Dal crafting alla autoproduzione

Page 1

DAL CRAFTING alla

AUTO-PRODUZIONE



Politecnico di Torino 1° Facoltà di Architetura Corso di Laurea in Design e Comunicazione Visiva

Tesi di Laurea di 1° livello

Dal Crafting all’Autoproduzione, fiere, mostre e festival.

Relatore

Candidata

Elena Della Piana

Sara Capello


A

U

P D

R

O U

O

N


T

O

Il percorso di ricerca di questa tesi pone le basi sull’analisi dell’evoluzione del fenomeno sociale dell’autoproduzione mettendo in evidenza la realtà contemporanea del festival e della fiera di design autoprodotto ed indipendente. Con la tale si vuole domandare quale sia oggi il ruolo dell’autoproduzione evidenziando come all’avanzare delle tecnologie innovative si voglia decontestualizzare “smaterializzando” il progetto e la sua produzione tornando a quello che viene definito Crafting, la voglia del progettista di esaltare il mestiere , che sia anche mĭnĭstĕrium, ovvero conciliare la tecnica, il gusto, l’abilità manuale al servizio del progetto. Distinguendosi quindi dal fai-da-te, più orientato alla creazione di un oggetto strettamente funzionale. Partendo da alcuni spunti storici che hanno caratterizzato e stravolto in qualche modo la produzione, riusciamo ad analizzare il fenomeno partendo dalla sua nascita , per vedere in seguito , come l’autoproduzione si stia tutt’ora sviluppando a livello internazionale ma sopratutto locale.

Z E

I


indice numerico

08

23

1. Il crafting

1.5 Le avanguardie radicali

13

39

15

1.3 Gio Ponti

49

19

56

1.2 L’Italia pre-bellica

1.4 Gli anni ‘50 e ‘60

1.6 I radicali uniti

1.7 Gli anni ‘80

2 Do it yourself


69

83

71

89

75

2.3 La situazione italiana

93

Caso Studio

79

97

2.1 Perchè autoprodurre?

2.2 Lo scenario europeo

2.4 Le nuove fiere-mercato

2.5 Torino Design week

Intervista

Conclusioni



Capitolo 1. Il Crafting in Italia

“La costanza dell’artigiano e dell’artigianato di affiancare il designer in Italia è sempre stata argomento di discussione”

La costanza dell’artigiano e dell’artigianato in genere di affiancare il designer e l’imprenditore in Italia è stata argomento di discussione di numerosi critici e storici del design che l’hanno considerata un ostacolo all’affermazione e definizione dell’identità della cultura del progetto in senso industriale, un’opportunità di affermazione culturale ed economica. Un refrain, quest’ultimo, che è stato variamente espresso fin dall’affermarsi del discorso post-industriale negli anni ottanta, poi con il riconoscimento del sistema produttivo dei distretti, formati da piccoli e medi laboratori e aziende, infine, più recentemente, con l’ondata di dichiarazioni a proposito della lunga tradizione di arti e mestieri italiana, che ha accompagnato il diffondersi del movimento dei makers.1 La storica Catherine Ross nel suo lavoro “Crafting Design in Italy”2 si insinua in quella che può essere una definizione del maker italiano, concentrandosi sul periodo che va dal dopoguerra agli anni ottanta. Dopo un attenta lettura del saggio si può evincere che l’approccio italiano al crafting risulti influenzato dalla contrapposizione fra lavoro manuale e intellettuale, mentre l’influenza Anglosassone ci rimanda all’ Art&Craft e ai suoi protagonisti, quali William Morris che avevano sollevato la questione dell’etica nel design e nella produzione trovando l’equilibrio perfetto tra i due estremi.

ITALY at work: her reinaissance in DESIGN TODAY, Art Institute Chicago, 1953

http://www.maddamura.eu/blog/language/it/crafting-design-in-italy-rossi-catharine/ C. Rossi, Crafting Design in Italy: From Post-war to Postmodernism, Manchester University Press, 2015 3 P. Antonelli, States of Design: design fatto a mano, “Domus”, 2012 1

2

8


Gli anni tra il 1945 ed i primi del 1980 si possono considerare i più celebri nella storia del design italiano.

Sull’ estremo virtuoso sedeva l’artigiano, produttore indipendente di idee e maestro illuminato di bellezza e probità. Sull’altro veniva collocato il produttore su scala industriale, attuatore di ciò che è brutto e cattivo, manipolatore dei materiali contro la loro stessa natura.3 In Italia, l’artigianato è ritenuto da sempre fondamentale soprattutto per quanto riguarda l’ideazione e l’interpretazione durate la progettazione. Il nostro paese può largamente vantarsi di un ricco patrimonio di artigiani e di laboratori che nel passato, ma anche nel presente, hanno collaborato con l’industria, trascinando con loro una serie di tradizioni, una serie di concetti. Il rapporto complesso stabilitosi tra artigianato e design è continuamente presente, lo era al tempo di Gio Ponti negli anni Cinquanta con il rilancio dell’artigianato e perfino con Memphis (1981-1987), con i laminati sparsi a rivestire tutto l’arredamento postmoderno; esempi a cui dedicheremmo maggior attenzione più avanti. Gli anni tra il 1945 ed i primi del 1980 si possono considerare i più celebri nella storia del design italiano, anni in cui erano protagonisti la retorica della ricostruzione e le provocazioni postmodern di Memphis, anni in cui gli architetti italiani giocavano un ruolo vitale nel plasmare l’incontro del paese con la modernità del dopoguerra. L’artigianato è stato fondamentale per la realizzazione del design italiano e una parte d’intensa creatività venne trattata marginalmente ed esclusa dalla storia del design. Ciò nonostante il marchio Made in Italy è stato parte della mitologizzazione 4

9

E. Della Piana, Italy at work in “Design Issue”, in corso di stampa

del design italiano del dopoguerra come i suoi eroici architetti. Importante è la relazione tra il design e il settore manifatturiero italiano, in quanto, quando cambiò il contesto socio-economico e politico, cambiò anche il rapporto tra design e artigianato. Nelle fasi di ricostruzione le industrie artigiane italiane erano viste come le più importanti e le più facili da rilanciare insieme all’economia della nazione in quanto funzionali alla retorica del nuovo regime che prevedeva l’affiancamento di categorie fini a se stessi quali: artigianato e industria, tradizione e modernità, creando per ognuna una attenta opera di celebrazione. I progettisti in questo clima austero non vogliono rompere con la tradizione nazionale bensì considerano quest’ultima in continua evoluzione, in continua trasformazione. Insistono quindi sulla cifra nazionale, sul Made in Italy, sulla necessità di mantenere uno stretto legame con la tradizione, con l’artigianato. Da questa voglia di far conoscere il Made in Italy nascono diverse mostre negli Stati Uniti che valorizzano il lavoro progettuale italiano. La prima grande mostra interamente dedicata al quotidiano italiano si può considerare: Italy at Work, Her Reinaissance in Design Today, organizzata dal Ministero del Commercio Internazionale e curata da Rogers e Nigel, aperta nel Novembre del 1950 al New York’s Brooklyn Museum4.


Italy at Work: Her Renaissance in Design Today, 1950- 1951 (Image: PHO_ E1949i002.jpg Brooklyn Museum photograph, 1950)

Italy at Work: Her Renaissance in Design Today, 1950- 1951 (Image: PHO_ E1949i004.jpg Brooklyn Museum photograph, 1950)

Italy at Work: Her Renaissance in Design Today, 1950- 1951 (Image: PHO_ E1949i016.jpg Brooklyn Museum photograph, 1950

10


“Enviroments and Counter Experimental Media in Italy: The new Domestic Landscape - MoMA 1972”. La rilettura di una storica mostra celebra il Made in Italy.

L’esposizione presenta più di duemila e cinquecento esempi di artigianato e design contemporaneo italiano disposti in cinque sale differenti progettate da svariati architetti tra cui Carlo Mollino e Gio Ponti. Apprezzata sia dalla critica popolare che artistica, Italy at Work, spende i successivi tre anni viaggiando di museo in museo, raggiungendo circa undici musei negli Stati Untiti, chiude definitivamente questo viaggio al Museum of the Rhode Island School of Design nel Novembre del 1953. Dopo l’inaugurazione al Brooklyn Museum, l’esibizione arriva all’ Art Institute of Chicago, al De Young Museum a San Francisco, al Portland art Museum, al Minneapolis Institute of Arts, al Museum of Fine arts a Houston, al City Art Museum di st.Louise, al Toledo Art Museum, al Albright Art Gallery a Buffalo, al Carnegie Art Museum, al Baltimore Museum of Art per raggiungere finalmente il Museum of Art at the Rhode Island School of Design. Prevalentemente americana concepita, finanziata e organizzata, Italy at Work mirava ad accentuare la ricostruzione post-bellica Italiana presentando il Made in Italy ai consumatori americani, legata al commercio italiano, alle piccole e medio imprese artigianali, le quali non potevano competere con l’industria americana ma rimandavano alla rassicurante capacità degli artefici italiani di ricostruirsi, di rifarsi dopo la guerra.

11

A discapito della parola “design” del titolo dell’esposizione, i materiali dell’artigianato e le tecniche produttive dominarono la scena. Nel contesto della supremazia economica degli USA la produzione italiana veniva ricostruita seguendo le linee americane, il campo nascente dell’industrial design veniva emarginato in favore di un immagine di una nazione artigiana. Attraverso anche la copertina del catalogo della mostra la quale enfatizzava l’estetica artigiana. Nel maggio del 1951, appena Italy at Work iniziò la seconda parte dell’iter tra musei, iniziò anche la nona triennale di Milano che quasi a rispecchiare il successo di Italy at Work aveva scelto come tema “L’unità delle arti” dove gli organizzatori cercavano di proiettare un immagine della modernità del dopo guerra; un contrasto con la precedente, riflessa nel chiaro e geometrico stile di quegli anni, cercando anche di abbandonare le spinte sociali della precedente edizione e dando più spazio agli artisti. Tuttavia la chiarezza del loro messaggio era oscurata dai conflitti interni che riflettevano i tormenti politici Italiani. Sebbene l’industrial design era presente nella scena italiana, l’artigianato rimaneva protagonista dei prodotti italiani esposti con una chiave di lettura differente da quella del design e della architettura nazionale del post-guerra.


Due esposizioni, una in Italia, una in America, ognuna che offriva punti di vista di design e artigianato contrastanti agli inizi degli anni ’50. Italy at Work e la Triennale offrivano l’opportunità di esaminare come questa relazione era stata costruita; la prima vista come una delle chiavi del mercato italiano, l’altra come visione della produzione locale. Italy at work non era però la prima iniziativa guidata dall’America che si concentrava sull’artigianato italiano. Infatti Max Ascoli, ebreo sfuggito alle persecuzioni, nel 1945 istituì l’HDI (Handcraft Development Incorporated), una organizzazione no profit che il New York Times descriveva come “la riabilitazione dell’esportazione dell’artigianato italiano nel mercato americano”. Questo processo di esportazione poteva avvenire attraverso tre strategie: primo, permettendo la

produzione attraverso il supplemento di materiali ed equipaggiamenti; secondo, esponendo i risultati nella sede centrale dell’HDI di New York; terzo, trasformando questo nella Piazza, uno spazio espositivo dell’artigianato Italiano. Il design italiano negli anni successivi l’esposizione di Italy at Work veniva continuamente celebrato negli Stati Uniti. Il Made in Italy appariva nelle maggiori riviste di architettura, le quali dedicarono intere pagine ai progetti e progettisti italiani. Anche molti Department Stores venivano allestiti con prodotti italiani di ogni genere. Questa strategia commerciale veniva manovrata oltre che dagli organismi misteriali dagli stessi progettisti i quali scrivendo dei grandi successi del progetto italiano negli USA, informavano la popolazione italiana del perché all’estero ci fosse così tanta richiesta del Made in Italy.

12


1.2 L’Italia pre-bellica Nella maggior parte dei casi si è indagato su ciò che accade durate il pre ed il post guerra e non su quello che fu il clima culturale in Italia del progetto moderno durante la guerra. Come se quegli anni fossero sospesi in una sorta di oblio dove architetti e progettisti si ponevano delle enormi e laceranti domande sulla propria condizione ed il proprio ruolo civile. Nella maggior parte dei casi si è indagato su ciò che accade durate il pre ed il post guerra e non su quello che fu il clima culturale in Italia del progetto moderno durante la guerra. Come se quegli anni fossero sospesi in una sorta di oblio dove architetti e progettisti si ponevano delle enormi e laceranti domande sulla propria condizione ed il proprio ruolo civile. Era il 1940 e a Milano si teneva la VII Triennale, l’ultima realizzata nel periodo fascista, si chiuse il 9 giugno 1940 alla vigilia della dichiarazione di guerra di Mussolini agli alleati. Mentre nelle precedenti edizioni il dibattito architettonico e culturale era vivo, in questa Triennale non c’erano margini per un confronto sulle tematiche culturali. Molto spazio veniva dato agli architetti del regime, primo fra tutti Marcello Piacentini, curatore della sezione di architettura. Gli architetti milanesi, razionalisti, allontanatisi dalle nuove direttive del regime, si esprimono nella curatela di sezioni collaterali come il verde in città e il piano turistico dell’isola d’Elba di Banfi, Belgiojoso e Peressutti, le sezioni delle arti decorative di Ignazio Gardella, la sezione dellearti decorative di Ignazio Gardella, la Mostra sulle produzioni di serie di Giuseppe Pagano e la sezione dedicata all’arredamento della casa moderna di Piero Bottoni.

http://old.triennale.org/it/archivio/esposizione/23381-viitrn?filter_catphoto=+ VII Triennale, pp. 125, 1940 7 VII Triennale, pp. 127, 1940 5

6

13

L’impostazione generale preferiva “l’italianità” e celebrava il “nazionalismo” sia nella scelta delle opere sia nei criteri di ordinamento, causa una partecipazione straniera limitata a poche sezioni5. Possiamo quindi considerare la VII Triennale la prima esposizione specificamente dedicata al design in Italia. Il catalogo della VII Triennale (1940), esplicita le intenzioni dei curatori: “Questa Mostra intende dimostrare la tendenza naturale umana alla produzione in serie cercando di valutare quanto è stato fatto in questo campo, quale grado di perfezionamento estetico è stato fino ad oggi ottenuto dalla produzione industriale e quali sono le possibilità future di una ordinata e artistica applicazione di questo principio nell’architettura e nell’urbanistica.”6 L’esposizione era divisa in tre sezioni. La prima introduce al concetto di serie: “Presentando alcune delle più caratteristiche produzioni in serie del mondo naturale, inanimato e animato: dalle organizzazioni del microcosmo (cellule, sistemi cristallini), alle organizzazioni del macrocosmo del mondo minerale, vegetale, animale. Accanto a questa prima e sintetica dimostrazione della naturale tendenza alla organizzazione in serie (“standardizzazione”) si presenta quanto l’attività umana ha speculato o sta sperimentando in campi analoghi a quelli perseguiti dalla natura”.7


VII Triennale di Milano (Domus n.151, luglio 1940)

La seconda sezione è dedicata alla produzione in serie nell’industria. Fra gli espositori: Fiat, Olivetti, Innocenti, Triplex, Borletti, Caproni, Lagomarsino, Officine Galileo, Salmoiraghi, Vis-Vetro italiano di sicurezza, Ducati, i mobili di Beltrami, Pino, Maggioni. Nella terza sezione venivano presentate le applicazioni della produzione in serie nel campo dell’edilizia e dell’architettura, che riprendono in parte la mostra della precedente Triennale. Fra gli espositori, aziende come S.A.F.F.A., Richard Ginori, Ceramica ligure, Società del Linoleum, Eternit, Litoceramica Piccinelli e Fontana vetri. La VII Triennale si adopera per valorizzare uomini e materiali, estetica e autarchia, andando verso il popolo con progetti, lavori artigiani e industriali, con perfezionamenti tecnici e proposte estetiche in un clima di crisi. Progettare ai tempi delle crisi economiche sembrava essere una condizione particolarmente favorevole allo stimolo della creatività.8 Come afferma Paul Auster “ I momenti di crisi raddoppiano la vitalità degli uomini. O forse, più in soldoni, gli uomini cominciano a vivere appieno solo quando si trovano con le spalle al muro” 9. Ogni crisi, pone di fronte ad una scelta, ad una innovazione non consentendo lo stallo di idee o la routine. Con la VII Triennale emergeva l’idea di produrre facendo della necessità una virtù, sfruttando la materie prime nazionali, riducendo l’import di merci prodotte all’estero e ricercando nuovi materiali utilizzati successivamente come surrogati di materie costose o di importazione. Il settore delle costruzioni e quello tessile procedono in quegli anni oscillando tra un discorso “avanzato” di ricerca e un discorso di “emergenza” di stampo più o meno autarchico. B. Finessi, Il design italiano oltre le crisi. Autarchia, austerità, autoproduzione, catalogo VII edizione del Triennale Design Museum, 2014 9 P. Auster, Il libro delle illusioni, ET scrittori Einaudi,2002 8

14


1.3

Gio Ponti

Nell’autunno del 1935 Guido Donegani, capitano dell’industria d’Italia, fondatore e presidente della Montecatini, commissiona a Gio Ponti, giovane architetto al primo grande incarico, un caso unico di design totale: la nuova sede del Palazzo Montecatini, con la raccomandazione di far emergere le nuove tecniche costruttive e i perfezionamenti sperimentati fino allora. Un abile strategia comunicativa aveva consolidato l’azienda come un “monumento nazionale” e per questa ragione anche il palazzo doveva divenire tale. Realizzati in tempi diversi su due lotti contigui, i palazzi per la Montecatini erano disegnati per ospitare in un unico, modernissimo complesso tutti gli uffici amministrativi della società milanese, produttrice di materiali come l’alluminio e il marmo impiegati poi per la costruzione concepita come modello in scala reale delle potenzialità offerte dall’industri italiana. Come racconta Lisa Ponti, Donegani contestava un lunga lista di obiezioni e Ponti rispondeva di ogni soluzione adottata affermando che non poteva apportare alcuna modifica al progetto, ma solamente rinunciare all’incarico. Fu così che conquistò Donegani, e così che nacque il primo palazzo Montecatini. Ponti riusciva a far innamorare di sé e dell’opera che stava progettando, costringendo il committente ad un rapporto imbarazzato per cui tutto ciò che riguardava la realizzabilità del progetto veniva accantonata in secondo piano in quanto il committente aveva davanti a se un artista, un progettista tanto appassionato che parlava con intensità da coinvolgere e mettere da parte i problemi costruttivi. Per la realizzazione Ponti era consapevole di dover esprimere lo stile di un industria , progettò quindi un edificio elitario nel modulo, avanzato nella tecnica edilizia, precursore negli impianti, costruito in tempi record (23 mesi). A definire l’immagine della Montecatini, la parete laterale aerea, liscia, con serramenti e cristalli a filo, in marmo e alluminio, un marmo nuovo chiamato il “Tempesta” e poi altri materiali sperimentali come i rivestimenti interni in mosaico di grès o l’alluminio e le sue leghe per l’ascensore e la posta pneumatica. Ponti disegnò tutto per i 1500 impiegati della Montecatini, apparecchi e arredi, sedie e scrivanie, destinati poi a entrare nella serie. «Noi passiamo la più parte delle ore al lavoro-, scriveva Gio Ponti nel 1939-, l’ambiente per il lavoro dovrà essere dunque fra i più degni, i più belli, i più civili». 10

15

10

G.Ponti, in “Corriere della Sera”, 1939


G

O I

P

N

O T

I 16


Ponti operava ora in un paese che sembrava stesse voltando le spalle alla tecnica moderna, prescrivendo il ritorno al sistema costruttivo tradizionale utilizzando prettamente materiali nuovi ma sopratutto materiali nazionali. Sperimentò, utilizzò in maniera ineccepibile i nuovi materiali e le nuove tecniche costruttive, realizzando così una vera e propria vetrina per i mobili della Montecatini. Il progetto per la Montecatini doveva aggiungere dell’originalità alla strada intrapresa dalla Olivetti con gli stabilimenti di Ivrea, doveva divenire una sorta di sfida non solo per un miglioramento dello standard costruttivo ma per la possibilità di spingersi oltre i imiti del conosciuto, con un uso dei materiali che andava oltre la logica corrente, in modo tale da sfruttarne le caratteristiche vincenti, le potenzialità dello standard. Ponti partiva avvantaggiato, grazie alla rivista Domus, da lui fondata nel 1928 e poi diretta ed in qualità di direttore della Triennale nel 1930 e nel 1933, inoltre nel 1941 fondava e dirigeva la rivista Stile stampata per Garzanti. Stile incarna lo stile intenso e contraddittorio di Ponti, sviluppato tra i due temi alla continua ricerca di un equilibrio perfetto tra Arte e Italia, in un contesto di disfacimento quale quello della guerra. Collocato dalla storia in quella stagione che sta tra il fascismo e il ritorno alla democrazia, viene guidato da Ponti con impegno fisico e morale. Si può quasi considerare lo specchio di Gio Ponti, la sua rivista-diario, lo zibaldone quotidiano dei suoi pensieri sullo sfondo dei dilemmi nell’arte e nel progetto italiani di allora.

17

Stile è, numero dopo numero, Gio Ponti che parla, che scrive, annota, riflette, si illude, si indigna e poi di nuovo riparte, senza mai fermarsi. Al fianco di Gio Ponti in “Stile” è dal principio la figlia, Lisa, agli esordi nella sua carriera. Sono anni in cui si riconosce il tortuoso percorso del suo progetto al servizio della società civile. Ponti si aggira tra il pretesto di costruire per le nuove colonie, per poi passare all’emergenza di un progetto utile per la precaria vita degli sfollati, per finire con il drammatico tema della ricostruzione. Mentre si andava alimentando il dibattito teorico sulla necessità di un coinvolgimento dell’industria nella questione delle abitazioni, e la produzione di serie appariva il principale “rimedio ad ogni male sociale”, Ponti aveva individuato la Saffa come una delle industrie che concretamente potevano risolvere il problema dell’abitazione. Insieme alla Saffa, progetta i “Mobili Riponibili” affrontando il problema dell’arredamento, a ribadire la centralità della cultura ‘domestica’ e la necessità di pensare in un nuovo modo l’abitare. Questo di Ponti lo si potrebbe considerare un caso di prematuro approccio di autoproduzione, o meglio, di fai-date. Anche se risulta comunque difficile catalogare questo episodio seppur presenta caratteristiche e finalità molto più complesse che esulano dal campo della nostra indagnie, inquanto mantiene alcuni aspetti che fondono assieme l’ottica del farsi le cose per qualcuno e farle per se stessi.


Gio Ponti

I suoi Riponibili non nascono come progetto autoprodotto (lo dimostra il patto con la Saffa, azienda che avrebbe giocato - e lo ha fatto poi in negativo - un ruolo determinante), ma la semplicità dei mobili in questione, unita al fatto che lo stesso Ponti allegava dei cartamodelli alle pagine di Stile per presentare il progetto nelle sue caratteristiche salienti, ci dimostra quella volontà di adottare un approccio in puro stile tutorial - show me how to make something. Il progetto dei Riponibili nasce con l’intento di avere dei mobili-tipo, progettati da un designer, che tutti si sarebbero potuti permettere non do it yourself for yourself il cui progetto non rimane però segreto, ma viene diffuso presso i potenziali utenti, non tramite le pagine di un sito web, ma tramite le pagine di una rivista, (Stile) che si sobbarca l’arduo compito di dare una possibile soluzione al problema della

abitazione del dopoguerra. Un esempio anomalo, poco conosciuto, ma che mostra quanto le forze che sono alla base di un approccio autoproduttivo, autogestionale ed autoprogettuale sono complesse, sicuramente insite nell’uomo da molto tempo prima della comparsa storica dei movimenti di protesta contro la società dei consumi ed infine, difficilmente inscrivibili in confini netti e regolamentati.

18


1.4

Gli anni ‘50 e ‘60

GLI ANNI ‘50 E ‘60 RAPPRESENTANO IL PASSAGGIO DAL BOOM ECONOMICO AL MOMENTO DI CRISI.

Negozio Olivetti 1960

19

Gli anni Cinquanta e Sessanta rappresentano il ventennio in cui il design italiano è passato da un momento di boom economico ad una situazione di crisi. In questi decenni l’Italia, da paese con un economia essenzialmente agricola, avrebbe messo a frutto quel processo di industrializzazione che le altre nazioni europee avevano già compiuto, ottenendo risultati straordinari, tanto da riuscire ad entrare in piena competizione con queste ultime, grazie alla realizzazione prodotti di qualità, caratterizzati da una spiccata invenzione formale. Per la prima volta le famiglie italiane avevano accesso ad un universo di oggetti che prima era tipico solo di un’ élite, questo grazie soprattutto al nuovo sistema di produzione, che consentiva di realizzare in grande serie gli stessi oggetti che prima erano prodotti artigianalmente, rendendone i costi più accessibili e rispondendo a esigenze variabili di spesa.


“La seconda generazione dei designer italiani entra in campo quando le battaglie per il moderno sono state vinte e una sedia ed una poltrona non sono cimenti di cultura ma oggetti di mercato, nel senso attivo della parola, elementi di aggancio al mondo della produzione”11.

“La seconda generazione dei designer italiani entra in campo quando le battaglie per il moderno sono state vinte e una sedia ed una poltrona non sono cimenti di cultura ma oggetti di mercato, nel senso attivo della parola, elementi di aggancio al mondo della produzione”11. Queste le parole di Vittorio Gregotti, che afferma come i designer che progettavano in quegli anni avevano appieno compreso questo mutamento. In quegli anni il mondo della produzione si arricchì sempre più di nuove aziende, di aziende che nascevano o si sviluppavano e che da lì a poco sarebbero diventate delle icone della progettazione. Parliamo di Cassina, che già nel 1965 iniziava a rieditare dei grandi classici del design moderno a partire dai mobili disegnati negli anni trenta da Le Corbusier, affiancando questa operazione ad una produzione di oggetti all’avanguardia disegnati dai designer italiani più giovani. Parliamo ancora di Arflex, Artemide, C&B (nata dalla collaborazione tra Cesare Cassina e Piero Busnelli, e che si occupava per lo più della produzione di imbottiti), Boffi, Gavina, Gufram, Kartell, Olivetti, Poltronova, Zanotta, solo per nominarne alcune. Scendendo nello specifico meritano particolare attenzione i casi di Olivetti e di Cartel, in quanto presentavano alcune particolarità. La Olivetti aveva iniziato già da qualche anno la collaborazione con Ettore Sottsass, che disegnò il primo grande calcolatore elettronico ( Elea 9003) e nel 1964 la macchina da scrivere Techne3.

11

Nello stesso anno Roberto Olivetti propose a Sotttsass di entrare stabilmente in azienda divenendo così il direttore del settore dedicato al design. A questa proposta rispose con una soluzione alternativa del tutto particolare, Sottsass propose infatti l’apertura di un atelier in cui i collaboratori, secondo le necessità dell’amministrazione aziendale, sarebbero stati come “freelance” pagati dalla Olivetti. Questa proposta consentiva ai designer di poter lavorare in completa autonomia senza essere assorbiti dal clima aziendale ed industriale avendo così più facilità e libertà nello sviluppo di nuove idee progettuali, ed andava contro corrente rispetto ai modelli degli altri paesi europei che tendevano ad incorporare il designer nel sistema industriale. Olivetti si serviva anche di una serie di collaboratori che la assistevano nella realizzazione degli uffici, dei negozi, degli showroom e delle mostre, tramite le quali l’azienda promuoveva, anche al di fuori dei confini nazionali, la propria immagine e quella dell’architettura, del design e dell’arte italiani. Kartell invece venne fondata nel 1949 dall’ingegnere chimico Giulio Castelli nella provincia di Milano, dove si consolidò grazie alla produzione di pezzi d’arredamento e di design in plastica. Come Kartell in quegli anni molte aziende erano interessate alla sperimentazione e alla produzione con materiali plastici.

V. Gregotti, M. Zanuso, “Architetto della seconda generazione”, in “Casabella”, n.216, 1957

20


I prodotti venivano camuffati da artigianali (sedute Saratoga, disegnate da Lella e Massimo Vignelli per Poltronova, dove il legno della struttura venne laccato in poliestere) e quelli artificiali diventavano ricercati (Moplen- marchio registrato dalla Montecatini con cui si indicava il polipropilene isotattico). Siamo negli anni sessanta, anni dove oltre alla celebrazione di nuovi materiali e colori vivaci, al neo-liberty italiano, l’ADI organizza dibattiti dove i membri partecipanti pubblicavano saggi e ricerche, venivano svolte attività all’estero partecipando a varie mostre e iniziative dell’ICSID (International Council of Societies of Industrial Design). Inoltre l’associazione esprimeva le proprie posizioni attraverso l’istituzione di un premio, il Compasso d’oro, forse una delle attività più note dell’ADI.12 Nel 1962 il concorso subiva i primi cambiamenti: come la cadenza biennale, piuttosto che annuale, e nuove modalità di partecipazione, che da quel momento in poi poteva avvenire solo per invito, secondo la selezione fatta dal Centro Documentazione dell’Associazione. Dieci anni dopo, su Ottagono n. 27 del 1972 e Abitare n. 545 del 1975 Bruno Munari, pubblica una ricerca di oggetti ben progettati e ben venduti anche se non firmati, i quali vengono premiati con il “Compasso D’oro a ignoti”, dove l’ intelligenza e lo spirito giocoso del maestro, si fondono in questo ‘premio inventato’, per dare dignità ad oggetti di cui non si sa nemmeno il nome del designer. Ancora prima che venisse usato il termine design per definire una produzione giusta per oggetti che rispondono a funzioni necessarie, tali oggetti erano già in produzione e si continuano a produrre, e ogni volta vengono migliorati secondo i materiali e le tecnologie usati. Sono oggetti di uso quotidiano nelle case e nei posti di lavoro e la gente li compera perché non seguono le mode, non hanno problemi di simboli di classe, sono oggetti ben progettati e non importa da chi13.

21

Logo premio Compasso d’Oro, Albe e Lica Steiner, 1956


Tornando a noi, durante l’anno del 1962 la situazione del design italiano, riscontrata attraverso il concorso del Compasso d’oro, era quella di una forte insistenza dell’industrial design legato a prodotti “rivelatisi soprattutto virtuosismi tecnico- formali o forzature sperimentali, o nel migliore dei casi, cose anche eccellenti e culturalmente importanti, ma espressione di una fase pionieristica ed aristocratica14. La giuria di quella anno affermava che, in quegli anni densi di cambiamenti, di mutazioni economiche, il design aveva il compito di rivolgersi ad un mercato il più possibile ampio, che non fosse solo quello di un elite socio-economica, auspicando per i prossimi anni di garantire un maggiore impegno del design nella creazione di prodotti relativi a servizi collettivi. Procediamo tuttavia con ordine e facciamo un ulteriore passo indietro di qualche manciata d’anni analizzando quelle avanguardie del periodo post bellico che diedero il concreto avvio ad un’insanabile rottura con la società del tempo. Già alla fine degli anni ’50 iniziava a prendeva avvio una ricerca di carattere visionario e utopico, che cerca di dare una risposta alle esigenze di nuove formulazioni teoriche, le quali erano volte a intendere in maniera differente il rapporto tra funzione e forma, finito in quegli anni col mortificare la creatività. Iniziano quindi i primi anni di sperimentazione con un approccio del tutto diverso, alla ricerca di un equilibrio tra le prassi formali e la necessità d’uso, protagonisti di questo periodo sono una lunga serie di avanguardie che si susseguono a ritmi frenetici, ognuna con una propria idea utopica. Tra queste vanno di certo ricordate: C.O.B.R.A, Bauhaus Imaginiste, Lettrismo e Internazionale Lettrista e gli Archigram.

Nato nel 1954, da un’idea di Gio Ponti, sarebbe stato per anni organizzato dai grandi magazzini la Rinascente, allo scopo di mettere in evidenza il valore e la qualità dei prodotti del design italiano allora ai suoi albori. Le prime quattro edizioni del Premio si sarebbero tenute con cadenza annuale e sarebbero state organizzate da La Rinascente, che iniziava a collaborare con l’Adi dal 1958. Il Premio sarebbe stato, in seguito, donato all’Adi, che del 1967 lo curò in completa autonomia. 12

Gli oggetti premiati erano: Leggìo a tre piedi per orchestrali, Lucchetto per serrande, Sedia a sdraio per spiaggia, Attrezzo per vetrinista, Sicure per spaccare la legna, Lampade da garage, Scatola del latte parallelepipedo, Mezzaluna, Borsa della spesa. 13

14

Relazione della Giuria 1962, in Compasso d’oro 1954- 1984, Electa, Milano 1985.

22


1.5

Le nuove avanguardie radicali:

la nuova cultura del progetto autoprodotto

Sulla scia degli ultimi anni 50, iniziavano a diffondersi delle nuove necessità da parte di architetti e progettisti, in particolare modo la necessità di non porsi dei limiti culturali e metodologici, i quali non potevano più ormai, rappresentare la società contemporanea di quegli anni. Prendeva avvio una nuova sperimentazione che privilegiava la creatività come principale metro di giudizio e di indagine del reale, con la quale non si può ancora parlare di autoproduzione, bensì il termine più appropriato risulta essere autocommittenza. Questo approccio così libero, evadeva da uno stato di cose prestabilite andando alla ricerca di nuove soluzioni fino ad allora ignorate. L’autoproduzione si basa su queste stesse necessità. Il vantaggio di farsi le cose da soli consiste proprio nella possibilità di non avere restrizioni di alcun tipo che pongano un freno alla libera espressione creativa del singolo. Nel design industriale autoprodursi vuol dire progettare senza le richieste di un’azienda senza alcune regole obbligate della produzione di serie. Autoprodursi dà la possibilità al giovane di dare libero sfogo alle sue visioni, di andare a ricercare soluzioni formali, funzionali e di linguaggio in ambiti di grande interesse personale. A volte ironico e utopistico, questo concetto fonda le sue radici sul fondamentale contributo del radical design italiano degli anni ’60 e ’70. Preannunciato a partire del 1969 con alcune mostre, rappresentato in seguito da Casabella, diretta allora da Mendini, e culminata con la partecipazione alla mostra del MoMa del 1972, l’esistenza dell’avanguardia radicale ha la sua consacrazione ufficiale con l’esistenza nel 1974 dei Global Tools.

23

15

L’anno che precedeva i Global Tools veniva caratterizzato da una forte crisi energetica mondiale, il 1973, conseguenza della guerra fra Indiani e Arabi. Questa crisi non rappresentò solo il crollo di un sistema economico basato sullo sfruttamento delle materie prime del terzo mondo, ma segnò anche la fine di una fase storica la cui cultura del progetto si basava sulla crescita progressiva e infinita dello sviluppo e del benessere. Iniziava ad agitarsi lo spettro di un impossibile rivoluzione proletaria; ormai già da tempo la combinazione di coscienza politica e di vocazione d’avanguardia, aveva generato gruppi, come già citati in precedenza, che contestavano alle radici, la natura socialdemocratica del movimento moderno. A Firenze con Archizoom, Superstudio, Ufo, a Milano con Gaetano Pesce, Mendini, Ugo La Pietra, Ettore Sottsass, a Napoli con Riccardo Dalisi, si discute e prende vita la possibilità di una revisione radicale delle convenzioni razionaliste e futuriste che avevano fin ora caratterizzato il design italiano. L’esperienza di questi gruppi, affrontata nello storico volume “Architettura Radicale”15, verrà sempre criticata ed ostacolata dal vecchio establishment dell’architettura e del design, che vedeva in essi una forte critica al sistema. Quando si parla dell’architetture d’avanguardia degli anni ’60 rispetto le altre avanguardie storiche, si parla di quei gruppi che non proposero un nuovo linguaggio stilistico, un nuovo stile, bensì proposero di sviluppare tutte quelle componenti critiche, riformiste, radicali del progetto.

P. Navone e B. Orlandoni, Architettura Radicale, Documenti di Casabella, Milano, 1974.


In questo senso non veniva quindi prodotto un vero e proprio stile riconoscibile come radical ma piuttosto un atteggiamento mentale, culturale. Protagonista era l’idea di progettare un prodotto per poi non destinarlo solamente ad una utenza, bensì a differenti. Il prodotto in quegli anni veniva pensato come prodotto con un solo colore, una sola identità, un prodotto rigido che nasceva e moriva all’interno del proprio ciclo tecnologico. Possiamo dunque affermare che l’avanguardia radicale trovò, paradossalmente, una sua realizzazione nella successiva produzione in serie con un concetto del tutto nuovo ed essenziale: quello del design primario o soft, ovvero la progettazione delle qualità più trascurate nella produzione industriale, come il colore, le finiture superficiali, le sensazioni tattili e in generale certe qualità estetiche non misurabili. Gli oggetti certi in quegli anni ci possono apparire come qualcosa di totalmente spensierato, un gioco, in realtà sono nati in un epoca nella quale la creatività veniva chiamata a sostituire il crollo di tutti quei sistemi di certezze progettuali.

In alto, Superstudio, Firenze In basso, “Walking City” Archizoom Associati, 1964

24


ARCHIZOOM


Archizoom Associati, Firenze

ANDREA BRANZI, GLIBERTO CORRETTI, PAOLO DEGANELLO, MASSIMO MOROZZI, DARIO E LUCIA BARTOLINI

Fondato a Firenze nel 1966 da Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello e Massimo Morozzi e successivamente composto anche da Dario e Lucia Bartolini, era il gruppo radical che si può quasi considerare tra i fondatori del movimento stesso, una delle voci più autorevoli. Si potevano considerare sopratutto amici, conosciuti all’interno della facoltà di architettura di Firenze durante le occupazioni e le attività politiche tipiche della fine degli anni ’60. Una Firenze, secondo Andrea Branzi, che mancava di proficui rapporti diretti con la modernità e questo avrebbe favorito in lui e nei suoi colleghi la volontà di creare un qualcosa che si ponesse al di fuori della cultura industriale. I corsi universitari tenuti presso la Facoltà di Architettura, avrebbero inoltre, fortemente influenzato la concezione di design che sarebbe poi stata alla base dei progetti dei gruppi precedentemente nominati16. Il corso di Visual design tenuto da Leonardo Ricci, ad esempio, trasmetteva un’idea di design che coinvolgeva vari sotto-ambiti, dal design dell’oggetto alla progettazione di ambienti, al packaging e alla grafica; ma educava anche gli studenti al forte legame che il design poteva mantenere con l’artigianato. Il docente infatti, presentava a lezione materiali di vario tipo, ferro, legno, cemento o pezzi di scarto a partire dai quali gli studenti avrebbero dovuto lavorare per la realizzazione dei loro progetti. Sebbene gli stimoli provenienti dai corsi universitari fossero stati fondamentali, per la formazione dei futuri designer, la loro opera sarebbe stata influenzata anche dai loro molteplici e vasti interessi, oltre che dai mutamenti in corso in campo sociale che inevitabilmente si rispecchiavano nell’ambito della progettazione architettonica e della produzione dell’oggetto.

