PAESAGGI MIGRANTI
SPAZIO, FRONTIERA, IDENTITA´ POLITECNICO DI MILANO Landscape Architecture Tacchella Sara A.A. 2017/2018
INTRODUZIONE AL TEMA
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LA COSTRUZIONE DELLA RICERCA
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BORDI E FRONTIERE
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Frontiera Bordo
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RICERCA E LETTURA ANTROPOLOGICA
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Dentro e fuori Fuori Dentro Non-luogo o città?
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COSTRUZIONE E STRUTTURA DEL CAMPO PROFUGHI
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La pianificazione urbanistica: bisogni individuali e della collettività Identificazione spaziale Marco Tiberio e il progetto Satellites Il campo di Zaatari
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PROGETTI
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Maidan tent Better shelter Playground for refugees’ children Re: build Soe ker tie house 100 classrooms for refugees’ children
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CONCLUSIONI E APERTURE DI RICERCA
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Quinta Monroy, Elemental
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Introduzione al tema In gergo cinematografico si chiama establishing shot l’inquadratura che descrive, quasi sempre all’inizio dell’azione, il contesto geografico di una scena. L’esempio classico è quello delle riprese aeree su una metropoli che aprono molti film americani. Al livello più semplice, la funzione dell’establishing shot è dirci dove siamo; ma, a un livello più sofisticato, un paesaggio naturale può anticipare qualcosa di importante sulla vicenda a cui stiamo per assistere. Il concetto di “paesaggio” evoca una forma di conciliazione tra l’uomo e l’ambiente in cui esso vive e ha una relazione molto dialettica con chi lo guarda, producendo spesso un forte senso di identità comunitaria. Condividere con altri quello che vediamo intorno a noi è il primo motore dell’aggregazione sociale, del riconoscersi tra simili. Un sentimento che si trasforma facilmente in creatore di conflitti. Slums, campi per rifugiati, banlieue, favelas, insediamenti abitati da 50, 100 fino a 500 mila abitanti rappresentano un insieme di nuove territorialità e geografie situate su “paesaggi” fratturati, sconnessi e conflittuali. Lo spazio è un elemento fondamentale attraverso il quale comprendere i processi di addensamento, in quanto produttore di forme spaziali a partire dai rapporti di interazione, delle relazioni sociali. Secondo Georg Simmel, filosofo e sociologo tedesco, le caratteristiche dello spazio sono: esclusività, esistenza di confini, fissazione, vicinanza e lontananza, mobilità; tutti elementi che configurano forme spaziali specifiche (es. lo stato, il nomadismo). Lo spazio cresce, le città crescono, il pianeta è sempre più urbano. Non sono sorte nuove città, come noi le concepiamo, ma nuovi insediamenti urbani che rappresentano nuove tipologie di città, spesso rappresentate da tratti di “non città”, di “non luoghi”. “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico, definirà un non-luogo” secondo la definizione di Augè. La città è uno status di pensiero, un insieme di abitudini, tradizioni, opinioni organizzate e sensazioni. Il campo, al contrario, rappresen-
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ta una superficie fratturata, sconnessa, frammentata e conflittuale. Il campo come città, o il suo simbolo, rappresenta la città immaginata come uno spazio delimitato, difeso, un paesaggio che attiva processi di inclusione ed esclusione, di dentro e fuori. Gli spazi per rifugiati (refugee camps, organised settlements, accomodation centres, assisted self settlements, transitory centres, reception centres) sono considerati una concretizzazione di quelli che Augè chiama “non-luoghi”: spazi astratti, spazi dell’indistinzione, nei quali l’eccezione diventa la regola. I campi, ufficialmente transitori, temporanei, “eccezionali”, assumono carattere semi-permanente o permanente, negando gli stessi principi che hanno portato alla loro creazione. La dimensione urbana di questi insediamenti dovuta a estensione, layout, layers, densità, richiede quindi un’analisi e una ricerca in grado di integrare lo studio umanitario alla pianificazione urbanistica. “Sono quindi davvero città? O sono semplicemente campi? O in che cosa sono città e in cosa restano campi?” E´ questa la domanda tratta dal libro “Città nude. Iconografia dei campi profughi” di Camillo Boano e Fabrizio Floris, da cui questo breve saggio tenta di trovare un’interpretazione, se non una modesta risposta soggettiva. Partendo dalla nozione di “nonluoghi” proposta da Augè, il saggio si propone di attuare una lettura del paesaggio di queste identità, di queste “non-città”, attraverso una iniziale comprensione antropologica del fenomeno e delle dinamiche che si attuano in un contesto così fragile come quello dei campi profughi. Attraverso una lente oggettiva, di constatazione dei numeri, dei fatti, del paesaggio visibile e di alcune risposte pratiche e progettate, il testo tenta di arrivare a una risposta interpretativa possibile.
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LA COSTRUZIONE DELLA RICERCA
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“I campi profughi sono città? O restano campi? O in che cosa sono città e in che cosa restano campi?” Parlare di paesaggi migranti ha significato percorrere un territorio poco conosciuto, scomodo, scivoloso. La personale curiosità nei confronti del tema e la lettura del libro “Nonluoghi” di Marc Augé, mi hanno portata allo sviluppo di una riflessione di un dibattito che al giorno d’oggi si sta dimostrando più attuale che mai. Quali dinamiche innestano questi fenomeni? Che tipo di nuovi paesaggi faranno parte del nostro futuro? Quale ruolo dovrebbe giocare l’architettura? Le parti della ricerca vengono restituite all’interno di questo documento in cinque sezioni costitutive: bordi e frontiere, ricerca e lettura antropologica, costruzione e struttura del campo profughi, progetti e conclusioni e aperture di ricerca. Bordi e Frontiere Concetti di confine, bordo, margine e frontiera. Specifici spessori in grado di interagire con tessuti differenti, con una propria identità, una propria estensione, proprie condizioni. Bordi porosi, frontiere dure e regolamentate. Ricerca e lettura antropologica Spazio come generatore di identità, migrante come soggetto di mobilità. Dentro vs fuori, non-luogo vs città, negazione di luogo. Luoghi transitori destinati a un definitivo provvisorio. Costruzione e struttura del campo profughi Urbanistica, paesaggi, differenti caratteristiche, fisiche e giuridiche. Quando le burocrazia si scontra con l’antropologia, quando la sicurezza e l’organizzazione non bastano più. Progetti Il ruolo dell’architettura in questi territori fragili. Soluzioni temporanee o definitive? Le proposte della Biennale di Venezia 2016 e concrete e attuate soluzioni progettuali. Conclusioni e aperture di ricerca L’esempio di Alejandro Aravena per il progetto di housing sociale di Quinta Monroy, in Cile. Riflessione conclusiva.
