fronte a questa complessità è dunque quello di “andare oltre a criteri strettamente stilistici e di esplorare le sottostanti matrici formali percepibili nell’ambito urbano”12. Dopo un’approfondita analisi storica e l’osservazione diretta

11 R. Moneo, Previsión Española Insurance Company. Seville, Spain 1982-1987. Condition for building in a historic city: a discussion of the notion of character. In R. Moneo, Remarks on 21 Works, Monacelli

Press, New York 2010, cit. p. 137. 12 Ibidem p. 139. 13 Ibidem p. 141.

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di Siviglia, che in quel periodo si mostrava come “una città con strette strade ventilate, dove le grate delle finestre e i balconi sembrano alludere agli abitanti che sono nascosti all’interno, godendo della freschezza dei loro cortili coperti” e dove il valore dei monumenti “risalta grazie all’anonima, modesta architettura di piccola scala”13, Moneo arriva a conoscere il sito dove sarebbe dovuto sorgere il quartier generale della “Previsión Española”. Si trattava di un’area al limite con la città vecchia, circondata da strade che seguivano gli allineamenti delle mura antiche di Siviglia. Il piano della città prevedeva che il lotto fosse diviso in due per garantire una connessione tra il Paseo de Colón e la via della Constitución, nonché la conservazione dei resti dei bastioni che conducevano alla Torre de la Plata, ma l’architetto decide fondere le due parti in una sola, introducendo due passaggi, in particolare uno che favorisse la connessione tra la Torre del Oro e le mura della città. In questo modo, il progetto “definisce il perimetro della città antica, come avevano fatto prima i bastioni e come la strada che la circumnaviga riesce a fare oggi. Perciò, Previsión Española dovrebbe essere vista come un’opera architettonica che rispetta il contesto, ma soprattutto che aiuta a consolidare la struttura della città […]”13. Moneo sottolinea l’importanza della relazione che intercorre tra il suo progetto e l’iconica Torre del Oro. La neutra orizzontalità del suo edificio, infatti, marca la verticalità del monumento, con “l’aspirazione di assumere il carattere di un muro che contenesse e proteggesse un’area delimitata, un chiaro riferimento alle mura perdute della città”14, oltre che quella di creare un retroscena che valorizzasse il volume della torre. Figg. 20-22 Rafael Moneo, Edificio per la compagnia assicurativa Previsión Española, Siviglia, Spagna 1982-1987. Area di progetto: allineamenti e connessioni.

14 Ibidem p. 143.

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Fig. 23 Rafael Moneo, Edificio per la compagnia assicurativa Previsión Española, Siviglia, Spagna 1982-1987. Scansione tripartita della facciata e, sulla destra, la “prua” d’angolo.

La facciata, attraverso “l’inserimento di elementi di piccola scala che aiutano a individuare i diversi piani dell’edificio e a spiegare cosa avviene in ognuno di essi”, concorre attivamente alla determinazione del carattere dell’edificio, oltre che a manifestare l’intento principale di Moneo: la celebrazione della “speciale attenzione conferita (a Siviglia) alla piccola scala, attraverso gli elementi usati nella sua architettura”15: le porte di bronzo sul basamento, che si estendono in bassorilievi i quali, come specchi, riflettono i moli

“La condizione orizzontale - spiega l’autore - è alla base dell’organizzazione e configurazione dell’edificio”14: come in molti palazzi di Siviglia, il progetto ha una scansione tripartita in altezza, che individua un basamento, un piano nobile e un piano superiore. La facciata è “aperta, virtualmente estendibile, dotata di un carattere unico e inaspettato nel modo in cui i due lati si incontrano, rafforzando ed enfatizzando l’angolo dove si colloca l’ingresso principale”14. Questo angolo, come una “prua”, costituisce infatti un’interruzione delle facciate e funge da cerniera tra le due direttrici, oltre ad anticipare il carattere degli spazi interni.