A Firenze con Archizoom, Superstudio, Ufo, a Milano con Gaetano Pesce, Mendini, Ugo La Pietra, Ettore Sottsass, a Napoli con Riccardo Dalisi, si discute e prende vita la possibilità di una revisione radicale delle convenzioni razionaliste e futuriste che hanno fin ora caratterizzato il design italiano. 16

26


Una prima importante occasione per Branzi, Corretti, Deganello, Morozzi e Natalini, studenti appena laureati, sarebbe stata la mostra “Superarchitettura” organizzata a Pistoia nel 1966 e a Modena nel 1967. Per l’occasione era stato anche redatto un manifesto della Superarchitettura che recitava: “La Superarchitettura è l’architettura della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al superconsumo, del supermarket, del superman e della benzina super. La Superarchitettura accetta la logica della produzione e del consumo e vi esercita una azione demistificante”17 “Inventare - scriveva Natalini sulle pagine di “Casabella” – vuol dire fare ogni oggetto col più alto grado di creatività possibile (...) Durante il corso ci si proponeva di definire un’ipotesi di spazio interno come matrice di comportamenti. Uno spazio interno che non fosse più il negativo dell’architettura, un dentro contrapposto ad un fuori, ma un oggetto spaziale generatore di esperienze (...) Lo spazio interno acquista una nuova dimensione esistenziale capace di coinvolgere totalmente il suo fruitore ponendosi come campo di esperienza”18 Con la mostra Superarchitettura il gruppo di giovani laureati dava sfogo al loro estro giovanile, progettando oggetti la gran parte costruiti con le loro stesse mani, tra questi vi era anche quello definito un divano giovanile, un divano destinato ad ambienti giovanili, non si chiamava all’epoca ancora “Superonda” ma il termine super si voleva certo riferire all’atmosfera dei tempi, periodo in cui tutto stava diventando super.

“Superachitettura”, manifesto della mostra, Pistoia 1966. A. Natalini, Spazio di coinvolgimento, in “Casabella” n 326, 1968, p. 36 19 http://www.arte.rai.it/articoli/le-avanguardie-radicali-e-la-nuova-cultura-del-progetto/18753/default.aspx 17

18

27

L’industria di allora scopriva e usava con grande successo gli espansi, ciò ne prevedeva quindi la produzione e costi limitati di imbottiti modellabili in tutte le forme desiderabili, la Supernova veniva dunque progettata col fine d’essere realizzata con questo materiale che a partire da un grosso pane di resina espansa veniva tagliato secondo una linea molto sinuosa nel verso della lunghezza e diviso in due metà le quali formavano lo stesso pezzo. La “Superonda” nacque quindi da un operazione industriale la più semplice possibile: un taglio. La “Superonda” veniva considerata un oggetto, una cosa che serve essenzialmente per divertirsi.19 Parallelamente al lavoro nel campo del design, il gruppo conduceva una ricerca sperimentale sulla città, la cultura e l’ambiente che culminava con il progetto No Stop-City. Il progetto voleva essere una risposta a quell’atteggiamento secondo il quale l’architettura della civiltà tecnologica doveva essere un’architettura tecnologica, fatta come una macchina. Mostrava un luogo in continua espansione in cui non esisteva facciata architettonica e tutto il territorio era omogeneo, cablato e climatizzato. Il modello cui si guardava con intento critico era quello del supermercato per via della sua spazialità anonima. Gli Archizoom stessi nel presentare il progetto sulle pagine di “Casabella”, lo definivano come un gesto di utopia critica, strumentale in quanto ipotesi critica del sistema. Il progetto rappresenta la degradazione simbolica della città moderna, dove il design diventa strumento progettuale per modificare la qualità di vita e del territorio.



SUPERSTUDIO


Superstudio, Firenze

ADOLFO NATALINI, CRISTIANO TORALDO DI FRANCIA, ROBERTO MAGRIS, PIERO FRASSINELLI E ALESSANDRO MAGRIS.

”Il 4 Novembre 1966 l’Arno invase Firenze: fu la più disastrosa alluvione del secolo, con l’acqua che arrivò a quasi sei metri in Santacroce. Lo stesso giorno nacque il Superstudio, perché, ignaro dell’acqua che avanzava nelle strade, passai tutta la giornata disegnando il primo manifesto del Superstudio. Poi alle cinque l’acqua arrivò nel mio studio”20

Sempre a Firenze nel 1967 veniva fondato il gruppo Superstudio da Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Roberto Magris, Piero Frassinelli e Alessandro Magris. A differenza di Archizoom il gruppo Superstudio subì da parte del pop un influsso ben più evidente. Dalla mostra “Superarchitettura” prendevano vita alcuni progetti di Natalini che iniziò a produrre Cammilli, in particolare dal prototipo di M come morbido realizzato in legno, in cui ritornava la forma dell’onda, nasceva Sofo, una serie di poltrone e divani in poliuretano espanso, colorati in verde e rosa fluo, oppure in rosso brillante e rosa , organizzati come sedute componibili; come anche le lampade Passiflora, (1968) a forma di fiore, e Onda (1968), entrambe in perspex.

A Firenze con Archizoom, Superstudio, Ufo, a Milano con Gaetano Pesce, Mendini, Ugo La Pietra, Ettore Sottsass, a Napoli con Riccardo Dalisi, si discute e prende vita la possibilità di una revisione radicale delle convenzioni razionaliste e futuriste che hanno fin ora caratterizzato il design italiano. 16

30


“Il nostro problema è continuare a produrre oggetti grandi colorati ingombranti utili e pieni di sorprese per viverci insieme e giocarci e per trovarseli sempre tra i piedi in modo da arrivare al punto da prenderli a calci e sbatterli fuori, oppure da sedercisi sopra o appoggiare le tazze di caffè, ma in ogni modo non sia possibile ignorare. Come esorcismi per l’indifferenza. Cose che modifichino il tempo e il luogo e siano segnali per una vita che continua” 21

Secondo I Superstido bisognava fare della vita un be-in, e questo era possibile fornendo oggetti a funzionamento poetico che il fruitore poteva recepire ed usare come voleva. Questi perchè gli oggetti del design d’evasione erano carichi di proprietà sensoriali tanto da destare l’ispirazione per azioni e comportamenti. Ben presto anche la poetica dei Superstudio iniziava a mutare e l’entusiasmo e l’ottimismo dei primi anni iniziavano a trasformarsi in una riflessione più pacata. Da questo momento nascevano approfondimenti teorici e storici di notevole interesse che venivano pubblicati con una certa frequenza su “Domus”. “ In quegli anni divenne molto chiaro che continuare a disegnare mobili, oggetti e simili casalinghe decorazioni non era la soluzione dei problemi dell’abitare e nemmeno di quelli della vita e tantomeno serviva a salvarsi l’anima (…)Divenne anche chiaro come nessuna cosmesi o beatificazione era bastante a rimediare i danni del tempo, gli errori dell’uomo e le bestialità dell’architettura ...Il problema era quindi quello di distaccarsi sempre più da tali attività del design adottando magari la tecnica del minimo sforzo in un processo riduttivo generale. Preparammo un catalogo di diagrammi tridimensionali non continui, un catalogo d’istogrammi d’architettura con riferimento a un reticolo trasportabile in aree o scale diverse per l’edificazione di una natura serena e immobile in cui finalmente riconoscersi. Dal catalogo degli istogrammi sono stati infine generati senza sforzo oggetti, mobili, environments, architetture (…)”22

31

Il gruppo attivo fino al 1986 svolse attività di ricerca teorica sulla progettazione, indagando gli oggetti semplici della vita di ogni giorno e la cultura materiale extraurbana, concentrandosi sui bisogni elementari e sui desideri. Furono dai tempi universitari, un gruppo di amici che si riuniva per dare sfogo alle proprie idee creative, rimasero un gruppo compatto, anche in seguito alla morte di un membro, Roberto Magris che scomparve il 6 marzo del 2003, pochi giorni prima dell’inaugurazione della mostra al Design Museum di Londra. In questa mostra vennero radunati un centinaio di prodottii realizzati dal 1966 al 1973. Il Superstudio fu un movimento situazionista che, tramite strumenti classici quali la semplice progettazione, criticava la società, le idee architettoniche di quegli anni. Usando l’ironia e la metafora, riuscirono a dar voce ai loro pensieri dando sfogo alla loro creatività tentando incursioni nel campo della politica e della sociologia, andando incontro a un nuovo sistema libero dalle divisioni, dal colonialismo culturale e dal consumismo.


“L’ Architettura Interplanetaria”, Superstudio, 1972

A. Natalini, Dal Superstudio all’architettura di resistenza, Edizione dell’Arengario, 2011 Superstudio, Design d’evasione e d’invenzione, in“Domus”, n. 475, 1969 22 Superstudio, dal catalogo degli istogrammi la serie Misura, in “Domus”, n. 517, 1972 20 21

32


SUPERARCHITETTURA

Oggi la critica concorda nel collocare le origini del radical design italiano alla mostra “Superarchitettura” durante la quale venivano presentati prototipi di vari oggetti, dal grado di sperimentazione molto alto. Archizoom e Supertsudio, inoltre, nell’obiettivo di stimolare i sensi del visitatore, non si erano limitati ad esporre oggetti e maquette o plastici architettonici, ma avevano trasformato l’intero ambiente della galleria. La piccola mostra fu commissionata da Adolfo Natalini, già espositore nella galleria come pittore, il quale propose di partecipare ai suoi colleghi di università. La mostra venne pensata, discussa e costruita in un clima emotivamente straordinario; in quanto esattamente un mese prima dell’inaugurazione un alluvione colpì Firenze rendendola una città “alluvionata”, appellativo che durante quelli anni veniva comunemente utilizzato per le valli del Polesine. Lo spettacolo che si presentò agli occhi dei fiorenti la mattina del 4 Novembre del 1966, fu quello di un fiume maestoso che stava attraversando la città. Si presentava una città disordinata ma allo stesso tempo creativa, ricoperta di fango con rifiuti e carcasse d’auto, rifiuti dei quali i fiorentini si liberarono con sarcasmo tipico della popolazione che non si arrende davanti ad ogni difficoltà. In questo clima nacque la mostra, che non a caso dopo un mese ven inaugurata a Pistoia, città non invasa dall’inondazione dell’Arno. L’ingresso alla galleria d’arte Jolly2 in via San Bartolomeo a Pistoia, ospitava la mostra, ambientata all’interno degli spazi della galleria, più precisamente in un sottosuolo di due stanze. All’ingresso vi era un imbuto reso escamotage scenico con il compito di distrarre il visitatore dalle dimensioni ridotte del luogo, caratterizzato da pannelli di legno, inclinati a creare uno spazio cuneiforme e dipinti da Natalini in stile pop, con onde multicolori in rilievo e da nubi e raggi di sole che uscivano da una stretta apertura sul fondo nella quale era inquadrato un prisma con la scritta “Superarchitettura”.

33


Adolfo Natalini alla mostra Superarchitettura – Galleria Jolly, Pistoia 1966 – photo Cristiano Toraldo di Francia

34


Da qui si poteva accedere alla sala principale dove erano esposti i progetti di laurea di questi architetti insieme a sculture coloratissime realizzate con materiali diversi. Tra gli oggetti esposti c’erano un prototipo in legno (colorato e lucidato per ottenere una texture plastica) di chaise longue dalla forma ondulata, concepita da Natalini, che si ispirava a Le Corbusier, dipinta a strisce rosse e verdi; due prototipi in cartone dipinto per lampade ispirate alla moda hippy, una a forma di fiore allungato e una a forma di quadrifoglio; altri due modelli di lampade ottenuti tagliando un parallelepipedo secondo una linea ondulata. Negli schizzi degli Archizoom venivano mostrati, invece, diversi riferimenti alla cultura popolare e alla cultura artistica e del design di quegli anni, vi figuravano, infatti, juke box, scritte onomatopeiche provenienti dal mondo dei fumetti e spesso usate in pittura. Vi erano anche vari studi per sedute a onda ( l’onda era il motivo dominante di tutta la mostra ), per una poltrona con fiancate decorate a onde policrome e per divani fatti di due parti sovrapposte. Un estro creativo che non si soffermava solamente alla forma degli oggetti, ma dava loro anche un nome: Supersonik, La Mucca, SuperOnda e Per Aspera, erano i nomi degli oggetti protagonisti della mostra. In tutto la mostra durò circa due settimane e poi dopo lo smantellamento non ne rimase più traccia se non per il divano SuperOnda e la lampada Passiflora messi in produzione da Poltronova.

35

Con gli oggetti presentati si intendeva contestare i dettami di ergonomia, serialità e componibilità, tipici del razionalismo funzionalista e si volevano far entrare nell’ambiente domestico gli oggetti pubblicitari, luminosi e colorati della società del consumo di massa, come veniva confermato dagli stessi Archizoom, i quali in un articolo apparso sul “Corriere della sera” del 1967 affermavano: “IItentativo(eladefinizionediSuperarchitettura lo dimostra) è quello di inserire l’architettura all’interno di quei canali di consumo in grado di agire nel comportamento di massa. Con questa operazione si comincia a constatare la fine di un certo tipo di design illuminato, frutto di un certo tipo di intellettuale che crede nel mito dell’intelligenza e del buon gusto come salvataggio del mondo”. 23 A questa visione del good design i due gruppi contrapponevano un design acido che intendeva scrollare il mondo della cultura e quello della produzione, ma soprattutto il consumatore finale assuefatto e stereotipato. Sottsass nel presentare gli Archizoom su “Domus” li proponeva al lettore come un gruppo di bravi ragazzi molto efficaci nel gettare il panico “nel paese di cose della cultura e delle ideologie, ben organizzate, stratificate, sedimentate, stereotipate” . Gli Archizoom stessi nel presentare il loro lavoro nelle pagine successive facevano ricorso ad una metafora bizzarra ma anche immediata, per far capire al lettore l’intento dei loro progetti: “Il problema potrebbe essere quello di sapere se i gelati esistono perché l’uomo nell’universo ne ha bisogno, se esistono erché costano (...).


Ma forse il problema è un altro: avere una strada molto molto calda ed una gelateria molto molto fresca...e allora si mette sopra la coppa la panna, il biscotto, lo spicchio d’ananas, la ciliegia, la cannuccia, il cucchiaino, la bandiera e la cola-cola su tutto in modo che uno si serva del gelato in una maniera tale che quando se ne va rimane servito”. Non è difficile capire che con la metafora di questo gelato sovraccaricato di altri ingredienti ed elementi si intendesse indicare il mondo della produzione di massa ed i meccanismi di presentazione del prodotto sul mercato. A queste modalità di consumo che lasciavano sentire il consumatore appagato e inconsapevole della sua subalternità rispetto alle ragioni di vendita, gli Archizoom intendevano contrapporre il loro metodo: “Per noi il problema è quello di imbandirgli un gelato che gli faccia passare la voglia di mangiarne per tutta la vita (...) Oppure che diventi una fetta del mondo e che lo spaventi. (...). E allora pensiamo: bombemela, caramelle velenose, bugie quotidiane, false informazioni, insomma, coperte, letti, o cavalli di Troia che messi in casa distruggano tutto quello che c’è.

23

E. Sottsass, Arrivano gli Archizoom, in “Domus”, n. 455, 1967. Ibidem

24

Vogliamo introdurvi tutto ciò che rimane fuori dall’uscio: la banalità costruita, la volgarità intenzionale”.24 Con questi progetti gli Archizoom non volevano far altro che generare un nuovo tipo di approccio al progetto e mettere in discussione il sistema di certezze su cui si basava il design canonico per dare più spazio alla relatività e all’invenzione. Una successiva mostra del 1967 commissionata ad Andrea Branzi dalla Galleria comunale di Modena vedeva di nuovo protagonisti Archizoom e Superstudio che apre le porte a nuovi componenti quali Alessandro e Roberto Magris, Piero Frassinelli e dal 1970 al 1972 Alessandro Poli. Anche gli Archizoom aprirono le proprie porte a nuovi componenti quali Lucia e Dario Bartolini. Il gruppo dopo la mostra Superarchitettura partecipò alla IV Triennale con il progetto “Centro di cospirazione eclettica” e ad “Italy: the New domestic landscape” al MoMa di New York nel 1972, mostra sul design italiano con massimo riconoscimento della qualità della produzione italiana con allo stesso tempo una presa d’atto di una sua crisi d’identità.

36


ITALY: The New Domestic Landacsape

Nel 1972 anno in cui si stanno ultimando le Torri Gemelle, il MoMa di New York organizza una grande mostra di design italiano sostenuta da grandi partner quali: Alitalia, Abet Print, Ministero degli Affari Esteri Italiano, Istituto del Commercio con l’Estero, Eni, Anonima Castelli, Fiat, Olivetti. Nella quale il curatore Emilio Ambasz accosta i maestri e la nuova generazione di architetti e designer nata dai movimenti di avanguardia. L’evento segna un momento molto importante in quanto rappresenta un occasione di promozione internazionale del prodotto industriale italiano e al contempo una riflessione sui nuovi fermenti intellettuali nel campo progettuale che risentivano del clima politico e sociale che l’Italia stava vivendo. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, infatti, l’Italia interpretava il design non solo come momento progettuale finalizzato alla realizzazione di oggetti ma anche come strumento di critica alla società. Il prodotto diventava così uno strumento culturale, di contestazione, di riforma o anche di conformismo. Questo era un fatto assolutamente nuovo per il pubblico americano, che considerava il design solo sotto il profilo della produzione industriale. Italy: the New domestic landscape si può considerare una delle prime grandi mostre sul design italiano con un massimo riconoscimento della qualità del design italiano e con una presa d’atto di una sua crisi d’identità. L’impianto curatoriale di Ambasz, è costruito su una distinzione tra design “conformista”, “riformista”e “contestatario” e prevede inoltre la divisione tra “oggetti” e “enviroments” ovvero ambienti, a cui corrisponde nel catalogo la divisione tra saggi storici e critici. Gli oggetti in mostra sono una selezione di 180 pezzi italiani, mentre gli “ambienti”, vengono commissionati direttamente a Ettore sottsass, Koe Colombo, Gae aumenti, Mario Bellini, Alberto Rosselli, Marco Zanuso e Richard Sapper, Gaetano Pesce, Ugo la Pietra, Gruppo Strum, Arhizoom, Superstudio e 9999 e avevano come unico vincolo progettuale quello di essere inservibili in un modulo di 480x480 cm circa. Erano quindi presenti tutte le voci positive e negative della cultura progettuale: i sistemi razionali d’arredo, gli oggetto Pop e Dada ed i mobili industriali.

37


La mostra è un occasione per promuovere il prodotto industriale italiano, molti degli oggetti esposti entreranno successivamente a far parte della permanente del museo, è anche segnale di fermento ideale in campo progettuale che ne risente del clima politico degli anni ’70. Nell’introduzione del catalogo, più di 400 pagine, in cui compaio descrizioni dell’environment, l’elenco dei prodotti degli anni ’60, saggi di storici e critici del design come Paolo Portoghesi e Leonardo Benevolo, il curatore Emilio Ambasz descrive così il ruolo dell’Italia dell’epoca “Un micromodello in cui una vasta gamma di possibilità, le limitazioni e gli aspetti critici del design contemporaneo sono messi a fuoco in modo molto nitido. Molte tematiche dei designer contemporanei nel mondo sono ben rappresentate dai diversi e spesso opposti approcci che si sviluppano in Italia”.25 Si parla di progettazione e progetto in varie scale, di progettazione urbana, si può considerare un’ esposizione che è riuscita a toccare l’oggetto di design come la società come la società industriale e la produzione allo stesso tempo. Come già affermato in precedenza, sul catalogo il curatore sottolinea le tre tendenze del design italiano di quegli anni: la tendenza “Conformista”, “Riformista” e “Contestativa”. Esiste il design che opera dentro il sistema economico industriale e propone oggetti di cui la gente ha la necessità per ragioni funzionali. I “Conformisti” hanno preso la forma della società, i “Riformisti” proponevano un modello di tipo “alternativo” delle possibili maniere d’esistere, volevano riformare operando dentro il sistema ma allo stesso tempo facendo un salto nel vuoto, un salto alla ricerca della qualità. I “Contestativi” pensavano che il design non poteva più far niente, doveva arrivare prima una soluzione di tipo politico, solo dopo si poteva far qualcosa. Con la mostra si voleva presentare una cultura in quanto il design in Italia veniva visto come parte della cultura nazionale, si vedeva il prodotto anche all’interno dell’industria come evento culturale.

25

A.Branzi, Il Design Italiano, Electa, 1964-2000

38


1.6

I Radicali uniti Global Tools

La mostra del 1972 a New York viene vista oggi dalla critica come il momento di implosione dell’avanguardia radicale, che entrava in una fase di involuzione teorica. Nonostante ciò, il 1973 si apriva con un avvenimento importante, si trattava della fondazione del sistema dei laboratori Global Tools. Ad annunciare l’evento sarebbero state le pagine di “Casabella” sul cui numero di maggio sarebbe stato pubblicato il documento della fondazione avvenuta il 12 gennaio di quell’anno presso la sede della stessa rivista. Gli architetti ed i gruppi che vi partecipavano posavano per una fotografia di gruppo, pubblicata sulla copertina della rivista ed erano: Archizoom, Remo Buti, Alessandro Mendini, Riccardo Dalisi, Ugo La Pietra, 9999, Gaetano Pesce, Gianni Pettena, Adalberto Dal Lago, Ettore Sottsass jr.27, Superstudio, Ufo e Zziggurat. Il documento recitava: “ La Global Tools si pone come obiettivo di stimolare il libero sviluppo della creatività individuale. I corsi che si terranno forniranno le nozioni base necessarie all’uso degli attrezzi e degli strumenti esistenti nei laboratori, nonché informazioni su tecniche specifiche apprendibili in altri luoghi collegati in modi diversi alla Global Tools. L’insegnamento avverrà attorno a temi quali: uso dei materiali naturali e artificiali, sviluppo delle attività creative individuali e di gruppo, uso e tecniche degli strumenti di informazione e comunicazione, strategie di sopravvivenza.

39

La Global Tools si organizza attraverso un comitato tecnico (formato dai rappresentanti dei firmatari del presente documento) che si occuperà della definizione della didattica e del programma funzionale. In successivi avvisi, che saranno pubblicati periodicamente su ‘Casabella’ e ‘Rassegna’, verranno comunicati la tipologia didattica, l’arco delle ricerche, il calendario e l’organizzazione della scuola”.28. Alla presentazione del gruppo seguiva un commento di Alessandro Mendini, il quale riteneva la fondazione come l’evoluzione delle esperienze di design alternativo che da tempo la rivista da lui diretta (Casabella) si impegnava a documentare. Sosteneva, inoltre, che sarebbe stato importante cogliere il messaggio, che si fondava sulla fiducia nelle capacità creative dell’uomo, che era perfettamente in grado di partecipare alla costruzione del proprio ambiente, senza doversi rivolgere ad alcun rappresentante creativo.


“Global Tools Bulletin”, no.1 (cover), 1974

Sott sass a partire dal n. 375 di “Casabella”, iniziava la pubblicazione della rubrica Per ritardato arrivo dell’aeromobile. Sul n. 377 pubblicava l’articolo dal titolo “C’è un posto dove provare’” e sul numero successivo l’articolo “Creatività pubblica”, in entrambi affrontava il tema della creatività, sostenendo che a differenza di quanto pensato dalla quasi totalità della società, la creatività non era facoltà in possesso di pochi, o benedizione privata dell’artista e che ognuno secondo le proprie attitudini doveva essere stimolato a creare o quantomeno provare a fare, a realizzare: “Mi piacerebbe trovare un posto dove provare insieme a fare cose con le mani o con le macchine,in qualunque modo, non come boy-scout. E neanche come artigiani e neanche come operai e ancora meno come artisti, ma come uomini con braccia, gambe, mani, piedi, peli, sesso, saliva, occhi e respiro e farle non certo per possedere cose o tenerle per noi e neanche per darle agli altri, ma per provare come si fa a fare cose” (“Casabella” n 377, 1973). 28 Global Tools., Documento 1, in “Casabella” , n. 377, 1973 p. 4 27

40


Scriveva Mendini: “ Interessati come siamo ai problemi a lungo termine, la cui corretta risoluzione spesso è opposta a quella dei problemi a breve termine, crediamo al valore della futura attività del ‘sistema di laboratori per la propagazione dell’uso di materie tecniche naturali e relativi comportamenti’. Terminologia, assunti, metodi e strutture sono curiosamente semplici: come di chi intende colmare la distanza alienante che si è stabilita fra il lavoro della mani e quello del cervello. Concludeva definendo la Global Tools non come una contro- università, ma come “la riproposta primaria di equilibri nella creatività umana per tutti”.29 La Global Tools non era altro che uno strumento della strategia dei tempi lunghi e specificava che: “La lavorazione manuale e delle tecnologie artigiane (o povere) che la Global Tools promuove non si pongono assolutamente come alternativa alla produzione industriale, ché sarebbe ripiombare nelle inutili polemiche di sessanta anni fa, ma semmai servono a definire diversamente l’area della produzione stessa, non più intesa come meccanismo di riproduzione dell’intera fenomenologia degli oggetti e delle funzioni che ci circondano, ma come settore specifico e limitato che serve e stimola un’area non provvisoria destinata alla creatività individuale e alla comunicazione spontanea”30. Possiamo quasi definire la Global Tools una sorta di agenzia che organizzava laboratori di ricerca e sperimentazione aperti al pubblico cercando di non disperdere quelle che erano le esperienze che arrivavano dai radicali ma di organizzarle, di avviarle su percorsi diversi affrontando la tematica del cambiamento della società, ed in particolare quello della creatività di massa.

41

Definendosi come un sistema di laboratori per la progettazione e la propagazione dell’uso di materie tecniche naturali e relativi comportamenti con l’obiettivo di stimolare il libero sviluppo della creatività individuale. Si propone come luogo d’incontro, di confronto e di comunicazione dove il lavoro di ricerca si sviluppa secondo aree disciplinari attraverso seminari specifici sulla costruzione, sulla comunicazione, sulla sopravvivenza e sulla teoria. Nata come momento di collegamento e di ricerca sulle tematiche di una creatività di massa nella società del tempo libero, non entrò mai funzione, e il suo fallimento coincise con la conclusione del momento più florido ed utopistico della sperimentazione radicale.


Alchimia A seguito del fallimento della Global Tools nasce a Milano nel 1976 Alchimia, progettazione d’immagini per il XX secolo, con l’intento di individuare una nuova di progettazione, e di definire un design in cui gli oggetti o le installazioni fossero portatori di stimolazioni visive, pensati come prototipi destinati a una produzione che proponesse esempi di nuove maniere di praticare il design, nuove idee sui materiali, sul colore, sulle citazioni stilistiche e i riferimenti ideologici. Era un vero e proprio laboratorio artigiano di ricerca, nel quale si applicava una nuova sensibilità (introdotta dalla sperimentazione radicale) alla progettazione e realizzazione di oggetti, privilegiando la funzione estetica e culturale a quella funzionale. Nel 1978 Alchimia presenta la prima collezione di mobili, seguita nel 1979 dalla collezione “Bau.Haus uno” e nel 1980 dalla “Bau.haus due” che vedeva la collaborazione dei più importanti esponenti del design degli anni del radicale, come Sottsass, Branzi, Mendini, UFO, Dalisi, Raggi, oltre a De Lucchi, Paola Navone e Daniela Puppa, e altri esponenti della seconda generazione. Quando nel 1981 Ettore Sottsass lascia il gruppo per fondare Memphis, Alessandro Mendini assume un ruolo cruciale soprattutto con la messa a punto dell’idea secondo cui il design portato avanti da Alchimia deve proporre un nuovo modo concreto per realizzare gli oggetti. In questo modo il prototipo e la piccola serie, con le loro qualità artigianali, diventano una conferma del valore sperimentale del progetto e non una sua premessa teorica.

42


Memphis

Altro importante avvenimento che succede al gruppo Alchimia e che ci porta sempre più sulla via dell’autoproduzione è sicuramente il collettivo creato sotto il vigile occhio di Sottsass con il nome di “Memphis”. Nasce nell’inverno ‘80-’81 nella testa di un gruppo di architetti e designers milanesi come necessità urgente di reinventarsi un modo di fare design, come voglia di progettare altri spazi, di prevedere altri ambienti, di immaginare altre vite. Non è nata come manifesto, una dichiarazione formale o come piano strategico di un gruppo di persone, ma come una sorta secessione da Alchimia, quella di Sottsass, ed è stata all’inizio una secessione silenziosa, un allontanamento, una pausa per raccogliere le idee. Una pausa che doveva durare ben poco. Nell’ottobre dell’ ’80 a Sottsass venivano fatte due proposte. La prima arrivava da Renzo Brugola, suo vecchio amico e proprietario di una falegnameria, il quale si dichiarava disponibile a “fare qualcosa insieme come ai vecchi tempi”, la seconda da Mario e Brunella Godani, titolari di uno Showroom nel centro della città, i quali avevano chiesto per il negozio qualcuno dei suoi “nuovi mobili”. Sottsass propone quindi ai Godani di ospitare nell’autunno ‘81 una mostra di mobili molto aggiornati disegnati non solo da lui ma da colleghi e amici e proponeva all’amico Brugola di produrre i mobili, naturalmente gratis. Brugola e i Godani si dichiararono subito disponibili, di Memphis, a quei tempi, non si parlava ancora. Il nome Memphis deve essere nato la sera dell’11 dicembre a casa di Sottsass.

43

La musica del giradischi proponeva Bob Dylan con la sua “Stuck inside of Mobile with the Memphis Blues again” e dato che nessuno si occupava di cambiare disco, Bob Dylan continuava a intonare le note del singolo “the Memphis Blues again” fino che a un certo punto Sottsass decise il nome e a tutti furono d’accordo. Secondo il quaderno di Michele De Lucchi quella sera erano presenti: Ettore (Sottsass), Barbara (Radice), Marco (Zanini), Aldo (Cibic), Matteo (Thun), Michele (De Lucchi), Martine (Bedin). Nei mesi precedenti alla mostra il collettivo si è occupato a 360 gradi della produzione e della realizzazione della mostra, ovvero: fare i disegni tecnici dei mobili, produrre i mobili, trovare un produttore di lampade, produrre le lampade, trovare un produttore di ceramiche, produrre le ceramiche, convincere Abet Print a produrre nuovi laminati plastici, trovare un produttore di stoffe, produrre le stoffe, comunicare con gli architetti e designers stranieri in ritardo con i disegni, fotografare i mobili, inventarsi la grafica perché non c’erano i soldi per pagare uno studio, disegnare due posters, un invito, un catalogo, una cartella stampa, buste e carta da lettera, fare un libro, trovare i soldi e l’editore per il libro, disegnare l’allestimento, scrivere a giornalisti e riviste. Tutto senza soldi e tutti con un altro mestiere full-time.


Si sono offerti sul mercato come merce e si sono sempre serviti per la diffusione di tutti i circuiti possibili e disponibili, hanno esposto in musei e in gallerie d’arte ma anche in showrooms e grandi magazzini, in boutiques o garages di periferia. I loro mobili sono finiti su libri di storia del design ma anche dentro spot pubblicitari televisivi. Tutti i pezzi Memphis (tranne i vetri soffiati), sono stati progettati per la produzione industriale: se sono prodotti in piccola serie è solo perché la richiesta è limitata. Nonostante questo, si è parlato a proposito di Memphis come di revival dell’artigianato in alternativa alla produzione industriale, alimentando un grosso malinteso. Il fatto è che il problema dell’alternativa artigianato-industria come sistema di produzione oggi non esiste più.

Con la nascita dell’industria il mondo dell’artigianato si è spaccato in due. Da una parte il cosiddetto “artigianato artistico” è sopravvissuto come depositario di certi valori tradizionali (il fatto a mano, il pezzo unico, ecc.), sempre più estraneo all’innovazione. Dall’altra l’artigianato si è sviluppato sia come fase specializzata della progettazione per l’industria, sia come area sperimentale aperta a nuove tipologie che la produzione in serie non potrebbe programmare data la rigida struttura tecnica e produttiva, sia come fase specializzata di un certo tipo di produzione molto avanzata e sofisticata.

LIBRERIA CARLTON, Sottsass jr (1981)

“La qualità Memphis non interessa e non è dato sapere quanto duri. Si può dire che è una qualità che prevede esattamente il contrario della durata, prevede cioè autodistruzione, annientamento, sparizione, che è anche la formula magica del nostro destino, della vita che per scintillare deve estinguersi e deve liberare, come materiale radioattivo, i brividi e i presagi della fine” .

44


Enzo Mari: un radical differente

Gli anni a cavallo tra i Sessanta ed i Settanta in Italia sono stati percorsi come abbiamo visto da numerosi e differenti fremiti, in particolare per quel che riguarda il campo dell’architettura e del design. Mari nasce a Novara nel 1932 e ha un percorso formativo quasi da autodidatta: si iscrive infatti nel 1952 alla Accademia di Brera, ma non porta a termine gli studi. Artista che ama sperimentare più che partecipare direttamente alle polemiche del tempo, per esempio al dibattito tra neorealismo e informale. Già negli anni ‘50 è coinvolto in una personale ricerca sulla verifica dei fenomeni percettivi e sull’individuazione dei linguaggi più appropriati alla loro comunicazione.

Il primo approccio al design: artigiano o industria? Sin dalla fine degli anni Cinquanta Enzo Mari inizia ad avvicinarsi al design con lo spirito esplorativo che lo contraddistinguerà. L’interesse per il settore della progettazione dell’oggetto è stato interpretato in seguito dalla critica come un passaggio naturale, in cui non vi era rottura con la progettazione artistica, ma continuità. “Per dare prova dell’interrelazione continua tra le due aree – scrive Arturo Carlo Quintavalle – che sono divise, dico quella della produzione artistica e quella per la moltiplicazione industriale, divise soltanto in relazione ad una ipotetica differenza, tra oggetti non funzionali all’uso e oggetti funzionali all’uso”.32 Dopo la realizzazione dei primi oggetti33, tra cui alcuni vetri per Danese e 16 animali, giocattolo elaborato per la “Rinascente”, si occupa attivamente di diverse forme di

45

artigianato. Nel 1963 coordina il gruppo italiano di “Nuova Tendenza”, organizzandone nel 1965 la Terza Manifestazione a Zagabria; nel 1964 è presente alla Biennale di Venezia. Dal 1963 al 1965 insegna metodologia della progettazione alla Scuola Umanitaria di Milano e nel 1970 al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Nei primi anni ‘70 si precisano le sue scelte progettuali: in particolare, per quanto riguarda il design, si schiera con le tendenze più radicali che mirano a ridurre la separazione funzionale tra produttori e consumatori di cultura, studiando e favorendo forme diverse di creatività spontanea. Sempre degli anni ’70 la proposta per la progettazione di un divano letto. Nonostante fosse restio alla proposta, in quanto non era di suo gusto progettare oggetti da lui considerati volgari, accettò la proposta pensando alle abitazione delle persone poco agiate e decise di progettarlo ma solamente trovando una soluzione che permetta la trasformazione da divano a letto in poche e veloci mosse. Un oggetto economico per persone non agiate, con la maggior qualità possibile e resistente.


Enzo Mari

Vennero prodotti circa 10.000 pezzi, venne considerato il divano letto col più basso costo sul mercato, ma nonostante ciò i negozianti non lo vollero comprare, ritenendolo un fallimento. Arrivato alla conclusione che il suo lavoro non aveva senso, perché nessuno capiva quello che produceva, Mari pensò di poter aiutare la gente a capire. Pensò quindi che se un individuo provasse da se a costruire un oggetto, imparerebbe qualcosa e qualora tal individuo dovesse comprare un tavolo in futuro (prodotto industrialmente), controllerà, avendo lui stesso costruito in precedenza, che una gamba non balli. Realizzò quindi una ventina di modelli di armadi, tutti con legno inchiodato, produsse i modellini e si fece aiutare per la realizzazione da un azienda, la Simon. Spiegò ai colleghi designer il perché di questa sua scelta, designer e artisti lo accusarono quasi di fascismo in quanto, secondo loro “un designer deve produrre

oggetti per far star comoda la gente, e non per farli lavorare”. Promise di inviare il libretto con le istruzioni a tutti colore che gli avrebbero pagato le spese postali, ricevette quindi un migliaio di richieste, alcune di queste arrivavano anche dall’Inghilterra accusandolo di essere un genio. La gente semplice capì.