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BORDI E FRONTIERE
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Frontiera Confine, bordo e margine sono termini che appartengono a una medesima famiglia di significati di senso prossimi. Nonostante l’appartenenza ad un medesimo campo semantico possiamo tuttavia distinguere specifiche accezioni. Confine. Un confine delimita un campo territoriale specificandone identità e definendone un’estensione. Un confine come linea di separazione tra due territori costruisce condizioni di continuità o di separazione in relazione al grado di permeabilità. Il confine viene generalmente rappresentato da una linea. Bordo e margine. A differenza del confine un bordo identifica la parte estrema di un tessuto o di un campo territoriale. Ha significato affine al concetto di margine che identifica una superficie estrema di uno specifico tessuto (orlo). Bordo e margine suggeriscono una dimensione spaziale. Confine, bordo e margine sono concetti che possono essere riferiti al concetto di frontiera. Parlare di paesaggi di frontiera significa riferirlo a uno specifico spessore in grado di interagire con tessuti differenti, con una propria identità, una propria estensione, proprie condizioni. Non è solo confine tra due paesaggi ma crea esso stesso un nuovo paesaggio.
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« frontièra s. f. [dal provenz. ant. frontiera, fr. ant. frontiere, der. del lat. frons frontis«fronte»]. – 1. a. Linea di confine (o anche, spesso, zona di confine, concepita come una stretta striscia di territorio che sta a ridosso del confine), soprattutto in quanto ufficialmente delimitata e riconosciuta, e dotata, in più casi, di opportuni sistemi difensivi: la difesa delle f. della nazione; fare la guardia alla f.; i paesi di f., o situati lungo la f., presso la f.; passare, varcare la f.; un incidente di frontiera. b. Nella storiografia americana, il termine (ingl. frontier) aveva assunto, già nel sec. 17°, un sign. diverso da quello inglese originario, per indicare non più il confine come linea di demarcazione, ma una regione scarsamente e recentemente colonizzata (con partic. riferimento ai territorî del West), a diretto contatto con le terre non ancora colonizzate, punto di partenza quindi per l’espansione colonizzatrice; presso gli storici, la locuz. spirito di frontiera è stata adottata con sign. anche più ampio, per simboleggiare il ritmo espansivo della storia europea e mondiale nell’età moderna. c. fig. Linea che separa nettamente ambienti o situazioni o concezioni differenti, e che in alcuni casi è intesa come confine fisso, invalicabile, in altri come confine che può essere spostato e modificato, soprattutto in senso progressivo (con questi usi, il termine, adoperato per lo più al plur., sostituisce, per suggestione del fr. frontière, altri termini più tradizionali, come confine o limite): le f. della scienza, i suoi limiti, o i limiti da essa finora raggiunti (e scienza di frontiera, le concezioni scientifiche più avanzate e capaci di ulteriore evoluzione); le nuove f. della biologia; con sign. più generico: far avanzare le f. del sapere umano; amore, ideali che non conoscono frontiere.»
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3 1. Migranti subsahariani alla frontiera di Melilla, l’enclave spagnola in Marocco 2. Il Muro marocchino o Muro del Sahara occidentale 3. Frontiera Siria-Turchia
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Bordi Un bordo è una linea naturale o artificiale che separa differenti aree geografiche, quindi i confini politici. I bordi separano gli stati, le città, i territori, sottolineando i limiti del controllo di una determinata area. Nelle loro forme più antiche essi definivano i territori di vasti imperi, come quello Romano e quello Cinese, più tardi divennero espressione di Stati centralmente organizzati come la Francia, la Germania, l’Italia. Attraverso la storia, i bordi sono passati da confini controllati ma aperti a frontiere militarizzate, chiuse, fortificate. I bordi possono essere espressi attraverso diversi gradi di porosità. I bordi più porosi includono le frontiere aperte e regolate, quelle più dense e dure includono frontiere difese, murate e militarizzate. Ad oggi, di tutti i confini internazionali, circa l’8-14% sono di tipo aperto, il 39-45% sono frontiere porose e regolate, il 22% sono frontiere murate e militarizzate. I bordi sono mutevoli, cambiano nel tempo in base a situazioni di pace o di conflittualità, ma la chiusura di questi in corrispondenza di territori fragili, caratterizzati da conflitti o da catastrofi naturali contribuisce alla creazione di situazioni di congestione lungo questi confini artificiali, in molti dei casi creando crisi umanitarie. Rimasti incagliati senza possibilità di proseguire, i rifugiati, coloro che cercano rifugio, sono costretti a trovare un altro modo per superare questo ostacolo: questo significa per loro cercare un nuovo percorso, il che significa allungare sensibilmente la strada, o entrare clandestinamente.