15 Ibidem p. 145.

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Fig. 24 Rafael Moneo, Edificio per la compagnia assicurativa Previsión Española, Siviglia, Spagna 1982-1987.

sulle sponde del Guadalquivir da un lato e dall’altro il palazzo San Telmo, i muri in mattoni che riecheggiano le mura della città, la scansione sul piano superiore data dai balconi e dall’alternanza di “colonne binate marmoree e altre fatte in mattone pressato” e, infine, una banda marmorea che sostiene una loggia, definita da sottili colonne in ghisa. Si tratta di un approccio che va ben oltre la mimesi, senza però insediarsi con un eccesso di enfasi nell’eredità architettonica della città. La stratificazione del prospetto, con la maniacale

attenzione rivolta alle texture e ai pattern, vede la coesistenza di una grande varietà di materiali (in contrasto con la natura monolitica prevalente nelle architetture contemporanee) e celebra l’artigianato tradizionale locale, seppur anacronisticamente per molti, con il fine di fondere l’edificio nel contesto della città storica “senza causare controversie, evitando contrasti fastidiosi”16. 16 Ibidem p. 147.

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Il carattere dell’architettura secondo Moneo Ciò che Moneo ritiene valido oggi è dunque “comprendere la città, riconoscere che ogni intervento urbano comporta accogliere alcune ipotesi su come fu la sua crescita e su come si debba procedere per preservare il carattere dell’architettura esistente […]”17. Alla luce di queste riflessioni possiamo osservare il carattere dell’edificio di Moneo, che, in qualità di ciò che l’architettura comunica attraverso la ragione delle sue forme, è leggibile solo “a lavoro finito, come risultato di una realizzazione”18. Risiedendo all’interno della relazione “ragione della forma-scopo”19, la questione del carattere di tale opera può risolversi così: se lo scopo dell’architettura di Moneo è quello di integrarsi e di dare una risposta operativa alla progettazione nel contesto di una città storica, la forma che ne deriva trova la sua ragione necessaria proprio nel processo che ha condotto l’architetto all’ideazione di questo progetto, attraverso la sua scrupolosa indagine del carattere degli edifici presenti nel contesto, l’attenzione rivolta al materiale come presenza attiva e, se è corretto definirla così, la cura per la decorazione, che emerge nei bassorilievi e in altre componenti di “piccola scala”, rilevabili soprattutto sulla facciata.

17 Ibidem p. 149-150. 18 Vittorio Uccelli, La biblioteca Sainte-Genevieve di Henri Labrouste e la questione del carattere degli edifici, Aion, 2013. cit. p. 119 19 Ibidem p.117.

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Figg. 25-33 Il trattamento della materia in alcune opere di Herzog & de Meuron.


2.2 Herzog & de Meuron: la conquista dell’originario La novità nel lavoro di Herzog & de Meuron sta […] nel fatto che il loro stile è un non-stile, la non identità come volontà di prescindere da ogni esacerbazione e ripetizione di elementi formali. Il loro stile, o meglio la loro lingua, è quella della materia dei loro edifici. Fernando Espuelas, Madre materia, 2009

Questi architetti percepiscono la necessità di un “ritorno all’origine”2, poiché “consumato un modo di fare architettura, giunti alla fine della storia, come testimoniato da quella ripetizione senza senso degli stili”2, è per loro l’unica soluzione possibile. “Questa conquista dell’originario porta, da un lato, a semplificare la forma, fino al punto che non si possa, in alcun modo, parlare di espressione e, dall’altro, a indagare la natura dei materiali […] senza che tale esplorazione reclami la presenza della struttura”2. Per queste ragioni, Moneo si azzarda a definire l’architettura di Herzog & de Meuron come una celebrazione della materia attraverso il veicolo della forma.

Scrive Moneo: “Herzog & de Meuron irruppero sulla scena dell’architettura contemporanea grazie a un’opera che sorprese non solo gli addetti ai lavori e che si può considerare un vero e proprio programma di ciò che sarebbe stato il loro futuro professionale. Quando alla fine degli anni ottanta, Herzog & de Meuron costruiscono […] il magazzino Ricola, che richiama sul loro lavoro l’interesse del mondo dell’architettura, non hanno ancora compiuto quarant’anni. Dopo aver studiato al Politecnico di Zurigo, […] avevano realizzato un esiguo numero di opere minori […] nella loro città natale, Basilea”1. Il magazzino Ricola può essere considerato il manifesto dell’architettura di Herzog & de Meuron, poiché, nel suo “deciso contenimento formale che sfociava nel canonico”1, si poneva in contrasto con la tendenza all’eccesso, tipica della fine di quel decennio. L’edificio doveva essere il “risultato formale della propria logica autonoma”1, senza che la sua architettura alludesse a una qualsivoglia espressione personale, alla ricerca di un linguaggio o uno stile, o dipendesse da una funzione o un programma.