A. C. Quintavalle, Enzo Mari, Università di Parma, Csac, 1983 Elabora più di 1600 progetti per industrie italiane e straniere tra cui: Danese, Olivetti, Boringhieri, Adelphi, Driade, Le Creuset, Artemide, Castlli, Gabbianelli, Comune di Milano, Interflex, Zanotta, Fantini, Agape, Alessi, Zani e Zani, K.P.M., Robots, Ideal Standard, Arnolfo di Cambio, Magis, Rosenthal, Frau, Thonet, Daum, Muji. 32 33

46


SEDIA 1 CHAIR Enzo Mari Artek, 1974

“L’hobby non è altro che la degradazione della cultura, cioè un fare delle cose a livello imitativo, senza conoscere profondamente quello che si sta facendo”

La sua Proposta per un’autoprogettazione (1974), consiste in un pacchetto che fornisce strumenti e materiali elementari, oltre che alcuni carta modelli per costruire mobili in legno in forme diverse. Il suo intento è quello di comunicare anche ai non addetti ai lavori, non solo come si può costruire un tavolo con qualche asse di legno standard, ma soprattutto perchè lo si costruisce in quel modo e perchè quel determinato pezzo è usato in quel determinato punto e non viceversa. Il suo è un intento didattico-progettuale, ben lontano dal volere essere un precursore di IKEA che voglia diffondere la pratica del fai-da-te da un punto di vista hobbistico. Si tratta di voler far capire alle persone l’importanza della pratica del progetto facendole ragionare autonomamente, toccando con mano il progetto stesso. Non aveva nulla a che vedere con il do-ityorself, infatti se questo veniva concepito come un hobby, quello di Mari era un lavoro serissimo: “L’hobby non è altro che la degradazione della cultura, cioè un fare delle cose a livello imitativo, senza conoscere profondamente quello che si sta facendo (...) Questi oggetti – diceva inoltre Mari – non vogliono essere alternativi dell’industria, ma la loro realizzazione vuole essere una sorta di esercizio critico alla progettazione (...) nel fare l’oggetto, l’utilizzatore si rende conto delle ragioni strutturali dell’oggetto stesso, per cui in seguito migliora la sua capacità di valutare criticamente gli oggetti proposti dall’industria”35

47

35

Enzo Mari da http://www.raiscuola.rai.it/articoli/enzo-mari-lezioni-di-design/7105/default.aspx


La proposta prevedeva una tecnica elementare in modo tale che ognuno poteva porsi di fronte alla produzione attuale con capacità critica, chiunque ad esclusione di industrie e commercianti, poteva utilizzare questi disegni per realizzarseli da sé. Mari sperava che con questa produzione poteva rimanere in divenire e chiese a tutti coloro che costruivano i suoi mobili di inviare delle foto presso il suo studio, in piazzale Baracca 10 a Milano. “Col lavoro di una giornata, massimo due, si riesce ad arredare un intero appartamento, letto, sedie, tavoli, armadio, libreria, scrivania, e in più una panca. Costo, sulle 40 mila lire per mobile, se si ricorre a listelli di legno già squadrati e lisciati, 20.000 lire, forse anche meno, se si usano assi di legno grezzo che occorre segare e rifinire. La proposta è di un designer milanese, Enzo Mari, che offre, gratis, un catalogo con una ventina di disegni che rappresentano un valido suggerimento per chi voglia costruirsi una casa tutta da solo…” così scriveva Manzini in un articolo nel 1974, “…il fatevelo da soli di Enzo Mari, ha addirittura l’accento di una sfida, o di una provocazione, o quanto meno vuole essere una spinta a riflettere, e in maniera critica, sugli oggetti che affollano il nostro orizzonte quotidiano.”36

Il designer è, secondo Mari, colui che realmente dà origine alla produzione e deve produrre al servizio della società, è colui che funge da tramite attivo tra chi materialmente realizza il prodotto (l’artigiano/industria) e chi poi lo utilizza (la società). Questa prospettiva di pensiero condanna inevitabilmente omologazione di massa e il consumismo, criticando l’assolutismo delle leggi di mercato e del marketing, percepito come un radicale stravolgimento di valori. Mari rifiuta categoricamente una progettazione per l’industria asservita al marketing perché accettare una simile condizione significherebbe togliere al designer la sua dignità di filosofocreatore per renderlo un banale riproduttore di gusti e tendenze di massa. Insiste sulla necessaria consapevolezza del processo di creazione e progettazione da contrapporreal“degradodellaparcellizzazione”, accostandosi a una concezione del lavoro vicina all’artigianato piuttosto che all’industria. Si interroga sulla possibilità che il design possa davvero essere un prodotto industriale e si risponde che, se anche fosse solo un sogno, è un sogno che, quando possibile, va comunque perseguito.

Teorizza una vera e propria filosofia di fondo del progettista, la sua concezione di designer è legata a dei principi di responsabilità sociale, prevede una figura produttiva che abbia una visione da proporre, che metta a disposizione se stesso per fornire idee di qualità e prodotti con “contenuti d’onestà progettuale”.

36 37

G. Manzini, in “Paese sera”, 1974 C. Favento, Enzo Mari, (tra) etica e design, da Fucinemute http://www.fucinemute.it/2006/02/enzo-mari-tra-etica-e-design/

48


1.7 Gli anni ‘80 Gli anni Ottanta coincidono con un periodo di grande ricchezza produttiva che aggiunge all’Italia intensità e libertà linguistica del tutto particolare. Le passate esperienze di Alchimia e Memphis, connotano con estrema ricchezza il panorama italiano, influenzano il design internazionale, così che per la prima volta si assiste a una vera e propria esplosione di vitalità sperimentale anche in altri paesi d’Europa. Come già visto in precedenza, oltre alla ricerca del gruppo di Alchimia, l’esperienza Memphis, (con il guru Sottsass e Andrea Branzi, già fondatore negli anni Sessanta del gruppo fiorentino Archizoom), opera nel disegno del mobile una rivoluzione epocale. Infatti se Alchimia rappresenta soprattutto una riscoperta concettuale, quasi fine a sé stessa, delle forme e dei linguaggi della decorazione, Memphis si propone fin dagli esordi come un’intenzione di rinnovamento, una proposta di nuovo design che, con totale libertà nell’uso dei colori, dei materiali e nel loro accostamento, inconsueto, intendeva emanciparsi da ogni concezione dogmatica. Oggetti diversi e un uso diverso dell’oggetto, mobili protagonisti che decidono la loro funzione e si accostano a ogni ambiente e ogni stile, che si permettono di ignorare ogni precedente modello culturale.

POLTRONA PROUST Alessandro Mendini 1979

49


Si affaccia così sulla scena del design una nuova generazione emancipata rispetto alle problematiche di carattere storico, alle polemiche o alla necessità di dimostrare alcunché circa il proprio ruolo; interessata invece a confrontarsi operativamente, sperimentando nella pratiche le possibilità offerte dai materiali e dalle nuove tecnologie. Come ogni “rivolta giovanile”, si muove fra protesta e conformismo, fra provocazioni e ossequi. L’instabilità è seguita dalla stabilizzazione presentando così un numero infinito di opposti. Si ha la tendenza a definire questo fenomeno come pluralismo, l’aspetto positivo è che durante gli anni ‘80 è stato prodotto molto di bello, nuovo e genuinamente notevole. Il decennio è stato ricco di colore, creativo e altamente produttivo nei termini di design. Sebbene abbiamo affermato che i primi progetti di design autoprodotto nascono tra la metà degli anni ‘60 e ‘70, è sicuramente la seconda metà degli anni ‘80 che riceve il primo autentico riconoscimento del pubblico e la conseguente consacrazione del mercato. Da un lato quindi gli anni ’80 presentano un design che rielabora la cultura pop che proveniva dalle contestazioni dei movimenti radical (Archizoom, Superstudio…) e nel lavoro di alcuni maestri come Sottsass e Mendini. Possiamo considerarli gli anni dell’edonismo, dove il risultato è la messa in produzione di oggetti caratterizzati da colori sgargianti e nessun intento intellettuale. Questi nuovi designer proseguono su questa strada cercando un rapporto del tutto intimo e infantile con l’oggetto, la funzione diventa secondaria mentre il ruolo principale è costituito dal rapporto emotivo con l’oggetto. Dall’altro lato il progetto si stacca totalmente dalla visione politica e sociale come invece avveniva in precedenza negli anni dei grandi maestri del design. Esplode quindi il fenomeno dell’ autoproduzione un fenomeno che prima 38

era assolutamente marginale ora diventa quasi strutturale e imprescindibile. Il designer può scegliere così di vivere in una sorta di autarchia produttiva ponendosi nei confronti dell’industria come alternativa ad essa, oppure utilizzando il sistema autoproduttivo per lanciare nuove idee. Come afferma Tommaso Bovo in un suo articolo, giunti a questo punto si trovano diverse figure di designer che iniziano ad autoprodurre: i Post Maestri, gli Alchimisti e gli Art Design. Con Post maestri intende i figli dei Maestri, che proprio perché figli vivono un rapporto conflittuale con i loro padri, conservando alcuni principi metodologici ma partendo da presupposti completamente nuovi. Questa categoria per potersi emancipare ha dovuto contestare gran parte degli schemi ideologici che ispiravano la produzione del design degli anni ’60 e ’70. La forma dell’oggetto rimane sempre il risultato della sua utilità ma l’estetica non è più svincolata dalla funzione. Per Alchimisti intende invece tutti quei designer che fanno della sperimentazione sui materiali la loro base progettuale. Sono spesso portati all’autoproduzione e comunque alla realizzazione di piccoli numeri ma si differenziano perché il loro non è un fine speculativo, gli oggetti che producono sono funzionali, risolvono problemi concreti. Con Art Designer invece, il progetto diventa momento di sperimentazione e riflessione. Proprio come avviene nell’arte, il processo progettuale porta ad oggetti con un alto valore speculativo. La produzione di massa non è il fine ultimo di questo tipo di design. Il sistema naturale per la realizzazione dell’Art design è per l’appunto l’autoproduzione, che permette pezzi numerati, elevata sperimentazione e grande controllo.38

T. Bovo, Cos’è il design oggi? è solo una confusione di pensieri e oggetti inutili? , da Frizzi Frizzi http://www.frizzifrizzi.it/2016/04/12/design-oggi/

50


ONE OFF Studio


Ron Arad

Osserviamo ora il fenomeno della completa libertà progettuale come la scintilla dell’autoproduzione che consente ai giovani designers di dare avvio alla propria attività senza bisogno di nulla se non della propria creatività e del proprio spirito di intraprendenza. Si registrano le prime scelte consapevoli di design Do it yourself che raggiungeranno la maturità (uscendo dal mondo dell’autocommittenza) qualche anno più tardi, con gli anni ‘90. Un esempio sicuramente da citare è quello di Ron Arad e del suo One Off Studio. Nato nel 1951 a Tel Aviv, studia alla Jerusalem Academy of Art e dal 1974 all’Architectural Association di Londra, dove poi insegnerà tra il 1979 e il 1981, anno di fondazione di One Off. Arad vive in una Londra ribelle ed iconoclasta, nella quale muove i primi passi, e che certamente contribuisce a conferirgli uno spirito altrettanto ribelle ed anticonformista. Appartiene a quella scuola di progettisti che, come già affrontato prima, hanno superato le problematiche di carattere storico e sociale ma sono bensì più mirati a esplorare le possibilità offerte dai nuovi materiali e dalle nuove tecnologie. Gli edifici, come gli oggetti di Arad, si piegano e si curvano, si innervano e si snodano, apparentemente senza sforzo, anche quando le forze in gioco sono molto rilevanti, e si richiede grande impegno e potenza per poterli indurre a seguire la linea di progetto. 52


ROVER CHAIR Ron Arad, One Off 1980

“L’hobby non è altro che la degradazione della cultura, cioè un fare delle cose a livello imitativo, senza conoscere profondamente quello che si sta facendo”

Arad sembra tradire la volontà costante di ridurre il tenace a malleabile, forgiare, quasi più che costruire e progettare: il design secondo lui è “l’atto di imporre il proprio volere ai materiali, in modo che svolgano una funzione”. 39 Ma nella torsione imposta (qualche volta propriamente fisica) si intuisce il senso della sfida, la ricerca della sorpresa e del divertimento, di una magia. Spesso riuscita, sino al colpo virtuosistico. È certamente uno dei fattori creativi del panorama contemporaneo del design: il suo approccio, il suo segno lo caratterizzano in modo decisivo. 40 Una delle più grandi capacità di Arad è quella di saper declinare una forma, un prodotto secondo segmenti di mercato eterogenei, riuscendo allo stesso tempo a soffermarsi su poche matrici progettuali le quali però, come una sorta di stilista, utilizza fino lo spasimo, cambiando il “vestito”, la tecnologia, trasformando pezzi unici ed edizioni limitate in prodotti di massa, sedute in mensole, vasi in lampade, sculture in porta bon bon. Nel 1981 apre lo studio, il One Off, in collaborazione con Dennis Groves, in una cantina di Sicilian Avenue, iniziando così la sua attività di designer scultore che modella da solo i propri pezzi e li rivende. Lungi dall’essere un semplice luogo di lavoro la sede del One Off traduce la ricerca del suo progettista, divenendo nel tempo molto di più di un ufficio, ma anche showroom, negozio, galleria, laboratorio, atelier, il luogo dove Ron Arad pensa, progetta, produce e vende.

53

39

R.Arad, “Ron Arad talks to Matthew Collings” – Ed. Phaidon


I primi prodotti autoprodotti vengono realizzati con i Kee Klamps, un sistema di giunti in acciaio brevettato negli anni trenta del Novecento, che Ron assembla in forma di letti, librerie, tavoli, armadi. Erano economici e facili da montare. “C’era un catalogo con 111 snodi in undici misure diverse. Ho imparato a usarli come lettere di un alfabeto. I tubi possono essere facilmente tagliati a misura. Avevo questi materiali e la mia matita ed era come se queste strutture venissero direttamente fuori dalla matita. La gente era emozionata nel raccontarmi come era la loro camera da letto e io pensavo alla migliore soluzione per loro, scaffalature, mensole, letti, tavoli, qualsiasi cosa (...) Avevo la mia libertà d’azione e andavo avanti ma quando ai party mi chiedevano cosa facessi era difficile rispondere ‘sono un architetto’. Così ebbi una crisi di identità e mi avvicinai al design. One Off significa che da solo puoi progettare tutto. Ecosì è stato” .42 Uno dei primi esempi di riciclo creativo si può considerare la Rover Chair, sedile di Rover 2000 montato su una struttura tubolare Kee Klamp, l’intento era quello dare nuova vita agli oggetti già esistenti, contaminando ambiti d’uso e materiali in maniera del tutto innovativa e spiazzante. A chi gli chiede se si considera più designer o artista Arad risponde “un giocatore di ping pong”, perché “la distinzione non è affatto importante. Quello che conta è se è interessante o noioso, guardandolo, toccandolo, vi dà un senso di piacere oppure no? Non è necessario sapere che cosa sia!”43 Con Ron Arad si è al limite tra arte, artigianalità e design, sebbene l’arte sia diversa dal design e viceversa, Ron Arad è riuscito, prima che la Design Art la rendesse una combinazione di moda, a stabilire connessioni tra le due discipline che, anche quando sembrano avere forme in comune, vengono connotate da significati diversi.

In aggiunta l’arte produce pezzi unici e il design, almeno in teoria, produzioni seriali anche se in realtà il design italiano ha dimostrato che non sempre i numeri sono quelli della serie industriale e spesso i maestri dell’ltalian Design agiscono (ed agivano) ai confini con l’artigianato. Il contributo artistico in Arad viene evidenziato dalle serie limitate e dai pezzi unici, firmati, e assemblati da lui e ciò non cessa neanche quando il mondo della produzione gli mette a disposizione le tecnologie più avanzate. Possiamo dunque parlare anche di design da collezione? Come si parte poi dallo staccare un sedile da un auto, collocandolo su un telaio, chiamarlo “Rover Chair”, in un gesto un po’ dada/surrealista, per giungere alle aste di design e modernariato, alle gallerie ed ai Musei (magari progettandoli) come una delle star internazionali del campo ? Quello che Duchamp avrebbe chiamato probabilmente “ready made”, ma funzionale anche se atipico, diventa icona e radice di molti lavori, che da questo si staccheranno, ma che ne conserveranno freschezza, ironia e sorpresa.44 Come osserva Deyan Sudjic: Nonostante tutta la sua energia creativa, l’Inghilterra non è un paese che pullula di industriali interessati a produrre qualcosa che vada al di là degli oggetti domestici più banali (...) Nei primi anni ottanta molti giovani designer optarono per una frustrante strategia di sopravvivenza, creare oggetti per conto proprio. Il problema è che design e artigianato non sono la stessa cosa. Il vocabolario visivo del design, negli anni ottanta, era regolato dalle possibilità di produzione delle macchine, non dalle imperfezioni del lavoro fatto a mano”45 , ecco che l’autoproduzione come scelta consapevole fa finalmente il suo ingresso nel mondo del design e qui si può davvero parlare di Design Do it Yourself for someone else.

M. Aruga, Artscapes, su http://blog.contemporarytorinopiemonte.it/?p=23250 A. Cappelieri, R. Arad, Mondadori Arte, Milano, 2008, pag 11 42 Ibidem, pag 10 43 Ibidem, pag 12 44 M. Aruga, Artscapes, su http://blog.contemporarytorinopiemonte.it/?p=23250 45 D. Sudjic, Ron Arad: cose di cui la gente non ha veramente bisogno, postmedia. Milano 2003, p.12 40 41

54



Capitolo 2. Do it yourself

Do it youself for yourself o Do it yourself for someone else?

Come si è visto il fenomeno dell’autoproduzione è molto vasto e complesso; da un lato segue di pari passo la storia dell’uomo, dall’altro lato sembra seguire la nascita e lo sviluppo della società dei consumi. Per comprenderlo al meglio si sono usate fin ora delle espressioni chiave che si è deciso di dividere in due grandi insiemi, due sfumature differenti, due compartimenti non del tutto stagni, ma abbastanza dissimili fra di loro da giustificarne la suddivisione. Il primo prende il nome di Do it yourself (for someone else), ovvero “fattelo da solo, per qualcun altro”, il secondo invece Do it yourself (for yourself) e quindi “fattelo da solo, per te stesso”. Prendiamo in esame la prima sfumatura dell’espressione D.I.Y. Fanno parte di questa realtà tutti quegli esempi di autoproduzione in cui c’è un soggetto che autoproduce un prodotto (di qualsivoglia natura) destinato ad un pubblico più o meno numeroso. Il frutto di questa attività non è quindi a scopo ed uso personale, ma nasce proprio per essere condiviso con altre persone, che potranno comprarlo o più semplicemente riceverlo gratuitamente. Il mondo del design rientra appieno in questa classificazione, in quanto è presente un soggetto, il designer, che progetta in maniera autonoma (senza quindi dover sottostare ad un brief di un’azienda ed alle logiche industriali) fino a raggiungere la realizzazione di un prodotto finito. Il destino di questo prodotto varia a seconda dei diversi approcci autoproduttivi, ma, sia che venga destinato alla promozione (una specie di portfolio che prende vita), sia che venga prodotto in serie e venduto attraverso una definita attività imprenditoriale su scala più o meno ridotta, i destinatari saranno sempre persone definite e non coincidenti con il soggetto autoprogettante.

56


Do it yourself for yourself

La seconda sfumatura del fenomeno dell’autoproduzione, quella del “fattelo da solo per te stesso”, si manifesta con caratteristiche alquanto diverse da quelle del primo insieme appena analizzato, che potremmo dire essere l’ossatura ufficiale del D.I.Y.. In questa realtà alternativa e parallela fanno parte tutte quelle attività autoproduttive che danno luogo a dei prodotti, di qualsiasi natura, che vengono fatti per se stessi, per un uso personale, si intuisce che tutti quei manufatti che l’uomo si fabbrica ai fini della sua stessa sopravvivenza rientrano appieno in questa categorizzazione. Un’attività creativa di questo tipo infatti (si ripensi agli utensili degli uomini primitivi o all’arte di arrangiarsi nei periodi successivi alle grandi guerre) la si può sempre considerare come una reazione ad uno stato di cose verso il quale non ci si sente parte, che si vuole cambiare, ma in questi casi non è sicuramente la ribellione, l’anarchia o il rifiuto della società e delle sue regole a spingere l’uomo a farsi le cose da solo. La si potrebbe definire invece una scelta obbligata, non dettata da fini artistici, ma non per questo meno creativa ed innovativa. Lo spirito di intraprendenza, la capacità di risolvere i problemi, di progettare (dato che di progetto si vuole parlare) che l’uomo ha sviluppato nel corso della sua lunga storia, derivano proprio dall’applicazione del principio del farsi le cose da soli in ambienti ostili che vengono però trasformati a proprio favore. Fondamentalmente si potrebbe affermare che l’artigianato locale nasce proprio da

57

queste necessità, dalle capacità che l’uomo ha acquisito a seguito di sperimentazioni manuali sui materiali per fini personali, mettendole poi a servizio della comunità dando avvio ad attività di vendita. Per sintetizzarlo, il fenomeno dell’autoproduzione (inteso in questo caso come D.I.Y. for someone else) nasce e si sviluppa appoggiandosi sul patrimonio culturale che l’uomo ha acquisito nei secoli, del sapersi fare le cose autonomamente per soddisfare i propri bisogni e le proprie necessità. I cosiddetti “lavoretti domestici” di bricolage rientrano appieno nella categoria del farsi le cose da soli a fini personali (o per la propria famiglia o comunità). Sebbene l’uomo, nella sua storia, incontri sempre periodi di crisi, di ricostruzione, di estrema povertà a seguito di guerre in cui l’arte di arrangiarsi diventa una scelta obbligata, con il tempo il fai-da-te è diventato anche una scelta di vita con cui affrontare i problemi e risolverli oppure, più semplicemente, un hobby da coltivare nel tempo libero per mettersi costantemente alla prova. Mondi come quello del modellismo (si pensi a a quello ferroviario) o quello del costruirsi degli oggetti precedentemente comprati seguendo le istruzioni (si pensi a IKEA) non sono di particolare interesse. Pur rientrando nell’ambito del fai-da-te, queste sono realtà più legate ad un passatempo, in cui la manualità è sicuramente importante, ma dove l’ingegno viene in buona parte lasciato per strada. Non ci sono finalità progettuali, che invece sono proprio il fulcro di questo elaborato.


Esempio di istruzioni IKEA

58


Do it yourself ON-LINE

Con l’esplosione del web 2.0, con l’avvento di internet, il fenomeno del D.I.Y si sposta online grazie alle nuove tecnologie che permettono all’utente di partecipare e di contribuire alla stesura dei contenuti web attraverso il semplice caricamento di foto, ed in generale qualsiasi articolo di qualsiasi natura. Il risultato di questa compartecipazione alla stesura dei contenuti ha portato la nascita di molti siti web (primi tra tutti i social network), alcuni di questi migliorando e portando un ondata di innovazione nel nostro quotidiano, altri inquinando la salute della rete con contenuto spazzatura. Un esempio di come il mondo del web si sposi perfettamente con il D.I.Y e nello specifico con il Do it yourself for yourself è il sito web instructable.com. Il sito in questione è una grande community a livello nazionale ed internazionale che raccoglie tutorial, video basati su istruzioni, di qualsiasi natura: dai lavori di bricolage fino ai grandi progetti tech o ancora di design.

“Instructables.com is the most popular Do-It-Yourself community on the Internet. We enable passionate, creative people to share their most innovative projects, recipes, and hacks with our highly engaged audience ”. 46

46

59

47

Per sfruttare al meglio il sito internet occorre registrarsi on-line gratuitamente, una volta registrati si può interagire tra utenti per avere delucidazioni su tutorial e allo stesso tempo caricare idee e lavori da condividere con il resto della community. Si parte quindi dal concetto del D.I.Y for yourself e lo si sviluppa, lo si rivisita in chiave open source, diventando contenuto accessibile da tutta la rete. Ormai il web si considera la maggior parte delle volte come la risposta a qualsiasi nostro dubbio, è diventato il modo più rapido e semplice di risolvere problemi autonomamente, senza il bisogno di contattare gli esperti in materia. Si possono trovare molti siti che “forniscono risposte” quasi fossero degli oracoli, ma lo fanno in maniera molto più generalista e meno incentrata sul mondo del Do it yourself a contrario di Instructables. Youtube o Yahoo! answer sono sicuramente due esempi. Ognuno di questi siti funziona grazie alle community che sta dietro e che si forma proprio sulle pagine virtuali in questione.

http://www.instructables.com A. Boaretto, G. Noci, F.M. Pini, Open Marketing, strategie e strumenti di marketing multicanale, op. cit., p.49


Il 90% dei contenuti è frutto degli utenti che partecipano attivamente allo sviluppo del progetto, spinti da un forte senso di appartenenza e da una volontà di fornire supporto reciproco. Questo è il motore funzionante della macchina del web 2.0, la possibilità di sentirsi parte di qualcosa, la certezza di stare aiutando qualcuno grazie alle proprie esperienze o capacità personali e non ultimo anche quel piacere derivante dalla possibilità di potersi guadagnare i propri 5 minuti di notorietà, diventando una personalità di rispetto all’interno del network (sono un esempio i punteggi ed i livelli di Yahoo! Answer che dividono in “classi sociali virtuali” gli utenti). Le opinioni in rete, ritenute più affidabili delle ormai poco accattivanti campagne pubblicitarie realizzate dalle aziende47, permettono all’utente di autoprodursi un’opinione e di potersi così autogestire nel momento dell’acquisto. Una forma di Do it yourself sicuramente anomala, ma che mette effettivamente in grado le persone di potersela cavare da sole, esattamente come avviene sui siti in cui una community di Bricoleur fornisce tutorial su come riparare l’irriparabile o su come inventare nuovi oggetti partendo da zero. Il Do it yourself for yourself on-line acquista caratteri molto più simili al Do it yourself for someone else dove il supporto reciproco e la sinergia all’interno di un network di utenti diventano le fondamenta dell’intera attività autoproduttiva.

Sebbene il prodotto dell’attività fai-da-te rimanga per sè stessi, senza avere una prospettiva di diffusione più o meno ampia, le modalità con cui viene trasmessa la conoscenza adeguata per raggiungere il proprio scopo sono tutt’altro che chiuse e personali. Questo è infatti il grande contributo del web 2.0, ovvero di introdurre il concetto di open source e di sharing di informazioni anche in ambiti che esulano dal mondo dell’informatica e della programmazione in cui sono nati. Questosviluppo,giocheràunruolofondamentale nella delineazione del design autoprodotto degli anni 2000, introducendo questo concetto di creatività diffusa di dominio pubblico. Si andranno a rendere sempre meno evidenti e nette le differenze tra chi si autoproduce per sè o per finalità di comunicazione, vendita, protesta o altro ancora.

Logo del sito INSTRUCTABLES.COM

60


Chi sono gli autoproduttori? Abbiamo effetuato quindi una prima distinzione su quelle che sono le pratiche del D.I.Y, analizziamo ora più nello specifico i profili di chi oggi si affaccia nell’autoproduzione. Come abbiamo specificato già dall’inizio la linea che demarca la differenza tra artigiano e designer è molto sottile, riusciamo però a distinguere in questa grande categoria di appartenenza chiamata “autoproduzione”, le figure dell’artigiano, dell’artista, del designer e del maker. Un ruolo fondamentale nella buona riuscita della distinzione di questi protagonisti dell’autoproduzione è dettato dagli strumenti che rendono libero, o quasi completamente, l’accesso alle informazioni. Questo accesso come abbiamo visto in precedenza è la risposta dell’avanzamento tecnologico e comunitario del web 2.0, di tutta quella comunicazione la quale ha avuto una notevole ricaduta sul ruolo del designer degli ultimi anni. “I sistemi di desktop publishing, presenti sul mercato a partire dagli anni ’80, hanno dato avvio a un processo di emancipazione dell’utente, il quale ha acquistato un grado di autonomia sempre maggiore per quanto riguarda la realizzazione, e successivamente la distribuzione, di artefatti comunicativi. Numerose innovazioni tecnologiche, quali l’avvento del web 2.0 o la diffusione capillare degli smartphone, hanno in seguito consolidato l’affermazione di tale processo. Ognuna di esse ha ridefinito radicalmente il rapporto tra produttore e consumatore, minimando inoltre la consueta distinzione tra professionista e dilettante”48

S.Lorusso, Critical Publishing. Il progetto come strumento di indagine degli ecosistemi editoriali nell’era dell’utente emancipato, <http:/www.disegnoindustriale.net/12/>, diid n°57, 2014 48

61

Possiamo dunque definirlo un processo di accorciamento delle distanze sul piano immateriale della progettazione, o ancora più nello specifico del rapporto tra progettista e utente. Parliamo quindi di utente emancipato, un utente che è sempre più vicino alle informazioni per la progettazione e ai mezzi di produzione grazie a questa logica dell’open source, analizzata in precedenza, e dell’open hardware. Con Open hardware intendiamo una parte dell’open source che espande la sua ideologia al di fuori dell’ambito del software, il termine viene principalmente utilizzato per esprimere la divulgazione libera di informazioni riguardanti il progetto stesso dell’hardware, comprendete gli schemi, la lista del materiale, il layout dei dati del circuito stampato. Open source e Open hardware permetto quindi, basandosi sulla logica dell’accesso libero, che il materiale informativo sia facilmente reperibile. La differenza sostanziale si ha quando ad utilizzare queste informazioni “libere” sono progettisti o dilettanti. In generale, l’utente emancipato, non si fa vettore di innovazione dal punto di vista tecnologico, espressivo, lo fa dichiaratamente per il piacere di farlo dichiarando inconsciamente un profondo interesse per la cultura del progettare, del design. Nonostante l’avanzamento, lo sviluppo del web e della nascita dell’utente emancipato, il sistema non ha mai scalzato del tutto l’artigianato che a contrario rimane il contatto diretto con la materia, il messaggero dei valori con una dimensione più ad uomo e non a macchina.


Il dibatto su artigianato-designer-industria non avrà mai fine anche se la figura di entrambi è chiave nel processo produttivo dei nostri giorni. Possono essere considerati artigiani anche quelle categorie professionali nella nostra epoca, quali i ricercatori di laboratorio o le comunità che lavorano attorno a un sistema open source, perché “…al centro del loro interesse c’è il conseguimento della qualità, il lavoro ben fatto che da sempre è il marchio di identità dell’artigianato”. 50 Ormai la figura dell’artigiano viene la maggior parte delle volte fraintesa, possiamo insinuare che abbia addirittura cambiato connotazione col passare degli anni e che cambi sostanzialmente da un paese all’altro, da una nazione all’altra, anche nel modo occidentale. Non può quindi esistere una definizione univoca che identifichi un unico significato globale, dato che non ne possiede uno51. Nonostante sia difficile connotare la figura dell’artigiano, lo si può concepire come un attività, nella quale il lavoro manuale diventa il carattere principale e determina lo stesso processo produttivo imponendo il numero dei pezzi da produrre che sia un pezzo unico (la maggior parte delle volte), una piccola serie o una serie limitata. La differenza sta principalmente nel tempo che impiega l’artigiano alla realizzazione di un pezzo. Il pezzo unico è legato essenzialmente al legame che vi è tra artista e opera, la quale viene contrassegnata con la firma dell’artigiano creando una sorta di legame

<http://it.wikipedia.org/wiki/Hardware_libero> R.Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2008, pag 29-34 51 P. Antonelli, States of Design: design fatto a mano, “Domus”, 2012 52 R.Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2008, pag 32

tra produttore e prodotto; prodotto che è frutto di una tradizione lavorativa. Il confronto con l’artista e in generale con l’arte sorge quasi spontaneo, qual’è dunque la differenza tra un artigiano che crea un legame con il proprio prodotto creato come pezzo unico e l’artista che firma la propria opera? Secondo Sennet il tempo sta alla base della differenza. Il tempo impiegato nell’apprendimento del mestiere per quanto riguarda l’artigiano è lungo, richiede una serie di errori e svariati tentativi. Non è così è per l’artista, il quale lega il suo tempo all’estro, rendendolo un tempo veloce. 52 Ogni qualvolta che si cerca di definire la figura dell’artigiano in corrispondenza con quella dell’artista e del designer si incombe in piccole differenze che sembrano sottili e mutuate solo da considerazioni circostanziali. Per quanto riguarda gli autoproduttori, li si può facilmente accostare alla figura dell’artigiano con un unica eccezione: l’autoproduttore non è legato ad una singola pratica che lo distingue, come potrebbe essere la lavorazione di un unico materiale, un mestiere, mentre l’artigiano lo è, largiranno è vetraio, falegname, ceramista e si fa difficoltà a pensare che quest’ultimo riesca a passare rapidamente da un mestiere all’altro.

49 50

62


MAKERS FAIR, Houston 2016

“Fai da te” “Facciamo assieme”

63

Parlando quindi di autoproduzione si è citato in precedenza l’utente emancipato e la figura dell’artigiano, non si può omettere di citare anche la figura del Makers. Si può affermare che il termine Makers derivi dal concetto di capacità produttiva della rivista Make, i Makers sono appassionati di tecnologia, educatori, pensatori, inventori, ingegneri, autori, artisti, studenti, chef, artigiani 2.0, insomma tutti coloro che creano e stupiscono con la forza delle proprie idee. Sono persone che, con un forte approccio innovativo, creano prodotti per avvicinare la nostra società a un futuro più semplice e divertente. Il loro motto è “fai da te” ma soprattutto “facciamo insieme”. Sono, infatti, una comunità internazionale presente in oltre 100 paesi e condividono informazioni e conoscenze sia attraverso il web sia attraverso veri e propri luoghi fisici, i cosiddetti Fab Lab. Usano macchinari come frese o stampanti 3D ma anche software e hardware open source che si possono scaricare gratuitamente dal web per dare vita a qualcosa di originale. I makers, oggi, vengono identificati come un vero e proprio movimento culturale dalle enormi potenzialità sul piano dello sviluppo sociale e economico, grazie alla loro capacità di esplorare nuove strade o semplicemente di percorrere in modo “moderno” quelle esistenti.53 Si può affermare che questo fenomeno prenda forme originali a seconda di dove affonda le proprie radici, possiamo però affermare che il suo paese d’origine sia l’America.


Il primo nucleo di makers è quindi molto americano, un mix tra l’eccellenza scientifica del Mit-Massachusetts Institute of Tecnology e l’imprenditorialità della Silicon Valley. I principi su cui si basa la filosofia del movimento dei Maker possono essere un vero e proprio motore di cambiamento degli Stati Uniti grazie a tre peculiari caratteristiche che risultano particolarmente innovative. Prima tra tutte l’utilizzo di macchine digitali per creare progetti per nuovi prodotto (fai-da-te digitale); la seconda, il fatto che si riferisce ad una norma culturale la quale prevede di condividere i progetti e instaurare collaborazioni, in community online (effetto rete); la terza, utilizzare file di progetto standard che consentano a chiunque di mandare i propri progetto ai server di produzione commerciale per essere realizzati in qualsiasi quantità, riducendo drasticamente il percorso dall’idea all’imprenditorialità.54 Come afferma Anderson: “ Siamo tutti Makers… Se amate cucinare siete dei maker in cucina e il forno è il vostro manco da lavoro. (…) Uno dei cambiamenti più profondi dell’era del web consiste in una nuova modalità di condivisione online. Se fai qualcosa, gira un video. se registri un video, postalo. Se lo posti, diffondilo tra i tuoi amici. I progetti condivisi online diventano ispirazione per altri e opportunità di collaborazione. I singoli Makers connessi globalmente in questo modo diventano un movimento. Milioni di appassionati del fai-da-te, che una volta lavoravano da soli, improvvisamente cominciano a lavorare assieme. Le idee condivise si trasformano in progetti, e possono dare vita a prodotti, movimenti e persino settori economici. (…). Abbiamo visto accadere questo molte volte sul web. La prima generazione dei giganti della Sillicon Valley è nata in un garage, ma a questi ci sono voluti decine di anni per diventare grandi. (…) ora sta accadendo la stessa cosa per gli oggetti fisici. A dispetto del fascino che i monitor esercitano su di noi, viviamo ancora nel mondo reale. (...) http://www.makerfairerome.eu/it/chi-sono-i-maker/ C. Anderson, Makers. Il ritornodei produttori, Rizzoli, 2013, pag 25-26 55 ibidem

Atomi non bit, la distinzione sta sempre più sfumando, dato che sempre più oggetti quotidiani contengono parti elettroniche e sono connessi ad altri oggetti. (…). Tutto questo sta cambiando la manifattura, l’idea di fabbrica sta cambiando. Proprio come nel web ha democratizzato l’innovazione nei bit, una nuova classe di tecnologie per la prototipazione rapida (dalle stampanti 3D ai laser cut) sta democratizzando l’innovazione degli atomi. (…). Ora gli inventori possono essere anche imprenditori. Gli ultimi vent’anni online raccontano la storia di un esplosione di innovazione e imprenditorialità. (…). Abbiamo bisogno di tutto questo. Gli Stati Uniti e la maggior parte del resto del mondo occidentale sono nel bel mezzo di una crisi di lavoro (…). La grande opportunità offerta dal movimento dei Makers è quella di essere contemporaneamente piccoli e globali. Artigiani e innovativi. High tech e low-cost. Cominciare piccoli, ma diventare grandi. E sopratutto creare quel tipo di prodotti che il mondo vuole, ma non lo sa ancora perché non si adattano bene all’economia di massa del vecchio modello.”55

53

54

64


Il nuovo scenario giovanile Si parla quindi di utente emancipato, di artigiano, di makers ma senza ombra di dubbio la figura principale per quanto riguarda l’autoproduzione è quella del giovane designer che sente l’esigenza di vedere finalmente realizzati quei prodotti che sempre più spesso non vengono presi in considerazione dalle aziende, nell’intento di avere un primo confronto con il mercato e di poter incanalare la propria energia creativa su esperienze concrete. Non mancano esempi tra le giovani generazioni di una nuova vitalità e energia creativa nel panorama sperimentale con un linguaggio che sembra soprattutto accomunato da processi di contaminazione, o di contaminazione d’uso, dei materiali, lavorati in modo atipico per tessitura o assemblaggio, con brutalismi e delicatezze inconsuete. Si può constatare come i giovani designer sono da un lato ancora legati all’industria, ai materiali semilavorati ed allo stesso tempo tendano a dare importanza agli scarti e agli oggetti usati senza una distinzione. La loro produzione parte la maggior parte delle volta da esperienze in cui spesso è presente un’intenzionalità di tipo artistico. Il progetto si fa interprete di nuovi materiali, con un attenzione accentuata sulla loro capacità di prestarsi alla sensorialità. Sembra quasi che questa nuova generazione di designer abbia una naturale e spiccata sensibilità verso le qualità tattili, visive e verso lo studio delle diverse consistenze di materia. Il prodotto non è più considerato il punto d’arrivo ma il punto di partenza per una riflessione che vuole ribaltare i presupposti sull’utilizzo del materiale stesso.

65

Sembra quasi che questa nuova generazione di designer abbia una naturale e spiccata sensibilità verso le qualità tattili, visive e verso lo studio delle diverse consistenze di materia. Il prodotto non è più considerato il punto d’arrivo ma il punto di partenza per una riflessione che vuole ribaltare i presupposti sull’utilizzo del materiale stesso. Alla base c’è una ricerca di oggetti che trasmettano il calore e l’imprecisione della manualità, con impresso il segno della tradizione, si presenta come un fenomeno complementare alla diffusione delle nuove tecnologie e alla nascita di tipologie di oggetti del tutto nuove. Da ciò il disinvolto recupero da parte di molti giovani delle tecniche, dei materiali, non solo come possibile punto di partenza per avviare il confronto con un’idea più estesa di produzione e di mercato, ma anche come pratica progettuale che, attraverso un rapporto più immediato col processo produttivo e con un contesto, si arricchisce e riscopre altre dimensioni culturali, che la grande produzione tende a semplificare o ignorare.