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RICERCA E LETTURA ANTROPOLOGICA
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Dentro e fuori “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico, definirà un non-luogo”. Il termine migrante, proposto dal sociologo Alain Tarrius in sostituzione al termine immigrato, di uso più corrente, evidenzia la condizione di “soggetto di mobilità”; riferimento del migrante è infatti il territorio che “costruisce, percorre, attraversa, talvolta conquista, senza preoccuparsi, oltre misura, dei valori e delle usanze dei luoghi”. Il migrante è dunque soggetto di mobilità, il suo spazio è quello del movimento che suggerisce di concepire la città non come luogo di sedentarietà, ma come incrocio di “mobilità”. In questo luogo di incrocio, i migranti si incontrano e si scontrano dinamicamente con uomini, storie, culture. La sospensione dei rifugiati nel limbo del campo profughi ben rappresenta la loro invisibilità e la loro non-appartenenza ad alcuna comunità politica. Autori come Zygmunt Bauman e Liisa Malkki paragonano la condizione dei rifugiati all’interno dei campi allo stadio intermedio del passaggio in tre fasi di Van Gennep e Victor Turner, “lo stadio liminale, persone che sono allo stesso tempo non più classificate e non ancora classificate”. Il campo rappresenta quindi un elemento di frattura e discontinuità del percorso dei rifugiati. Quella che, in nome dell’emergenza, poteva o doveva essere una obbligata tappa intermedia, diventa il luogo di una protratta provvisorietà, del definitivamente temporaneo.
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2 3 1. Il campo profughi di Zaatari, in Giordania 2 e 3. La cittĂ di Assam, in Giordania, a pochi chilometri dal campo di Zaatari
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Fuori Il campo profughi è uno spazio liminale, che si colloca al di fuori della normalità giuridica, sociale e territoriale. Secondo Chiara Marchetti, coautrice del libro “Città nude. Iconografia dei campi profughi”, si è così costruito un “fuori” artificiale, invisibile al nostro sguardo quotidiano, articolato su tre livelli: giuridico, temporale e spaziale. Il campo è porzione di territorio, di uno stato posto fuori dal normale ordinamento giuridico, in cui lo stato d’eccezione è diventato regola. Proprio per questa situazione di “estraneità” il campo si configura come lo spazio in cui tutto è possibile, come “fuori dalla legge”, realizzando il “fuori giuridico”. Fuori dal tempo perché all’interno dei campi la vita è una sorta di parentesi, un’interruzione, un elemento di discontinuità che pregiudica un possibile futuro. Per queste ragioni si può parlare dei campi profughi come di “zone definitivamente temporanee”. Il campo rappresenta una discontinuità non solo temporale ma anche spaziale nella vita dei rifugiati. I migranti vengono cacciati o indotti a lasciare il paese natio col terrore, ma viene loro rifiutato l’ingresso nelle altre nazioni. Queste caratteristiche permettono un confronto tra i campi profughi, che si possono definire come “fuoriluoghi” e come “nonluoghi”, secondo la definizione di Augè, il quale definisce come “nonluoghi” “tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni, quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali o, ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta”. I nonluoghi sono luoghi dell’extraterritorialità, della non appartenenza a nessun luogo, sono “spazi” di transito, non dei “luoghi”. Il tipo di extraterritorialità del campo è però differente da quella definita da Augè. Il campo rappresenta l’estraneità piuttosto che la negazione del luogo antropologico. I campi sono spazi delimitati da confini dove il provvisorio è vissuto come definitivo (Augè) ma allo stesso tempo il definitivo è percepito come provvisorio (Rahola).
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Dentro Lo spazio chiuso del campo, chiuso attraverso i suoi confini, individua allo stesso tempo un “dentro” inclusivo che si contrappone al “fuori” della comunità locale. I confini del campo sono, su un’altra scala, la riproduzione di una frontiera: delimitano il dentro dello spazio fisico e sociale del campo, distinguendolo dal fuori della comunità locale, con le sue attività e la sua specifica organizzazione. I suoi limiti marcano la differenza tra l’uno e l’altro, tra l’autoctono e lo straniero, tra il cittadino e il “non-cittadino” (il che determina un ulteriore significato di “fuori”, la non appartenenza a nessuna comunità, la creazione di un’eccezionalità). Si delinea così una prima contrapposizione tra il “dentro” familiare del campo e il “fuori” generalmente ostile della comunità locale. Il campo è costruito, pensato e gestito come qualcosa di instabile la cui prospettiva è partire, si agisce in una condizione di continua sperimentazione, in una sorta di non percezione del futuro. Questo modo di vivere (o che si è obbligati a vivere) comporta l’impossibilità del progettare e di conseguenza anche il rischio della perdita di uno dei fattori del processo maturativo umano: il saper pensare e costruire in una pensione dilatata e spostata nel tempo.
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Non-luogo o città? Nell’immaginario occidentale la parola campo, dalla concezione comune di un luogo non abitato (es. campo coltivato) ha assunto per analogia anche un significato legato all’abitare. Ma il campo è una città? Il campo sembrerebbe essere una città contemporanea organizzata secondi i principi del controllo, immaginata e costruita sulla dinamica tra esclusione ed inclusione, situata in una zona di indistinzione, uno spazio territorializzato e delimitato. Superata la prima fase di emergenza, il periodo con più alto afflusso di popolazione, i campi vivono una fase intermedia nel percorso della loro urbanizzazione. I campi sono concepiti come strumenti in grado di offrire sicurezza e soddisfacimento dei bisogni primari, ma anche città di nuova fondazione disegnate attraverso standard riempite da persone la cui presenza è puramente legata allo stato di emergenza. Ma con il tempo le speranze di prospettive future si indeboliscono, le tende vengono sostituite da edifici in muratura, in materiali di recupero, blocchi e lamiere, espandendosi verticalmente, chiusi all’interno dei confini stabiliti, perdendo così la concezione di temporaneo. L’urbanistica attuale del campo si discosta dall’urbanistica della città, è pensata dall’esterno, costruita in nome dell’efficienza e della sicurezza, e non dell’antropologia dei suoi abitanti. I campi, come ora sono concepiti, organizzati e visti non possono essere città perché i rifugiati non possono essere cittadini. Il campo sembra la negazione di ogni possibilità di luogo.
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Immagini del campo profughi di Calais, fotografate dal fotografo Marco Tiberio per il progetto Invisible Cities. Architecture of Exodus.