1 Rafael Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Mondadori Electa, 2005, cit. p. 293. 2 Ibidem p. 294.

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Un’architettura elementare e primaria

interessati allo specifico, al concreto. La loro architettura è una risposta a situazioni precise, ben definite, alle quali, volta per volta, viene associato un materiale con un significato diverso, fino ad arrivare […] all’invenzione del materiale stesso”5.

Nel corso delle riflessioni sulla questione del carattere e, in particolare, sui materiali dell’architettura, il linguaggio, in qualità di “ambito del significato”3, aveva rivestito un ruolo centrale: lo scopo era quello di imparare a leggerlo. Herzog & de Meuron, al contrario, respingono l’iconografia, l’espressione, la comunicazione e, in generale, “qualsiasi tentazione figurativa” dell’architettura, al fine di “recuperare il peso della costruzione e riscoprire, quindi, la condizione sostanziale dei materiali in architettura”4. Come per Moneo, il loro rifiuto dell’iconografia contiene “anche il rifiuto implicito di tutta l’architettura interpretabile come semplice espressione individuale”, sottolineando la “distanza tra l’architetto e i suoi lavori”4. La loro architettura può essere definita “elementare e primaria”5: c’è un grande impegno nella costruzione, che ha una logica evidente, e gli echi dell’architettura primitiva sono riscontrabili nel suo “desiderio di permanenza”6.

Professionalità Per quanto sia rilevante la vocazione estetica nel lavoro di questi due autori, Moneo non può fare a meno di porre l’accento sull’importanza della componente professionale, pragmatica: “Dall’inizio della loro carriera, Herzog & de Meuron hanno rivendicato la propria professionalità. La loro affermazione internazionale […] va quindi vista come […] il riconoscimento del valore di un lavoro professionale intrapreso sottostando alle più convenzionali regole del gioco”7. Il loro contegno e la loro professionalità sono gli elementi che li distinguono maggiormente da autori come Eisenman, Rossi, Koolhaas, “che si sono proclamati teorici”, da Gehry e Venturi, “artefici di una sofisticata provocazione” e, infine, da Stirling o dallo stesso Siza, “che hanno seguito la stretta via del lavoro professionale con l’obbiettivo di farsi conoscere”7.

Materia/li Moneo riconosce inoltre che, sebbene l’architettura di Herzog & de Meuron sia riconducibile a quella di Mies per la “sensazione di inevitabilità”5 che si avverte di fronte alle loro opere riuscite, c’è un elemento che distanzia questi architetti: “mentre Mies viveva nell’ossessione di depurare i mezzi costruttivi con cui lavorava, allo scopo di codificare un linguaggio universale e assoluto, Herzog & de Meuron sembrano 3 José Luis Pardo, Sobre los espacios. Pintar; escribir; pensar, Ediciones del Serial, 1991, p. 21. 4 Rafael Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Mondadori Electa, 2005, cit. p. 295.

5 Ibidem p. 297. 6 Ibidem p. 296. 7 Ibidem p. 299.

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Fig. 34 Herzog & de Meuron, Magazzino Ricola, Laufen, Svizzera 1986-1987. I tre ordini ascensionali del prospetto, che culminano con il cornicione “arcaico”.

Magazzino Ricola, Laufen, Svizzera 1986-87

sopra l’altro al fine di lasciar intravedere i giunti e dando l’idea di proporzione e ritmo. Tali “elementi orizzontali evocano una nostalgia per lo spessore e la consistenza posseduti dai muri di pietra del passato”8. L’idea di ritmo è generata dai pannelli orizzontali, che in senso ascensionale hanno tre altezze diverse che identificano tre intervalli, tre ordini, i quali recuperano concetti da sempre presentii architettura. Questo “ritmo ascensionale”8 è coronato da un cornicione, che possiede un sapore arcaico nonostante l’impiego

Il magazzino Ricola contiene tutti gli elementi dell’architettura radicale di Herzog & de Meuron. A partire da un “recinto neutro”1, il più semplice dei rettangoli, gli autori riescono ad annullare qualunque espressione personale e a valorizzare la costruzione e il sapiente impiego del materiale (il legno laminato). In particolare, Moneo osserva che il fondamento della costruzione risieda nella parete, “il più semplice degli elementi”8. Sono pannelli in legno laminato a costituire la pelle dell’edificio, disposti orizzontalmente l’uno