Il panorama della produzione giovanile risulta decisamente più complesso rispetto ai decenni passati, che vedevano l’Italia al centro della sperimentazione e dell’innovazione. Dagli anni ’90 fino ad oggi l’Italia vanta una centralità basata su un alto livello di produzione per quanto riguarda gli arredi, gli oggetti per la casa e un sistema di comunicazione che gira attorno il design; ma nel mondo si sono allo stesso tempo moltiplicate le istituzioni, le scuole, momenti di confronto sempre più qualificati che offrono la possibilità ad un ampio numero di giovani di occuparsi di design e di stabilire contatti con il mondo della produzione e della comunicazione. Rispetto alle avanguardie, che vengono analizzate nel capitolo precedente, la nuova generazione di designer non vuole esprimere un atteggiamento di rottura visiva e comportamentale, ma cerca in maniera concreta, e sempre molto personale, di comunicare attraverso gli oggetti un nuovo processo capace di modificare il modo di vivere attraverso un rilettura dell’esistente. L’obiettivo principale56 non è più l’innovazione fine a se stessa oppure lo stupore provocato da un qualcosa che non si è mai visto, bensì si preoccupa di entrare e declinare la realtà delle cose già esistenti. Potremmo forse pensare a questo approccio come una risposta dell’avanzare accelerato della società e del modo di vivere, provocato dalla nuova tecnologia; si sente quindi il bisogno di ritrovare e rileggere il quotidiano. Alla consapevolezza dell’avanzare tecnologico della società si aggiunge la

componente ambientale. I giovani designer consci delle problematiche ambientali, associano la disponibilità di nuovi materiali che spesso non trovano una collocazione o che non sono ancora mai stati impiegati in precedenza. Composti, fibre speciali, gel, tessuti tecnici, resine e nuove lavorazioni di tutti quei materiali ampiamente conosciuti come: plastica, alluminio, vetro e ceramica. Per quanto la produzione dei giovani designer si avvicini al mondo artigianale e alla scoperta dei desunti e nuovi materiali, la dimensione artigianale non entra più in conflitto con la progettazione mirata al prodotto di fattura industriale, in quanto la loro progettazione si orienta verso la contemporaneità alimentata dall’innovazione e dalle nuove tecnologie dando luogo a nuove tecniche e forme di grande attualità.

sopratutto per quanto riguarda quei lavori che si spingono nelle ricerche più sperimentali che si muovono intorno al materiale/materia e alle nuovi visioni/funzioni. 56

66


Autoproduzione come

Autopromozione


L’approccio dei nuovi designer, della nuova generazione, alla produzione avviene secondo diverse modalità in Europa. La maggior parte delle scuole di design infatti presenta una struttura didattica dedicata al mondo della produzione, la quale cerca di avvicinare, già a partire dagli anni di studio, il giovane studente con il mondo della produzione attraverso l’organizzazione di seminari, workshop, ai quali partecipano imprese, e stage di perfezionamento presso aziende o studi professionali. L’alternativa all’avvicinamento tramite book e portfolio all’azienda è la realizzazione diretta di prototipi che permettano di dare visibilità alla propria ricerca progettuale. Questo si può definire un fenomeno di autoproduzione e autopromozione che ha caratterizzato buona parte degli anni ’90, e quelli a seguire, il percorso di molti giovani designer, assumendo negli ultimi anni una certa rilevanza dal punto di vista economico. Inoltre va ricordato che la rete rappresenta, per molti autoproduttori, la possibilità di autopromuoversi, condividendo con un network i risultati delle proprie ricerche. Oltre che strategia autopromozionale, l’autoproduzione è espressione di una metodologia di ricerca basata su un approccio sperimentale, che manifesta la necessità di riappropriarsi del lavoro manuale, dei processi di costruzione e definizione degli oggetti e di una riflessione sui contenuti del design, anche indipendentemente dalle esigenze dell’industria e del mercato.

D’altro canto l’autoproduzione giovanile ha determinato un rinnovato interesse delle aziende per il progetto dei giovani designer, dotati della capacità di produrre scenari inediti in un momento in cui la competizione e la comunicazione globale richiedono un alto livello d’innovazione. Questo è visibile non solo nei tradizionali settori dell’arredo, ma anche nei nuovi ambiti merceologici creati dalle applicazioni delle nuove tecnologie. Grazie all’autoproduzione, manifesto della creatività e della capacità di sperimentazione indipendente, si sta ricostituendo un po’ ovunque, su nuovi presupposti, il rapporto con le aziende. Così i designer si trovano spesso ad attraversare esperienze anche molto diverse: da autori di pezzi autoprodotti a progettisti per la produzione di grande serie, da esperienze di produzione artigianale a art director di grandi e medie aziende.

68


2.1 Perchè autoprodurre?

Dai paragrafi precedenti si evince quindi che la scelta di autoproduzione consapevole da parte del progettista nasce attorno alla fine degli anni ’80 e ai primi anni ’90, per poi raggiungere il periodo di maturità con gli anni 2000. Si posso distinguere varie figure di nuovo designer che si autoproduce, la prima figura già esaminata è quella del designer imprenditore: quella nuova categoria in cui sono compresi quei designer che hanno deciso di affiancare alla loro attività di progettisti tutti quegli aspetti e attività caratteristiche dell’imprenditore. Altra figura pressoché nuova per l’Italia risulta essere quella del designer strategico: ovvero giovani designer che si propongono a un certo livello con soluzioni complesse che riguardano prodotto, servizio, comunicazione, all’impresa che non ha ancora sviluppato una visione complessiva e integrata del design. Di conseguenza volendo scendere ancora più nello specifico, potremmo suddividere queste macro categorie in altrettante, riferendoci così a tre diverse tipologie di designer o ancor meglio a tre diverse motivazioni le quali hanno spinto il giovane designer all’ autoproduzione. La prima categoria vede l’autoproduzione come un mezzo per entrare nel mondo del lavoro; la secondo vede l’autoproduzione come un gioco, come un’attività puramente sperimentale e liberatoria ed infine la terza categoria di designers è riconducibile alla figura del designer imprenditore.

L’attività sperimentale di Ron Arad potrebbe rimandare a questa categoria di designer. Arad anche dopo aver trovato un posto d’onore nel mondo della progettazione e delle “design star”, ha infatti sempre continuato ( parallelamente ai suoi lavori su commissione) il lavoro manuale sul metallo 57

69


1

Autoproduzione come passaggio intermedio

2

Autoproduzione come sperimentazione

3

Autoproduzione come attività imprenditoriale

Rientrano in questa categoria tutti quei designer i quali lo scopo finale è quello di trovare un posto all’interno del mondo del lavoro, all’interno del grande mondo del design. Se contestualizziamo l’epoca di cui stiamo trattando, quindi il periodo a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, ci rendiamo conto che questa reazione possa essere nata in seguito alle difficoltà che riscontravano i giovani produttori, di trovare un posto in una azienda o in uno studio di progettazione. L’autoproduzione era quindi il mezzo che serviva come “transito” dal mondo universitario a quello del lavoro, dalla teoria alla pratica. Come si proponevano quindi questi designer al mondo del lavoro? Si è già visto in precedenza come la voglia di presentarsi ad una azienda non si limitava solamente alla realizzazione di un book o di un portfolio, bensì preferivano, ma questo accade tutt’ora, sviluppare i propri progetti in maniera del tutto autonoma, curandone quindi tutti gli aspetti tra cui la prototipazione57.

Fino ad ora si è parlato di quella categoria di designer che viene definita “giovane” la quale risulta essere ancora sconosciuta nel grande mondo del design. Questa attività progettuale di autoprodurre però non è soltanto una scelta dei giovani designer che cercano uno sbocco lavorativo, ma caratterizza anche la produzione di quei progettisti che sono già affermati nel panorama della progettazione. Si può definire questa attività quasi come una sperimentazione, una sorta d’indagine, di ricerca di nuovi linguaggi. Il designer in questione utilizza l’autoproduzione come sorta di un valvola di sfogo con la quale può progettare in maniera del tutto libera senza vincoli aziendali e contrattuali, il tutto reso possibile dalla non necessità di farsi conoscere o notare da un’azienda (o quanto meno non risulta essere l’obiettivo principale). Lo scopo finale di questa autoprogettazione non è quello di vendere o di avviare una nuova attività, piuttosto lo scopo è quello di imparare e di scoprire nuovi materiali e nuove lavorazioni o ancora esprimere attraverso un oggetto la propria visione del mondo, diventando così quasi una sorta di critico della società.57

La terza strada produttiva da prendere in considerazione, seguita sia dai designer affermati sia dai più giovani, è quella che unisce il lavoro progettuale a quello imprenditoriale. In questo caso il designer decide di non aspettare che sia il mondo del design ad accorgersi di lui bensì decide di lanciarsi sul mercato progettando qualcosa che lo appaghi ed occupandosi di tutte le fasi a partire dalla progettazione e concludendo con la distribuzione, ma sopratutto si occupa di prendere contatti con eventuali rivenditori, si dedica a tutte le fasi pubblicitarie, economiche e di definizione del brand del designer stesso. La definizione del brand risulta essere uno step assai complesso in quanto sarà proprio grazie ad esso che il designer si inserirà all’interno del mercato, ed il mercato lo identificherà attraverso il suo brand. La proposta del prodotto dovrà essere la più centrale possibile, inoltre, dovrà essere fatta al momento giusto, in caso contrario sarà lo stesso designer a pagarne le conseguenze sia a livello economico che la sua immagine stessa ne risentirà. Quest’ultima via progettuale risulta la maggior parte delle volte la più ardua e difficile da intraprendere, è proprio per questo motivo che molti designer preferiscono non intraprenderla, in quanto il doversi occupare di tutte le fasi economiche, di marketing e di comunicazione della propria immagine, del proprio brand, distraggono dalla progettazione stessa. Tuttavia questo non significa che non ci siano casi di designer/imprenditori brillanti. 70


2.2 Lo scenario Europeo e le sovvenzioni I paesi del nord-Europa hanno da sempre avuto una grande tradizione e diffusione della cultura del design, in maniera attenta, sopratutto per quanto riguarda la dimensione sociale e ai valori ambientali. La produzione diretta è sempre stata molto diffusa e costituisce oggi, oltre che un approccio di tipo sperimentale alla produzione, una metodologia che testimonia la continuità di una tradizione artigiana e artistica, fondata sulla sperimentazione diretta sulle tecniche e sui materiali. L’artigianato artistico è stato il campo predominante dell’attività di design del nord-Europa, soprattutto in Danimarca, con una preminente specializzazione nel settore tessile, ceramico e del vetro e continua a costituire l’attività principale di molti giovani progettisti, rinnovandosi e ibridandosi adesso con l’uso di nuove tecnologie e di materiali innovativi. La situazione del design nordico appare subito chiara con la presenza di due orientamenti principali: il recupero delle lavorazioni artigianali, come quelle del vetro e del legno, che hanno reso celebre il design scandinavo dagli anni ‘30 ai ‘50, e lo sviluppo delle tecnologie informatiche. La Danimarca è, tra le nazioni scandinave, la più industrializzata (circa il cinquanta per cento degli insediamenti industriali) ma è anche la nazione più ricca di iniziative e meglio organizzata per quanto riguarda il design. Logo e Identità visiva Danish Design Prize

71


Il governo e il ministero dell’economia danese hanno in seguito compiuto grandi sforzi per motivare le imprese a sfruttare le opportunità del design in ogni settore, dalla comunicazione grafica allo sviluppo del prodotti. Il Danish Design Council, con l’aiuto del Ministero del commercio e dell’Industria, ha istituito, nel 2000, il “Danish Design Prize”, che sostituisce il “Danish Design Awards for industrial design” e il “Danish Design Awards for graphic design”, nati rispettivamente nel 1965 e nel 1980. Il premio ha diverse sezioni, dal product design al web design, ed è parte integrante del piano stabilito dal governo nel 1998 che prevede un budget annuo per promuovere la ricerca e lo sviluppo del design. Il “Design Forum Finland”, uno degli enti europei più attivi e organizzati, promuove il giovane design industriale, bandendo dal 1996 un concorso riservato ai giovani designer scandinavi. Diviso in diverse categorie, dal furniture design alla progettazione di gioielli, il suo obiettivo è creare una mostra dei progetti selezionati per presentarli al mondo dell’industria. In Belgio non esiste una forte tradizione industriale; le esperienze più interessanti riguardano giovani designer di talento, ma anche alcune piccole aziende che sono recentemente emerse dall’esperienza nel campo dell’architettura d’interni, sviluppata sia in termini progettuali che costruttivi. Ente pubblico importante in Belgio è “Wallonie Bruxelles Design Mode.”60 il quale fornisce un supporto ai designers e alle aziende per il loro sviluppo a livello internazionale dal 2006.

Danish Design Award, http://danishdesignaward.com Design Forum Finland, https://www.designforum.fi/etusivu 60 Wallonie Bruxelles Design Mode, https://www.wbdm.be

Le aree coperte dall’ente includono il design di prodotto, il fashion design, il texil design, la comunicazione visiva, il design sociale e il food design. Si rivolge principalmente a designer e aziende con uno spiccato senso dell’imprenditorialità, la cui ambizione è quella di ampliare la portata delle loro attività all’estero. La loro partecipazione annuale al FuoriSalone di Milano rappresenta una vera e propria vetrina di design pieni di talento, delle giovani premesse. L’Olanda sembra essere attualmente lo stato più attento alle esigenze e alle potenzialità delle nuove generazioni e questo è uno dei motivi per cui in questo momento il design olandese ha acquistato grande risonanza a livello internazionale. Una dimostrazione di questa attenzione è l’istituzione di “Young Designer + Industries”, un’iniziativa nata per favorire l’incontro tra giovani neodiplomati e grandi aziende.

58 59

72


L’obiettivo degli organizzatori è di contribuire allo sviluppo del design e a rafforzare la collaborazione tra progettisti e aziende. Le aziende offrono l’esperienza e il sostegno pratico durante tutta la fase d’elaborazione dei progetti, mentre i designer s’impegnano a formulare idee nuove e spontanee proprio perché non condizionate da esperienze precedenti. Da prendere in considerazione anche, e sopratutto, la “Foundation of Art, Design and Architecture”62. di Amsterdam, istituzione più importante a livello nazionale, rilascia fondi ad artisti individuali per realizzare un determinato progetto o per intraprendere una specifica carriera professionale. Per ottenere una sovvenzione è necessario consegnare una domanda e spiegare il progetto a un comitato speciale, che si riunisce poche volte l’anno63 (Stimulering Fonds).

Per quanto riguarda la Francia, ha sempre avuto un atteggiamento irrisolto col design, anche se è stata sempre motivo di orgoglio la grande tradizione di Le Corbusier in contrapposizione a quella dei gradi décorateaur.

Nonostante la scarsità di aziende di design, la Francia possiede organizzazioni efficienti, prima tra tutte VIA (Valorisation de l’lnnovation dans l’Ameublement)63, che è il precursore di tutte le attività di promozione svolte dagli enti governativi europei. Il VIA è nato nel 1977 sotto il patrocinio del ministero dell’industria, con il fine di promuovere il furniture design francese contemporaneo, le mostre, l’attività promozionale e la produzione, appoggiate dal sindacato dei mobili e mobilieri francesi. Il VIA ha quattro obiettivi principali: essere un punto di riflessione per anticipare le future tendenze del life style; stimolare creatività e innovazione nell’industria, dando contributi alle scuole e pre-finanziando i prototipi dei designer; mettere in contatto designer e aziende, esponendo nei propri padiglioni alle fiere i prodotti risultanti dalla collaborazione; infine, essere un centro di documentazione, un database, per fiere, esibizioni pubbliche e pubblicazioni.

http://www.dutch-doc.nl/docupedia/the+netherlands+foundation+for+visual+arts+design+and+architecture+++fonds+bkvb Industrie Creative Found NL utilizza il Design Grant Program per sostenere progetti che contribuiscono alla promozione della qualità eccellente, lo sviluppo e la professionalizzazione del design olandese contemporaneo. Questo programma di sovvenzioni ha cinque turni di applicazioni all’anno. Il bilancio annuale è distribuito equamente tra i turni, da https://stimuleringsfonds.nl/en/grants/grant_programme_ for_design/ 61

62

73

In Francia la parola “design” aveva poco corso, si usava parlare di “esthétique industrielle”. L’ENSCI, École Nationale Supèrieure de Création lndustrìèlle, che ha svolto un ruolo di notevole importanza nella formazione dei designer francesi contemporanei, non usa infatti nella sua denominazione il termine design. Senza ombra di dubbio le cose inizieranno a cambiare verso la fine degli anni ’90 con Philippe Starck, il quale ha fatto si che il design francese si identificasse sotto il suo stesso nome. A lui va anche il merito dei nuovi designer francesi, i quali provengono, la maggior parte, dal suo studio.


In Germania i progettisti, nella gran parte dei casi, sono interni o almeno fortemente integrati alle aziende per le quali lavorano. Solo in seguito la situazione è cambiata: in particolare a Berlino, che è diventato uno dei più interessanti centri europei di aggregazione e di sperimentazione giovanile, dove vivono e lavorano molti giovani designer, molti dei quali si occupano di comunicazione e di grafica multimediale. La struttura federale dello stato tedesco ha favorito una localizzazione diffusa dei centri per l’insegnamento del design nelle diverse regioni e città: Hannover, Berlino, Brema, Amburgo, Hoffenbach sono sedi di alcuni di questi istituti. Agli inizi degli anni ‘90 si inaugura la nuova Facoltà di Gestaltung di Weimar, diretta da Lucius Burckhardt, che nel suo programma punta alla formazione di un nuovo tipo di “artigiano”: una figura che possa essere pronta ad affrontare i limiti dell’industrializzazione, contemporaneamente a suo agio con la manualità, con l’intuizione e con le tecnologie avanzate, un risolutore consapevole di problemi per le aziende che spesso ne sbagliano proprio la formulazione. Un’altra istituzione molto attiva soprattutto nei rapporti con l’estero è l’IFA64 (Institut fur Auslandbeziehungen) che nel 1999 ha organizzato una famosa mostra al Vitra Design Museum dal nome “Consapevolmente semplice: nascita di una cultura alternativa del prodotto”, che ha messo in luce il funzionalismo intelligente e non convenzionale dei giovani designer tedeschi. Il tema di lavoro proposto agli studenti era la realizzazione di oggetti con semilavorati reperibili sul mercato: un’incursione nella grande distribuzione e nei magazzini industriali per prelevare componenti ideati per altri usi, con il fine

VIA, da http://en.via.fr/presentation IFA, Institut fur Auslandbezienhungen, http://www.ifa.de/en/funding.html 65 http://www.100percentdesign.co.uk/welcome#/

di realizzare oggetti semplici mettendo in evidenza la componente estetica di oggetti comuni. La Gran Bretagna possiede molti talenti che, data la scarsità d’industrie orientate al design, tendono a lavorare in altri paesi. La fama delle scuole inglesi oggi è affidata all’antico Royal College ma altrettanto alla St.Martin’s School of Art, la scuola della nuova moda britannica, quella che ha avuto come bandiera già dagli anni ‘70 la mitica ed eccentrica Vivianne Westwood. Quasi tutta la stirpe dei giovani designer inglesi, ha frequentato il Royal College of Art, e oggi molti di loro fanno parte del corpo docenti. Il Royal College, collaborando con una rete d’industrie, dà la possibilità di sperimentare ciò che si può realmente fare a livello di produzione di massa. Un ruolo positivo viene svolto con fortuna crescente del salone annuale che si tiene a Londra ogni anno, 100% Design 65 all’interno del quale la rivista Blue Print assegna un premio.

Queste si posso ritenere le maggiori istituzioni/enti che a livello europeo finanziano ed alimentano il design a livello sia nazionale che, e oserei dire sopratutto, a livello internazionale, cercando così di far conoscere il proprio design, i propri talenti, il proprio gusto “nazionale” all’estero ma sopratutto in Italia. Mentre le nazioni Europee si impegnano nella promozione del design in Italia, cosa accade a livello italiano? Quali sono gli enti che promuovono il nostro design?

63

64

74


2.3 La Situazione italiana

La situazione del design italiano degli anni ’90 ci fa riscontrare con la condizione comune che i designer italiani sono quasi tutti legati alla progettazione del mobile, del complemento e dell’illuminazione. Parlare quindi design in Italia, non rimanda alla creazione di un nuovo disegno, di un nuovo sistema di progettazione o una nuova elaborazione dati, bensì è proprio nel settore dell’arredamento che i designer storici come la maggior parte della nuova generazione spicca, emerge, ha maturato maggior conoscenza e fama. Questo rapporto tra designer e impresa ha permesso di generare un sistema del design esteso anche al circuito della comunicazione (le riviste, i premi, le manifestazioni fieristiche), della formazione (le scuole, i centri di formazione, le esperienze progettuali negli studi più importanti), delle professioni di servizio (i modellisti, fotografi, specialisti... ). L’avvicinamento all’impresa ha permesso ai designer italiani di sviluppare una sottile capacità relativa con il mondo aziendale, inoltre, unendo la conoscenza a livello progettuale con le istanze del mercato, della società e della tecnologia sono riusciti a valorizzare le capacità del sistema produttivo Made in Italy.

75

Il designer oggi non deve solamente pensare alla funzione estetica del prodotto bensì all’innovazione del processo produttivo che ne permetta la realizzazione. Se si vuole criticare un aspetto della produzione italiana lo si può fare analizzando quello che è stato il processo, l’avanzare tecnologico aziendale. In quanto l’azienda si è evoluta molto velocemente assumendo modelli operativi e comunicativi sempre più raffinati e a quest’evoluzione non è corrisposta una uguale crescita delle risorse progettuali. Negli ultimi anni si parla molto del Made in Italy il quale ha perso il suo potere di seduzione, sopratutto dal punto di vista progettuale e nella formazione dei designer. Le maggiori scuole di design ormai vengono considerate quelle in Inghilterra, in Olanda, in Svizzera. I designer emergenti vengono sempre meno dall’Italia, questo non vuol dire che i designer italiani siano scadenti ma che la maggior parte d’essi prosegue gli studi all’estero, affermandosi come designer proprio nella città in cui termina gli studi. Gli olandesi sotto questo punto di vista sono diventati molto italiani, una delle peculiarità del design italiano è stata per esempio avere una forte connessione con il


mondo delle arti, delle arti figurative, questo è stato assimilato dal design olandese che si è distinto proprio per un suo carattere spiccatamente concettuale. Questo concetto in parte appartiene all’Olanda ma anche all’Italia, che ha quel terreno culturalmente fertile di cui si sono cibati i designer più giovani, delle nuove generazioni. A livello di produzione l’Italia continua ad essere una meta, un paradiso ricercato da quasi tutti i designer del mondo. Questo perchè la produzione italiana non si basa sulla vera tecnologia o sulla esclusiva scienza applicata alla traduzione del progetto in prodotto, ma è sopratutto relazione, è creare un network con ancora un aspetto umano di condivisione dei saperi e delle conoscenze. La realtà produttiva dei distretti italiani è una realtà spettacolare perché al di la di alcuni distretti monotematici, quelli considerati eterogenei creano questo meccanismo di condivisione, di sharing, questo ha fatto la fortuna, della nomea che si sono fatte alcune aziende italiane.66 Nonostante L’Italia sia definito il paradiso ricercato da quasi tutti i designer del mondo, all’interno della stessa Italia a differenza

66

del resto dell’Europa, (basta soltanto dare uno sguardo alla realtà olandese), gli enti e le istituzioni che finanziano il design e lo stesso designer sono nettamente di meno. L’attività maggiormente promossa è quella del Business Meeting, un incontro tra designer e azienda o artigiano in un tempo limitato nella quale il designer attraverso una presentazione della sua idea progettuale e del suo lavoro, cerca di stabilire delle nuove connessioni, dei nuovi agganci per lavori futuri.

D. Dardi, Tendenze del design italiano, da Rai Arte http://www.arte.rai.it/articoli/tendenze-del-design-contemporaneo/16379/default.aspx

76


Questi meeting comunemente chiamati B2B vengono per lo più organizzati attraverso la Camera di Commercio e l’Enterprise Europe Network. L’Enterprise Europe Network è la più grande rete di servizi per aiutare le piccole e medie imprese a migliorare la loro competitività, sviluppare il loro potenziale di innovazione e confrontarsi in una dimensione internazionale. Nasce nel 2008 promossa dalla Commissione Europea ed agisce in Europa e in diversi Paesi nel Mondo. La rete opera attualmente in oltre 50 Paesi attraverso più di 600 organizzazioni, fra camere di commercio, associazioni di categoria, agenzie regionali di sviluppo, università e centri di ricerca e più di 5.000 professionisti esperti. Per l’Italia sono sei i consorzi che, aggregando 56 organizzazioni, coprono l’intero territorio nazionale: “Alps”,“B.R.I.D.G.€conomies”,“Else”, “FriendEurope”, “Simpler” e “SMEtoEU”. Confcommercio è presente nel consorzio “ELSE”68. I diversi consorzi offrono agli imprenditori del territorio numerosi servizi di informazione, feedback con la Commissione, assistenza specialistica, trasferimento tecnologico, sostegno alla internazionalizzazione, supporto tecnico nella progettazione. I palcoscenici privilegiati per questo tipo meeting sono le fiere ed i nuovi saloni. I quali propongono agli espositori incontri con designer e operatori provenienti dal settore dell’industria, dell’artigianato d’eccellenza, della distribuzione, sia italiani che internazionali.

77

Incontri B2B, Designer e Aziende Operae 2016


78


2.4 Le nuove fieremercato Si è parlato quindi di una produzione italiana di design che sta rivalutando, riscoprendo una dimensione dell’artigianalità, di designer fortemente legati ad aziende e imprese e altri ancora sconosciuti al mondo del design, i quali lo scopo finale è quello di trovare un posto all’interno del mondo del lavoro, all’interno del grande mondo del design. L’ambiente che privilegia questo tipo di autoproduzioni, di strategia di marketing, sono le fiere ed i saloni. Analizziamo quindi prima di tutto l’evento definito “Fiera”.

Nel sistema industriale italiano, composto principalmente da piccole e medie imprese (PMI), le manifestazioni fieristiche sono considerate lo strumento più efficace per promuovere i prodotti e servizi, per contattare nuovi clienti e per ottenere l’ingresso in nuovi mercati, questo è un ragionamento che vale sia per quanto riguarda la PMI che per il singolo, il quale compra uno spazio espositivo all’interno dell’evento fieristico per promuovere la propria produzione.69

La fiera, intesa come evento fieristico, è una manifestazione periodica che permette l’incontro tra domanda e offerta di beni e servizi, quindi tra imprese, aziende, gallerie e designer, operatori del settore, buyers, strutture commerciali, forza vendita, clienti e giornalisti.

Possiamo considerare le fiere di design delle fiere specializzate, le quali sono state storicamente lo strumento di marketing principale dei paesi esportatori. I prodotti esposti sono circoscritti ad un comparto, quale quello del design, dell’arredamento, o segmento specializzato di un determinato settore industriale. Alcune tra le più importanti fiere di design autoprodotto in Italia sono “Open Design Italia” a Venezia, “Maker Faire” a Roma, “Operae” a Torino e sono inoltre da considerare tutte quelle iniziative proposte durante il Salone del Mobile e il Fuorisalone a Milano all’interno di vari spazi tra cui la Fabbrica del Vapore e non solo.

Esse consentono di sviluppare il business dell’impresa o del singolo raccogliendo ordini, stipulando contratti d’affari, commercializzando beni e servizi, fino a penetrare nuovi mercati. Per quanto riguarda i destinatari della rassegna, si trovano manifestazioni business (B2B), manifestazioni consumer (B2C) e manifestazioni miste. Le prime si orientano verso il pubblico specializzato e gli operatori di settore (clienti business, buyers, fornitori, commercianti, promotori, forza vendita). Gli eventi B2C si indirizzano al consumatore finale e al pubblico generico e spesso prevedono la vendita diretta dei prodotti.

79


Salone del mobile e Fuorisalone Ogni anno, nel mese di aprile, il Salone del Mobile e il Fuorisalone definiscono la Milano Design Week, uno degli appuntamenti più importanti a livello interazione seguito per lo più da design addicted. Il Salone del Mobile è l’evento fieristico punto di riferimento a livello mondiale nel settore del design e dell’arredamento, un straordinario veicolo di promozione. Nasce nel 1961 con l’intento di promuovere le esportazioni italiane di mobili e complementi, impegno che ha soddisfatto pienamente divulgando nel mondo la qualità del mobile italiano e che continua a soddisfare essendo estera più della metà dei suoi visitatori. La manifestazione offre un panorama a 360° sul mondo del sistema casa, dal pezzo unico al coordinato, rappresentativa di tutti gli stili, dal classico al design. Un palcoscenico che da sempre coniuga business e cultura, facendo la storia del design e dell’arredo di ieri, oggi e domani, che si presenta al mondo con un’offerta di prodotti di altissima qualità, all’insegna dell’innovazione. Con Fuorisalone, invece, intendiamo l’insieme degli eventi distribuiti in diverse zone di Milano che avvengono in corrispondenza del Salone del Mobile. Il Fuorisalone non va inteso come un evento fieristico, non ha un’organizzazione centrale e non è gestito da un singolo organo istituzionale: è nato spontaneamente nei primi anni ‘80 dalla volontà di aziende attive nel settore dell’arredamento e del design industriale. Attualmente vede un’espansione a molti settori affini, tra cui automotive, tecnologia, telecomunicazioni, arte, moda e food.70

70

Ogni anno il Fuorisalone aggiorna la sua morfologia aggiungendo novità in tema di autoproduzione, proposte da progettisti, artigiani, creativi, nuovi brand e designer indipendenti. I riflettori sono accesi su autoproduzione e filiera corta; un esercito di designer indipendenti che porta un patrimonio di cultura, tradizione, artigianalità e innovazione che affranca il Made in Italy a un futuro complesso ma possibile. La maggior parte delle iniziative all’interno della scena milanese e riguardanti l’autoproduzione avvengo all’interno della Fabbrica del Vapore, la quale si può considerare la Cattedrale di questa festa del designer/bricoleur, il mercato della sua partecipazione variamente vintage, sofisticata, alternativa al sistema del design. Una tra queste è “Sharing design, Making makers”, un evento appunto riservato al tema dell’autoproduzione, dell’innovazione green e della progettazione condivisa promosso e organizzato dall’associazione Milano Makers in collaborazione con il Comune di Milano. Nel periodo del Fuorisalone la scena si circonda di spazi e gallerie che trattano il tema dell’autoproduzione, tra queste SUBALTERNO1 che inneggia: “...l’autoproduzione è un insieme di attività che comprende l’autoorganizzazione della progettazione, della costruzione, produzione, della promozione, della distribuzione.”(...)

http://fuorisalonemagazine.it

80


Tutte queste operazioni possono essere compiute in modo differente e libero ma devono coesistere per poter parlare realmente di autoproduzione (...) SUBALTERNO1 è il luogo dove si rende visibile il discorso sull’autoproduzione italiana. E’ uno spazio dove mostrare, raccontare e distribuire i designer autoproduttori e i loro oggetti. E’ una reale vetrina su strada che parla a chi transita nel quartiere Lambrate. E’ una iniziativa gestita direttamente, autoprodotta in maniera condivisa da chi partecipa al progetto”.71

Subalterno1 ha aperto al pubblico nel 2011 in occasione del Fuorisalone di Milano, sviluppando ogni anno una o più mostre collettive, a partire da AUTOPRODUZIONI ITALIANE che fu segnalata dal Corriere della Sera come uno dei cinque appuntamenti da non perdere. La mostra ANALOGICO/DIGITALE, curata da Stefano Maffei e Stefano Micelli nel 2012, dimostra grazie a sette casi studio la nascente contaminazione tra mondo maker, design e artigianato italiano. La mostra MONDOPASTA è stata segnalata da Domus nella top ten dei migliori eventi del Fuorisalone 2014 ed è stata riproposta in diverse occasioni in Italia e all’estero: Maker Faire Paris 2014, Maker Faire Rome 2014, Ailleurs en Folie (Mons, BE) 2015. Subalterno1 ha partecipato all’edizione 2016 di Miart - Fiera Internazionale d’arte moderna e contemporanea - nella sezione Object a cura di Domitilla Dardi. In occasione delle celebrazioni della XXI Triennale, è stata dedicata una retrospettiva dei primi cinque anni di attività della galleria presso la mostra New Craft a cura di Stefano Micelli.72 Un evento svoltosi l’anno scorso all’interno del Fuorisalone è “Design autoprodotteo Jam session” proponeva lavori caratterizzati dall’essere stati (e)seguiti, dall’ideazione alla progettazione alla produzione, interamente dai chi li presenta.

71

81

72

http://www.subalterno1.com ibidem

Oggetti originali e versatili, slegati dalle dinamiche della grande produzione e inediti. Quest’ambito di nicchia mette insieme, in una sorta di osmosi, l’educazione alla bellezza e l’inventiva, le competenze tecniche e le sapienze artigiane a rappresentare la vera ricchezza e le potenzialità del patrimonio culturale italiano. Gli artefici provengono da diverse parti d’Italia e sono connessi da uno spirito comune, dal piacere di dar vita a oggetti necessari, la cui utilità si completa soddisfacendo l’esigenza di un’estetica semplice, essenziale, che rende spesso la loro funzionalità implicita e da indagare e scoprire. Il tutto nella location di Garibaldi Connection, un punto d’incontro in centro, a Milano, dove Cristina Prinetti e Marinella Campagnoli mettono “in connection” idee, persone, iniziative.


In alto, la mostra “Sharing Design Make makers�, Lavanderia a Vapore. In basso, Galleria SUBALTERNO1, Milano.

81


2.5 Torino Design Week Nel novembre del 2009 si è dato il via per la prima volta alla Torino Design Week, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di una rete fortemente partecipativa, stimolando il dialogo tra tutte le componenti della filiera del design e coinvolgendo quindi il mondo della formazione, della progettazione, della produzione e della distribuzione. Una settimana di mostre, workshop e dibattiti organizzato dall’Associazione Torino Design Week con il sostegno della Camera di Commercio di Torino, della Regione Piemonte e con il patrocinio della Città di Torino, della Provincia di Torino e dell’ADI-Associazione per il Disegno Industriale. Si inserisce all’interno del calendario di Contemporary Art Torino Piemonte, la rassegna che caratterizza la stagione autunnale delle arti contemporanee con la programmazione di eventi relativi alle arti visive, alla musica, al teatro, al cinema e alle performing arts. 73

Tutti i progetti di Torino Design Week hanno come focus prevalente il design e lo scopo di coinvolgere progettisti e aziende design oriented dell’area Torinese, favorendone la visibilità e incentivandone lo sviluppo nella direzione della ricerca e dell’innovazione sostenibile. La TDW vuole contribuire alla diffusione di una Cultura del Design consapevole, inteso come opportunità comportamentale di mediazione tra i valori espressivi, economici e tecnologici delle merci e servizi con altrettanto importanti valori ambientali, culturali, etici e sociali.74

ARTISSIMA Edizione 2016 Oval Lingotto Torino

83


A destra, Luci d’Artista A sinistra, manifesto per “Torino Graphic Days” 2016

Perchè Torino? Da alcuni anni a questa parte Torino viene Torino viene considerata un punto di riferimento per l’arte contemporanea ed il design grazie ad un tessuto intrecciato di realtà pubbliche e private, di collezioni e fondazioni, musei e gallerie la cui attività, nel campo delle arti visive e delle performing arts, sfociano in una molteplicità di mostre, eventi e manifestazioni riconosciuti a livello internazionale. Inoltre nel dicembre del 2014, la Città di Torino è stata eletta “Creative City UNESCO per il Design”. Il capoluogo piemontese vanta infatti importanti eccellenze e grande esperienza in tale settore. Il settore del design (una delle principali categorie del network delle città creative, dove Torino è unica esponente per l’Italia) è stato scelto per Torino in quanto la città ne ha fatto una delle chiavi per il suo sviluppo post-industriale, e per i prestigiosi riconoscimenti internazionali che ha ricevuto nel tempo.

L’autunno torinese è di fatto il periodo dell’anno in cui si concentrano in città e nella Regione appuntamenti non solo con le arti visive, ma anche con la musica, il teatro, la videoarte e il design all’insegna dell’innovazione, della ricerca e della contaminazione tra le diverse arti.75 Il cartellone torinese propone nell’autunno il consueto appuntamento nella sede dell’Oval Lingotto “Artissima”, la più importante fiera d’arte contemporanea in Italia, osservatorio privilegiato sulla migliore ricerca; le “Luci d’Artista” che illuminano le vie della città fino metà gennaio; “Paratisima” e “The Others” ormai appuntamenti consolidati con la creatività giovanile; Operae e Torino Graphic Days al Toolbox Working; infine l’irrinunciabile appuntamento con la “Notte delle Arti” con l’apertura straordinaria di tutti i musei, gli spazi per l’arte e le gallerie.

84


Operae DESIGNING THE FUTURE Rientra nel cartellone della TDW anche Operae che dal 2009 propone ogni anno una fotografia dello scenario contemporaneo del design indipendente italiano e internazionale, presentato attraverso una selezione di designer e prodotti. Ogni edizione viene caratterizzata da un tema curatoriale differente e una location che varia di anno in anno. Il tema caratteriale dell’edizione passata (edizione 2016) era: “Designing the Future”, che aveva come sottotitolo “Fai la tua scelta, e questo perché, come dice la curatrice: “è in dubbio che il designer sia una figura chiave nei campi di innovazione, comunicazione, sostenibilità. Ma gli va riconosciuta una posizione altrettanto rilevante su fronti quali educazione, etica, sanità, giustizia sociale”.76 Al centro della selezione dei prodotti c’è l’eccellenza della manifattura, esito nella maggior parte dei casi di radici locali e tradizioni antiche, che trovano nuova espressione tramite l’energia e la sperimentazione del design. Porta così alla luce il nuovo Made in Italy in cui design e manifattura trovano la loro migliore sintesi, fatta di ricerca, stimoli produttivi contemporanei e lavorazioni radicate nelle tradizioni dei territori italiani.

Palazzo Cisterna, sede Operae 2016

85

76

http://operae.biz/designing-the-future/


Parallelamente Operæ attrae le migliori produzioni internazionali che più sapientemente fondono le identità dei diversi Paesi con le correnti di ricerca più apprezzate in tutto il mondo, promuovendo la visibilità della ricerca, dell’innovazione e della sperimentazione nel campo della creatività, del progetto e della manifattura contemporanea. E’ una piattaforma di incontro tra design, impresa, artigianato, distribuzione, istituzioni e media ma anche vetrina per affermati designer e trampolino di lancio per progettisti emergenti. Operæ si svolge in concomitanza con Artissima, fiera internazionale d’arte contemporanea e con gli innumerevoli eventi di Contemporary Art, un calendario dedicato alle espressioni artistiche, tra cui ClubToClub, festival internazionale di musica elettronica. Il pubblico di Operæ ha un’età prevalentemente compresa tra i 25 e i 50 anni, è fatto di addetti ai lavori ma anche di persone incuriosite dalle nuove tendenze e affascinate dall’atmosfera che si respira nei giorni del festival. Possiamo suddividere il pubblico di Operæ in Design lovers: ovvero professionisti del settore, giornalisti e critici, studenti e appassionati di design, curiosi di scoprire nuove produzioni, orientamenti e linguaggi contemporanei; “Trend researches”, individui informati sulle tendenze, in continua esplorazione delle novità offerte dal mercato, capaci di interpretare il linguaggio contemporaneo; “Craft & design fans”, persone alla ricerca di esperienze e oggetti che valorizzino il saper fare, coloro che apprezzano la cura nella fattura di prodotti, prestano attenzione alla storia produttiva e culturale di cui sono portatori, riconoscono il valore delle tradizioni territoriali; e “Furniture shoppers”, persone con capacità di spesa medio-alta e buon livello culturale che amano popolare la propria casa con pezzi scelti in maniera accurata, capaci di restituire un significato della propria identità. Giunto alla settima edizione, Operæ fa convergere pubblico e addetti ai lavori attorno a progetti accomunati da una particolare attenzione nei confronti della materia così come del processo e della tecnica produttiva.