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COSTRUZIONE E STRUTTURA DEI CAMPI
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La pianificazione urbanistica: bisogni individuali e della collettività Nel corso degli anni, la sommatoria di decennali conflitti armati uniti agli effetti del cambiamento climatico che spesso colpiscono realtà già vulnerabili ha provocato lo spostamento di milioni di persone sia all’interno dei confini nazionali sia attraverso le frontiere. I campi profughi, originariamente concepiti come temporanei, in risposta a situazioni di emergenza, hanno spesso ottenuto una configurazione semi-permanente o definitiva, considerando anche il fatto che la permanenza di un rifugiato all’interno di un campo varia dai sette ai diciassette anni. L’esistenza e le caratteristiche di questa nuova identità ha messo in discussione la gestione di questi territori: sono semplici accampamenti o si può parlare di città? Quali sono gli aspetti urbanistici da tenere in considerazione? Quale sono le relazioni tra gli spazi pubblici e quelli privati, fra collettività e individui? Che tipo di paesaggio determina la presenza di queste “non-città”, di “non-luoghi”? E´ innanzitutto opportuno introdurre il tema attraverso uno schema che possa aiutare a comprendere il tema del campo, e la differenza tra le sue varie caratteristiche, fisiche e giuridiche.
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Campi
Insediamenti Insediamenti Auto-insediaassistiti organizzati menti
Definizione
Aree delimitate con accesso riservato ai rifugiati e alle strutture di assistenza
Insediamenti alternativi (hotel, centri collettivi, etc)
Status legale
Definito come Nessun ricoprima facie noscimento ufficiale di status
Enclavi rurali segregate o villaggi agricoli creati ad hoc
Insediamenti spontanei di rifugiati all’interno della comunità ospitante senza una assistenza governativa o internazionale
Localizzazione Di solito nelle vicinanze dei confini in aree rurali ed isolate
In zone urbane o in periferie di centri urbani riadattando edifici preesistenti
Come i campi, ma con possibili evoluzioni verso insediamenti fissi
A discrezione dei rifugiati stessi, di solito vicino ai confini o in edifici dismessi seguendo pratiche di occupazione
Strutture abitative ed accesso alla terra
Edifici pubblici, hotel, containers, scuole, che verranno restituite alla comunità accogliente
Normalmente costruzioni semipermanenti di carattere rurale; terra concessa per scopi agricoli
A seconda della disponibilità; l’accesso alla terra viene negoziato dalla comunità ospitante
Normalmente tende (plastic sheetings) senza acceso diretto alla terra
Amministra- Amministrati Inizialmente Senza ammizione d a l l ’ U N H C R amministrati nistrazione e dai governi da UNHCR, ospitanti; l’as- poi trasferisistenza viene ta ai Governi distribuita da Ospitanti ONG e agenzie
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L’analisi della forma del campo e della vita di chi lo abita deve essere attuata attraverso due aspetti: la geografia del potere e le declinazioni di una possibile cittadinanza. Il campo rimane uno spazio impersonale e burocratico o le comunità lo rendono un luogo antropologico? L’urbanistica del campo è strutturata più in nome dell’efficienza e della sicurezza che sull’antropologia dei suoi abitanti, lo spazio di azione lasciato alle comunità di rifugiati è residuale. La gestione dei campi profughi proviene spesso da diversi manuali redatti da enti e strutture, alcuni come vere e proprie istruzioni d’uso che illustrano come agire in caso di emergenza, altri, più approfonditi, affrontano il tema allo scopo di preservare e mantenere il campo per tempi prolungati. Ma come esiste un “fuori” e un “dentro”, esistono anche tutte le dinamiche di questa bivalenza. I governi locali non riconoscono la legittimità delle nuove “città” e ostacolano l’espansione e la prolungata permanenza dei campi profughi nei loro territori. Lo sviluppo di questi ultimi è il risultato di queste forze opposte: permanente contro temporaneo. Insediamenti come Dadaab, in Kenya, o Zaataria, in Giordania, raggiungono oggi estensioni pari ad alcune grosse città ma, nonostante questo, chi opera sul campo ha spesso lamentato l’assenza di una pianificazione urbanistica organizzata e di figure professionali specializzate in questo settore. Osservando l’aspetto distributivo di molti campi è possibile notare chiaramente come questi siano organizzati sulla falsa riga di quelli militari: una griglia di strade che definisce i perimetri dei lotti occupati da abitazioni alternate sporadicamente da strutture collettive. Una distribuzione tanto efficiente per il controllo, l’ordine e la sicurezza quanto inefficiente dal punto di vista umano, in quanto gli edifici pubblici sono convogliati verso il centro mentre le abitazioni affacciano sulle vie principali. Oltre all’approccio “militare”, negli anni si è sviluppato un secondo tipo distributivo, il cluster, cioè per raggruppamento di elementi. E´ una soluzione più frequentemente utilizzata in zone meno pianeggianti, in cui il campo segue la topografia del luogo, le strade sono organizzate gerarchicamente con differenti dimensioni e gli spazi
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della collettività sono posizionate al centro di un sistema radiale. Lo scopo di questo approccio è il rispetto delle esigenze individuali rispettando la privacy delle aree private, ma agevolando l’aggregazione con attività di vicinato che rafforzano i rapporti fra le persone all’interno delle comunità. La scelta dell’approccio più idoneo si basa sulla valutazione, da parte delle figure professionali coinvolte, delle condizioni del luogo, sia ambientali che sociali, allo scopo di individuare la soluzione più idonea per un contesto così fragile. Al di là della decisione, l’attività dell’uomo modellerà lo spazio e lo adatterà alle proprie esigenze. Le strade cambiano, le abitazioni, nascono i mercati. La contrapposizione tra sistema umanitario e comunità di rifugiati, così, non riguarda solo la geografia, l’architettura del campo, ma più generalmente l’architettura sociale delle persone che vivono questo tipo di istituzione.
Immagine del campo profughi di Calais, fotografata dal fotografo Marco Tiberio per il progetto Invisible Cities. Architecture of Exodus.