8 Ibidem p. 303.

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di una tecnologia moderna: “La ricerca di un nuovo modo di lavorare con i pannelli di legno pressato sembra in conflitto con un gesto antico. La forma dell’edificio ci fa pensare alle costruzioni primitive […]”8. Moneo fa riferimento anche ad altri dettagli i quali, nonostante la ricerca di elementarità, fanno sì che nel lavoro di Herzog & de Meuron “riappaia il singolare, l’unico”, in particolare nel dettaglio dell’angolo, che risolvono come semplice “convergenza di due piani diversi”9. Quello che ci conquista è “l’immediatezza del gesto” che “in realtà, non è fortuito”9. Sono proprio i pannelli di legno a determinare il carattere di questa architettura, poichè, come scrive Espuelas, nei loro edifici “di grande asepsi formale, figurativamente silenti”, ci si sposta “verso il protagonismo della pura materialità”10.

Fig. 35 e 36 Magazzino Ricola, Laufen, Svizzera 1986-87. Gli architetti traggono profitto dall’’inserimento di un elemento ordinario, come una porta, nel muro di pannelli leggeri di legno pressato.

9 Ibidem p. 304. 10 F. Espuelas, Linguaggio. In: F. Espuelas, Madre Materia (2009), Christian Martinotti, Milano 2012, p. 40.

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Fig. 37 Herzog & de Meuron, Azienda vinicola Dominus, Napa Valley, California 1995-1997. Il volume edificato non altera il paesaggio, ma viene attraversato completamente dal tracciato del vigneto, per mezzo di una “cavità impressionante”12. Il vuoto celebra i soavi pendii della Napa Valley.

Azienda vinicola Dominus, Napa Valley, California 1995-97

definire inventori: “una muraglia ciclopica formata da gabbioni riempiti con pietre basaltiche”11. La diversa concentrazione e dimensione delle pietre contenute nelle gabbie metalliche, comporta la creazione di texture (e le conseguenti modalità in cui la luce filtra all’interno) diverse: come accadeva nel magazzino Ricola, anche qui il prospetto possiede una scansione ritmica divisa in tre fasce, determinata dalla natura del materiale.

“Indubbiamente, l’azienda vinicola Dominus potrebbe servire a giustificare, una volta per tutte, l’affermazione per cui - citando Espuelas - il veicolo d’espressione dell’architettura sono i materiali”11. Rafael Moneo esordisce con questa frase, sotto alla sua descrizione di questo progetto degli architetti svizzeri. Si tratta infatti di un semplice parallelepipedo isolato, silenzioso, il cui carattere, il tratto distintivo, è definito unicamente dalla materia, di cui Herzog & de Meuron si possono

11 Rafael Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Mondadori Electa, 2005, cit. p. 318.

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I corridoi, in particolare, vedono l’impiego di pietre più ampie, al fine di creare un gioco di luci e ombre. Interessante è anche la dialettica che si instaura tra la pesantezza della materia che costituisce la pelle dell’edificio e la leggerezza della struttura interna. La forma “può restare assente e muta […]. Rimane solo la materia, solo essa ha diritto d’espressione”12. Moneo sostiene che, pur riconoscendo l’importanza del materiale, c’è un altra caratteristica importante di questo progetto: la sua capacità di dialogare con l’ambiente circostante, senza alterare il paesaggio. Il prospetto dell’edificio, infatti, si costruisce attraverso un’alternanza di grandi pieni e vuoti, che alludono al percorso su cui s’imposta il tracciato del vigneto.

Fig. 38 e 39 Azienda vinicola Dominus, Napa Valley, California 1995-1997. La luce filtra attraverso il muro di pietre ingabbiate, “producendo un vivido e mutevole piano di ombre proiettate”13.