Quello proposto dalla manifestazione è un paesaggio da oggetti portatori di valori nuovi, siano essi economici, sociali, produttivi o relazionali, che nascono dall’intersezione tra competenze artigiane e saperi digitali, tra pratiche locali e bisogni globali, tra professionalità specializzate e narrazioni collettive. La manifestazione offre l’opportunità di scoprire prodotti, di prendere nota dei fenomeni emergenti, entrare in contatto con gli attori del processo, fermarsi a riflettere sui tanti aspetti che il design tocca. Grazie a un programma di incontri con personalità del mondo del design, dell’economia e della cultura e a un ricco calendario di workshop, Operæ coinvolge sia professionisti del settore sia appassionati e curiosi. Oltre a essere incubatore di storie, porta alla ribalta approcci sperimentali, innovativi e multidisciplinari, consentendo ai designer di vendere i propri prodotti e ai visitatori di acquistare pezzi unici o realizzati in serie limitata. Operæ si può definire un market place che esalta il mondo dell’autoproduzione e che chiama designer nazionali e internazionali a esporre e vendere direttamente al pubblico i propri prodotti. Appartenenti a diverse categorie merceologiche (oggetti per l’arredamento, oggetti per la persona, ...), i prodotti acquistabili a Operae sono il frutto di quelle realtà che, a partire da progettazione e ricerca, attuano il controllo integrale della filiera di prodotto (progettazione, produzione, comunicazione, distribuzione) e che hanno nell’eccellenza, nell’innovazione e nella modesta dimensione numerica delle serie prodotte la loro specificità.

86


87


Da in alto a sinistra: Allestimento Camp Design Gallery; Edgar Flauw, tavola da surf; ingresso principale di Operae 2016. Da in alto a destra: Allestimento Gio Minelli; Giulia Tomasello con “Future Flora”.

La forza del festival sta nel coinvolgere contemporaneamente gli attori principali del design indipendente, progettisti, imprese e artigiani e nell’ultima edizione anche le gallerie d’arte riconosciute come il canale di distribuzione più indicato per il design “da collezione”, quello dei pezzi unici, delle piccole serie o delle tirature limitate, quel design che per la maggior parte viene esposto ad Operæ, in quanto la maggior parte dei progetti esposti (intendo sottolineare la maggior parte e non la complessività), sono progetti destinati alla collezione, in quanto vengono esposti come se fossero su una sorta di piedistallo, dal quale non sono intenzionati a scendere (basta controllare i prezzi medi degli oggetti esposti per capire che buona parte dei progetti esposti presenta dei costi proibitivi).

77

Tra i progetti speciali di questa edizione troviamo Piemonte Handmade: Operæ 2016 invita dieci gallerie internazionali a sviluppare altrettanti oggetti unici insieme ai designer rappresentati e agli artigiani piemontesi. La selezione degli artigiani è avvenuta tramite un bando lanciato dalla Regione Piemonte in collaborazione con Operæ. Antica università dei Minusieri: l’università dei Minusieri, nata a Torino nel 1636 e ancora attiva, è il luogo nel quale da quattro secoli si tramandano i segreti della più raffinata lavorazione del legno. E proprio alle doti dei maestri Minusieri - le cui professioni portano nomi antichi: legnaioli, ebanisti, carrozzai - è dedicato il progetto speciale di Operae 2016. L’installazione intende essere un percorso narrativo che dal passato arriva al presente e valorizzare questa realtà straordinaria e poco conosciuta. 77

http://www.artemagazine.it/design/item/2476-a-torino-la-settima-edizione-di-operae-il-festival-del-design-indipendente

88


C h i a r a INTERVISTA | CHIARA ONIDA 89


90


Chiara inizia i suoi studi presso il Politecnico di Torino dove si laurea in Disegno Industriale, succesivamente consegue un master in Industrial Design alla Saint Martin di Londra. Come freelance ha partecipato a progetti di product, exhibit e visual design. Qual’è stato il tuo percorso di studi e come ti ha avvicinato all’autoproduzione? Ho seguito i corsi della laurea triennale al Politecnico di Torino, allora era ad indirizzo “Disegno Industriale” e poi ho iniziato a lavorare come freelance sempre a Torino. I miei primi lavori spaziavano dalla grafica al prodotto, successivamente ho collaborato con la prof.ssa Elena Della Piana ad un progetto di ricerca, ma il mio vero lavoro in quegli anni, quello che mi permetteva di portare la pagnotta a casa era la musica. Dopo la laurea al Politecnico decisi di provare ad iscrivermi allo Iuav di Venezia, dove però la mia iscrizione non venne accettata per motivi di tempistiche sbagliate in relazione alla mia laurea. Decisi quindi di fare l’application alla Saint Martin di Londra dove ho iniziato il master nel 2008 . Nel 2010 mi sono laureata al MA di Disegno industriale e subito dopo (il pomeriggio stesso della laurea), ho iniziato a lavorare in un agenzia di branding. L’elaborato della laurea era composto da tre progetti legati al suono, materializzati con tecniche e materiali differenzi, c’era un oggetto speculativo in metallo, un oggetto semispeculatico e semi-funzionale in vetro e un oggetto totalmente funzionale realizzato in pelle. L’oggetto in vetro ha avuto appeal in quanto è stato uno dei primi progetti di rilancio del vetro in quel periodo, venne pubblicato, acquisito da un museo per una mostra permanente e successivamente una galleria di Berlino si interessò e mi chiese di collaborare con loro.

91

Qual’è stato il collaborazione?

frutto

di

questa

Proposi alla galleria un nuovo progetto di sperimentazione sul vetro. Per la realizzazione chiamati dei vecchi amici che studiavano a Venezia e che aveva già un contatto con una fornace che è per l’appunto Salviati. Io dalla mia avevo una galleria, loro una fornace, proposi così di creare un team-up e di realizzare insieme il progetto per la galleria berlinese. Da questa collaborazione è nato “Breking the Mould”, che consiste in tre diverse ricerche sul vetro, iniziate nel 2011 e terminate nel 2014, colminate nel 2015 con una consulenza per la fornace che ha prodotto i pezzi. Ora rientro nel ruolo di Art direction/Creative direction dell’azienda, vuol dire che progetto molto poco, ma fornisco una overview sulla progettazione e sulla ricerca di designers e eventi. Come percepisci il design italiano di questi anni, sopratutto in relazione con il design estero? Quello che io percepisco del design italiano è che soffre principalmente di due problemi: uno è sicuramente il retaggio con la storia, quindi è legato ad un passato da cui non si scolla, il secondo è che le nuove generazioni di designer che si autoproducono sono molto simili nel lavoro che fanno, non c’è una varietà e una vera spinta alla ricerca ma tante produzioni di cose mediocricri facilmente producibili a livello industriale ma non c’è un vero e proprio tentativo di spingere i limiti di una produzione. Non c’è una ricerca intellettuale, un significato dietro al prodotto ma il vero e proprio tavolo o piatto. Io vivo a Londra ormai da 8 anni e ogni volta che devo produrre qualcosa penso all’Italia, perchè l’Italia ha davvero una risorsa incredibile. Non parlo del famoso “Made in Italy”, perchè ormai lo si può definire “vecchio”, non ci sono più gli Enzo Mari o i Castiglioni, che prendono i


progettisti e li fanno entrare nel panorama del design, delle industrie. Ed è quello che io volevo cercare di fare con il progetto “Breking the Mould”, dove c’è un autoproduzione ma anche un industria che ha un know how. Di questo sicuramente peccano gli olandesi, che alle loro spalle non hanno un industria, continuano a fare degli esperimenti che spesso fanno faticano a trovare uno sbocco su una produzione. In Italia secondo me ci sarebbe davvero la possibilità di legare i progettisti ad uno slancio di ricerca e sviluppo all’interno dell’azienda. C’è bisogno però che i progettisti siano creativi e l’industria sia ricettiva. Parliamo di autoproduzione. Secondo me l’autoproduzione ha ancora dei limiti, che sono i limiti di un progettista che si approccia a un materiale e lo conosce relativamente poco, l’industria conosce benissimo il materiale ma fa fatica a rinnovare perchè lo conosce talmente bene. Mi viene in mente il progetto di una tua collega, “Future Flora” di Giulia Tommasello, potrebbe rientrare nella categoria di design autoprodotto citato prima? Giulia si colloca in un panorama che è contemporaneo, dove i materiali contemporanei non hanno senso di esistere perchè non sono più sostenibili a livello ambientale, c’è la necessità di studiare cose nuove, c’è bisogno di spingersi oltre alla sedia in marmo e iniziare a cercare quello che è la possibilità di un esistenza sostenibile. La ricerca di Giulia è molto interessante perchè spezza quei tabù dettati dalla società.

92


J a ma i s CASO STUDIO | JAMAI SANS TOI 89



Dopo aver analizzato le varie distinzioni di designer che autoproducono e dopo aver intervistato Chiara Onida, designer dalla formazione prettamente industriale, passiamo ora ad analizzare il caso: “Jamais sans toi”. Jamai sans toi nasce dall’unione delle passioni di due sorelle di Chiomonte, paese dell’alta Val Susa. Loro sono Camilla e Valentina Gallo, la prima diplomata in scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Torino e successivamente specializzata in restauro della ceramica presso la scuola Maria Luisa Rossi, la seconda, laureata in design, attrice e doppiatrice, ha frequentato diversi corsi di approfondimento delle tecniche di oreficeria. Nel 2012 decidono di fondere le loro passioni, il gusto e le competenze in questo progetto, aprendo il primo laboratorio nel cuore di Torino. Jamais sans toi è un piccolo laboratorio artigianale del gioiello contemporaneo, il nome del brand, come raccontato le sorelle Gallo, si ispira al motto di Chiomonte, la loro città natale. Lo stemma della cittadina piemontese raffigura un sole che illumina due grappoli d’uva sovrastati dalla frase “Jamais Sans Toi”, letteralmente “mai senza di te”, in antico dialetto occitano. Il sole e l’uva, elementi primigeni, sono tra le suggestioni che hanno portato all’identificazione nella sfera, forma pregna di simbologia, come modulo ispiratore delle creazioni JST: composizioni modulari complesse, accuratamente realizzate a mano attraverso le prassi della ceramica artistica. La materia, l’argilla, è il campo di conoscenza comune, luogo di evoluzione e ricerca continua.78

78

91

79

Jamais Sans Toi è una bottega italiana che produce articoli di gioielleria contemporanea. Nei suoi laboratori Jamais Sans Toi realizza gioielli in ceramica con le tecniche più antiche del mondo, dando vita a opere uniche di grande fascino, luminose e di una bellezza senza tempo. Le loro creazioni, si possono quasi considerare eterei gioielli in ceramica che subiscono una minuziosa lavorazione: foggiate a mano in terraglia bianca, cotte, smaltate e successivamente sottoposte a un’ulteriore cottura. Ogni oggetto è un pezzo unico, frutto di un processo creativo che impiega tecniche antiche di centinaia di anni. Forme arrotondate, organiche e fluide, che sembrano come crescere su chi le indossa per avvolgerlo in un abbraccio materico. Grazie al processo di lavorazione della materia prima, la fabbricazione di ogni gioiello di Jamais Sans Toi diventa un atto di creazione complesso e unico, arcaico e moderno al tempo stesso. La caratteristica tipica di Jamais Sans Toi è infatti la versatilità dei pezzi: molte collane sono trasformabili e possono essere indossate in differenti modalità per adattarsi al meglio ai diversi abiti e scollature. Nonostante il design essenziale, comporre i gioielli è una procedura piuttosto complicata ed ogni pezzo viene creato a mano, pallina dopo pallina.

http://www.jamaissanstoi.it/it http://rottasutorino.blogspot.it/2016/03/jamais-sans-toi-i-gioielli-di-ceramica-a-torino.html


Si possono quindi definire Camilla e Valentina Gallo, due designer/artigiane imprenditori di loro stesse. Da una semplice attività artigianale in laboratorio iniziata nel 2011, ad ora contano diverse collaborazioni a livello internazionale ed i loro gioielli sono arrivati anche nel lontano Oriente. Raccontano così le sorelle Gallo: “..Abbiamo iniziato a creare gioielli in ceramica quasi per gioco, l’idea era farli per noi, provare cose nuove e vedere cosa veniva fuori, ma poi è successo che mi chiedessero dove li avevo comprati, mi avvicinavano persino in treno per farmi i complimenti. Così abbiamo iniziato seriamente a pensare a un progetto nostro. Abbiamo comprato il forno per la ceramica (che raggiunge altissime temperature) e abbiamo cominciato a lavorare l’argilla a Chiomonte, il nostro paese d’origine, e non so quanti chilometri alla settimana facevamo per portare le nostre ceramiche a Torino, avanti e indietro!”79 Curano personalmente a 360° il brand identity del loro marchio. Hanno studiato i tutti i packaging proposti dal 2011 ad oggi, ed hanno inoltre curato e curano tutt’ora la commercializzazione dei loro gioielli e la partecipazione alle più grandi fiere internazionali, crescendo di giorno in giorno e diventando una giovane realtà imprenditoriale torinese.

92


93

C

o

n

c

l

u

s

i

o

n

i

.


L’obiettivo di questa tesi è quello di indagare le vicende del design italiano dalla fine degli anni Quaranta ai giorni nostri ed in particolare di prendere in considerazione le esperienze che in quegli anni sarebbero uscite dai tradizionali confini della disciplina della produzione per accostarsi alle tematiche dell’autoproduzione. Sebbene il concetto di “autoproduzione” sia ancora a volte poco chiaro, possiamo ritenerlo un fenomeno anziano, un fenomeno che è sempre esistito. Abbiamo più volte osservato all’interno dell’elaborato i mutamenti che il design ha subito negli anni, gli sconfinamenti in campo artistico con le serie numerate e le realizzazioni definite da collezione, tanto da capire che non si tratta di design esclusivamente quando c’è di mezzo l’industria. Le parole industria, artigianato e design possono essere utilizzate contemporaneamente parlando di nuova nuova produzione, di una nuova autoproduzione. Quella autoproduzione che parte da un giovane designer che studia il materiale, i processi di lavorazione come un vero e proprio artigiano, o ancora si rivolge personalmente all’artigiano, per creare un qualcosa di nuovo, ponendo alla base una ricerca sociale, un progetto che un industria potrà in un futuro sviluppare e mettere in commercio. Non sempre la parola industria viene considerata “limitativa”, basta pensare a tutti quei grandi designer che si sono legati all’industria, un industria che si faceva portatrice d’innovazione e futuro. Basta pensare agli anni ’60, dove per esempio l’industria della plastica ha rivoluzionato la nostra vita e i progettisti hanno accompagnato questo movimento oerchè curiosi di sperimentare. Tutte le nuove tecnologie di oggi non potrebbero essere utilizzate senza l’aiuto della mente curiosa del designer per la loro applicazione. Come afferma Chiara Onida, “In Italia ci sarebbe davvero la possibilità di legare i progettisti ad uno slancio di ricerca e sviluppo all’interno dell’azienda. C’è bisogno però che i progettisti siano creativi e l’industria sia ricettiva.”. Bisogna pensare all’autoproduzione come ad un completamento dell’industria e non come la sua contrapposizione. Bisogna pensare all’autoproduzione come ad un incentivo per i giovani designer di sperimentare col materiale per la realizzazione di un progetto che abbia alla base una ricerca intelletuale che vada incontro alla società odierna.

94


Bibliografia C. Rossi, Crafting Design in Italy: From Postwar to Postmodernism, Manchester University Press, 2015

D. Sudjic, Ron Arad: cose di cui la gente non ha veramente bisogno, postmedia. Milano 2003

P. Antonelli, States of Design: design fatto a mano, “Domus”, 2012

A. Boaretto, G. Noci, F.M. Pini, Open Marketing, strategie e strumenti di marketing multicanale, op. cit

E. Della Piana, Italy at work in “Design Issue”, in corso di stampa

R.Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2008

VII Triennale, Catalogo, 1940

C. Anderson, Makers. Il ritornodei produttori, Rizzoli, 2013

B. Finessi, Il design italiano oltre le crisi. Autarchia, austerità, autoproduzione, catalogo VII edizione del Triennale Design Museum, 2014 P. Auster, Il libro delle illusioni, 2002 Relazione della Giuria 1962, in Compasso d’oro 1954- 1984, Electa, Milano 1985. “Superachitettura”, manifesto della mostra, Pistoia 1966. A. Natalini, Dal Superstudio all’architettura di resistenza, Edizione dell’Arengario, 2011 A. Branzi, Il design italiano, 1964-2000 G. D’Amato, Storia del Design, Mondadori, pag 173 B. Radice, Memphis: ricerche, esperienze, risultati, fallimenti e successi del Nuovo Design A. C. Quintavalle, Enzo Mari G. Manzini, in “Paese sera”, 1974 R.Arad, “Ron Arad talks to Matthew Collings” – Ed. Phaidon A. Cappelieri, R. Arad, Mondadori Arte, Milano, 2008


Sitografia http://www.maddamura.eu/blog/language/it/ crafting-design-in-italy-rossi-catharine/

http://www.arte.rai.it/articoli/tendenze-deldesign-contemporaneo/16379/default.aspx

http://old.triennale.org /it/archivio/ esposizione/23381-viitrn?filter_catphoto=+

http://www.een-italia.eu http://fuorisalonemagazine.it

h t t p : //w w w. a r t e . r a i . i t /a r t i c o l i / l e avanguardie-radicali-e-la-nuova-culturadel-progetto/18753/default.aspx http://www.raiscuola.rai.it/articoli/enzomari-lezioni-di-design/7105/default.aspx

http://www.subalterno1.com http://www.lavorincasa.it/torino-designweek/ http://operae.biz/designing-the-future/

http://www.fucinemute.it/2006/02/enzomari-tra-etica-e-design/ http://www.frizzifrizzi.it/2016/04/12/ design-oggi/ http://blog.contemporarytorinopiemonte. it/?p=23250 http://blog.contemporarytorinopiemonte. it/?p=23250 http://www.instructables.com http:/www.disegnoindustriale.net/12 http://it.wikipedia.org /wiki/Hardware_ libero http://www.makerfairerome.eu/it/chisono-i-maker/ http://danishdesignaward.com https://www.designforum.fi/etusivu https://www.wbdm.be http://www.dutch-doc.nl/ http://en.via.fr/presentation http://www.ifa.de/en/funding.html

http://www.artemagazine.it/design/ item/2476-a-torino-la-settima-edizione-dioperae-il-festival-del-design-indipendente


Pubblicazioni G.Ponti, in “Corriere della Sera”, 1939 V. Gregotti, M. Zanuso, Architetto della seconda generazione, in “Casabella”, n. 216, 1957. P. Navone e B. Orlandoni, Architettura Radicale, Documenti di Casabella, Milano, 1974. E. Sottsass, Arrivano gli Archizoom, in “Domus”, n. 455, 1967. Superstudio, Design d’evasione d’invenzione, in“Domus”, n. 475, 1969

e

Superstudio, dal catalogo degli istogrammi la serie Misura, in “Domus”, n. 517, 1972 A. Natalini, Spazio di coinvolgimento, in “Casabella” n 326, 1968 Global Tools., Documento 1, in “Casabella” , n. 377, 1973 p. 4 A. Branzi, Global Tools, in Radical Notes, “Casabella”, n.377, 1973, p. 8 P. Antonelli, States of Design: design fatto a mano, “Domus”, 2012 Alessandra Maragon, L’Evoluzione del sistema fieristico italiano: sfide e strategie per i principali operatori, tesi di laurea, 2011



Ringraziamenti Non mi sono mai considerata abbastanza brava nel ringraziare le persone che in passato mi hanno aiutato. In questa occasione però voglio impegnarmi e ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questo momento. Un ringraziamento speciale alla mia relatrice, la prof.ssa Elena Della Piana che oltre ad essere un insegnante fantastica, dispensa “pillole di vita quotidiana” con saggezza e leggerezza allo stesso tempo. Un grazie alla mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto in tutti i miei percorsi accademici e in tutte le mie scelte, a volte considerandole quasi delle pazzie. Grazie. Un grazie a tutte quelle persone che mi hanno accompagnata dal primo anno di università e che mi hanno insegnato, a volte involontariamente, le basi per iniziare questo percorso. Grazie Isabela. Grazie Giò. Grazie Angela. Un grazie a tutti quegli amici che hanno reso tutto più frizzante e leggero, amici nuovi, amici vecchi e amici lontani ma non per questo meno importanti. Grazie. Ma sopratutto voglio ringraziare colui che crede sempre in me, che nonostante questi ultimi mesi siano stati burrascosi non mi ha mai mollata, anzi spronata. Grazie Lele.





Politecnico di Torino 1° Facoltà di Architetura Corso di Laurea in Design e Comunicazione Visiva

Tesi di Laurea di 1° livello

Dal Crafting all’Autoproduzione, fiere, mostre e festival.

Relatore

Candidata

Elena Della Piana

Sara Capello


A

U

P D

R

O U

O

N


T

O

Il percorso di ricerca di questa tesi pone le basi sull’analisi dell’evoluzione del fenomeno sociale dell’autoproduzione mettendo in evidenza la realtà contemporanea del festival e della fiera di design autoprodotto ed indipendente. Con la tale si vuole domandare quale sia oggi il ruolo dell’autoproduzione evidenziando come all’avanzare delle tecnologie innovative si voglia decontestualizzare “smaterializzando” il progetto e la sua produzione tornando a quello che viene definito Crafting, la voglia del progettista di esaltare il mestiere , che sia anche mĭnĭstĕrium, ovvero conciliare la tecnica, il gusto, l’abilità manuale al servizio del progetto. Distinguendosi quindi dal fai-da-te, più orientato alla creazione di un oggetto strettamente funzionale. Partendo da alcuni spunti storici che hanno caratterizzato e stravolto in qualche modo la produzione, riusciamo ad analizzare il fenomeno partendo dalla sua nascita , per vedere in seguito , come l’autoproduzione si stia tutt’ora sviluppando a livello internazionale ma sopratutto locale.

Z E

I


indice numerico

08

23

1. Il crafting

1.5 Le avanguardie radicali

13

39

15

1.3 Gio Ponti

49

19

56

1.2 L’Italia pre-bellica

1.4 Gli anni ‘50 e ‘60

1.6 I radicali uniti

1.7 Gli anni ‘80

2 Do it yourself


69

83

71

89

75

2.3 La situazione italiana

93

Caso Studio

79

97

2.1 Perchè autoprodurre?

2.2 Lo scenario europeo

2.4 Le nuove fiere-mercato

2.5 Torino Design week

Intervista

Conclusioni



Capitolo 1. Il Crafting in Italia

“La costanza dell’artigiano e dell’artigianato di affiancare il designer in Italia è sempre stata argomento di discussione”

La costanza dell’artigiano e dell’artigianato in genere di affiancare il designer e l’imprenditore in Italia è stata argomento di discussione di numerosi critici e storici del design che l’hanno considerata un ostacolo all’affermazione e definizione dell’identità della cultura del progetto in senso industriale, un’opportunità di affermazione culturale ed economica. Un refrain, quest’ultimo, che è stato variamente espresso fin dall’affermarsi del discorso post-industriale negli anni ottanta, poi con il riconoscimento del sistema produttivo dei distretti, formati da piccoli e medi laboratori e aziende, infine, più recentemente, con l’ondata di dichiarazioni a proposito della lunga tradizione di arti e mestieri italiana, che ha accompagnato il diffondersi del movimento dei makers.1 La storica Catherine Ross nel suo lavoro “Crafting Design in Italy”2 si insinua in quella che può essere una definizione del maker italiano, concentrandosi sul periodo che va dal dopoguerra agli anni ottanta. Dopo un attenta lettura del saggio si può evincere che l’approccio italiano al crafting risulti influenzato dalla contrapposizione fra lavoro manuale e intellettuale, mentre l’influenza Anglosassone ci rimanda all’ Art&Craft e ai suoi protagonisti, quali William Morris che avevano sollevato la questione dell’etica nel design e nella produzione trovando l’equilibrio perfetto tra i due estremi.

ITALY at work: her reinaissance in DESIGN TODAY, Art Institute Chicago, 1953

http://www.maddamura.eu/blog/language/it/crafting-design-in-italy-rossi-catharine/ C. Rossi, Crafting Design in Italy: From Post-war to Postmodernism, Manchester University Press, 2015 3 P. Antonelli, States of Design: design fatto a mano, “Domus”, 2012 1

2

7


Gli anni tra il 1945 ed i primi del 1980 si possono considerare i più celebri nella storia del design italiano.

Sull’ estremo virtuoso sedeva l’artigiano, produttore indipendente di idee e maestro illuminato di bellezza e probità. Sull’altro veniva collocato il produttore su scala industriale, attuatore di ciò che è brutto e cattivo, manipolatore dei materiali contro la loro stessa natura.3 In Italia, l’artigianato è ritenuto da sempre fondamentale soprattutto per quanto riguarda l’ideazione e l’interpretazione durate la progettazione. Il nostro paese può largamente vantarsi di un ricco patrimonio di artigiani e di laboratori che nel passato, ma anche nel presente, hanno collaborato con l’industria, trascinando con loro una serie di tradizioni, una serie di concetti. Il rapporto complesso stabilitosi tra artigianato e design è continuamente presente, lo era al tempo di Gio Ponti negli anni Cinquanta con il rilancio dell’artigianato e perfino con Memphis (1981-1987), con i laminati sparsi a rivestire tutto l’arredamento postmoderno; esempi a cui dedicheremmo maggior attenzione più avanti. Gli anni tra il 1945 ed i primi del 1980 si possono considerare i più celebri nella storia del design italiano, anni in cui erano protagonisti la retorica della ricostruzione e le provocazioni postmodern di Memphis, anni in cui gli architetti italiani giocavano un ruolo vitale nel plasmare l’incontro del paese con la modernità del dopoguerra. L’artigianato è stato fondamentale per la realizzazione del design italiano e una parte d’intensa creatività venne trattata marginalmente ed esclusa dalla storia del design. Ciò nonostante il marchio Made in Italy è stato parte della mitologizzazione 4

8

E. Della Piana, Italy at work in “Design Issue”, in corso di stampa

del design italiano del dopoguerra come i suoi eroici architetti. Importante è la relazione tra il design e il settore manifatturiero italiano, in quanto, quando cambiò il contesto socio-economico e politico, cambiò anche il rapporto tra design e artigianato. Nelle fasi di ricostruzione le industrie artigiane italiane erano viste come le più importanti e le più facili da rilanciare insieme all’economia della nazione in quanto funzionali alla retorica del nuovo regime che prevedeva l’affiancamento di categorie fini a se stessi quali: artigianato e industria, tradizione e modernità, creando per ognuna una attenta opera di celebrazione. I progettisti in questo clima austero non vogliono rompere con la tradizione nazionale bensì considerano quest’ultima in continua evoluzione, in continua trasformazione. Insistono quindi sulla cifra nazionale, sul Made in Italy, sulla necessità di mantenere uno stretto legame con la tradizione, con l’artigianato. Da questa voglia di far conoscere il Made in Italy nascono diverse mostre negli Stati Uniti che valorizzano il lavoro progettuale italiano. La prima grande mostra interamente dedicata al quotidiano italiano si può considerare: Italy at Work, Her Reinaissance in Design Today, organizzata dal Ministero del Commercio Internazionale e curata da Rogers e Nigel, aperta nel Novembre del 1950 al New York’s Brooklyn Museum4.


Italy at Work: Her Renaissance in Design Today, 1950- 1951 (Image: PHO_ E1949i002.jpg Brooklyn Museum photograph, 1950)

Italy at Work: Her Renaissance in Design Today, 1950- 1951 (Image: PHO_ E1949i004.jpg Brooklyn Museum photograph, 1950)

Italy at Work: Her Renaissance in Design Today, 1950- 1951 (Image: PHO_ E1949i016.jpg Brooklyn Museum photograph, 1950

9


“Enviroments and Counter Experimental Media in Italy: The new Domestic Landscape - MoMA 1972”. La rilettura di una storica mostra celebra il Made in Italy.

L’esposizione presenta più di duemila e cinquecento esempi di artigianato e design contemporaneo italiano disposti in cinque sale differenti progettate da svariati architetti tra cui Carlo Mollino e Gio Ponti. Apprezzata sia dalla critica popolare che artistica, Italy at Work, spende i successivi tre anni viaggiando di museo in museo, raggiungendo circa undici musei negli Stati Untiti, chiude definitivamente questo viaggio al Museum of the Rhode Island School of Design nel Novembre del 1953. Dopo l’inaugurazione al Brooklyn Museum, l’esibizione arriva all’ Art Institute of Chicago, al De Young Museum a San Francisco, al Portland art Museum, al Minneapolis Institute of Arts, al Museum of Fine arts a Houston, al City Art Museum di st.Louise, al Toledo Art Museum, al Albright Art Gallery a Buffalo, al Carnegie Art Museum, al Baltimore Museum of Art per raggiungere finalmente il Museum of Art at the Rhode Island School of Design. Prevalentemente americana concepita, finanziata e organizzata, Italy at Work mirava ad accentuare la ricostruzione post-bellica Italiana presentando il Made in Italy ai consumatori americani, legata al commercio italiano, alle piccole e medio imprese artigianali, le quali non potevano competere con l’industria americana ma rimandavano alla rassicurante capacità degli artefici italiani di ricostruirsi, di rifarsi dopo la guerra.

10

A discapito della parola “design” del titolo dell’esposizione, i materiali dell’artigianato e le tecniche produttive dominarono la scena. Nel contesto della supremazia economica degli USA la produzione italiana veniva ricostruita seguendo le linee americane, il campo nascente dell’industrial design veniva emarginato in favore di un immagine di una nazione artigiana. Attraverso anche la copertina del catalogo della mostra la quale enfatizzava l’estetica artigiana. Nel maggio del 1951, appena Italy at Work iniziò la seconda parte dell’iter tra musei, iniziò anche la nona triennale di Milano che quasi a rispecchiare il successo di Italy at Work aveva scelto come tema “L’unità delle arti” dove gli organizzatori cercavano di proiettare un immagine della modernità del dopo guerra; un contrasto con la precedente, riflessa nel chiaro e geometrico stile di quegli anni, cercando anche di abbandonare le spinte sociali della precedente edizione e dando più spazio agli artisti. Tuttavia la chiarezza del loro messaggio era oscurata dai conflitti interni che riflettevano i tormenti politici Italiani. Sebbene l’industrial design era presente nella scena italiana, l’artigianato rimaneva protagonista dei prodotti italiani esposti con una chiave di lettura differente da quella del design e della architettura nazionale del post-guerra.


Due esposizioni, una in Italia, una in America, ognuna che offriva punti di vista di design e artigianato contrastanti agli inizi degli anni ’50. Italy at Work e la Triennale offrivano l’opportunità di esaminare come questa relazione era stata costruita; la prima vista come una delle chiavi del mercato italiano, l’altra come visione della produzione locale. Italy at work non era però la prima iniziativa guidata dall’America che si concentrava sull’artigianato italiano. Infatti Max Ascoli, ebreo sfuggito alle persecuzioni, nel 1945 istituì l’HDI (Handcraft Development Incorporated), una organizzazione no profit che il New York Times descriveva come “la riabilitazione dell’esportazione dell’artigianato italiano nel mercato americano”. Questo processo di esportazione poteva avvenire attraverso tre strategie: primo, permettendo la

produzione attraverso il supplemento di materiali ed equipaggiamenti; secondo, esponendo i risultati nella sede centrale dell’HDI di New York; terzo, trasformando questo nella Piazza, uno spazio espositivo dell’artigianato Italiano. Il design italiano negli anni successivi l’esposizione di Italy at Work veniva continuamente celebrato negli Stati Uniti. Il Made in Italy appariva nelle maggiori riviste di architettura, le quali dedicarono intere pagine ai progetti e progettisti italiani. Anche molti Department Stores venivano allestiti con prodotti italiani di ogni genere. Questa strategia commerciale veniva manovrata oltre che dagli organismi misteriali dagli stessi progettisti i quali scrivendo dei grandi successi del progetto italiano negli USA, informavano la popolazione italiana del perché all’estero ci fosse così tanta richiesta del Made in Italy.

11


1.2 L’Italia pre-bellica Nella maggior parte dei casi si è indagato su ciò che accade durate il pre ed il post guerra e non su quello che fu il clima culturale in Italia del progetto moderno durante la guerra. Come se quegli anni fossero sospesi in una sorta di oblio dove architetti e progettisti si ponevano delle enormi e laceranti domande sulla propria condizione ed il proprio ruolo civile. Nella maggior parte dei casi si è indagato su ciò che accade durate il pre ed il post guerra e non su quello che fu il clima culturale in Italia del progetto moderno durante la guerra. Come se quegli anni fossero sospesi in una sorta di oblio dove architetti e progettisti si ponevano delle enormi e laceranti domande sulla propria condizione ed il proprio ruolo civile. Era il 1940 e a Milano si teneva la VII Triennale, l’ultima realizzata nel periodo fascista, si chiuse il 9 giugno 1940 alla vigilia della dichiarazione di guerra di Mussolini agli alleati. Mentre nelle precedenti edizioni il dibattito architettonico e culturale era vivo, in questa Triennale non c’erano margini per un confronto sulle tematiche culturali. Molto spazio veniva dato agli architetti del regime, primo fra tutti Marcello Piacentini, curatore della sezione di architettura. Gli architetti milanesi, razionalisti, allontanatisi dalle nuove direttive del regime, si esprimono nella curatela di sezioni collaterali come il verde in città e il piano turistico dell’isola d’Elba di Banfi, Belgiojoso e Peressutti, le sezioni delle arti decorative di Ignazio Gardella, la sezione dellearti decorative di Ignazio Gardella, la Mostra sulle produzioni di serie di Giuseppe Pagano e la sezione dedicata all’arredamento della casa moderna di Piero Bottoni.

http://old.triennale.org/it/archivio/esposizione/23381-viitrn?filter_catphoto=+ VII Triennale, pp. 125, 1940 7 VII Triennale, pp. 127, 1940 5

6

12

L’impostazione generale preferiva “l’italianità” e celebrava il “nazionalismo” sia nella scelta delle opere sia nei criteri di ordinamento, causa una partecipazione straniera limitata a poche sezioni5. Possiamo quindi considerare la VII Triennale la prima esposizione specificamente dedicata al design in Italia. Il catalogo della VII Triennale (1940), esplicita le intenzioni dei curatori: “Questa Mostra intende dimostrare la tendenza naturale umana alla produzione in serie cercando di valutare quanto è stato fatto in questo campo, quale grado di perfezionamento estetico è stato fino ad oggi ottenuto dalla produzione industriale e quali sono le possibilità future di una ordinata e artistica applicazione di questo principio nell’architettura e nell’urbanistica.”6 L’esposizione era divisa in tre sezioni. La prima introduce al concetto di serie: “Presentando alcune delle più caratteristiche produzioni in serie del mondo naturale, inanimato e animato: dalle organizzazioni del microcosmo (cellule, sistemi cristallini), alle organizzazioni del macrocosmo del mondo minerale, vegetale, animale. Accanto a questa prima e sintetica dimostrazione della naturale tendenza alla organizzazione in serie (“standardizzazione”) si presenta quanto l’attività umana ha speculato o sta sperimentando in campi analoghi a quelli perseguiti dalla natura”.7


VII Triennale di Milano (Domus n.151, luglio 1940)

La seconda sezione è dedicata alla produzione in serie nell’industria. Fra gli espositori: Fiat, Olivetti, Innocenti, Triplex, Borletti, Caproni, Lagomarsino, Officine Galileo, Salmoiraghi, Vis-Vetro italiano di sicurezza, Ducati, i mobili di Beltrami, Pino, Maggioni. Nella terza sezione venivano presentate le applicazioni della produzione in serie nel campo dell’edilizia e dell’architettura, che riprendono in parte la mostra della precedente Triennale. Fra gli espositori, aziende come S.A.F.F.A., Richard Ginori, Ceramica ligure, Società del Linoleum, Eternit, Litoceramica Piccinelli e Fontana vetri. La VII Triennale si adopera per valorizzare uomini e materiali, estetica e autarchia, andando verso il popolo con progetti, lavori artigiani e industriali, con perfezionamenti tecnici e proposte estetiche in un clima di crisi. Progettare ai tempi delle crisi economiche sembrava essere una condizione particolarmente favorevole allo stimolo della creatività.8 Come afferma Paul Auster “ I momenti di crisi raddoppiano la vitalità degli uomini. O forse, più in soldoni, gli uomini cominciano a vivere appieno solo quando si trovano con le spalle al muro” 9. Ogni crisi, pone di fronte ad una scelta, ad una innovazione non consentendo lo stallo di idee o la routine. Con la VII Triennale emergeva l’idea di produrre facendo della necessità una virtù, sfruttando la materie prime nazionali, riducendo l’import di merci prodotte all’estero e ricercando nuovi materiali utilizzati successivamente come surrogati di materie costose o di importazione. Il settore delle costruzioni e quello tessile procedono in quegli anni oscillando tra un discorso “avanzato” di ricerca e un discorso di “emergenza” di stampo più o meno autarchico. B. Finessi, Il design italiano oltre le crisi. Autarchia, austerità, autoproduzione, catalogo VII edizione del Triennale Design Museum, 2014 9 P. Auster, Il libro delle illusioni, ET scrittori Einaudi,2002 8

13


1.3

Gio Ponti

Nell’autunno del 1935 Guido Donegani, capitano dell’industria d’Italia, fondatore e presidente della Montecatini, commissiona a Gio Ponti, giovane architetto al primo grande incarico, un caso unico di design totale: la nuova sede del Palazzo Montecatini, con la raccomandazione di far emergere le nuove tecniche costruttive e i perfezionamenti sperimentati fino allora. Un abile strategia comunicativa aveva consolidato l’azienda come un “monumento nazionale” e per questa ragione anche il palazzo doveva divenire tale. Realizzati in tempi diversi su due lotti contigui, i palazzi per la Montecatini erano disegnati per ospitare in un unico, modernissimo complesso tutti gli uffici amministrativi della società milanese, produttrice di materiali come l’alluminio e il marmo impiegati poi per la costruzione concepita come modello in scala reale delle potenzialità offerte dall’industri italiana. Come racconta Lisa Ponti, Donegani contestava un lunga lista di obiezioni e Ponti rispondeva di ogni soluzione adottata affermando che non poteva apportare alcuna modifica al progetto, ma solamente rinunciare all’incarico. Fu così che conquistò Donegani, e così che nacque il primo palazzo Montecatini. Ponti riusciva a far innamorare di sé e dell’opera che stava progettando, costringendo il committente ad un rapporto imbarazzato per cui tutto ciò che riguardava la realizzabilità del progetto veniva accantonata in secondo piano in quanto il committente aveva davanti a se un artista, un progettista tanto appassionato che parlava con intensità da coinvolgere e mettere da parte i problemi costruttivi. Per la realizzazione Ponti era consapevole di dover esprimere lo stile di un industria , progettò quindi un edificio elitario nel modulo, avanzato nella tecnica edilizia, precursore negli impianti, costruito in tempi record (23 mesi). A definire l’immagine della Montecatini, la parete laterale aerea, liscia, con serramenti e cristalli a filo, in marmo e alluminio, un marmo nuovo chiamato il “Tempesta” e poi altri materiali sperimentali come i rivestimenti interni in mosaico di grès o l’alluminio e le sue leghe per l’ascensore e la posta pneumatica. Ponti disegnò tutto per i 1500 impiegati della Montecatini, apparecchi e arredi, sedie e scrivanie, destinati poi a entrare nella serie. «Noi passiamo la più parte delle ore al lavoro-, scriveva Gio Ponti nel 1939-, l’ambiente per il lavoro dovrà essere dunque fra i più degni, i più belli, i più civili». 10

14

10

G.Ponti, in “Corriere della Sera”, 1939


G

O I

P

N

O T

I 15


Ponti operava ora in un paese che sembrava stesse voltando le spalle alla tecnica moderna, prescrivendo il ritorno al sistema costruttivo tradizionale utilizzando prettamente materiali nuovi ma sopratutto materiali nazionali. Sperimentò, utilizzò in maniera ineccepibile i nuovi materiali e le nuove tecniche costruttive, realizzando così una vera e propria vetrina per i mobili della Montecatini. Il progetto per la Montecatini doveva aggiungere dell’originalità alla strada intrapresa dalla Olivetti con gli stabilimenti di Ivrea, doveva divenire una sorta di sfida non solo per un miglioramento dello standard costruttivo ma per la possibilità di spingersi oltre i imiti del conosciuto, con un uso dei materiali che andava oltre la logica corrente, in modo tale da sfruttarne le caratteristiche vincenti, le potenzialità dello standard. Ponti partiva avvantaggiato, grazie alla rivista Domus, da lui fondata nel 1928 e poi diretta ed in qualità di direttore della Triennale nel 1930 e nel 1933, inoltre nel 1941 fondava e dirigeva la rivista Stile stampata per Garzanti. Stile incarna lo stile intenso e contraddittorio di Ponti, sviluppato tra i due temi alla continua ricerca di un equilibrio perfetto tra Arte e Italia, in un contesto di disfacimento quale quello della guerra. Collocato dalla storia in quella stagione che sta tra il fascismo e il ritorno alla democrazia, viene guidato da Ponti con impegno fisico e morale. Si può quasi considerare lo specchio di Gio Ponti, la sua rivista-diario, lo zibaldone quotidiano dei suoi pensieri sullo sfondo dei dilemmi nell’arte e nel progetto italiani di allora.