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Identificazione dei maggiori campi 1. Kakuma (Kenya) 2. Hagadera (Kenya) 3. Dagahaley (Kenya) 4. Ifo (Kenya) 5. Zaatari (Giorfania) 6. Yida (Sudan) 7. Katumba (Tanzania) 8. Pugnido (Etiopia) 9. Panian (Pakistan) 10. Mishamo (Tanzania) 11. Melkadida (Etiopia) 12. Bokolomanyo (Etiopia) 13. Bredijing (Chad) 14. Batil (Sudan) 15. Old Akora (Pakistan) 16. Buramino (Etiopia) 17. Fugnido (Etiopia) 18. Oure Cassoni (Chad) 19. Balgangi (Nepal) 20. Gamkol (Pakistan)
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Marco Tiberio e il progetto Satellites Per comprendere ancora meglio la dimensione spaziale e l’organizzazione del campo, è utile una lettura visiva e oggettiva, in particolare “dall’alto”. Satellites è un progetto del fotografo italiano Marco Tiberio, che ha messo insieme le fotografie satellitari di numerosi campi profughi tra Kenya e Algeria. Ogni città è diversa dalle altre e nella sua forma mostra delle caratteristiche della sua storia e di chi la abita. «Il risultato principale della mia ricerca», spiega Tiberio, «riguarda l’evoluzione e le tipologie di queste città, che sembrano aver realmente seguito i principi della pianificazione urbanistica». Ci sono quindi una serie di differenze tra i vari campi, visibili anche all’occhio di una persona non esperta. «Nei campi profughi del Daadab, in Kenya, c’è una struttura più organizzata, con il campo diviso in diversi blocchi di case». In alcuni casi le fotografie sembrano mostrare delle città americane, con le loro griglie di strade perfettamente allineate e simmetriche. I campi in Algeria, invece, sono diversi: «Non esiste una struttura a blocchi, o almeno, è meno pronunciata». La loro crescita sembra essere stata “naturale”: «Si può anche parlare di sprawl urbana, che può essere descritto come la crescita non organizzata di una città, non pianificata, con una maggiore quantità di terreno utilizzato per un numero minore di abitanti».
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1. Campo profughi Oure Cassoni. Localizzazione: Oure Cassoni, Chad (15°42’44.16” N 23°03’02.48”E)
2. Campo profughi Bredjing. Localizzazione: Bredjing, Chad (13°26’20.59”N 21°38’50.47”E)
3. Campo profughi Dagahaley. Localizzazione: Daadab, Kenya (0°11’20.87”N - 40°16’59.99”E)
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4. Campo profughi Hagadera. Localizzazione: Daadab, Kenya (0°00’12.79”N - 40°22’30.69”E)
5. Campo profughi IFO. Localizzazione: Daadab, Kenya (0°06’37.53”N - 40°18’50.28”E)
6. Campo profughi IFO 2. Localizzazione: Daadab, Kenya (0°02’17.82”N - 40°22’12.12”E)
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7. Campo profughi Kambioos. Localizzazione: Daadab, Kenya (0°03’06.82”S - 40°22’11.52”E)
8. Campo profughi Laayoune. Localizzazione: Tindouf, Algeria (27°44’24.40”N 08°01’21.22”W)
9. Campo profughi Boujdour. Localizzazione: Tindouf, Algeria (27°30’52.20”N 08°00’34.50”W)
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10. Campo profughi Smara. Localizzazione: Tindouf, Algeria (27°29’31.72”N 07°49’43.49”W)
11. Campo profughi Rabouni. Localizzazione: Tindouf, Algeria (27°28’26.73”N 08°05’15.74”W)
12. Campo profughi Aousserd. Localizzazione: Tindouf, Algeria (27°29’31.72”N 07°49’43.49”W)
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Il campo di Zaatari “La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere”, scriveva Italo Calvino ne Le città invisibili. Il paesaggio semidesertico, il color marrone proveniente dalle rocce e dal deserto, uno sterminato agglomerato di fabbricati bianchi e grigi, rappresentano i segni ripetuti che hanno portato alla nascita di Zaatari. Il campo di rifugiati di Zaatari sorge a nord della Giordania, in una zona semidesertica al confine con la Siria, a circa settanta chilometri dalla capirale, Assam. Aperto nell’estate 2012 per ospitare i migliaia di profughi in fuga dalla guerra in Siria, scoppiata nel 2011, Zaatari nacque come campo temporaneo di tende ma, in pochi mesi, diventa uno dei campi più grandi del mondo e, per densità di popolazione, la terza città del regno hascemita. Oggi vi abitano circa 80.000 persone, tutte siriane, all’interno di un’area di 5,3 chilometri quadrati. Il paesaggio del campo, dall’esterno, è costituito da barriere e reticolati controllati dall’esercito, in cui l’accesso è permesso da un unico ingresso, anche se al momento il campo è stato chiuso a nuovi ingressi, avendo raggiunto la capienza massima. Zaatari è diviso in 12 distretti, 12 aree diverse create per praticità e per una migliore organizzazione. Mentre uno sguardo superficiale potrebbe far pensare ad un agglomerato indistinto, in realtà è possibile riconoscere i distretti in base ai prefabbricati, ossia in base allo Stato che ne ha sostenuto i lavori di costruzione e in base agli usi specifici di ogni distretto, ognuno separato dagli altri da specifici barriere e reticolati. Mentre ora le abitazioni sono costituite da prefabbricati moderni, per anni sono state le tende delle Nazioni Unite. L’elettricità c’è solo quando cala il buio, tranne che per le zone servite da un generatore, l’acqua potabile viene fornita dall’Unicef, alimenti e cibo sono garantiti da un’altra agenzia dell’Onu, il World Food Programme, mentre, per tutto quello che riguarda i beni di prima necessità non alimentari a pensarci è il Norwegian Refugee Council. Per un possibile sistema di censimento e di riconoscimento degli abitanti del campo è attivo un sistema di registrazione dei rifugiati tramite il riconoscimento oculare, utilizzato anche dagli abitanti del campo per ritirare beni di prima necessità o denaro.