12 Ibidem p. 319. 13 Ibidem p. 320.

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Il carattere dell’architettura secondo Herzog & de Meuron Il carattere dell’architettura di Herzog & de Meuron deriva prevalentemente dalla “giusta misura, la precisione, il rigore”7, associate ad una forte tecnica, che ha consentito loro il dispiego di numerosi materiali diversi e l’approfondimento della tecnologia di alcuni, in particolare del vetro. Moneo riscontra una contraddizione nel lavoro di Herzog & de Meuron, poiché la loro ricerca dell’origine, dell’essenziale dell’architettura deve competere contro il loro ambizioso “professionismo che li porta ad accettare i più diversi incarichi e a competere nel più spietato dei mercati”14. Un altro limite che è riscontrabile dopo i primi lavori, è la perdita della condizione strutturale del solido in favore del un controllo delle facciate, della pelle dell’edificio. Queste considerazioni non negano la “grande capacità autocritica”15 di questi autori, che hanno sempre mirato, attraverso una profonda ricerca, a nuove rotte per la propria architettura.

14 Ibidem p. 300. 15 Ibidem p. 301.

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Fig. 40 Ă lvaro Siza , schizzo della Tower of the Princesses, Ă lvaro Siza Archive


2.3 Álvaro Siza: fra architettura e poesia Mi piace dire. Dirò meglio: mi piace parolare. Le parole sono per me corpi toccabili, sirene visibili, sensualità incorporate. Forse perché la sensualità reale non ha per me interesse di nessuna specie - neppure materiale o di sogno, il desiderio mi si è trasferito in ciò che mi crea ritmi verbali o li ascolta da altri. F. Pessoa, Livro do desassossego por Bernardo Soares 1, 1982 Architettura allo stato puro

L’istante

“Álvaro Siza Vieira è un personaggio completo, una figura poliedrica […]. Per alcuni è il più genuino rappresentante di un’architettura erede del pensiero e dei principi del movimento moderno. […] Per altri ancora, Siza è anche il massimo esponente di quell’architettura che si armonizza con il popolare, con il senso della costruzione tradizionale”2. L’architettura di Siza “tiene conto del contingente, dell’imprevisto”3, pur guardando sempre alla tradizione. Egli ricerca l’essenza dell’architettura, “l’architettura allo stato puro”3, e il suo lavoro è prossimo alla poesia, in particolare a quella di Fernando Pessoa. Il “parolare” citato all’apertura del paragrafo, infatti, è facilmente paragonabile al metodo con cui Siza, attraverso la combinazione di vocaboli (i singoli elementi dell’architettura), ordisce una trama che li mette in relazione, tenendo conto dell’eufonia prodotta dal loro accostamento.

Ciò che conta, per Siza, è l’istante, che egli cerca di catturare, congelare attraverso le sue opere. “Niente, nell’architettura di Siza, reclama la condizione di inevitabilità”4: tutto avrebbe potuto essere in un altro modo, ma l’architetto, operando all’interno di una realtà fluida che studia e osserva, vuole cristallizzare l’attimo nel suo edificio. La potenzialità è un carattere proprio delle sue opere: esse attendono di essere completate dall’utenza.

1 Fernando Pessoa, Livro do desassossego por Bernardo Soares, Ática, Lisboa 1982; trad. it. Il libro dell’inquietudine, traduzione di M.J. de Lancastre e A. Tabucchi, 7° edizione, Feltrinelli, Milano 2004, cit. p. 251

2 Rafael Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Mondadori Electa, 2005, cit. p. 167 3 Ibidem p. 168 4 Ibidem p. 171

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Otto considerazioni Sebbene Siza abbia scritto poco, disponiamo di alcune pagine in cui ci parla del suo modo di lavorare. In esse troviamo, in particolare, otto considerazioni sul suo metodo progettuale: luogo ogni architettura di Siza ha origine nella “conoscenza del luogo”3. Scrive Siza: “ Inizio un progetto quando visito un luogo […] Un luogo vale per quello che è, e per quello che può e desidera essere - cose forse opposte, ma mai senza relazione”5. distanza si tratta della lontananza che intercorre tra un architetto e il suo progetto. Siza lavorava nei caffè di Porto, come il poeta Fernando Pessoa, poichè era proprio in questi luoghi che aveva modo di entrare in contatto con l’altro, il “corpo sociale”6, pur nel “rispetto della sfera privata dell’individuo”6. discussione: momento fondamentale del processo progettuale è il dibattito con l’utente, figura importante poiché è nelle sue mani che resterà l’opera di architettura. contingenza “Mi dicono - scrive Siza - riguardo alle mie opere nuove e vecchie: si basano sull’architettura tradizionale