16

Stile è, numero dopo numero, Gio Ponti che parla, che scrive, annota, riflette, si illude, si indigna e poi di nuovo riparte, senza mai fermarsi. Al fianco di Gio Ponti in “Stile” è dal principio la figlia, Lisa, agli esordi nella sua carriera. Sono anni in cui si riconosce il tortuoso percorso del suo progetto al servizio della società civile. Ponti si aggira tra il pretesto di costruire per le nuove colonie, per poi passare all’emergenza di un progetto utile per la precaria vita degli sfollati, per finire con il drammatico tema della ricostruzione. Mentre si andava alimentando il dibattito teorico sulla necessità di un coinvolgimento dell’industria nella questione delle abitazioni, e la produzione di serie appariva il principale “rimedio ad ogni male sociale”, Ponti aveva individuato la Saffa come una delle industrie che concretamente potevano risolvere il problema dell’abitazione. Insieme alla Saffa, progetta i “Mobili Riponibili” affrontando il problema dell’arredamento, a ribadire la centralità della cultura ‘domestica’ e la necessità di pensare in un nuovo modo l’abitare. Questo di Ponti lo si potrebbe considerare un caso di prematuro approccio di autoproduzione, o meglio, di fai-date. Anche se risulta comunque difficile catalogare questo episodio seppur presenta caratteristiche e finalità molto più complesse che esulano dal campo della nostra indagnie, inquanto mantiene alcuni aspetti che fondono assieme l’ottica del farsi le cose per qualcuno e farle per se stessi.


Gio Ponti

I suoi Riponibili non nascono come progetto autoprodotto (lo dimostra il patto con la Saffa, azienda che avrebbe giocato - e lo ha fatto poi in negativo - un ruolo determinante), ma la semplicità dei mobili in questione, unita al fatto che lo stesso Ponti allegava dei cartamodelli alle pagine di Stile per presentare il progetto nelle sue caratteristiche salienti, ci dimostra quella volontà di adottare un approccio in puro stile tutorial - show me how to make something. Il progetto dei Riponibili nasce con l’intento di avere dei mobili-tipo, progettati da un designer, che tutti si sarebbero potuti permettere non do it yourself for yourself il cui progetto non rimane però segreto, ma viene diffuso presso i potenziali utenti, non tramite le pagine di un sito web, ma tramite le pagine di una rivista, (Stile) che si sobbarca l’arduo compito di dare una possibile soluzione al problema della

abitazione del dopoguerra. Un esempio anomalo, poco conosciuto, ma che mostra quanto le forze che sono alla base di un approccio autoproduttivo, autogestionale ed autoprogettuale sono complesse, sicuramente insite nell’uomo da molto tempo prima della comparsa storica dei movimenti di protesta contro la società dei consumi ed infine, difficilmente inscrivibili in confini netti e regolamentati.

17


1.4

Gli anni ‘50 e ‘60

GLI ANNI ‘50 E ‘60 RAPPRESENTANO IL PASSAGGIO DAL BOOM ECONOMICO AL MOMENTO DI CRISI.

Negozio Olivetti 1960

18

Gli anni Cinquanta e Sessanta rappresentano il ventennio in cui il design italiano è passato da un momento di boom economico ad una situazione di crisi. In questi decenni l’Italia, da paese con un economia essenzialmente agricola, avrebbe messo a frutto quel processo di industrializzazione che le altre nazioni europee avevano già compiuto, ottenendo risultati straordinari, tanto da riuscire ad entrare in piena competizione con queste ultime, grazie alla realizzazione prodotti di qualità, caratterizzati da una spiccata invenzione formale. Per la prima volta le famiglie italiane avevano accesso ad un universo di oggetti che prima era tipico solo di un’ élite, questo grazie soprattutto al nuovo sistema di produzione, che consentiva di realizzare in grande serie gli stessi oggetti che prima erano prodotti artigianalmente, rendendone i costi più accessibili e rispondendo a esigenze variabili di spesa.


“La seconda generazione dei designer italiani entra in campo quando le battaglie per il moderno sono state vinte e una sedia ed una poltrona non sono cimenti di cultura ma oggetti di mercato, nel senso attivo della parola, elementi di aggancio al mondo della produzione”11.

“La seconda generazione dei designer italiani entra in campo quando le battaglie per il moderno sono state vinte e una sedia ed una poltrona non sono cimenti di cultura ma oggetti di mercato, nel senso attivo della parola, elementi di aggancio al mondo della produzione”11. Queste le parole di Vittorio Gregotti, che afferma come i designer che progettavano in quegli anni avevano appieno compreso questo mutamento. In quegli anni il mondo della produzione si arricchì sempre più di nuove aziende, di aziende che nascevano o si sviluppavano e che da lì a poco sarebbero diventate delle icone della progettazione. Parliamo di Cassina, che già nel 1965 iniziava a rieditare dei grandi classici del design moderno a partire dai mobili disegnati negli anni trenta da Le Corbusier, affiancando questa operazione ad una produzione di oggetti all’avanguardia disegnati dai designer italiani più giovani. Parliamo ancora di Arflex, Artemide, C&B (nata dalla collaborazione tra Cesare Cassina e Piero Busnelli, e che si occupava per lo più della produzione di imbottiti), Boffi, Gavina, Gufram, Kartell, Olivetti, Poltronova, Zanotta, solo per nominarne alcune. Scendendo nello specifico meritano particolare attenzione i casi di Olivetti e di Cartel, in quanto presentavano alcune particolarità. La Olivetti aveva iniziato già da qualche anno la collaborazione con Ettore Sottsass, che disegnò il primo grande calcolatore elettronico ( Elea 9003) e nel 1964 la macchina da scrivere Techne3.

11

Nello stesso anno Roberto Olivetti propose a Sotttsass di entrare stabilmente in azienda divenendo così il direttore del settore dedicato al design. A questa proposta rispose con una soluzione alternativa del tutto particolare, Sottsass propose infatti l’apertura di un atelier in cui i collaboratori, secondo le necessità dell’amministrazione aziendale, sarebbero stati come “freelance” pagati dalla Olivetti. Questa proposta consentiva ai designer di poter lavorare in completa autonomia senza essere assorbiti dal clima aziendale ed industriale avendo così più facilità e libertà nello sviluppo di nuove idee progettuali, ed andava contro corrente rispetto ai modelli degli altri paesi europei che tendevano ad incorporare il designer nel sistema industriale. Olivetti si serviva anche di una serie di collaboratori che la assistevano nella realizzazione degli uffici, dei negozi, degli showroom e delle mostre, tramite le quali l’azienda promuoveva, anche al di fuori dei confini nazionali, la propria immagine e quella dell’architettura, del design e dell’arte italiani. Kartell invece venne fondata nel 1949 dall’ingegnere chimico Giulio Castelli nella provincia di Milano, dove si consolidò grazie alla produzione di pezzi d’arredamento e di design in plastica. Come Kartell in quegli anni molte aziende erano interessate alla sperimentazione e alla produzione con materiali plastici.

V. Gregotti, M. Zanuso, “Architetto della seconda generazione”, in “Casabella”, n.216, 1957

19


I prodotti venivano camuffati da artigianali (sedute Saratoga, disegnate da Lella e Massimo Vignelli per Poltronova, dove il legno della struttura venne laccato in poliestere) e quelli artificiali diventavano ricercati (Moplen- marchio registrato dalla Montecatini con cui si indicava il polipropilene isotattico). Siamo negli anni sessanta, anni dove oltre alla celebrazione di nuovi materiali e colori vivaci, al neo-liberty italiano, l’ADI organizza dibattiti dove i membri partecipanti pubblicavano saggi e ricerche, venivano svolte attività all’estero partecipando a varie mostre e iniziative dell’ICSID (International Council of Societies of Industrial Design). Inoltre l’associazione esprimeva le proprie posizioni attraverso l’istituzione di un premio, il Compasso d’oro, forse una delle attività più note dell’ADI.12 Nel 1962 il concorso subiva i primi cambiamenti: come la cadenza biennale, piuttosto che annuale, e nuove modalità di partecipazione, che da quel momento in poi poteva avvenire solo per invito, secondo la selezione fatta dal Centro Documentazione dell’Associazione. Dieci anni dopo, su Ottagono n. 27 del 1972 e Abitare n. 545 del 1975 Bruno Munari, pubblica una ricerca di oggetti ben progettati e ben venduti anche se non firmati, i quali vengono premiati con il “Compasso D’oro a ignoti”, dove l’ intelligenza e lo spirito giocoso del maestro, si fondono in questo ‘premio inventato’, per dare dignità ad oggetti di cui non si sa nemmeno il nome del designer. Ancora prima che venisse usato il termine design per definire una produzione giusta per oggetti che rispondono a funzioni necessarie, tali oggetti erano già in produzione e si continuano a produrre, e ogni volta vengono migliorati secondo i materiali e le tecnologie usati. Sono oggetti di uso quotidiano nelle case e nei posti di lavoro e la gente li compera perché non seguono le mode, non hanno problemi di simboli di classe, sono oggetti ben progettati e non importa da chi13.

20

Logo premio Compasso d’Oro, Albe e Lica Steiner, 1956


Tornando a noi, durante l’anno del 1962 la situazione del design italiano, riscontrata attraverso il concorso del Compasso d’oro, era quella di una forte insistenza dell’industrial design legato a prodotti “rivelatisi soprattutto virtuosismi tecnico- formali o forzature sperimentali, o nel migliore dei casi, cose anche eccellenti e culturalmente importanti, ma espressione di una fase pionieristica ed aristocratica14. La giuria di quella anno affermava che, in quegli anni densi di cambiamenti, di mutazioni economiche, il design aveva il compito di rivolgersi ad un mercato il più possibile ampio, che non fosse solo quello di un elite socio-economica, auspicando per i prossimi anni di garantire un maggiore impegno del design nella creazione di prodotti relativi a servizi collettivi. Procediamo tuttavia con ordine e facciamo un ulteriore passo indietro di qualche manciata d’anni analizzando quelle avanguardie del periodo post bellico che diedero il concreto avvio ad un’insanabile rottura con la società del tempo. Già alla fine degli anni ’50 iniziava a prendeva avvio una ricerca di carattere visionario e utopico, che cerca di dare una risposta alle esigenze di nuove formulazioni teoriche, le quali erano volte a intendere in maniera differente il rapporto tra funzione e forma, finito in quegli anni col mortificare la creatività. Iniziano quindi i primi anni di sperimentazione con un approccio del tutto diverso, alla ricerca di un equilibrio tra le prassi formali e la necessità d’uso, protagonisti di questo periodo sono una lunga serie di avanguardie che si susseguono a ritmi frenetici, ognuna con una propria idea utopica. Tra queste vanno di certo ricordate: C.O.B.R.A, Bauhaus Imaginiste, Lettrismo e Internazionale Lettrista e gli Archigram.

Nato nel 1954, da un’idea di Gio Ponti, sarebbe stato per anni organizzato dai grandi magazzini la Rinascente, allo scopo di mettere in evidenza il valore e la qualità dei prodotti del design italiano allora ai suoi albori. Le prime quattro edizioni del Premio si sarebbero tenute con cadenza annuale e sarebbero state organizzate da La Rinascente, che iniziava a collaborare con l’Adi dal 1958. Il Premio sarebbe stato, in seguito, donato all’Adi, che del 1967 lo curò in completa autonomia. 12

Gli oggetti premiati erano: Leggìo a tre piedi per orchestrali, Lucchetto per serrande, Sedia a sdraio per spiaggia, Attrezzo per vetrinista, Sicure per spaccare la legna, Lampade da garage, Scatola del latte parallelepipedo, Mezzaluna, Borsa della spesa. 13

14

Relazione della Giuria 1962, in Compasso d’oro 1954- 1984, Electa, Milano 1985.

21


1.5

Le nuove avanguardie radicali:

la nuova cultura del progetto autoprodotto

Sulla scia degli ultimi anni 50, iniziavano a diffondersi delle nuove necessità da parte di architetti e progettisti, in particolare modo la necessità di non porsi dei limiti culturali e metodologici, i quali non potevano più ormai, rappresentare la società contemporanea di quegli anni. Prendeva avvio una nuova sperimentazione che privilegiava la creatività come principale metro di giudizio e di indagine del reale, con la quale non si può ancora parlare di autoproduzione, bensì il termine più appropriato risulta essere autocommittenza. Questo approccio così libero, evadeva da uno stato di cose prestabilite andando alla ricerca di nuove soluzioni fino ad allora ignorate. L’autoproduzione si basa su queste stesse necessità. Il vantaggio di farsi le cose da soli consiste proprio nella possibilità di non avere restrizioni di alcun tipo che pongano un freno alla libera espressione creativa del singolo. Nel design industriale autoprodursi vuol dire progettare senza le richieste di un’azienda senza alcune regole obbligate della produzione di serie. Autoprodursi dà la possibilità al giovane di dare libero sfogo alle sue visioni, di andare a ricercare soluzioni formali, funzionali e di linguaggio in ambiti di grande interesse personale. A volte ironico e utopistico, questo concetto fonda le sue radici sul fondamentale contributo del radical design italiano degli anni ’60 e ’70. Preannunciato a partire del 1969 con alcune mostre, rappresentato in seguito da Casabella, diretta allora da Mendini, e culminata con la partecipazione alla mostra del MoMa del 1972, l’esistenza dell’avanguardia radicale ha la sua consacrazione ufficiale con l’esistenza nel 1974 dei Global Tools.

22

15

L’anno che precedeva i Global Tools veniva caratterizzato da una forte crisi energetica mondiale, il 1973, conseguenza della guerra fra Indiani e Arabi. Questa crisi non rappresentò solo il crollo di un sistema economico basato sullo sfruttamento delle materie prime del terzo mondo, ma segnò anche la fine di una fase storica la cui cultura del progetto si basava sulla crescita progressiva e infinita dello sviluppo e del benessere. Iniziava ad agitarsi lo spettro di un impossibile rivoluzione proletaria; ormai già da tempo la combinazione di coscienza politica e di vocazione d’avanguardia, aveva generato gruppi, come già citati in precedenza, che contestavano alle radici, la natura socialdemocratica del movimento moderno. A Firenze con Archizoom, Superstudio, Ufo, a Milano con Gaetano Pesce, Mendini, Ugo La Pietra, Ettore Sottsass, a Napoli con Riccardo Dalisi, si discute e prende vita la possibilità di una revisione radicale delle convenzioni razionaliste e futuriste che avevano fin ora caratterizzato il design italiano. L’esperienza di questi gruppi, affrontata nello storico volume “Architettura Radicale”15, verrà sempre criticata ed ostacolata dal vecchio establishment dell’architettura e del design, che vedeva in essi una forte critica al sistema. Quando si parla dell’architetture d’avanguardia degli anni ’60 rispetto le altre avanguardie storiche, si parla di quei gruppi che non proposero un nuovo linguaggio stilistico, un nuovo stile, bensì proposero di sviluppare tutte quelle componenti critiche, riformiste, radicali del progetto.

P. Navone e B. Orlandoni, Architettura Radicale, Documenti di Casabella, Milano, 1974.


In questo senso non veniva quindi prodotto un vero e proprio stile riconoscibile come radical ma piuttosto un atteggiamento mentale, culturale. Protagonista era l’idea di progettare un prodotto per poi non destinarlo solamente ad una utenza, bensì a differenti. Il prodotto in quegli anni veniva pensato come prodotto con un solo colore, una sola identità, un prodotto rigido che nasceva e moriva all’interno del proprio ciclo tecnologico. Possiamo dunque affermare che l’avanguardia radicale trovò, paradossalmente, una sua realizzazione nella successiva produzione in serie con un concetto del tutto nuovo ed essenziale: quello del design primario o soft, ovvero la progettazione delle qualità più trascurate nella produzione industriale, come il colore, le finiture superficiali, le sensazioni tattili e in generale certe qualità estetiche non misurabili. Gli oggetti certi in quegli anni ci possono apparire come qualcosa di totalmente spensierato, un gioco, in realtà sono nati in un epoca nella quale la creatività veniva chiamata a sostituire il crollo di tutti quei sistemi di certezze progettuali.

In alto, Superstudio, Firenze In basso, “Walking City” Archizoom Associati, 1964

23


ARCHIZOOM


Archizoom Associati, Firenze

ANDREA BRANZI, GLIBERTO CORRETTI, PAOLO DEGANELLO, MASSIMO MOROZZI, DARIO E LUCIA BARTOLINI

Fondato a Firenze nel 1966 da Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello e Massimo Morozzi e successivamente composto anche da Dario e Lucia Bartolini, era il gruppo radical che si può quasi considerare tra i fondatori del movimento stesso, una delle voci più autorevoli. Si potevano considerare sopratutto amici, conosciuti all’interno della facoltà di architettura di Firenze durante le occupazioni e le attività politiche tipiche della fine degli anni ’60. Una Firenze, secondo Andrea Branzi, che mancava di proficui rapporti diretti con la modernità e questo avrebbe favorito in lui e nei suoi colleghi la volontà di creare un qualcosa che si ponesse al di fuori della cultura industriale. I corsi universitari tenuti presso la Facoltà di Architettura, avrebbero inoltre, fortemente influenzato la concezione di design che sarebbe poi stata alla base dei progetti dei gruppi precedentemente nominati16. Il corso di Visual design tenuto da Leonardo Ricci, ad esempio, trasmetteva un’idea di design che coinvolgeva vari sotto-ambiti, dal design dell’oggetto alla progettazione di ambienti, al packaging e alla grafica; ma educava anche gli studenti al forte legame che il design poteva mantenere con l’artigianato. Il docente infatti, presentava a lezione materiali di vario tipo, ferro, legno, cemento o pezzi di scarto a partire dai quali gli studenti avrebbero dovuto lavorare per la realizzazione dei loro progetti. Sebbene gli stimoli provenienti dai corsi universitari fossero stati fondamentali, per la formazione dei futuri designer, la loro opera sarebbe stata influenzata anche dai loro molteplici e vasti interessi, oltre che dai mutamenti in corso in campo sociale che inevitabilmente si rispecchiavano nell’ambito della progettazione architettonica e della produzione dell’oggetto.

A Firenze con Archizoom, Superstudio, Ufo, a Milano con Gaetano Pesce, Mendini, Ugo La Pietra, Ettore Sottsass, a Napoli con Riccardo Dalisi, si discute e prende vita la possibilità di una revisione radicale delle convenzioni razionaliste e futuriste che hanno fin ora caratterizzato il design italiano. 16

25


Una prima importante occasione per Branzi, Corretti, Deganello, Morozzi e Natalini, studenti appena laureati, sarebbe stata la mostra “Superarchitettura” organizzata a Pistoia nel 1966 e a Modena nel 1967. Per l’occasione era stato anche redatto un manifesto della Superarchitettura che recitava: “La Superarchitettura è l’architettura della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al superconsumo, del supermarket, del superman e della benzina super. La Superarchitettura accetta la logica della produzione e del consumo e vi esercita una azione demistificante”17 “Inventare - scriveva Natalini sulle pagine di “Casabella” – vuol dire fare ogni oggetto col più alto grado di creatività possibile (...) Durante il corso ci si proponeva di definire un’ipotesi di spazio interno come matrice di comportamenti. Uno spazio interno che non fosse più il negativo dell’architettura, un dentro contrapposto ad un fuori, ma un oggetto spaziale generatore di esperienze (...) Lo spazio interno acquista una nuova dimensione esistenziale capace di coinvolgere totalmente il suo fruitore ponendosi come campo di esperienza”18 Con la mostra Superarchitettura il gruppo di giovani laureati dava sfogo al loro estro giovanile, progettando oggetti la gran parte costruiti con le loro stesse mani, tra questi vi era anche quello definito un divano giovanile, un divano destinato ad ambienti giovanili, non si chiamava all’epoca ancora “Superonda” ma il termine super si voleva certo riferire all’atmosfera dei tempi, periodo in cui tutto stava diventando super.

“Superachitettura”, manifesto della mostra, Pistoia 1966. A. Natalini, Spazio di coinvolgimento, in “Casabella” n 326, 1968, p. 36 19 http://www.arte.rai.it/articoli/le-avanguardie-radicali-e-la-nuova-cultura-del-progetto/18753/default.aspx 17

18

26

L’industria di allora scopriva e usava con grande successo gli espansi, ciò ne prevedeva quindi la produzione e costi limitati di imbottiti modellabili in tutte le forme desiderabili, la Supernova veniva dunque progettata col fine d’essere realizzata con questo materiale che a partire da un grosso pane di resina espansa veniva tagliato secondo una linea molto sinuosa nel verso della lunghezza e diviso in due metà le quali formavano lo stesso pezzo. La “Superonda” nacque quindi da un operazione industriale la più semplice possibile: un taglio. La “Superonda” veniva considerata un oggetto, una cosa che serve essenzialmente per divertirsi.19 Parallelamente al lavoro nel campo del design, il gruppo conduceva una ricerca sperimentale sulla città, la cultura e l’ambiente che culminava con il progetto No Stop-City. Il progetto voleva essere una risposta a quell’atteggiamento secondo il quale l’architettura della civiltà tecnologica doveva essere un’architettura tecnologica, fatta come una macchina. Mostrava un luogo in continua espansione in cui non esisteva facciata architettonica e tutto il territorio era omogeneo, cablato e climatizzato. Il modello cui si guardava con intento critico era quello del supermercato per via della sua spazialità anonima. Gli Archizoom stessi nel presentare il progetto sulle pagine di “Casabella”, lo definivano come un gesto di utopia critica, strumentale in quanto ipotesi critica del sistema. Il progetto rappresenta la degradazione simbolica della città moderna, dove il design diventa strumento progettuale per modificare la qualità di vita e del territorio.



SUPERSTUDIO


Superstudio, Firenze

ADOLFO NATALINI, CRISTIANO TORALDO DI FRANCIA, ROBERTO MAGRIS, PIERO FRASSINELLI E ALESSANDRO MAGRIS.

”Il 4 Novembre 1966 l’Arno invase Firenze: fu la più disastrosa alluvione del secolo, con l’acqua che arrivò a quasi sei metri in Santacroce. Lo stesso giorno nacque il Superstudio, perché, ignaro dell’acqua che avanzava nelle strade, passai tutta la giornata disegnando il primo manifesto del Superstudio. Poi alle cinque l’acqua arrivò nel mio studio”20

Sempre a Firenze nel 1967 veniva fondato il gruppo Superstudio da Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Roberto Magris, Piero Frassinelli e Alessandro Magris. A differenza di Archizoom il gruppo Superstudio subì da parte del pop un influsso ben più evidente. Dalla mostra “Superarchitettura” prendevano vita alcuni progetti di Natalini che iniziò a produrre Cammilli, in particolare dal prototipo di M come morbido realizzato in legno, in cui ritornava la forma dell’onda, nasceva Sofo, una serie di poltrone e divani in poliuretano espanso, colorati in verde e rosa fluo, oppure in rosso brillante e rosa , organizzati come sedute componibili; come anche le lampade Passiflora, (1968) a forma di fiore, e Onda (1968), entrambe in perspex.

A Firenze con Archizoom, Superstudio, Ufo, a Milano con Gaetano Pesce, Mendini, Ugo La Pietra, Ettore Sottsass, a Napoli con Riccardo Dalisi, si discute e prende vita la possibilità di una revisione radicale delle convenzioni razionaliste e futuriste che hanno fin ora caratterizzato il design italiano. 16

29


“Il nostro problema è continuare a produrre oggetti grandi colorati ingombranti utili e pieni di sorprese per viverci insieme e giocarci e per trovarseli sempre tra i piedi in modo da arrivare al punto da prenderli a calci e sbatterli fuori, oppure da sedercisi sopra o appoggiare le tazze di caffè, ma in ogni modo non sia possibile ignorare. Come esorcismi per l’indifferenza. Cose che modifichino il tempo e il luogo e siano segnali per una vita che continua” 21

Secondo I Superstido bisognava fare della vita un be-in, e questo era possibile fornendo oggetti a funzionamento poetico che il fruitore poteva recepire ed usare come voleva. Questi perchè gli oggetti del design d’evasione erano carichi di proprietà sensoriali tanto da destare l’ispirazione per azioni e comportamenti. Ben presto anche la poetica dei Superstudio iniziava a mutare e l’entusiasmo e l’ottimismo dei primi anni iniziavano a trasformarsi in una riflessione più pacata. Da questo momento nascevano approfondimenti teorici e storici di notevole interesse che venivano pubblicati con una certa frequenza su “Domus”. “ In quegli anni divenne molto chiaro che continuare a disegnare mobili, oggetti e simili casalinghe decorazioni non era la soluzione dei problemi dell’abitare e nemmeno di quelli della vita e tantomeno serviva a salvarsi l’anima (…)Divenne anche chiaro come nessuna cosmesi o beatificazione era bastante a rimediare i danni del tempo, gli errori dell’uomo e le bestialità dell’architettura ...Il problema era quindi quello di distaccarsi sempre più da tali attività del design adottando magari la tecnica del minimo sforzo in un processo riduttivo generale. Preparammo un catalogo di diagrammi tridimensionali non continui, un catalogo d’istogrammi d’architettura con riferimento a un reticolo trasportabile in aree o scale diverse per l’edificazione di una natura serena e immobile in cui finalmente riconoscersi. Dal catalogo degli istogrammi sono stati infine generati senza sforzo oggetti, mobili, environments, architetture (…)”22

30

Il gruppo attivo fino al 1986 svolse attività di ricerca teorica sulla progettazione, indagando gli oggetti semplici della vita di ogni giorno e la cultura materiale extraurbana, concentrandosi sui bisogni elementari e sui desideri. Furono dai tempi universitari, un gruppo di amici che si riuniva per dare sfogo alle proprie idee creative, rimasero un gruppo compatto, anche in seguito alla morte di un membro, Roberto Magris che scomparve il 6 marzo del 2003, pochi giorni prima dell’inaugurazione della mostra al Design Museum di Londra. In questa mostra vennero radunati un centinaio di prodottii realizzati dal 1966 al 1973. Il Superstudio fu un movimento situazionista che, tramite strumenti classici quali la semplice progettazione, criticava la società, le idee architettoniche di quegli anni. Usando l’ironia e la metafora, riuscirono a dar voce ai loro pensieri dando sfogo alla loro creatività tentando incursioni nel campo della politica e della sociologia, andando incontro a un nuovo sistema libero dalle divisioni, dal colonialismo culturale e dal consumismo.


“L’ Architettura Interplanetaria”, Superstudio, 1972

A. Natalini, Dal Superstudio all’architettura di resistenza, Edizione dell’Arengario, 2011 Superstudio, Design d’evasione e d’invenzione, in“Domus”, n. 475, 1969 22 Superstudio, dal catalogo degli istogrammi la serie Misura, in “Domus”, n. 517, 1972 20 21

31


SUPERARCHITETTURA

Oggi la critica concorda nel collocare le origini del radical design italiano alla mostra “Superarchitettura” durante la quale venivano presentati prototipi di vari oggetti, dal grado di sperimentazione molto alto. Archizoom e Supertsudio, inoltre, nell’obiettivo di stimolare i sensi del visitatore, non si erano limitati ad esporre oggetti e maquette o plastici architettonici, ma avevano trasformato l’intero ambiente della galleria. La piccola mostra fu commissionata da Adolfo Natalini, già espositore nella galleria come pittore, il quale propose di partecipare ai suoi colleghi di università. La mostra venne pensata, discussa e costruita in un clima emotivamente straordinario; in quanto esattamente un mese prima dell’inaugurazione un alluvione colpì Firenze rendendola una città “alluvionata”, appellativo che durante quelli anni veniva comunemente utilizzato per le valli del Polesine. Lo spettacolo che si presentò agli occhi dei fiorenti la mattina del 4 Novembre del 1966, fu quello di un fiume maestoso che stava attraversando la città. Si presentava una città disordinata ma allo stesso tempo creativa, ricoperta di fango con rifiuti e carcasse d’auto, rifiuti dei quali i fiorentini si liberarono con sarcasmo tipico della popolazione che non si arrende davanti ad ogni difficoltà. In questo clima nacque la mostra, che non a caso dopo un mese ven inaugurata a Pistoia, città non invasa dall’inondazione dell’Arno. L’ingresso alla galleria d’arte Jolly2 in via San Bartolomeo a Pistoia, ospitava la mostra, ambientata all’interno degli spazi della galleria, più precisamente in un sottosuolo di due stanze. All’ingresso vi era un imbuto reso escamotage scenico con il compito di distrarre il visitatore dalle dimensioni ridotte del luogo, caratterizzato da pannelli di legno, inclinati a creare uno spazio cuneiforme e dipinti da Natalini in stile pop, con onde multicolori in rilievo e da nubi e raggi di sole che uscivano da una stretta apertura sul fondo nella quale era inquadrato un prisma con la scritta “Superarchitettura”.

32


Adolfo Natalini alla mostra Superarchitettura – Galleria Jolly, Pistoia 1966 – photo Cristiano Toraldo di Francia

33


Da qui si poteva accedere alla sala principale dove erano esposti i progetti di laurea di questi architetti insieme a sculture coloratissime realizzate con materiali diversi. Tra gli oggetti esposti c’erano un prototipo in legno (colorato e lucidato per ottenere una texture plastica) di chaise longue dalla forma ondulata, concepita da Natalini, che si ispirava a Le Corbusier, dipinta a strisce rosse e verdi; due prototipi in cartone dipinto per lampade ispirate alla moda hippy, una a forma di fiore allungato e una a forma di quadrifoglio; altri due modelli di lampade ottenuti tagliando un parallelepipedo secondo una linea ondulata. Negli schizzi degli Archizoom venivano mostrati, invece, diversi riferimenti alla cultura popolare e alla cultura artistica e del design di quegli anni, vi figuravano, infatti, juke box, scritte onomatopeiche provenienti dal mondo dei fumetti e spesso usate in pittura. Vi erano anche vari studi per sedute a onda ( l’onda era il motivo dominante di tutta la mostra ), per una poltrona con fiancate decorate a onde policrome e per divani fatti di due parti sovrapposte. Un estro creativo che non si soffermava solamente alla forma degli oggetti, ma dava loro anche un nome: Supersonik, La Mucca, SuperOnda e Per Aspera, erano i nomi degli oggetti protagonisti della mostra. In tutto la mostra durò circa due settimane e poi dopo lo smantellamento non ne rimase più traccia se non per il divano SuperOnda e la lampada Passiflora messi in produzione da Poltronova.

34

Con gli oggetti presentati si intendeva contestare i dettami di ergonomia, serialità e componibilità, tipici del razionalismo funzionalista e si volevano far entrare nell’ambiente domestico gli oggetti pubblicitari, luminosi e colorati della società del consumo di massa, come veniva confermato dagli stessi Archizoom, i quali in un articolo apparso sul “Corriere della sera” del 1967 affermavano: “IItentativo(eladefinizionediSuperarchitettura lo dimostra) è quello di inserire l’architettura all’interno di quei canali di consumo in grado di agire nel comportamento di massa. Con questa operazione si comincia a constatare la fine di un certo tipo di design illuminato, frutto di un certo tipo di intellettuale che crede nel mito dell’intelligenza e del buon gusto come salvataggio del mondo”. 23 A questa visione del good design i due gruppi contrapponevano un design acido che intendeva scrollare il mondo della cultura e quello della produzione, ma soprattutto il consumatore finale assuefatto e stereotipato. Sottsass nel presentare gli Archizoom su “Domus” li proponeva al lettore come un gruppo di bravi ragazzi molto efficaci nel gettare il panico “nel paese di cose della cultura e delle ideologie, ben organizzate, stratificate, sedimentate, stereotipate” . Gli Archizoom stessi nel presentare il loro lavoro nelle pagine successive facevano ricorso ad una metafora bizzarra ma anche immediata, per far capire al lettore l’intento dei loro progetti: “Il problema potrebbe essere quello di sapere se i gelati esistono perché l’uomo nell’universo ne ha bisogno, se esistono erché costano (...).


Ma forse il problema è un altro: avere una strada molto molto calda ed una gelateria molto molto fresca...e allora si mette sopra la coppa la panna, il biscotto, lo spicchio d’ananas, la ciliegia, la cannuccia, il cucchiaino, la bandiera e la cola-cola su tutto in modo che uno si serva del gelato in una maniera tale che quando se ne va rimane servito”. Non è difficile capire che con la metafora di questo gelato sovraccaricato di altri ingredienti ed elementi si intendesse indicare il mondo della produzione di massa ed i meccanismi di presentazione del prodotto sul mercato. A queste modalità di consumo che lasciavano sentire il consumatore appagato e inconsapevole della sua subalternità rispetto alle ragioni di vendita, gli Archizoom intendevano contrapporre il loro metodo: “Per noi il problema è quello di imbandirgli un gelato che gli faccia passare la voglia di mangiarne per tutta la vita (...) Oppure che diventi una fetta del mondo e che lo spaventi. (...). E allora pensiamo: bombemela, caramelle velenose, bugie quotidiane, false informazioni, insomma, coperte, letti, o cavalli di Troia che messi in casa distruggano tutto quello che c’è.

23

E. Sottsass, Arrivano gli Archizoom, in “Domus”, n. 455, 1967. Ibidem

24

Vogliamo introdurvi tutto ciò che rimane fuori dall’uscio: la banalità costruita, la volgarità intenzionale”.24 Con questi progetti gli Archizoom non volevano far altro che generare un nuovo tipo di approccio al progetto e mettere in discussione il sistema di certezze su cui si basava il design canonico per dare più spazio alla relatività e all’invenzione. Una successiva mostra del 1967 commissionata ad Andrea Branzi dalla Galleria comunale di Modena vedeva di nuovo protagonisti Archizoom e Superstudio che apre le porte a nuovi componenti quali Alessandro e Roberto Magris, Piero Frassinelli e dal 1970 al 1972 Alessandro Poli. Anche gli Archizoom aprirono le proprie porte a nuovi componenti quali Lucia e Dario Bartolini. Il gruppo dopo la mostra Superarchitettura partecipò alla IV Triennale con il progetto “Centro di cospirazione eclettica” e ad “Italy: the New domestic landscape” al MoMa di New York nel 1972, mostra sul design italiano con massimo riconoscimento della qualità della produzione italiana con allo stesso tempo una presa d’atto di una sua crisi d’identità.

35


ITALY: The New Domestic Landacsape

Nel 1972 anno in cui si stanno ultimando le Torri Gemelle, il MoMa di New York organizza una grande mostra di design italiano sostenuta da grandi partner quali: Alitalia, Abet Print, Ministero degli Affari Esteri Italiano, Istituto del Commercio con l’Estero, Eni, Anonima Castelli, Fiat, Olivetti. Nella quale il curatore Emilio Ambasz accosta i maestri e la nuova generazione di architetti e designer nata dai movimenti di avanguardia. L’evento segna un momento molto importante in quanto rappresenta un occasione di promozione internazionale del prodotto industriale italiano e al contempo una riflessione sui nuovi fermenti intellettuali nel campo progettuale che risentivano del clima politico e sociale che l’Italia stava vivendo. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, infatti, l’Italia interpretava il design non solo come momento progettuale finalizzato alla realizzazione di oggetti ma anche come strumento di critica alla società. Il prodotto diventava così uno strumento culturale, di contestazione, di riforma o anche di conformismo. Questo era un fatto assolutamente nuovo per il pubblico americano, che considerava il design solo sotto il profilo della produzione industriale. Italy: the New domestic landscape si può considerare una delle prime grandi mostre sul design italiano con un massimo riconoscimento della qualità del design italiano e con una presa d’atto di una sua crisi d’identità. L’impianto curatoriale di Ambasz, è costruito su una distinzione tra design “conformista”, “riformista”e “contestatario” e prevede inoltre la divisione tra “oggetti” e “enviroments” ovvero ambienti, a cui corrisponde nel catalogo la divisione tra saggi storici e critici. Gli oggetti in mostra sono una selezione di 180 pezzi italiani, mentre gli “ambienti”, vengono commissionati direttamente a Ettore sottsass, Koe Colombo, Gae aumenti, Mario Bellini, Alberto Rosselli, Marco Zanuso e Richard Sapper, Gaetano Pesce, Ugo la Pietra, Gruppo Strum, Arhizoom, Superstudio e 9999 e avevano come unico vincolo progettuale quello di essere inservibili in un modulo di 480x480 cm circa. Erano quindi presenti tutte le voci positive e negative della cultura progettuale: i sistemi razionali d’arredo, gli oggetto Pop e Dada ed i mobili industriali.