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1. Evoluzione del campo di Zaatari, dal 2011 al 2015; 2. La recinzione del campo; 3. Una cisterna d’acqua potabile; 4. Materiali del territorio; 5. Fotografia del campo
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PROGETTI
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Dibattiti e proposte progettuali “Perché non si può andare oltre questo surreale paesaggio che rende definitiva e strutturale una condizione che dovrebbe essere al massimo provvisoria e episodica ma definitivo. Un paesaggio che prevede tende della protezione civile, recinti, muri, filo spinato, dove si vive in modo contrario al decoro, dove si viola la dignità dell’individuo? Perché non si può immaginare una strategia progettuale per dare accoglienza ai migranti, senza che l’estetica prevalente ricordi quella dei lager? Intervenire su questi temi con la propria capacità progettuale e politica dovrebbe costituire per gli architetti un fronte di impegno, indicando soluzioni compatibili con lo stato di necessità, garantendo, con l’architettura, il decoro e la dignità della persona”. Eleonora Carrano, Architetto e giornalista per “Il Fatto Quotidiano” Quale ruolo dovrebbe giocare l’architettura? L’architettura può aiutare, in modo che possiamo smettere di chiamare i campi profughi “campi profughi” e possiamo iniziare a chiamarli “città viventi”. Si tratta di nuovi paesaggi che non possiamo ignorare. L’attualissima questione migratoria non è solo al centro delle cronache quotidiane, ma anche delle riflessioni compiute in luoghi istituzionali come la Biennale di Venezia. Lo dimostra la serie di progetti legati all’emergenza migranti esposti nell’ambito della Biennale di Architettura 2016 diretta da Alejandro Aravena, intitolata “Reporting from the Front”. Tra i progetti più interessanti, che però focalizzano l’attenzione su territori a noi più vicini, ai margini delle città europee, sono citabili il contributo di Sam Jacob Studio per il Padiglione delle Arti Applicate, un glaciale blocco marmoreo che invade l’ingresso delle Sale d’Armi dell’Arsenale. Riproduzione in scala reale di un rifugio improvvisato nel campo profughi di Calais, in Francia; nei giardini dell’Arsenale Gorenflos Architekten mettono in scena un social hub per rifugiati che verrà ospitato nello storico aeroporto berline-
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se di Tempelhof; i moduli in legno dei the nextENTERprise-architects, che trasformano un edificio per uffici dismesso in luogo di co-abitazione per 140 fra giovani profughi e studenti, versatili “stanze nelle stanze” che, aprendosi, permettono agli ospiti di definire liberamente spazi privati e collettivi; l’enorme plastico in polistirene dei BeL Architekten illustra in cinque casi studio le potenzialità dell’edilizia incrementale. Dato uno scheletro strutturale neutro e un kit per l’auto-costruzione, i residenti completano l’edificio secondo il proprio background culturale. Diversi per scala, tempi e tipologia, questi progetti ricordano come, nel lungo percorso dall’accoglienza all’integrazione, gli architetti sono chiamati a offrire, oltre che un riparo dignitoso, spazi di vita, inclusione e socialità. Solo in questo modo “l’architettura”, citando Aravena, “ha fatto, fa e farà la differenza”. Fuori dal tema proposto dalla Biennale, c’è anche chi ha orientato la sua azione verso il più comune dei luoghi di accoglienza di profughi: il campo profughi. I progetti riguardano prevalentemente soluzioni per nuovi spazi dell’abitazione e nuovi spazi dell’istruzione, temi nevralgici in luoghi così fragili come i campi.
Il plastico esposto alla Biennale 2016 dello studio Bel Architekten
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Maidan tent La Maidan tent è il contributo che Bonaventura Visconti di Modrone e Leo Bettini Oberkalmsteiner, due giovani architetti italiani, vogliono dare alle persone che popolano il campo profughi di Ritsona, in Grecia. La Maidan tent è una tenda concepita in modo che i richiedenti asilo possano fruire di uno spazio pubblico al coperto dove poter socializzare e svolgere le più diverse attività. Non è un caso che maidan , in arabo, significhi piazza. Nei campi la precarietà e la serialità di tende e container, insieme alla mancanza di spazi comuni, finisce per generare alienazione e spaesamento rispetto alla protezione offerta dalla propria casa e dalla vicinanza alla propria comunità. In queste condizioni l’opportunità del confronto viene mortificata. La Maidan tent è una possibile risposta alla necessità di un luogo in cui potersi incontrare. Uno spazio pubblico organizzato e condiviso, nel quale sia possibile leggere, imparare, giocare, intessere nuove amicizie, diventa importante per la ricerca di una stabilità perduta. In questo senso, una struttura mobile, articolata e integrata con il campo, all’interno della quale sia possibile svolgere qualsiasi attività al riparo dalle condizioni climatiche, si propone come alternativa alla routine della vita quotidiana nel campo destinato ai richiedenti asilo.
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Better shelter Realizzato e promosso da Ikea Foundation in collaborazione con UNHCR, Better Shelter traspone il design intelligente degli arredi Ikea in un modello innovativo di rifugio temporaneo che, racchiuso in due box di cartone, può essere trasportato e poi assemblato in circa quattro ore a seconda dell’esperienza e delle condizioni del luogo. Pensato come una casetta pieghevole con telaio in acciaio e rivestimento in plastica riciclata, il rifugio Ikea ha contribuito all’emergenza globale dei migranti e degli sfollati con un elevato numero di moduli già consegnati in moltissimi paesi del mondo a partire dal 2015, utilizzati non solo come alloggi temporanei ma anche come punti di distribuzione alimentare, strutture sanitarie o centri a supporto delle organizzazioni umanitarie. Ampio 17,5 mq e alto 2,83 m nel punto più alto, l’alloggio può ospitare fino a cinque persone e ha una durata di circa tre anni. Milioni di rifugi Ikea sono attualmente utilizzati in Nepal da Medici senza Frontiere in seguito all’emergenza terremoto, in Grecia da Unhcr per accogliere rifugiati e migranti che hanno raggiunto il paese nel 2015, in Macedonia per dislocare ambulatori di pronto soccorso e fornire un riparo ai bambini (con il supporto di Unicef), in moltissimi paesi dell’Africa e in Iraq, ove sono considerati vere e proprie case permanenti.