della regione […]. La Tradizione è una sfida all’innovazione. È fatta di inserti successivi. Sono conservatore e tradizionalista, cioè: mi muovo tra conflitti, compromessi, ibridazioni, trasformazioni”7. L’architetto trova soluzioni ai problemi specifici grazie al compromesso, alla mediazione con la realtà in cui lavora. incertezza il metodo di lavoro di Siza “non è pedagogico […]. Le vie non sono mai chiare”8. Infatti, spiega Moneo, il contingente “implica molteplicità e ambivalenza”9. mediazione: l’architettura è un lavoro collettivo, in cui l’autore deve rinunciare alla sua espressione personale diretta. insoddisfazione Siza ritiene che alcune delle sue opere siano incompiute, non perché legate all’estetica dell’incompiuto o dell’opera aperta, ma poiché non gli è stato possibile “dare una risposta capace di conciliare tutti i conflitti attorno alla realtà”10. evidenza: la definizione agostiniana di bellezza, intesa come splendore della verità, non è distante dalla bellezza della “singolarità delle cose evidenti”11 di Siza. In architettura è proprio questa “singolarità delle cose che, nella loro evidenza, ci fanno intravedere il loro carattere più sostanziale”12.

5 Á. Siza, Scritti di architettura, a cura di A. Angelillo, Skira, Milano 1997, pp. 203-204. 6 Rafael Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Mondadori Electa, 2005, cit. p. 172. 7 Á. Siza, Scritti di architettura, a cura di A. Angelillo, Skira, Milano 1997, p. 205. 8 Ibidem pp. 205-206.

9 Rafael Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Mondadori Electa, 2005, cit. p. 173. 10 Ibidem p. 174. 11 Á. Siza, Scritti di architettura, a cura di A. Angelillo, Skira, Milano 1997, p. 207. 12 Rafael Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Mondadori Electa, 2005, cit. p. 175.

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Fig. 41 Álvaro Siza, Ristorante Boa Nova, Leça de Palmeira, Portogallo 1958-63 e 1989-92

Ristorante Boa Nova, Leça de Palmeira, Portogallo 1958-63 e 1989-92

sul panorama, la copertura, oggetto indipendente. L’elemento più rilevante è forse “il modo in cui il sistema di muri si dissolve fino a farci dimenticare la sua esistenza”13. In quest’architettura c’è un’estrema cura della gestione degli spazi, delle connessioni. Notevole è anche la scelta dei materiali, in particolare del legno, il cui uso mira a creare un’atmosfera “domestica e privata”13.

A soli venticinque anni, Siza inizia il progetto per questo piccolo ristorante. Fondamentale è il ruolo che, nell’area di progetto, riveste il piccolo eremo, “oggetto artificiale e autonomo”13, inevitabile riferimento dell’autore. Il sito e il suolo sono il punto di partenza di quest’opera, che per seguirne l’andamento assumerà una forma frammentata e discontinua. Evidente è il riferimento a Wright, attraverso l’assenza dell’idea di apertura, i tre livelli su cui sono posati i tavoli, che si affacciano

13 Ibidem pp. 176-177.

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Il carattere di quest’opera emerge quando si legge l’attenzione “alla più leggera inflessione”13, poiché l’abbandono dell’ortogonalità e la soave obliquità concorrono in maniera decisiva alla definizione della sua forma, che si armonizza perfettamente con il paesaggio. Come per Herzog & de Meuron, Siza subisce il fascino della costruzione, giustapponendo tecnologie tradizionali ad altre innovative, rivolgendo un’attenzione particolare ai materiali che “vogliono essere se stessi, vogliono mantenere la loro integrità, senza passare la mediazione presupposta dall’accettazione del loro utilizzo tradizionale”14.

Figg. 42-44 Álvaro Siza, Ristorante Boa Nova, Leça de Palmeira, Portogallo 1958-63 e 1989-92. L’attenzione “alla più leggera inflessione” e la cura del materiale e degli spazi interni.

14 Ibidem p. 178

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Fig. 45 Álvaro Siza, Centro galiziano di arte contemporanea, Santiago de Compostela, Spagna 1988-93.

Centro galiziano di arte contemporanea, Santiago de Compostela, Spagna 1988-93

Di nuovo, è l’obliquità a generare gli spazi. Secondo Moneo, “l’aspetto più rilevante del Siza di Santiago è la sua capacità di legare diverse architetture in un insieme unitario”15. Siza qui abbandona tutte le incertezze presenti nelle opere più giovanili per interpretare il museo come “esperienza architettonica, […] cornice dell’opera d’arte”15.