36


La mostra è un occasione per promuovere il prodotto industriale italiano, molti degli oggetti esposti entreranno successivamente a far parte della permanente del museo, è anche segnale di fermento ideale in campo progettuale che ne risente del clima politico degli anni ’70. Nell’introduzione del catalogo, più di 400 pagine, in cui compaio descrizioni dell’environment, l’elenco dei prodotti degli anni ’60, saggi di storici e critici del design come Paolo Portoghesi e Leonardo Benevolo, il curatore Emilio Ambasz descrive così il ruolo dell’Italia dell’epoca “Un micromodello in cui una vasta gamma di possibilità, le limitazioni e gli aspetti critici del design contemporaneo sono messi a fuoco in modo molto nitido. Molte tematiche dei designer contemporanei nel mondo sono ben rappresentate dai diversi e spesso opposti approcci che si sviluppano in Italia”.25 Si parla di progettazione e progetto in varie scale, di progettazione urbana, si può considerare un’ esposizione che è riuscita a toccare l’oggetto di design come la società come la società industriale e la produzione allo stesso tempo. Come già affermato in precedenza, sul catalogo il curatore sottolinea le tre tendenze del design italiano di quegli anni: la tendenza “Conformista”, “Riformista” e “Contestativa”. Esiste il design che opera dentro il sistema economico industriale e propone oggetti di cui la gente ha la necessità per ragioni funzionali. I “Conformisti” hanno preso la forma della società, i “Riformisti” proponevano un modello di tipo “alternativo” delle possibili maniere d’esistere, volevano riformare operando dentro il sistema ma allo stesso tempo facendo un salto nel vuoto, un salto alla ricerca della qualità. I “Contestativi” pensavano che il design non poteva più far niente, doveva arrivare prima una soluzione di tipo politico, solo dopo si poteva far qualcosa. Con la mostra si voleva presentare una cultura in quanto il design in Italia veniva visto come parte della cultura nazionale, si vedeva il prodotto anche all’interno dell’industria come evento culturale.

25

A.Branzi, Il Design Italiano, Electa, 1964-2000

37


1.6

I Radicali uniti Global Tools

La mostra del 1972 a New York viene vista oggi dalla critica come il momento di implosione dell’avanguardia radicale, che entrava in una fase di involuzione teorica. Nonostante ciò, il 1973 si apriva con un avvenimento importante, si trattava della fondazione del sistema dei laboratori Global Tools. Ad annunciare l’evento sarebbero state le pagine di “Casabella” sul cui numero di maggio sarebbe stato pubblicato il documento della fondazione avvenuta il 12 gennaio di quell’anno presso la sede della stessa rivista. Gli architetti ed i gruppi che vi partecipavano posavano per una fotografia di gruppo, pubblicata sulla copertina della rivista ed erano: Archizoom, Remo Buti, Alessandro Mendini, Riccardo Dalisi, Ugo La Pietra, 9999, Gaetano Pesce, Gianni Pettena, Adalberto Dal Lago, Ettore Sottsass jr.27, Superstudio, Ufo e Zziggurat. Il documento recitava: “ La Global Tools si pone come obiettivo di stimolare il libero sviluppo della creatività individuale. I corsi che si terranno forniranno le nozioni base necessarie all’uso degli attrezzi e degli strumenti esistenti nei laboratori, nonché informazioni su tecniche specifiche apprendibili in altri luoghi collegati in modi diversi alla Global Tools. L’insegnamento avverrà attorno a temi quali: uso dei materiali naturali e artificiali, sviluppo delle attività creative individuali e di gruppo, uso e tecniche degli strumenti di informazione e comunicazione, strategie di sopravvivenza.

38

La Global Tools si organizza attraverso un comitato tecnico (formato dai rappresentanti dei firmatari del presente documento) che si occuperà della definizione della didattica e del programma funzionale. In successivi avvisi, che saranno pubblicati periodicamente su ‘Casabella’ e ‘Rassegna’, verranno comunicati la tipologia didattica, l’arco delle ricerche, il calendario e l’organizzazione della scuola”.28. Alla presentazione del gruppo seguiva un commento di Alessandro Mendini, il quale riteneva la fondazione come l’evoluzione delle esperienze di design alternativo che da tempo la rivista da lui diretta (Casabella) si impegnava a documentare. Sosteneva, inoltre, che sarebbe stato importante cogliere il messaggio, che si fondava sulla fiducia nelle capacità creative dell’uomo, che era perfettamente in grado di partecipare alla costruzione del proprio ambiente, senza doversi rivolgere ad alcun rappresentante creativo.


“Global Tools Bulletin”, no.1 (cover), 1974

Sott sass a partire dal n. 375 di “Casabella”, iniziava la pubblicazione della rubrica Per ritardato arrivo dell’aeromobile. Sul n. 377 pubblicava l’articolo dal titolo “C’è un posto dove provare’” e sul numero successivo l’articolo “Creatività pubblica”, in entrambi affrontava il tema della creatività, sostenendo che a differenza di quanto pensato dalla quasi totalità della società, la creatività non era facoltà in possesso di pochi, o benedizione privata dell’artista e che ognuno secondo le proprie attitudini doveva essere stimolato a creare o quantomeno provare a fare, a realizzare: “Mi piacerebbe trovare un posto dove provare insieme a fare cose con le mani o con le macchine,in qualunque modo, non come boy-scout. E neanche come artigiani e neanche come operai e ancora meno come artisti, ma come uomini con braccia, gambe, mani, piedi, peli, sesso, saliva, occhi e respiro e farle non certo per possedere cose o tenerle per noi e neanche per darle agli altri, ma per provare come si fa a fare cose” (“Casabella” n 377, 1973). 28 Global Tools., Documento 1, in “Casabella” , n. 377, 1973 p. 4 27

39


Scriveva Mendini: “ Interessati come siamo ai problemi a lungo termine, la cui corretta risoluzione spesso è opposta a quella dei problemi a breve termine, crediamo al valore della futura attività del ‘sistema di laboratori per la propagazione dell’uso di materie tecniche naturali e relativi comportamenti’. Terminologia, assunti, metodi e strutture sono curiosamente semplici: come di chi intende colmare la distanza alienante che si è stabilita fra il lavoro della mani e quello del cervello. Concludeva definendo la Global Tools non come una contro- università, ma come “la riproposta primaria di equilibri nella creatività umana per tutti”.29 La Global Tools non era altro che uno strumento della strategia dei tempi lunghi e specificava che: “La lavorazione manuale e delle tecnologie artigiane (o povere) che la Global Tools promuove non si pongono assolutamente come alternativa alla produzione industriale, ché sarebbe ripiombare nelle inutili polemiche di sessanta anni fa, ma semmai servono a definire diversamente l’area della produzione stessa, non più intesa come meccanismo di riproduzione dell’intera fenomenologia degli oggetti e delle funzioni che ci circondano, ma come settore specifico e limitato che serve e stimola un’area non provvisoria destinata alla creatività individuale e alla comunicazione spontanea”30. Possiamo quasi definire la Global Tools una sorta di agenzia che organizzava laboratori di ricerca e sperimentazione aperti al pubblico cercando di non disperdere quelle che erano le esperienze che arrivavano dai radicali ma di organizzarle, di avviarle su percorsi diversi affrontando la tematica del cambiamento della società, ed in particolare quello della creatività di massa.

40

Definendosi come un sistema di laboratori per la progettazione e la propagazione dell’uso di materie tecniche naturali e relativi comportamenti con l’obiettivo di stimolare il libero sviluppo della creatività individuale. Si propone come luogo d’incontro, di confronto e di comunicazione dove il lavoro di ricerca si sviluppa secondo aree disciplinari attraverso seminari specifici sulla costruzione, sulla comunicazione, sulla sopravvivenza e sulla teoria. Nata come momento di collegamento e di ricerca sulle tematiche di una creatività di massa nella società del tempo libero, non entrò mai funzione, e il suo fallimento coincise con la conclusione del momento più florido ed utopistico della sperimentazione radicale.


Alchimia A seguito del fallimento della Global Tools nasce a Milano nel 1976 Alchimia, progettazione d’immagini per il XX secolo, con l’intento di individuare una nuova di progettazione, e di definire un design in cui gli oggetti o le installazioni fossero portatori di stimolazioni visive, pensati come prototipi destinati a una produzione che proponesse esempi di nuove maniere di praticare il design, nuove idee sui materiali, sul colore, sulle citazioni stilistiche e i riferimenti ideologici. Era un vero e proprio laboratorio artigiano di ricerca, nel quale si applicava una nuova sensibilità (introdotta dalla sperimentazione radicale) alla progettazione e realizzazione di oggetti, privilegiando la funzione estetica e culturale a quella funzionale. Nel 1978 Alchimia presenta la prima collezione di mobili, seguita nel 1979 dalla collezione “Bau.Haus uno” e nel 1980 dalla “Bau.haus due” che vedeva la collaborazione dei più importanti esponenti del design degli anni del radicale, come Sottsass, Branzi, Mendini, UFO, Dalisi, Raggi, oltre a De Lucchi, Paola Navone e Daniela Puppa, e altri esponenti della seconda generazione. Quando nel 1981 Ettore Sottsass lascia il gruppo per fondare Memphis, Alessandro Mendini assume un ruolo cruciale soprattutto con la messa a punto dell’idea secondo cui il design portato avanti da Alchimia deve proporre un nuovo modo concreto per realizzare gli oggetti. In questo modo il prototipo e la piccola serie, con le loro qualità artigianali, diventano una conferma del valore sperimentale del progetto e non una sua premessa teorica.

41


Memphis

Altro importante avvenimento che succede al gruppo Alchimia e che ci porta sempre più sulla via dell’autoproduzione è sicuramente il collettivo creato sotto il vigile occhio di Sottsass con il nome di “Memphis”. Nasce nell’inverno ‘80-’81 nella testa di un gruppo di architetti e designers milanesi come necessità urgente di reinventarsi un modo di fare design, come voglia di progettare altri spazi, di prevedere altri ambienti, di immaginare altre vite. Non è nata come manifesto, una dichiarazione formale o come piano strategico di un gruppo di persone, ma come una sorta secessione da Alchimia, quella di Sottsass, ed è stata all’inizio una secessione silenziosa, un allontanamento, una pausa per raccogliere le idee. Una pausa che doveva durare ben poco. Nell’ottobre dell’ ’80 a Sottsass venivano fatte due proposte. La prima arrivava da Renzo Brugola, suo vecchio amico e proprietario di una falegnameria, il quale si dichiarava disponibile a “fare qualcosa insieme come ai vecchi tempi”, la seconda da Mario e Brunella Godani, titolari di uno Showroom nel centro della città, i quali avevano chiesto per il negozio qualcuno dei suoi “nuovi mobili”. Sottsass propone quindi ai Godani di ospitare nell’autunno ‘81 una mostra di mobili molto aggiornati disegnati non solo da lui ma da colleghi e amici e proponeva all’amico Brugola di produrre i mobili, naturalmente gratis. Brugola e i Godani si dichiararono subito disponibili, di Memphis, a quei tempi, non si parlava ancora. Il nome Memphis deve essere nato la sera dell’11 dicembre a casa di Sottsass.

42

La musica del giradischi proponeva Bob Dylan con la sua “Stuck inside of Mobile with the Memphis Blues again” e dato che nessuno si occupava di cambiare disco, Bob Dylan continuava a intonare le note del singolo “the Memphis Blues again” fino che a un certo punto Sottsass decise il nome e a tutti furono d’accordo. Secondo il quaderno di Michele De Lucchi quella sera erano presenti: Ettore (Sottsass), Barbara (Radice), Marco (Zanini), Aldo (Cibic), Matteo (Thun), Michele (De Lucchi), Martine (Bedin). Nei mesi precedenti alla mostra il collettivo si è occupato a 360 gradi della produzione e della realizzazione della mostra, ovvero: fare i disegni tecnici dei mobili, produrre i mobili, trovare un produttore di lampade, produrre le lampade, trovare un produttore di ceramiche, produrre le ceramiche, convincere Abet Print a produrre nuovi laminati plastici, trovare un produttore di stoffe, produrre le stoffe, comunicare con gli architetti e designers stranieri in ritardo con i disegni, fotografare i mobili, inventarsi la grafica perché non c’erano i soldi per pagare uno studio, disegnare due posters, un invito, un catalogo, una cartella stampa, buste e carta da lettera, fare un libro, trovare i soldi e l’editore per il libro, disegnare l’allestimento, scrivere a giornalisti e riviste. Tutto senza soldi e tutti con un altro mestiere full-time.


Si sono offerti sul mercato come merce e si sono sempre serviti per la diffusione di tutti i circuiti possibili e disponibili, hanno esposto in musei e in gallerie d’arte ma anche in showrooms e grandi magazzini, in boutiques o garages di periferia. I loro mobili sono finiti su libri di storia del design ma anche dentro spot pubblicitari televisivi. Tutti i pezzi Memphis (tranne i vetri soffiati), sono stati progettati per la produzione industriale: se sono prodotti in piccola serie è solo perché la richiesta è limitata. Nonostante questo, si è parlato a proposito di Memphis come di revival dell’artigianato in alternativa alla produzione industriale, alimentando un grosso malinteso. Il fatto è che il problema dell’alternativa artigianato-industria come sistema di produzione oggi non esiste più.

Con la nascita dell’industria il mondo dell’artigianato si è spaccato in due. Da una parte il cosiddetto “artigianato artistico” è sopravvissuto come depositario di certi valori tradizionali (il fatto a mano, il pezzo unico, ecc.), sempre più estraneo all’innovazione. Dall’altra l’artigianato si è sviluppato sia come fase specializzata della progettazione per l’industria, sia come area sperimentale aperta a nuove tipologie che la produzione in serie non potrebbe programmare data la rigida struttura tecnica e produttiva, sia come fase specializzata di un certo tipo di produzione molto avanzata e sofisticata.

LIBRERIA CARLTON, Sottsass jr (1981)

“La qualità Memphis non interessa e non è dato sapere quanto duri. Si può dire che è una qualità che prevede esattamente il contrario della durata, prevede cioè autodistruzione, annientamento, sparizione, che è anche la formula magica del nostro destino, della vita che per scintillare deve estinguersi e deve liberare, come materiale radioattivo, i brividi e i presagi della fine” .

43


Enzo Mari: un radical differente

Gli anni a cavallo tra i Sessanta ed i Settanta in Italia sono stati percorsi come abbiamo visto da numerosi e differenti fremiti, in particolare per quel che riguarda il campo dell’architettura e del design. Mari nasce a Novara nel 1932 e ha un percorso formativo quasi da autodidatta: si iscrive infatti nel 1952 alla Accademia di Brera, ma non porta a termine gli studi. Artista che ama sperimentare più che partecipare direttamente alle polemiche del tempo, per esempio al dibattito tra neorealismo e informale. Già negli anni ‘50 è coinvolto in una personale ricerca sulla verifica dei fenomeni percettivi e sull’individuazione dei linguaggi più appropriati alla loro comunicazione.

Il primo approccio al design: artigiano o industria? Sin dalla fine degli anni Cinquanta Enzo Mari inizia ad avvicinarsi al design con lo spirito esplorativo che lo contraddistinguerà. L’interesse per il settore della progettazione dell’oggetto è stato interpretato in seguito dalla critica come un passaggio naturale, in cui non vi era rottura con la progettazione artistica, ma continuità. “Per dare prova dell’interrelazione continua tra le due aree – scrive Arturo Carlo Quintavalle – che sono divise, dico quella della produzione artistica e quella per la moltiplicazione industriale, divise soltanto in relazione ad una ipotetica differenza, tra oggetti non funzionali all’uso e oggetti funzionali all’uso”.32 Dopo la realizzazione dei primi oggetti33, tra cui alcuni vetri per Danese e 16 animali, giocattolo elaborato per la “Rinascente”, si occupa attivamente di diverse forme di

44

artigianato. Nel 1963 coordina il gruppo italiano di “Nuova Tendenza”, organizzandone nel 1965 la Terza Manifestazione a Zagabria; nel 1964 è presente alla Biennale di Venezia. Dal 1963 al 1965 insegna metodologia della progettazione alla Scuola Umanitaria di Milano e nel 1970 al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Nei primi anni ‘70 si precisano le sue scelte progettuali: in particolare, per quanto riguarda il design, si schiera con le tendenze più radicali che mirano a ridurre la separazione funzionale tra produttori e consumatori di cultura, studiando e favorendo forme diverse di creatività spontanea. Sempre degli anni ’70 la proposta per la progettazione di un divano letto. Nonostante fosse restio alla proposta, in quanto non era di suo gusto progettare oggetti da lui considerati volgari, accettò la proposta pensando alle abitazione delle persone poco agiate e decise di progettarlo ma solamente trovando una soluzione che permetta la trasformazione da divano a letto in poche e veloci mosse. Un oggetto economico per persone non agiate, con la maggior qualità possibile e resistente.


Enzo Mari

Vennero prodotti circa 10.000 pezzi, venne considerato il divano letto col più basso costo sul mercato, ma nonostante ciò i negozianti non lo vollero comprare, ritenendolo un fallimento. Arrivato alla conclusione che il suo lavoro non aveva senso, perché nessuno capiva quello che produceva, Mari pensò di poter aiutare la gente a capire. Pensò quindi che se un individuo provasse da se a costruire un oggetto, imparerebbe qualcosa e qualora tal individuo dovesse comprare un tavolo in futuro (prodotto industrialmente), controllerà, avendo lui stesso costruito in precedenza, che una gamba non balli. Realizzò quindi una ventina di modelli di armadi, tutti con legno inchiodato, produsse i modellini e si fece aiutare per la realizzazione da un azienda, la Simon. Spiegò ai colleghi designer il perché di questa sua scelta, designer e artisti lo accusarono quasi di fascismo in quanto, secondo loro “un designer deve produrre

oggetti per far star comoda la gente, e non per farli lavorare”. Promise di inviare il libretto con le istruzioni a tutti colore che gli avrebbero pagato le spese postali, ricevette quindi un migliaio di richieste, alcune di queste arrivavano anche dall’Inghilterra accusandolo di essere un genio. La gente semplice capì.

A. C. Quintavalle, Enzo Mari, Università di Parma, Csac, 1983 Elabora più di 1600 progetti per industrie italiane e straniere tra cui: Danese, Olivetti, Boringhieri, Adelphi, Driade, Le Creuset, Artemide, Castlli, Gabbianelli, Comune di Milano, Interflex, Zanotta, Fantini, Agape, Alessi, Zani e Zani, K.P.M., Robots, Ideal Standard, Arnolfo di Cambio, Magis, Rosenthal, Frau, Thonet, Daum, Muji. 32 33

45


SEDIA 1 CHAIR Enzo Mari Artek, 1974

“L’hobby non è altro che la degradazione della cultura, cioè un fare delle cose a livello imitativo, senza conoscere profondamente quello che si sta facendo”

La sua Proposta per un’autoprogettazione (1974), consiste in un pacchetto che fornisce strumenti e materiali elementari, oltre che alcuni carta modelli per costruire mobili in legno in forme diverse. Il suo intento è quello di comunicare anche ai non addetti ai lavori, non solo come si può costruire un tavolo con qualche asse di legno standard, ma soprattutto perchè lo si costruisce in quel modo e perchè quel determinato pezzo è usato in quel determinato punto e non viceversa. Il suo è un intento didattico-progettuale, ben lontano dal volere essere un precursore di IKEA che voglia diffondere la pratica del fai-da-te da un punto di vista hobbistico. Si tratta di voler far capire alle persone l’importanza della pratica del progetto facendole ragionare autonomamente, toccando con mano il progetto stesso. Non aveva nulla a che vedere con il do-ityorself, infatti se questo veniva concepito come un hobby, quello di Mari era un lavoro serissimo: “L’hobby non è altro che la degradazione della cultura, cioè un fare delle cose a livello imitativo, senza conoscere profondamente quello che si sta facendo (...) Questi oggetti – diceva inoltre Mari – non vogliono essere alternativi dell’industria, ma la loro realizzazione vuole essere una sorta di esercizio critico alla progettazione (...) nel fare l’oggetto, l’utilizzatore si rende conto delle ragioni strutturali dell’oggetto stesso, per cui in seguito migliora la sua capacità di valutare criticamente gli oggetti proposti dall’industria”35

46

35

Enzo Mari da http://www.raiscuola.rai.it/articoli/enzo-mari-lezioni-di-design/7105/default.aspx


La proposta prevedeva una tecnica elementare in modo tale che ognuno poteva porsi di fronte alla produzione attuale con capacità critica, chiunque ad esclusione di industrie e commercianti, poteva utilizzare questi disegni per realizzarseli da sé. Mari sperava che con questa produzione poteva rimanere in divenire e chiese a tutti coloro che costruivano i suoi mobili di inviare delle foto presso il suo studio, in piazzale Baracca 10 a Milano. “Col lavoro di una giornata, massimo due, si riesce ad arredare un intero appartamento, letto, sedie, tavoli, armadio, libreria, scrivania, e in più una panca. Costo, sulle 40 mila lire per mobile, se si ricorre a listelli di legno già squadrati e lisciati, 20.000 lire, forse anche meno, se si usano assi di legno grezzo che occorre segare e rifinire. La proposta è di un designer milanese, Enzo Mari, che offre, gratis, un catalogo con una ventina di disegni che rappresentano un valido suggerimento per chi voglia costruirsi una casa tutta da solo…” così scriveva Manzini in un articolo nel 1974, “…il fatevelo da soli di Enzo Mari, ha addirittura l’accento di una sfida, o di una provocazione, o quanto meno vuole essere una spinta a riflettere, e in maniera critica, sugli oggetti che affollano il nostro orizzonte quotidiano.”36

Il designer è, secondo Mari, colui che realmente dà origine alla produzione e deve produrre al servizio della società, è colui che funge da tramite attivo tra chi materialmente realizza il prodotto (l’artigiano/industria) e chi poi lo utilizza (la società). Questa prospettiva di pensiero condanna inevitabilmente omologazione di massa e il consumismo, criticando l’assolutismo delle leggi di mercato e del marketing, percepito come un radicale stravolgimento di valori. Mari rifiuta categoricamente una progettazione per l’industria asservita al marketing perché accettare una simile condizione significherebbe togliere al designer la sua dignità di filosofocreatore per renderlo un banale riproduttore di gusti e tendenze di massa. Insiste sulla necessaria consapevolezza del processo di creazione e progettazione da contrapporreal“degradodellaparcellizzazione”, accostandosi a una concezione del lavoro vicina all’artigianato piuttosto che all’industria. Si interroga sulla possibilità che il design possa davvero essere un prodotto industriale e si risponde che, se anche fosse solo un sogno, è un sogno che, quando possibile, va comunque perseguito.

Teorizza una vera e propria filosofia di fondo del progettista, la sua concezione di designer è legata a dei principi di responsabilità sociale, prevede una figura produttiva che abbia una visione da proporre, che metta a disposizione se stesso per fornire idee di qualità e prodotti con “contenuti d’onestà progettuale”.

36 37

G. Manzini, in “Paese sera”, 1974 C. Favento, Enzo Mari, (tra) etica e design, da Fucinemute http://www.fucinemute.it/2006/02/enzo-mari-tra-etica-e-design/

47


1.7 Gli anni ‘80 Gli anni Ottanta coincidono con un periodo di grande ricchezza produttiva che aggiunge all’Italia intensità e libertà linguistica del tutto particolare. Le passate esperienze di Alchimia e Memphis, connotano con estrema ricchezza il panorama italiano, influenzano il design internazionale, così che per la prima volta si assiste a una vera e propria esplosione di vitalità sperimentale anche in altri paesi d’Europa. Come già visto in precedenza, oltre alla ricerca del gruppo di Alchimia, l’esperienza Memphis, (con il guru Sottsass e Andrea Branzi, già fondatore negli anni Sessanta del gruppo fiorentino Archizoom), opera nel disegno del mobile una rivoluzione epocale. Infatti se Alchimia rappresenta soprattutto una riscoperta concettuale, quasi fine a sé stessa, delle forme e dei linguaggi della decorazione, Memphis si propone fin dagli esordi come un’intenzione di rinnovamento, una proposta di nuovo design che, con totale libertà nell’uso dei colori, dei materiali e nel loro accostamento, inconsueto, intendeva emanciparsi da ogni concezione dogmatica. Oggetti diversi e un uso diverso dell’oggetto, mobili protagonisti che decidono la loro funzione e si accostano a ogni ambiente e ogni stile, che si permettono di ignorare ogni precedente modello culturale.

POLTRONA PROUST Alessandro Mendini 1979

48


Si affaccia così sulla scena del design una nuova generazione emancipata rispetto alle problematiche di carattere storico, alle polemiche o alla necessità di dimostrare alcunché circa il proprio ruolo; interessata invece a confrontarsi operativamente, sperimentando nella pratiche le possibilità offerte dai materiali e dalle nuove tecnologie. Come ogni “rivolta giovanile”, si muove fra protesta e conformismo, fra provocazioni e ossequi. L’instabilità è seguita dalla stabilizzazione presentando così un numero infinito di opposti. Si ha la tendenza a definire questo fenomeno come pluralismo, l’aspetto positivo è che durante gli anni ‘80 è stato prodotto molto di bello, nuovo e genuinamente notevole. Il decennio è stato ricco di colore, creativo e altamente produttivo nei termini di design. Sebbene abbiamo affermato che i primi progetti di design autoprodotto nascono tra la metà degli anni ‘60 e ‘70, è sicuramente la seconda metà degli anni ‘80 che riceve il primo autentico riconoscimento del pubblico e la conseguente consacrazione del mercato. Da un lato quindi gli anni ’80 presentano un design che rielabora la cultura pop che proveniva dalle contestazioni dei movimenti radical (Archizoom, Superstudio…) e nel lavoro di alcuni maestri come Sottsass e Mendini. Possiamo considerarli gli anni dell’edonismo, dove il risultato è la messa in produzione di oggetti caratterizzati da colori sgargianti e nessun intento intellettuale. Questi nuovi designer proseguono su questa strada cercando un rapporto del tutto intimo e infantile con l’oggetto, la funzione diventa secondaria mentre il ruolo principale è costituito dal rapporto emotivo con l’oggetto. Dall’altro lato il progetto si stacca totalmente dalla visione politica e sociale come invece avveniva in precedenza negli anni dei grandi maestri del design. Esplode quindi il fenomeno dell’ autoproduzione un fenomeno che prima 38

era assolutamente marginale ora diventa quasi strutturale e imprescindibile. Il designer può scegliere così di vivere in una sorta di autarchia produttiva ponendosi nei confronti dell’industria come alternativa ad essa, oppure utilizzando il sistema autoproduttivo per lanciare nuove idee. Come afferma Tommaso Bovo in un suo articolo, giunti a questo punto si trovano diverse figure di designer che iniziano ad autoprodurre: i Post Maestri, gli Alchimisti e gli Art Design. Con Post maestri intende i figli dei Maestri, che proprio perché figli vivono un rapporto conflittuale con i loro padri, conservando alcuni principi metodologici ma partendo da presupposti completamente nuovi. Questa categoria per potersi emancipare ha dovuto contestare gran parte degli schemi ideologici che ispiravano la produzione del design degli anni ’60 e ’70. La forma dell’oggetto rimane sempre il risultato della sua utilità ma l’estetica non è più svincolata dalla funzione. Per Alchimisti intende invece tutti quei designer che fanno della sperimentazione sui materiali la loro base progettuale. Sono spesso portati all’autoproduzione e comunque alla realizzazione di piccoli numeri ma si differenziano perché il loro non è un fine speculativo, gli oggetti che producono sono funzionali, risolvono problemi concreti. Con Art Designer invece, il progetto diventa momento di sperimentazione e riflessione. Proprio come avviene nell’arte, il processo progettuale porta ad oggetti con un alto valore speculativo. La produzione di massa non è il fine ultimo di questo tipo di design. Il sistema naturale per la realizzazione dell’Art design è per l’appunto l’autoproduzione, che permette pezzi numerati, elevata sperimentazione e grande controllo.38

T. Bovo, Cos’è il design oggi? è solo una confusione di pensieri e oggetti inutili? , da Frizzi Frizzi http://www.frizzifrizzi.it/2016/04/12/design-oggi/

49


ONE OFF Studio


Ron Arad

Osserviamo ora il fenomeno della completa libertà progettuale come la scintilla dell’autoproduzione che consente ai giovani designers di dare avvio alla propria attività senza bisogno di nulla se non della propria creatività e del proprio spirito di intraprendenza. Si registrano le prime scelte consapevoli di design Do it yourself che raggiungeranno la maturità (uscendo dal mondo dell’autocommittenza) qualche anno più tardi, con gli anni ‘90. Un esempio sicuramente da citare è quello di Ron Arad e del suo One Off Studio. Nato nel 1951 a Tel Aviv, studia alla Jerusalem Academy of Art e dal 1974 all’Architectural Association di Londra, dove poi insegnerà tra il 1979 e il 1981, anno di fondazione di One Off. Arad vive in una Londra ribelle ed iconoclasta, nella quale muove i primi passi, e che certamente contribuisce a conferirgli uno spirito altrettanto ribelle ed anticonformista. Appartiene a quella scuola di progettisti che, come già affrontato prima, hanno superato le problematiche di carattere storico e sociale ma sono bensì più mirati a esplorare le possibilità offerte dai nuovi materiali e dalle nuove tecnologie. Gli edifici, come gli oggetti di Arad, si piegano e si curvano, si innervano e si snodano, apparentemente senza sforzo, anche quando le forze in gioco sono molto rilevanti, e si richiede grande impegno e potenza per poterli indurre a seguire la linea di progetto. 51


ROVER CHAIR Ron Arad, One Off 1980

“L’hobby non è altro che la degradazione della cultura, cioè un fare delle cose a livello imitativo, senza conoscere profondamente quello che si sta facendo”

Arad sembra tradire la volontà costante di ridurre il tenace a malleabile, forgiare, quasi più che costruire e progettare: il design secondo lui è “l’atto di imporre il proprio volere ai materiali, in modo che svolgano una funzione”. 39 Ma nella torsione imposta (qualche volta propriamente fisica) si intuisce il senso della sfida, la ricerca della sorpresa e del divertimento, di una magia. Spesso riuscita, sino al colpo virtuosistico. È certamente uno dei fattori creativi del panorama contemporaneo del design: il suo approccio, il suo segno lo caratterizzano in modo decisivo. 40 Una delle più grandi capacità di Arad è quella di saper declinare una forma, un prodotto secondo segmenti di mercato eterogenei, riuscendo allo stesso tempo a soffermarsi su poche matrici progettuali le quali però, come una sorta di stilista, utilizza fino lo spasimo, cambiando il “vestito”, la tecnologia, trasformando pezzi unici ed edizioni limitate in prodotti di massa, sedute in mensole, vasi in lampade, sculture in porta bon bon. Nel 1981 apre lo studio, il One Off, in collaborazione con Dennis Groves, in una cantina di Sicilian Avenue, iniziando così la sua attività di designer scultore che modella da solo i propri pezzi e li rivende. Lungi dall’essere un semplice luogo di lavoro la sede del One Off traduce la ricerca del suo progettista, divenendo nel tempo molto di più di un ufficio, ma anche showroom, negozio, galleria, laboratorio, atelier, il luogo dove Ron Arad pensa, progetta, produce e vende.

52

39

R.Arad, “Ron Arad talks to Matthew Collings” – Ed. Phaidon


I primi prodotti autoprodotti vengono realizzati con i Kee Klamps, un sistema di giunti in acciaio brevettato negli anni trenta del Novecento, che Ron assembla in forma di letti, librerie, tavoli, armadi. Erano economici e facili da montare. “C’era un catalogo con 111 snodi in undici misure diverse. Ho imparato a usarli come lettere di un alfabeto. I tubi possono essere facilmente tagliati a misura. Avevo questi materiali e la mia matita ed era come se queste strutture venissero direttamente fuori dalla matita. La gente era emozionata nel raccontarmi come era la loro camera da letto e io pensavo alla migliore soluzione per loro, scaffalature, mensole, letti, tavoli, qualsiasi cosa (...) Avevo la mia libertà d’azione e andavo avanti ma quando ai party mi chiedevano cosa facessi era difficile rispondere ‘sono un architetto’. Così ebbi una crisi di identità e mi avvicinai al design. One Off significa che da solo puoi progettare tutto. Ecosì è stato” .42 Uno dei primi esempi di riciclo creativo si può considerare la Rover Chair, sedile di Rover 2000 montato su una struttura tubolare Kee Klamp, l’intento era quello dare nuova vita agli oggetti già esistenti, contaminando ambiti d’uso e materiali in maniera del tutto innovativa e spiazzante. A chi gli chiede se si considera più designer o artista Arad risponde “un giocatore di ping pong”, perché “la distinzione non è affatto importante. Quello che conta è se è interessante o noioso, guardandolo, toccandolo, vi dà un senso di piacere oppure no? Non è necessario sapere che cosa sia!”43 Con Ron Arad si è al limite tra arte, artigianalità e design, sebbene l’arte sia diversa dal design e viceversa, Ron Arad è riuscito, prima che la Design Art la rendesse una combinazione di moda, a stabilire connessioni tra le due discipline che, anche quando sembrano avere forme in comune, vengono connotate da significati diversi.

In aggiunta l’arte produce pezzi unici e il design, almeno in teoria, produzioni seriali anche se in realtà il design italiano ha dimostrato che non sempre i numeri sono quelli della serie industriale e spesso i maestri dell’ltalian Design agiscono (ed agivano) ai confini con l’artigianato. Il contributo artistico in Arad viene evidenziato dalle serie limitate e dai pezzi unici, firmati, e assemblati da lui e ciò non cessa neanche quando il mondo della produzione gli mette a disposizione le tecnologie più avanzate. Possiamo dunque parlare anche di design da collezione? Come si parte poi dallo staccare un sedile da un auto, collocandolo su un telaio, chiamarlo “Rover Chair”, in un gesto un po’ dada/surrealista, per giungere alle aste di design e modernariato, alle gallerie ed ai Musei (magari progettandoli) come una delle star internazionali del campo ? Quello che Duchamp avrebbe chiamato probabilmente “ready made”, ma funzionale anche se atipico, diventa icona e radice di molti lavori, che da questo si staccheranno, ma che ne conserveranno freschezza, ironia e sorpresa.44 Come osserva Deyan Sudjic: Nonostante tutta la sua energia creativa, l’Inghilterra non è un paese che pullula di industriali interessati a produrre qualcosa che vada al di là degli oggetti domestici più banali (...) Nei primi anni ottanta molti giovani designer optarono per una frustrante strategia di sopravvivenza, creare oggetti per conto proprio. Il problema è che design e artigianato non sono la stessa cosa. Il vocabolario visivo del design, negli anni ottanta, era regolato dalle possibilità di produzione delle macchine, non dalle imperfezioni del lavoro fatto a mano”45 , ecco che l’autoproduzione come scelta consapevole fa finalmente il suo ingresso nel mondo del design e qui si può davvero parlare di Design Do it Yourself for someone else.

M. Aruga, Artscapes, su http://blog.contemporarytorinopiemonte.it/?p=23250 A. Cappelieri, R. Arad, Mondadori Arte, Milano, 2008, pag 11 42 Ibidem, pag 10 43 Ibidem, pag 12 44 M. Aruga, Artscapes, su http://blog.contemporarytorinopiemonte.it/?p=23250 45 D. Sudjic, Ron Arad: cose di cui la gente non ha veramente bisogno, postmedia. Milano 2003, p.12 40 41

53



Capitolo 2. Do it yourself

Do it youself for yourself o Do it yourself for someone else?

Come si è visto il fenomeno dell’autoproduzione è molto vasto e complesso; da un lato segue di pari passo la storia dell’uomo, dall’altro lato sembra seguire la nascita e lo sviluppo della società dei consumi. Per comprenderlo al meglio si sono usate fin ora delle espressioni chiave che si è deciso di dividere in due grandi insiemi, due sfumature differenti, due compartimenti non del tutto stagni, ma abbastanza dissimili fra di loro da giustificarne la suddivisione. Il primo prende il nome di Do it yourself (for someone else), ovvero “fattelo da solo, per qualcun altro”, il secondo invece Do it yourself (for yourself) e quindi “fattelo da solo, per te stesso”. Prendiamo in esame la prima sfumatura dell’espressione D.I.Y. Fanno parte di questa realtà tutti quegli esempi di autoproduzione in cui c’è un soggetto che autoproduce un prodotto (di qualsivoglia natura) destinato ad un pubblico più o meno numeroso. Il frutto di questa attività non è quindi a scopo ed uso personale, ma nasce proprio per essere condiviso con altre persone, che potranno comprarlo o più semplicemente riceverlo gratuitamente. Il mondo del design rientra appieno in questa classificazione, in quanto è presente un soggetto, il designer, che progetta in maniera autonoma (senza quindi dover sottostare ad un brief di un’azienda ed alle logiche industriali) fino a raggiungere la realizzazione di un prodotto finito. Il destino di questo prodotto varia a seconda dei diversi approcci autoproduttivi, ma, sia che venga destinato alla promozione (una specie di portfolio che prende vita), sia che venga prodotto in serie e venduto attraverso una definita attività imprenditoriale su scala più o meno ridotta, i destinatari saranno sempre persone definite e non coincidenti con il soggetto autoprogettante.