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Playground for refugees children La crisi siriana ha costretto migliaia di famiglie a lasciare le loro case in cerca di luoghi sicuri per continuare con le loro vite. Molte famiglie si sono trasferite in Libano, dove l’ONU ha realizzato una serie di insediamenti informali. Sebbene efficaci nel fornire riparo, non forniscono soluzioni specifiche per i bambini, molti dei quali hanno interrotto gli studi e non dispongono di spazi pubblici per praticare sport e interagire con i coetanei. In risposta a questa situazione, gli architetti di CatalyticAction hanno progettato e costruito un parco giochi in una delle scuole sviluppate in uno di questi insediamenti, coinvolgendo bambini, locali e volontari internazionali durante l’intero processo di progettazione e costruzione e permettendo alla struttura di essere facilmente smontata, trasportata e ricomposta o riutilizzata. Questo rende ogni parco giochi specifico per il suo contesto, per il tempo e le persone che lo vivono. Il parco giochi è uno spazio in cui questi bambini possono giocare, riposare e sentirsi al sicuro; uno spazio di sicurezza in questo ambiente vulnerabile.
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Re:build Nel 2017 nel campo profughi di Zaatari in Giordania l’italiana Building Peace Foundation ha realizzato in tempi record una scuola riutilizzabile per 250 bambini. La scuola RE:BUILD e’ una delle sei realizzate in Giordania dalla Fondazione con sede a Udine, facente parte di un progetto che mira a fornire uno spazio per l’istruzione per 3000 giovani siriani . Sotto la guida dell’architetto Cameron Sinclair, il fondatore di Architecture for Humanity, il progetto ha ideato un quadro di base per le scuole nei campi profughi che combina elementi naturali come sabbia, materiali locali e accessori per la costruzione come tubi di ponteggi e, soprattutto, il lavoro degli stessi rifugiati. Il contributo di loro, anche delle donne, nell’assemblare queste strutture molto semplici, veloci e intuitive farà sì che si sentano di nuovo responsabili del proprio destino e futuro. L’uso della sabbia, il miglior isolante naturale per eccellenza, una caratteristica tipica della cultura siriana, rende le costruzioni economiche. L’idea è di usare direttamente la terra “sotto i piedi” come materiale di costruzione, riempiendo di questo materiale i pannelli che costituiscono le pareti. I pannelli del tetto riempiti di terra possono anche fungere da piccoli orti per produrre generi alimentari.
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Soe ker tie house TYIN tegnestue è un’organizzazione senza scopo di lucro che lavora per scopi umanitari attraverso l’architettura. TYIN è gestito da cinque studenti di architettura e i progetti sono finanziati da oltre 60 società norvegesi, oltre a contributi privati. Il progetto, che nasce per il piccolo villaggio di Noh Bo, situato ai confini tra Birmania e Thailandia e prevalentemente abitato da rifugiati, è stato denominato Soe Ker Tie Haus (“case farfalla”) dai Karen che hanno partecipato alla costruzione per il particolare aspetto degli edifici. Il materiale costruttivo principale è il bambù che riveste tutti i prospetti delle case, intrecciato con la stessa tecnica utilizzata per le abitazioni e l’artigianato locale. Tutto il bambù utilizzato è stato raccolto nelle vicinanze dell’area di progetto. La caratteristica conformazione del tetto è pensata per favorire la ventilazione naturale all’interno delle stanze e per permettere la raccolta dell’acqua piovana per il riutilizzo durante la stagione secca. La lamiera grecata e gli elementi strutturali in legno sono stati assemblati in sito. Per evitare problemi di umidità e muffa, le diverse unità sono sollevate da terra da quattro fondazioni realizzate colando il calcestruzzo all’interno di vecchi pneumatici. Le Soe Ker Ti Houses sono un esempio virtuoso di come lo studio norvegese TYIN segue il motto preso in prestito dall’architetto finlandese Juhani Pallasma: “Architecture is about the understanding of the world and turning it into a more meaningful and human place”.
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100 classrooms for refugees children Emergency Architecture & Human Rights sta costruendo scuole di sacchi di sabbia per ospitare bambini siriani e giordani nel villaggio di Za’atari, situato appena fuori dal campo profughi di Za’atari, a 10 km dal confine siriano. La stragrande maggioranza delle persone sfollate dalla Siria vive attualmente in modo informale all’interno della comunità ospitante, quindi spesso si trovano senza accesso agli spazi collettivi, alle strutture igienico-sanitarie e alle strutture educative. L’aula è stata costruita con la tecnica di super-adobe. La costruzione è ispirata alla Grande Moschea di Djenné, all’architettura tradizionale del Mali e alle strutture abitative vernacolari della Siria originarie di Aleppo e Homs, da cui provengono molti dei rifugiati. A causa della limitata disponibilità di scelta delle tecniche e dei materiali di costruzione, e del clima caratterizzato da estati calde e inverni freddi, lo stile ad alveare è una soluzione idonea per una costruzione scolastica. Questo tipo di tecnica costruttiva non richiede rinforzi ad alta resistenza alla trazione e può essere costruita rapidamente, economicamente e ottenendo prestazioni migliori di tende, blocchi di cemento e lamiere in termini di isolamento termico. Durante la costruzione, l’EAHR ha insegnato ai lavoratori locali i metodi di costruzione con super-adobe, consentendo di dare loro la possibilità di costruire edifici più sostenibili, a basso costo ed efficienti dal punto di vista energetico all’interno degli insediamenti informali circostanti e durante la futura ricostruzione della Siria.