Questa è un’opera della maturità di Siza, che dimostra la sua abilità di integrare l’edificio nel contesto. La nuova costruzione si mette in relazione con le facciate del convento di Santo Domingo, “dando luogo a un intenso scorcio urbano, di cui è protagonista un materiale come il granito”15. Convento e Centro, sebbene siano separati da una grande distanza temporale, sono entrambi caratterizzati dalla condizione di impenetrabilità.

15 Ibidem pp. 206-207.

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Il materiale viene gestito con padronanza, i bellissimi interni pullulano di espedienti artificiosi, non sempre necessari, che non ci fanno pensare all’inevitabilità del disegno architettonico, ma sono giochi retorici che richiamano la nostra attenzione. Nonostante si tratti più di una “dimora di un collezionista […] che di uno spazio pubblico”16, a causa della carenza in alcuni aspetti importanti per l’architettura dei musei (illuminazione, altezza percorso), Moneo deve ammettere di non poter dimenticare l’emozione provata quando intravide attraverso le sofisticate aperture dell’edificio, la città di Santiago16.

Figg. 46-48 Álvaro Siza, Centro galiziano di arte contemporanea, Santiago de Compostela, Spagna 1988-93. In alto a destra, rapporto con il convento, a sinistra, gli “espedienti artificiosi” degli interni.

16 Ibidem p. 208.

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Fig. 49 Ă lvaro Siza, Centro galiziano di arte contemporanea, Santiago de Compostela, Spagna 1988-93. La cittĂ di Santiago attraverso il vetro.


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Fig. 25 http://novozhilovam.weebly.com/blog-hidden/026-prada-aoyama-by-herzog-de-meuron Fig. 26 https://www.pinterest.it/pin/442337994627572013/ Fig. 27 https://www.pinterest.ie/pin/516577019730239283/ Fig. 28 https://www.pinterest.co.uk/pin/297096906652367731/ Fig. 29 http://www.everystockphoto.com/photo.php?imageId=10327524 Fig. 30 https://www.modlar.com/photos/459/dominus-winery-exterior-close-up-of-rock-wall/ Fig. 31 http://aasarchitecture.com/2014/07/ricola-krauterzentrum-herzog-de-meuron.html Fig. 32 https://www.pinterest.com/pin/830773462483033595/ Fig. 33 http://figure-ground.com/de_young/0019/ Fig. 34 https://www.pinterest.it/pin/318489004879693020/?lp=true Fig. 35 https://www.pinterest.com/pin/297096906652367672/ Fig. 36 https://www.pinterest.co.uk/pin/561964859744677637/ Fig. 37 http://excelso.club/photo-de-gabion-52659 Fig. 38 http://www.flickriver.com/photos/d_brown/752478913/ Fig. 39 https://www.flickr.com/photos/carlyldean/35858337484/ Fig. 40 https://www.canadianarchitect.com/features/web-exclusive-siza-aga-khan-museum/ Fig. 41 https://de.m.wikipedia.org/wiki/Datei:Boa_Nova_Tea_House_Renovation.jpg Fig. 42 https://www.architetti.com/alvaro-siza-riqualificazione-del-boa-nova-tea-house.html Fig. 43 https://alvarosiza.divisare.pro/projects/265753-renovation-of-boa-nova-tea-house Fig. 44 https://www.architetti.com/alvaro-siza-riqualificazione-del-boa-nova-tea-house.html Fig. 45 http://www.stefanbruggemann.com/exhibitions/2016.02/index.html Fig. 46 http://cgrimes-news.blogspot.com/2014/01/93-20th-anniversary-exhibition-centro.html Fig. 47 https://www.pinterest.ph/pin/517562182170077840/ Fig. 48 https://divisare.com/projects/343892-alvaro-siza-vieira-chen-hao-centro-gallego-de-arte-contemporanea Fig. 49 https://www.archdaily.com.br/br/875625/centro-galego-de-arte-contemporanea-de-alvaro-siza-pelas-lentes-de-fernando-guerra/59655d36b22e38a4e1000081-centro-galego-de-arte-contemporanea-de-alvaro-siza-pelas-lentes-de-fernando-guerra-foto 57


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