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CONCLUSIONI E APERTURE DI RICERCA
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Il tema della frontiera, dei paesaggi di limite, nello specifico dei campi profughi ha generato numerose riflessioni che hanno la necessità di trovare, brevemente, una interpretazione soggettiva. Complessivamente le soluzioni proposte ed esposte nel saggio sono di natura temporanea, rispondono alle necessità di una situazione di emergenza, ma forse inciampano nella comune interpretazione di campo in quanto insediamento temporaneo. Dalla maniera spesso improvvisata di abitare questi spazi, dal confronto indecidibile tra l’occupazione temporanea di uno spazio e la vera e propria abitazione di esso, risultano paesaggi peculiari, spazi di bordo con i loro ritmi, caratteristiche e identità, che richiedono un riconoscimento. Chi li abita questi luoghi ha il diritto di sperare di potersene andare e, nel periodo di permanenza, spesso molto lungo, di poter identificare un luogo come “casa”. Solo la permanenza deve essere temporanea, non il luogo. Porto quindi a riferimento un progetto che mi ha colpita e che ritengo sia di fondamentale interesse per una possibile nuova concezione di questi paesaggi così fragili e al tempo stesso ricchi di identità.
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Quinta Monroy, Elemental Nel 2003 il governo cileno ha chiesto allo studio di Alejandro Aravena, Elemental, di sistemare le 100 famiglie della Quinta Monroy, nello stesso sito di 5.000 mq che avevano illegalmente occupato per gli ultimi 30 anni e che si trovava nel centro di Iquique, città nel deserto cileno. La sfida era la sistemazione dei nuclei familiari avendo a disposizione solo 7,500 US $ di sovvenzione per pagare la terra, le infrastrutture e l’architettura. Come prima soluzione alla richiesta del governo è stata presa in considerazione la seguente equazione: 1 casetta = 1 famiglia = 1 lotto. In questo modo però sarebbero state ospitate solo 30 famiglie del luogo. Il problema con le case unifamiliari è che sono molto inefficiente in termini di utilizzo del suolo: è per questo che l’edilizia sociale normalmente tende a cercare terre che costano il meno possibile, terre lontane dai siti di istruzione, non servite dai trasporti, lontane dalle opportunità di lavoro che le città offrono. Questo modo di operare aveva avuto la tendenza a localizzare l’edilizia sociale per famiglie povere in zone di periferia, creando delle vere e proprie zone separate creando risentimento, conflitto sociale e ingiustizia. Pertanto il primo compito di Aravena e partners è stato quello di trovare un nuovo modo di affrontare il problema, ossia che l’edilizia sociale doveva essere considerata come un investimento e non come un costo. Solo così la sovvenzione iniziale poteva aumentare di valore nel tempo. Generalmente quando si acquista una casa ci si aspetta che il suo valore aumenti, ma nell’edilizia I progettisti di ELEMENTAL hanno identificato una serie di condizioni di progetto attraverso il quale un’unità immobiliare avrebbe potuto aumentare il suo valore nel tempo; tutto questo senza la necessità di aumentare la quantità di denaro della sovvenzione corrente. In primo luogo, è stata realizzata una densità sufficiente (ma senza sovraffollamento), in modo da poter ripagare il sito, che per la sua posizione era molto costoso.
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In secondo luogo, la disposizione di sviluppare di uno spazio fisico per una “grande famiglia” , ha dimostrato di essere una questione chiave nel decollo economico di una famiglia povera. Tra lo spazio privato e pubblico, è stato introdotto uno spazio collettivo, adattato a 20 famiglie circa. In terzo luogo, per il fatto che il 50% del volume di ciascuna unità alla fine sarebbe stato auto-costruito, l’edificio doveva essere abbastanza flessibile per consentire ad ogni unità di espandersi all’interno della propria struttura. La costruzione iniziale doveva quindi fornire un’ossatura di sostegno, al fine di evitare nel tempo effetti negativi di auto-costruzione sull’ambiente urbano, ma anche per agevolare il processo di espansione. Infine, invece di progettare una piccola casa, è stata progettata una casa a medio reddito, di cui si stava fornendo inizialmente solo una piccola parte, per uno scenario finale di 72 mq. In buona sostanza questo è stato l’aiuto del gruppo ELEMENTAL: contribuire con strumenti architettonici a rispondere a domande non architettoniche, come in questo caso, superare la povertà.
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Per concludere, mi ricollego al tema del rapporto tra paesaggio e conflitto introdotto all’inizio del saggio attraverso le parole del regista Davide Ferrario: “Il paesaggio crea identità perché ci suggerisce qualcosa riguardo al nostro posto nel mondo: quello che intuiamo può piacerci o meno, producendo reazioni contrastanti. Ma forse la radice del rapporto tra paesaggio e conflitto sta altrove. Riconoscere come «nostro» quello che ci sta intorno è solo una parte della dialettica del guardare. L’altro polo è costituito dal perdersi: perdersi fantasticando, perché «dietro ogni paesaggio c’è sempre un altro paesaggio, che si percepisce con la vaghezza e l’indefinitezza dei fatti immaginativi». Parole di Giacomo Leopardi. Il quale, ne L’infinito, ci dà una dimostrazione poetica di quello che intende. Anche lui si sofferma davanti a un paesaggio amato, «sedendo e mirando». Guarda con gli occhi e insieme immagina con la fantasia quello che non si vede perché nascosto dietro «la siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude». E lì il poeta intuisce qualcosa sulla verità del mondo: quello che vede è suo nel momento in cui ne riconosce l’inafferrabilità. Ne deriva la famosa chiusa della lirica, che trasmette il senso di una provvisoria riconciliazione con la vita. Tutto il contrario di chi, guardando un paesaggio, per sentirlo suo comincia a tirare confini e a erigere recinzioni, generando conflitti e guerre”.
Perché un campo profughi è una città, una città viva con un passato, un presente e un futuro. Abbiamo solo bisogno di iniziare a vederlo in quel modo.
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