55


Do it yourself for yourself

La seconda sfumatura del fenomeno dell’autoproduzione, quella del “fattelo da solo per te stesso”, si manifesta con caratteristiche alquanto diverse da quelle del primo insieme appena analizzato, che potremmo dire essere l’ossatura ufficiale del D.I.Y.. In questa realtà alternativa e parallela fanno parte tutte quelle attività autoproduttive che danno luogo a dei prodotti, di qualsiasi natura, che vengono fatti per se stessi, per un uso personale, si intuisce che tutti quei manufatti che l’uomo si fabbrica ai fini della sua stessa sopravvivenza rientrano appieno in questa categorizzazione. Un’attività creativa di questo tipo infatti (si ripensi agli utensili degli uomini primitivi o all’arte di arrangiarsi nei periodi successivi alle grandi guerre) la si può sempre considerare come una reazione ad uno stato di cose verso il quale non ci si sente parte, che si vuole cambiare, ma in questi casi non è sicuramente la ribellione, l’anarchia o il rifiuto della società e delle sue regole a spingere l’uomo a farsi le cose da solo. La si potrebbe definire invece una scelta obbligata, non dettata da fini artistici, ma non per questo meno creativa ed innovativa. Lo spirito di intraprendenza, la capacità di risolvere i problemi, di progettare (dato che di progetto si vuole parlare) che l’uomo ha sviluppato nel corso della sua lunga storia, derivano proprio dall’applicazione del principio del farsi le cose da soli in ambienti ostili che vengono però trasformati a proprio favore. Fondamentalmente si potrebbe affermare che l’artigianato locale nasce proprio da

56

queste necessità, dalle capacità che l’uomo ha acquisito a seguito di sperimentazioni manuali sui materiali per fini personali, mettendole poi a servizio della comunità dando avvio ad attività di vendita. Per sintetizzarlo, il fenomeno dell’autoproduzione (inteso in questo caso come D.I.Y. for someone else) nasce e si sviluppa appoggiandosi sul patrimonio culturale che l’uomo ha acquisito nei secoli, del sapersi fare le cose autonomamente per soddisfare i propri bisogni e le proprie necessità. I cosiddetti “lavoretti domestici” di bricolage rientrano appieno nella categoria del farsi le cose da soli a fini personali (o per la propria famiglia o comunità). Sebbene l’uomo, nella sua storia, incontri sempre periodi di crisi, di ricostruzione, di estrema povertà a seguito di guerre in cui l’arte di arrangiarsi diventa una scelta obbligata, con il tempo il fai-da-te è diventato anche una scelta di vita con cui affrontare i problemi e risolverli oppure, più semplicemente, un hobby da coltivare nel tempo libero per mettersi costantemente alla prova. Mondi come quello del modellismo (si pensi a a quello ferroviario) o quello del costruirsi degli oggetti precedentemente comprati seguendo le istruzioni (si pensi a IKEA) non sono di particolare interesse. Pur rientrando nell’ambito del fai-da-te, queste sono realtà più legate ad un passatempo, in cui la manualità è sicuramente importante, ma dove l’ingegno viene in buona parte lasciato per strada. Non ci sono finalità progettuali, che invece sono proprio il fulcro di questo elaborato.


Esempio di istruzioni IKEA

57


Do it yourself ON-LINE

Con l’esplosione del web 2.0, con l’avvento di internet, il fenomeno del D.I.Y si sposta online grazie alle nuove tecnologie che permettono all’utente di partecipare e di contribuire alla stesura dei contenuti web attraverso il semplice caricamento di foto, ed in generale qualsiasi articolo di qualsiasi natura. Il risultato di questa compartecipazione alla stesura dei contenuti ha portato la nascita di molti siti web (primi tra tutti i social network), alcuni di questi migliorando e portando un ondata di innovazione nel nostro quotidiano, altri inquinando la salute della rete con contenuto spazzatura. Un esempio di come il mondo del web si sposi perfettamente con il D.I.Y e nello specifico con il Do it yourself for yourself è il sito web instructable.com. Il sito in questione è una grande community a livello nazionale ed internazionale che raccoglie tutorial, video basati su istruzioni, di qualsiasi natura: dai lavori di bricolage fino ai grandi progetti tech o ancora di design.

“Instructables.com is the most popular Do-It-Yourself community on the Internet. We enable passionate, creative people to share their most innovative projects, recipes, and hacks with our highly engaged audience ”. 46

46

58

47

Per sfruttare al meglio il sito internet occorre registrarsi on-line gratuitamente, una volta registrati si può interagire tra utenti per avere delucidazioni su tutorial e allo stesso tempo caricare idee e lavori da condividere con il resto della community. Si parte quindi dal concetto del D.I.Y for yourself e lo si sviluppa, lo si rivisita in chiave open source, diventando contenuto accessibile da tutta la rete. Ormai il web si considera la maggior parte delle volte come la risposta a qualsiasi nostro dubbio, è diventato il modo più rapido e semplice di risolvere problemi autonomamente, senza il bisogno di contattare gli esperti in materia. Si possono trovare molti siti che “forniscono risposte” quasi fossero degli oracoli, ma lo fanno in maniera molto più generalista e meno incentrata sul mondo del Do it yourself a contrario di Instructables. Youtube o Yahoo! answer sono sicuramente due esempi. Ognuno di questi siti funziona grazie alle community che sta dietro e che si forma proprio sulle pagine virtuali in questione.

http://www.instructables.com A. Boaretto, G. Noci, F.M. Pini, Open Marketing, strategie e strumenti di marketing multicanale, op. cit., p.49


Il 90% dei contenuti è frutto degli utenti che partecipano attivamente allo sviluppo del progetto, spinti da un forte senso di appartenenza e da una volontà di fornire supporto reciproco. Questo è il motore funzionante della macchina del web 2.0, la possibilità di sentirsi parte di qualcosa, la certezza di stare aiutando qualcuno grazie alle proprie esperienze o capacità personali e non ultimo anche quel piacere derivante dalla possibilità di potersi guadagnare i propri 5 minuti di notorietà, diventando una personalità di rispetto all’interno del network (sono un esempio i punteggi ed i livelli di Yahoo! Answer che dividono in “classi sociali virtuali” gli utenti). Le opinioni in rete, ritenute più affidabili delle ormai poco accattivanti campagne pubblicitarie realizzate dalle aziende47, permettono all’utente di autoprodursi un’opinione e di potersi così autogestire nel momento dell’acquisto. Una forma di Do it yourself sicuramente anomala, ma che mette effettivamente in grado le persone di potersela cavare da sole, esattamente come avviene sui siti in cui una community di Bricoleur fornisce tutorial su come riparare l’irriparabile o su come inventare nuovi oggetti partendo da zero. Il Do it yourself for yourself on-line acquista caratteri molto più simili al Do it yourself for someone else dove il supporto reciproco e la sinergia all’interno di un network di utenti diventano le fondamenta dell’intera attività autoproduttiva.

Sebbene il prodotto dell’attività fai-da-te rimanga per sè stessi, senza avere una prospettiva di diffusione più o meno ampia, le modalità con cui viene trasmessa la conoscenza adeguata per raggiungere il proprio scopo sono tutt’altro che chiuse e personali. Questo è infatti il grande contributo del web 2.0, ovvero di introdurre il concetto di open source e di sharing di informazioni anche in ambiti che esulano dal mondo dell’informatica e della programmazione in cui sono nati. Questosviluppo,giocheràunruolofondamentale nella delineazione del design autoprodotto degli anni 2000, introducendo questo concetto di creatività diffusa di dominio pubblico. Si andranno a rendere sempre meno evidenti e nette le differenze tra chi si autoproduce per sè o per finalità di comunicazione, vendita, protesta o altro ancora.

Logo del sito INSTRUCTABLES.COM

59


Chi sono gli autoproduttori? Abbiamo effetuato quindi una prima distinzione su quelle che sono le pratiche del D.I.Y, analizziamo ora più nello specifico i profili di chi oggi si affaccia nell’autoproduzione. Come abbiamo specificato già dall’inizio la linea che demarca la differenza tra artigiano e designer è molto sottile, riusciamo però a distinguere in questa grande categoria di appartenenza chiamata “autoproduzione”, le figure dell’artigiano, dell’artista, del designer e del maker. Un ruolo fondamentale nella buona riuscita della distinzione di questi protagonisti dell’autoproduzione è dettato dagli strumenti che rendono libero, o quasi completamente, l’accesso alle informazioni. Questo accesso come abbiamo visto in precedenza è la risposta dell’avanzamento tecnologico e comunitario del web 2.0, di tutta quella comunicazione la quale ha avuto una notevole ricaduta sul ruolo del designer degli ultimi anni. “I sistemi di desktop publishing, presenti sul mercato a partire dagli anni ’80, hanno dato avvio a un processo di emancipazione dell’utente, il quale ha acquistato un grado di autonomia sempre maggiore per quanto riguarda la realizzazione, e successivamente la distribuzione, di artefatti comunicativi. Numerose innovazioni tecnologiche, quali l’avvento del web 2.0 o la diffusione capillare degli smartphone, hanno in seguito consolidato l’affermazione di tale processo. Ognuna di esse ha ridefinito radicalmente il rapporto tra produttore e consumatore, minimando inoltre la consueta distinzione tra professionista e dilettante”48

S.Lorusso, Critical Publishing. Il progetto come strumento di indagine degli ecosistemi editoriali nell’era dell’utente emancipato, <http:/www.disegnoindustriale.net/12/>, diid n°57, 2014 48

60

Possiamo dunque definirlo un processo di accorciamento delle distanze sul piano immateriale della progettazione, o ancora più nello specifico del rapporto tra progettista e utente. Parliamo quindi di utente emancipato, un utente che è sempre più vicino alle informazioni per la progettazione e ai mezzi di produzione grazie a questa logica dell’open source, analizzata in precedenza, e dell’open hardware. Con Open hardware intendiamo una parte dell’open source che espande la sua ideologia al di fuori dell’ambito del software, il termine viene principalmente utilizzato per esprimere la divulgazione libera di informazioni riguardanti il progetto stesso dell’hardware, comprendete gli schemi, la lista del materiale, il layout dei dati del circuito stampato. Open source e Open hardware permetto quindi, basandosi sulla logica dell’accesso libero, che il materiale informativo sia facilmente reperibile. La differenza sostanziale si ha quando ad utilizzare queste informazioni “libere” sono progettisti o dilettanti. In generale, l’utente emancipato, non si fa vettore di innovazione dal punto di vista tecnologico, espressivo, lo fa dichiaratamente per il piacere di farlo dichiarando inconsciamente un profondo interesse per la cultura del progettare, del design. Nonostante l’avanzamento, lo sviluppo del web e della nascita dell’utente emancipato, il sistema non ha mai scalzato del tutto l’artigianato che a contrario rimane il contatto diretto con la materia, il messaggero dei valori con una dimensione più ad uomo e non a macchina.


Il dibatto su artigianato-designer-industria non avrà mai fine anche se la figura di entrambi è chiave nel processo produttivo dei nostri giorni. Possono essere considerati artigiani anche quelle categorie professionali nella nostra epoca, quali i ricercatori di laboratorio o le comunità che lavorano attorno a un sistema open source, perché “…al centro del loro interesse c’è il conseguimento della qualità, il lavoro ben fatto che da sempre è il marchio di identità dell’artigianato”. 50 Ormai la figura dell’artigiano viene la maggior parte delle volte fraintesa, possiamo insinuare che abbia addirittura cambiato connotazione col passare degli anni e che cambi sostanzialmente da un paese all’altro, da una nazione all’altra, anche nel modo occidentale. Non può quindi esistere una definizione univoca che identifichi un unico significato globale, dato che non ne possiede uno51. Nonostante sia difficile connotare la figura dell’artigiano, lo si può concepire come un attività, nella quale il lavoro manuale diventa il carattere principale e determina lo stesso processo produttivo imponendo il numero dei pezzi da produrre che sia un pezzo unico (la maggior parte delle volte), una piccola serie o una serie limitata. La differenza sta principalmente nel tempo che impiega l’artigiano alla realizzazione di un pezzo. Il pezzo unico è legato essenzialmente al legame che vi è tra artista e opera, la quale viene contrassegnata con la firma dell’artigiano creando una sorta di legame

<http://it.wikipedia.org/wiki/Hardware_libero> R.Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2008, pag 29-34 51 P. Antonelli, States of Design: design fatto a mano, “Domus”, 2012 52 R.Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2008, pag 32

tra produttore e prodotto; prodotto che è frutto di una tradizione lavorativa. Il confronto con l’artista e in generale con l’arte sorge quasi spontaneo, qual’è dunque la differenza tra un artigiano che crea un legame con il proprio prodotto creato come pezzo unico e l’artista che firma la propria opera? Secondo Sennet il tempo sta alla base della differenza. Il tempo impiegato nell’apprendimento del mestiere per quanto riguarda l’artigiano è lungo, richiede una serie di errori e svariati tentativi. Non è così è per l’artista, il quale lega il suo tempo all’estro, rendendolo un tempo veloce. 52 Ogni qualvolta che si cerca di definire la figura dell’artigiano in corrispondenza con quella dell’artista e del designer si incombe in piccole differenze che sembrano sottili e mutuate solo da considerazioni circostanziali. Per quanto riguarda gli autoproduttori, li si può facilmente accostare alla figura dell’artigiano con un unica eccezione: l’autoproduttore non è legato ad una singola pratica che lo distingue, come potrebbe essere la lavorazione di un unico materiale, un mestiere, mentre l’artigiano lo è, largiranno è vetraio, falegname, ceramista e si fa difficoltà a pensare che quest’ultimo riesca a passare rapidamente da un mestiere all’altro.

49 50

61


MAKERS FAIR, Houston 2016

“Fai da te” “Facciamo assieme”

62

Parlando quindi di autoproduzione si è citato in precedenza l’utente emancipato e la figura dell’artigiano, non si può omettere di citare anche la figura del Makers. Si può affermare che il termine Makers derivi dal concetto di capacità produttiva della rivista Make, i Makers sono appassionati di tecnologia, educatori, pensatori, inventori, ingegneri, autori, artisti, studenti, chef, artigiani 2.0, insomma tutti coloro che creano e stupiscono con la forza delle proprie idee. Sono persone che, con un forte approccio innovativo, creano prodotti per avvicinare la nostra società a un futuro più semplice e divertente. Il loro motto è “fai da te” ma soprattutto “facciamo insieme”. Sono, infatti, una comunità internazionale presente in oltre 100 paesi e condividono informazioni e conoscenze sia attraverso il web sia attraverso veri e propri luoghi fisici, i cosiddetti Fab Lab. Usano macchinari come frese o stampanti 3D ma anche software e hardware open source che si possono scaricare gratuitamente dal web per dare vita a qualcosa di originale. I makers, oggi, vengono identificati come un vero e proprio movimento culturale dalle enormi potenzialità sul piano dello sviluppo sociale e economico, grazie alla loro capacità di esplorare nuove strade o semplicemente di percorrere in modo “moderno” quelle esistenti.53 Si può affermare che questo fenomeno prenda forme originali a seconda di dove affonda le proprie radici, possiamo però affermare che il suo paese d’origine sia l’America.


Il primo nucleo di makers è quindi molto americano, un mix tra l’eccellenza scientifica del Mit-Massachusetts Institute of Tecnology e l’imprenditorialità della Silicon Valley. I principi su cui si basa la filosofia del movimento dei Maker possono essere un vero e proprio motore di cambiamento degli Stati Uniti grazie a tre peculiari caratteristiche che risultano particolarmente innovative. Prima tra tutte l’utilizzo di macchine digitali per creare progetti per nuovi prodotto (fai-da-te digitale); la seconda, il fatto che si riferisce ad una norma culturale la quale prevede di condividere i progetti e instaurare collaborazioni, in community online (effetto rete); la terza, utilizzare file di progetto standard che consentano a chiunque di mandare i propri progetto ai server di produzione commerciale per essere realizzati in qualsiasi quantità, riducendo drasticamente il percorso dall’idea all’imprenditorialità.54 Come afferma Anderson: “ Siamo tutti Makers… Se amate cucinare siete dei maker in cucina e il forno è il vostro manco da lavoro. (…) Uno dei cambiamenti più profondi dell’era del web consiste in una nuova modalità di condivisione online. Se fai qualcosa, gira un video. se registri un video, postalo. Se lo posti, diffondilo tra i tuoi amici. I progetti condivisi online diventano ispirazione per altri e opportunità di collaborazione. I singoli Makers connessi globalmente in questo modo diventano un movimento. Milioni di appassionati del fai-da-te, che una volta lavoravano da soli, improvvisamente cominciano a lavorare assieme. Le idee condivise si trasformano in progetti, e possono dare vita a prodotti, movimenti e persino settori economici. (…). Abbiamo visto accadere questo molte volte sul web. La prima generazione dei giganti della Sillicon Valley è nata in un garage, ma a questi ci sono voluti decine di anni per diventare grandi. (…) ora sta accadendo la stessa cosa per gli oggetti fisici. A dispetto del fascino che i monitor esercitano su di noi, viviamo ancora nel mondo reale. (...) http://www.makerfairerome.eu/it/chi-sono-i-maker/ C. Anderson, Makers. Il ritornodei produttori, Rizzoli, 2013, pag 25-26 55 ibidem

Atomi non bit, la distinzione sta sempre più sfumando, dato che sempre più oggetti quotidiani contengono parti elettroniche e sono connessi ad altri oggetti. (…). Tutto questo sta cambiando la manifattura, l’idea di fabbrica sta cambiando. Proprio come nel web ha democratizzato l’innovazione nei bit, una nuova classe di tecnologie per la prototipazione rapida (dalle stampanti 3D ai laser cut) sta democratizzando l’innovazione degli atomi. (…). Ora gli inventori possono essere anche imprenditori. Gli ultimi vent’anni online raccontano la storia di un esplosione di innovazione e imprenditorialità. (…). Abbiamo bisogno di tutto questo. Gli Stati Uniti e la maggior parte del resto del mondo occidentale sono nel bel mezzo di una crisi di lavoro (…). La grande opportunità offerta dal movimento dei Makers è quella di essere contemporaneamente piccoli e globali. Artigiani e innovativi. High tech e low-cost. Cominciare piccoli, ma diventare grandi. E sopratutto creare quel tipo di prodotti che il mondo vuole, ma non lo sa ancora perché non si adattano bene all’economia di massa del vecchio modello.”55

53

54

63


Il nuovo scenario giovanile Si parla quindi di utente emancipato, di artigiano, di makers ma senza ombra di dubbio la figura principale per quanto riguarda l’autoproduzione è quella del giovane designer che sente l’esigenza di vedere finalmente realizzati quei prodotti che sempre più spesso non vengono presi in considerazione dalle aziende, nell’intento di avere un primo confronto con il mercato e di poter incanalare la propria energia creativa su esperienze concrete. Non mancano esempi tra le giovani generazioni di una nuova vitalità e energia creativa nel panorama sperimentale con un linguaggio che sembra soprattutto accomunato da processi di contaminazione, o di contaminazione d’uso, dei materiali, lavorati in modo atipico per tessitura o assemblaggio, con brutalismi e delicatezze inconsuete. Si può constatare come i giovani designer sono da un lato ancora legati all’industria, ai materiali semilavorati ed allo stesso tempo tendano a dare importanza agli scarti e agli oggetti usati senza una distinzione. La loro produzione parte la maggior parte delle volta da esperienze in cui spesso è presente un’intenzionalità di tipo artistico. Il progetto si fa interprete di nuovi materiali, con un attenzione accentuata sulla loro capacità di prestarsi alla sensorialità. Sembra quasi che questa nuova generazione di designer abbia una naturale e spiccata sensibilità verso le qualità tattili, visive e verso lo studio delle diverse consistenze di materia. Il prodotto non è più considerato il punto d’arrivo ma il punto di partenza per una riflessione che vuole ribaltare i presupposti sull’utilizzo del materiale stesso.

64

Sembra quasi che questa nuova generazione di designer abbia una naturale e spiccata sensibilità verso le qualità tattili, visive e verso lo studio delle diverse consistenze di materia. Il prodotto non è più considerato il punto d’arrivo ma il punto di partenza per una riflessione che vuole ribaltare i presupposti sull’utilizzo del materiale stesso. Alla base c’è una ricerca di oggetti che trasmettano il calore e l’imprecisione della manualità, con impresso il segno della tradizione, si presenta come un fenomeno complementare alla diffusione delle nuove tecnologie e alla nascita di tipologie di oggetti del tutto nuove. Da ciò il disinvolto recupero da parte di molti giovani delle tecniche, dei materiali, non solo come possibile punto di partenza per avviare il confronto con un’idea più estesa di produzione e di mercato, ma anche come pratica progettuale che, attraverso un rapporto più immediato col processo produttivo e con un contesto, si arricchisce e riscopre altre dimensioni culturali, che la grande produzione tende a semplificare o ignorare.


Il panorama della produzione giovanile risulta decisamente più complesso rispetto ai decenni passati, che vedevano l’Italia al centro della sperimentazione e dell’innovazione. Dagli anni ’90 fino ad oggi l’Italia vanta una centralità basata su un alto livello di produzione per quanto riguarda gli arredi, gli oggetti per la casa e un sistema di comunicazione che gira attorno il design; ma nel mondo si sono allo stesso tempo moltiplicate le istituzioni, le scuole, momenti di confronto sempre più qualificati che offrono la possibilità ad un ampio numero di giovani di occuparsi di design e di stabilire contatti con il mondo della produzione e della comunicazione. Rispetto alle avanguardie, che vengono analizzate nel capitolo precedente, la nuova generazione di designer non vuole esprimere un atteggiamento di rottura visiva e comportamentale, ma cerca in maniera concreta, e sempre molto personale, di comunicare attraverso gli oggetti un nuovo processo capace di modificare il modo di vivere attraverso un rilettura dell’esistente. L’obiettivo principale56 non è più l’innovazione fine a se stessa oppure lo stupore provocato da un qualcosa che non si è mai visto, bensì si preoccupa di entrare e declinare la realtà delle cose già esistenti. Potremmo forse pensare a questo approccio come una risposta dell’avanzare accelerato della società e del modo di vivere, provocato dalla nuova tecnologia; si sente quindi il bisogno di ritrovare e rileggere il quotidiano. Alla consapevolezza dell’avanzare tecnologico della società si aggiunge la

componente ambientale. I giovani designer consci delle problematiche ambientali, associano la disponibilità di nuovi materiali che spesso non trovano una collocazione o che non sono ancora mai stati impiegati in precedenza. Composti, fibre speciali, gel, tessuti tecnici, resine e nuove lavorazioni di tutti quei materiali ampiamente conosciuti come: plastica, alluminio, vetro e ceramica. Per quanto la produzione dei giovani designer si avvicini al mondo artigianale e alla scoperta dei desunti e nuovi materiali, la dimensione artigianale non entra più in conflitto con la progettazione mirata al prodotto di fattura industriale, in quanto la loro progettazione si orienta verso la contemporaneità alimentata dall’innovazione e dalle nuove tecnologie dando luogo a nuove tecniche e forme di grande attualità.

sopratutto per quanto riguarda quei lavori che si spingono nelle ricerche più sperimentali che si muovono intorno al materiale/materia e alle nuovi visioni/funzioni. 56

65


Autoproduzione come

Autopromozione


L’approccio dei nuovi designer, della nuova generazione, alla produzione avviene secondo diverse modalità in Europa. La maggior parte delle scuole di design infatti presenta una struttura didattica dedicata al mondo della produzione, la quale cerca di avvicinare, già a partire dagli anni di studio, il giovane studente con il mondo della produzione attraverso l’organizzazione di seminari, workshop, ai quali partecipano imprese, e stage di perfezionamento presso aziende o studi professionali. L’alternativa all’avvicinamento tramite book e portfolio all’azienda è la realizzazione diretta di prototipi che permettano di dare visibilità alla propria ricerca progettuale. Questo si può definire un fenomeno di autoproduzione e autopromozione che ha caratterizzato buona parte degli anni ’90, e quelli a seguire, il percorso di molti giovani designer, assumendo negli ultimi anni una certa rilevanza dal punto di vista economico. Inoltre va ricordato che la rete rappresenta, per molti autoproduttori, la possibilità di autopromuoversi, condividendo con un network i risultati delle proprie ricerche. Oltre che strategia autopromozionale, l’autoproduzione è espressione di una metodologia di ricerca basata su un approccio sperimentale, che manifesta la necessità di riappropriarsi del lavoro manuale, dei processi di costruzione e definizione degli oggetti e di una riflessione sui contenuti del design, anche indipendentemente dalle esigenze dell’industria e del mercato.

D’altro canto l’autoproduzione giovanile ha determinato un rinnovato interesse delle aziende per il progetto dei giovani designer, dotati della capacità di produrre scenari inediti in un momento in cui la competizione e la comunicazione globale richiedono un alto livello d’innovazione. Questo è visibile non solo nei tradizionali settori dell’arredo, ma anche nei nuovi ambiti merceologici creati dalle applicazioni delle nuove tecnologie. Grazie all’autoproduzione, manifesto della creatività e della capacità di sperimentazione indipendente, si sta ricostituendo un po’ ovunque, su nuovi presupposti, il rapporto con le aziende. Così i designer si trovano spesso ad attraversare esperienze anche molto diverse: da autori di pezzi autoprodotti a progettisti per la produzione di grande serie, da esperienze di produzione artigianale a art director di grandi e medie aziende.

67


2.1 Perchè autoprodurre?

Dai paragrafi precedenti si evince quindi che la scelta di autoproduzione consapevole da parte del progettista nasce attorno alla fine degli anni ’80 e ai primi anni ’90, per poi raggiungere il periodo di maturità con gli anni 2000. Si posso distinguere varie figure di nuovo designer che si autoproduce, la prima figura già esaminata è quella del designer imprenditore: quella nuova categoria in cui sono compresi quei designer che hanno deciso di affiancare alla loro attività di progettisti tutti quegli aspetti e attività caratteristiche dell’imprenditore. Altra figura pressoché nuova per l’Italia risulta essere quella del designer strategico: ovvero giovani designer che si propongono a un certo livello con soluzioni complesse che riguardano prodotto, servizio, comunicazione, all’impresa che non ha ancora sviluppato una visione complessiva e integrata del design. Di conseguenza volendo scendere ancora più nello specifico, potremmo suddividere queste macro categorie in altrettante, riferendoci così a tre diverse tipologie di designer o ancor meglio a tre diverse motivazioni le quali hanno spinto il giovane designer all’ autoproduzione. La prima categoria vede l’autoproduzione come un mezzo per entrare nel mondo del lavoro; la secondo vede l’autoproduzione come un gioco, come un’attività puramente sperimentale e liberatoria ed infine la terza categoria di designers è riconducibile alla figura del designer imprenditore.

L’attività sperimentale di Ron Arad potrebbe rimandare a questa categoria di designer. Arad anche dopo aver trovato un posto d’onore nel mondo della progettazione e delle “design star”, ha infatti sempre continuato ( parallelamente ai suoi lavori su commissione) il lavoro manuale sul metallo 57

70


1

Autoproduzione come passaggio intermedio

2

Autoproduzione come sperimentazione

3

Autoproduzione come attività imprenditoriale

Rientrano in questa categoria tutti quei designer i quali lo scopo finale è quello di trovare un posto all’interno del mondo del lavoro, all’interno del grande mondo del design. Se contestualizziamo l’epoca di cui stiamo trattando, quindi il periodo a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, ci rendiamo conto che questa reazione possa essere nata in seguito alle difficoltà che riscontravano i giovani produttori, di trovare un posto in una azienda o in uno studio di progettazione. L’autoproduzione era quindi il mezzo che serviva come “transito” dal mondo universitario a quello del lavoro, dalla teoria alla pratica. Come si proponevano quindi questi designer al mondo del lavoro? Si è già visto in precedenza come la voglia di presentarsi ad una azienda non si limitava solamente alla realizzazione di un book o di un portfolio, bensì preferivano, ma questo accade tutt’ora, sviluppare i propri progetti in maniera del tutto autonoma, curandone quindi tutti gli aspetti tra cui la prototipazione57.

Fino ad ora si è parlato di quella categoria di designer che viene definita “giovane” la quale risulta essere ancora sconosciuta nel grande mondo del design. Questa attività progettuale di autoprodurre però non è soltanto una scelta dei giovani designer che cercano uno sbocco lavorativo, ma caratterizza anche la produzione di quei progettisti che sono già affermati nel panorama della progettazione. Si può definire questa attività quasi come una sperimentazione, una sorta d’indagine, di ricerca di nuovi linguaggi. Il designer in questione utilizza l’autoproduzione come sorta di un valvola di sfogo con la quale può progettare in maniera del tutto libera senza vincoli aziendali e contrattuali, il tutto reso possibile dalla non necessità di farsi conoscere o notare da un’azienda (o quanto meno non risulta essere l’obiettivo principale). Lo scopo finale di questa autoprogettazione non è quello di vendere o di avviare una nuova attività, piuttosto lo scopo è quello di imparare e di scoprire nuovi materiali e nuove lavorazioni o ancora esprimere attraverso un oggetto la propria visione del mondo, diventando così quasi una sorta di critico della società.57

La terza strada produttiva da prendere in considerazione, seguita sia dai designer affermati sia dai più giovani, è quella che unisce il lavoro progettuale a quello imprenditoriale. In questo caso il designer decide di non aspettare che sia il mondo del design ad accorgersi di lui bensì decide di lanciarsi sul mercato progettando qualcosa che lo appaghi ed occupandosi di tutte le fasi a partire dalla progettazione e concludendo con la distribuzione, ma sopratutto si occupa di prendere contatti con eventuali rivenditori, si dedica a tutte le fasi pubblicitarie, economiche e di definizione del brand del designer stesso. La definizione del brand risulta essere uno step assai complesso in quanto sarà proprio grazie ad esso che il designer si inserirà all’interno del mercato, ed il mercato lo identificherà attraverso il suo brand. La proposta del prodotto dovrà essere la più centrale possibile, inoltre, dovrà essere fatta al momento giusto, in caso contrario sarà lo stesso designer a pagarne le conseguenze sia a livello economico che la sua immagine stessa ne risentirà. Quest’ultima via progettuale risulta la maggior parte delle volte la più ardua e difficile da intraprendere, è proprio per questo motivo che molti designer preferiscono non intraprenderla, in quanto il doversi occupare di tutte le fasi economiche, di marketing e di comunicazione della propria immagine, del proprio brand, distraggono dalla progettazione stessa. Tuttavia questo non significa che non ci siano casi di designer/imprenditori brillanti. 69


2.2 Lo scenario Europeo e le sovvenzioni I paesi del nord-Europa hanno da sempre avuto una grande tradizione e diffusione della cultura del design, in maniera attenta, sopratutto per quanto riguarda la dimensione sociale e ai valori ambientali. La produzione diretta è sempre stata molto diffusa e costituisce oggi, oltre che un approccio di tipo sperimentale alla produzione, una metodologia che testimonia la continuità di una tradizione artigiana e artistica, fondata sulla sperimentazione diretta sulle tecniche e sui materiali. L’artigianato artistico è stato il campo predominante dell’attività di design del nord-Europa, soprattutto in Danimarca, con una preminente specializzazione nel settore tessile, ceramico e del vetro e continua a costituire l’attività principale di molti giovani progettisti, rinnovandosi e ibridandosi adesso con l’uso di nuove tecnologie e di materiali innovativi. La situazione del design nordico appare subito chiara con la presenza di due orientamenti principali: il recupero delle lavorazioni artigianali, come quelle del vetro e del legno, che hanno reso celebre il design scandinavo dagli anni ‘30 ai ‘50, e lo sviluppo delle tecnologie informatiche. La Danimarca è, tra le nazioni scandinave, la più industrializzata (circa il cinquanta per cento degli insediamenti industriali) ma è anche la nazione più ricca di iniziative e meglio organizzata per quanto riguarda il design. Logo e Identità visiva Danish Design Prize

70


Il governo e il ministero dell’economia danese hanno in seguito compiuto grandi sforzi per motivare le imprese a sfruttare le opportunità del design in ogni settore, dalla comunicazione grafica allo sviluppo del prodotti. Il Danish Design Council, con l’aiuto del Ministero del commercio e dell’Industria, ha istituito, nel 2000, il “Danish Design Prize”, che sostituisce il “Danish Design Awards for industrial design” e il “Danish Design Awards for graphic design”, nati rispettivamente nel 1965 e nel 1980. Il premio ha diverse sezioni, dal product design al web design, ed è parte integrante del piano stabilito dal governo nel 1998 che prevede un budget annuo per promuovere la ricerca e lo sviluppo del design. Il “Design Forum Finland”, uno degli enti europei più attivi e organizzati, promuove il giovane design industriale, bandendo dal 1996 un concorso riservato ai giovani designer scandinavi. Diviso in diverse categorie, dal furniture design alla progettazione di gioielli, il suo obiettivo è creare una mostra dei progetti selezionati per presentarli al mondo dell’industria. In Belgio non esiste una forte tradizione industriale; le esperienze più interessanti riguardano giovani designer di talento, ma anche alcune piccole aziende che sono recentemente emerse dall’esperienza nel campo dell’architettura d’interni, sviluppata sia in termini progettuali che costruttivi. Ente pubblico importante in Belgio è “Wallonie Bruxelles Design Mode.”60 il quale fornisce un supporto ai designers e alle aziende per il loro sviluppo a livello internazionale dal 2006.

Danish Design Award, http://danishdesignaward.com Design Forum Finland, https://www.designforum.fi/etusivu 60 Wallonie Bruxelles Design Mode, https://www.wbdm.be

Le aree coperte dall’ente includono il design di prodotto, il fashion design, il texil design, la comunicazione visiva, il design sociale e il food design. Si rivolge principalmente a designer e aziende con uno spiccato senso dell’imprenditorialità, la cui ambizione è quella di ampliare la portata delle loro attività all’estero. La loro partecipazione annuale al FuoriSalone di Milano rappresenta una vera e propria vetrina di design pieni di talento, delle giovani premesse. L’Olanda sembra essere attualmente lo stato più attento alle esigenze e alle potenzialità delle nuove generazioni e questo è uno dei motivi per cui in questo momento il design olandese ha acquistato grande risonanza a livello internazionale. Una dimostrazione di questa attenzione è l’istituzione di “Young Designer + Industries”, un’iniziativa nata per favorire l’incontro tra giovani neodiplomati e grandi aziende.

58 59

71


L’obiettivo degli organizzatori è di contribuire allo sviluppo del design e a rafforzare la collaborazione tra progettisti e aziende. Le aziende offrono l’esperienza e il sostegno pratico durante tutta la fase d’elaborazione dei progetti, mentre i designer s’impegnano a formulare idee nuove e spontanee proprio perché non condizionate da esperienze precedenti. Da prendere in considerazione anche, e sopratutto, la “Foundation of Art, Design and Architecture”62. di Amsterdam, istituzione più importante a livello nazionale, rilascia fondi ad artisti individuali per realizzare un determinato progetto o per intraprendere una specifica carriera professionale. Per ottenere una sovvenzione è necessario consegnare una domanda e spiegare il progetto a un comitato speciale, che si riunisce poche volte l’anno63 (Stimulering Fonds).

Per quanto riguarda la Francia, ha sempre avuto un atteggiamento irrisolto col design, anche se è stata sempre motivo di orgoglio la grande tradizione di Le Corbusier in contrapposizione a quella dei gradi décorateaur.

Nonostante la scarsità di aziende di design, la Francia possiede organizzazioni efficienti, prima tra tutte VIA (Valorisation de l’lnnovation dans l’Ameublement)63, che è il precursore di tutte le attività di promozione svolte dagli enti governativi europei. Il VIA è nato nel 1977 sotto il patrocinio del ministero dell’industria, con il fine di promuovere il furniture design francese contemporaneo, le mostre, l’attività promozionale e la produzione, appoggiate dal sindacato dei mobili e mobilieri francesi. Il VIA ha quattro obiettivi principali: essere un punto di riflessione per anticipare le future tendenze del life style; stimolare creatività e innovazione nell’industria, dando contributi alle scuole e pre-finanziando i prototipi dei designer; mettere in contatto designer e aziende, esponendo nei propri padiglioni alle fiere i prodotti risultanti dalla collaborazione; infine, essere un centro di documentazione, un database, per fiere, esibizioni pubbliche e pubblicazioni.

http://www.dutch-doc.nl/docupedia/the+netherlands+foundation+for+visual+arts+design+and+architecture+++fonds+bkvb Industrie Creative Found NL utilizza il Design Grant Program per sostenere progetti che contribuiscono alla promozione della qualità eccellente, lo sviluppo e la professionalizzazione del design olandese contemporaneo. Questo programma di sovvenzioni ha cinque turni di applicazioni all’anno. Il bilancio annuale è distribuito equamente tra i turni, da https://stimuleringsfonds.nl/en/grants/grant_programme_ for_design/ 61

62

74

In Francia la parola “design” aveva poco corso, si usava parlare di “esthétique industrielle”. L’ENSCI, École Nationale Supèrieure de Création lndustrìèlle, che ha svolto un ruolo di notevole importanza nella formazione dei designer francesi contemporanei, non usa infatti nella sua denominazione il termine design. Senza ombra di dubbio le cose inizieranno a cambiare verso la fine degli anni ’90 con Philippe Starck, il quale ha fatto si che il design francese si identificasse sotto il suo stesso nome. A lui va anche il merito dei nuovi designer francesi, i quali provengono, la maggior parte, dal suo studio.


In Germania i progettisti, nella gran parte dei casi, sono interni o almeno fortemente integrati alle aziende per le quali lavorano. Solo in seguito la situazione è cambiata: in particolare a Berlino, che è diventato uno dei più interessanti centri europei di aggregazione e di sperimentazione giovanile, dove vivono e lavorano molti giovani designer, molti dei quali si occupano di comunicazione e di grafica multimediale. La struttura federale dello stato tedesco ha favorito una localizzazione diffusa dei centri per l’insegnamento del design nelle diverse regioni e città: Hannover, Berlino, Brema, Amburgo, Hoffenbach sono sedi di alcuni di questi istituti. Agli inizi degli anni ‘90 si inaugura la nuova Facoltà di Gestaltung di Weimar, diretta da Lucius Burckhardt, che nel suo programma punta alla formazione di un nuovo tipo di “artigiano”: una figura che possa essere pronta ad affrontare i limiti dell’industrializzazione, contemporaneamente a suo agio con la manualità, con l’intuizione e con le tecnologie avanzate, un risolutore consapevole di problemi per le aziende che spesso ne sbagliano proprio la formulazione. Un’altra istituzione molto attiva soprattutto nei rapporti con l’estero è l’IFA64 (Institut fur Auslandbeziehungen) che nel 1999 ha organizzato una famosa mostra al Vitra Design Museum dal nome “Consapevolmente semplice: nascita di una cultura alternativa del prodotto”, che ha messo in luce il funzionalismo intelligente e non convenzionale dei giovani designer tedeschi. Il tema di lavoro proposto agli studenti era la realizzazione di oggetti con semilavorati reperibili sul mercato: un’incursione nella grande distribuzione e nei magazzini industriali per prelevare componenti ideati per altri usi, con il fine

VIA, da http://en.via.fr/presentation IFA, Institut fur Auslandbezienhungen, http://www.ifa.de/en/funding.html 65 http://www.100percentdesign.co.uk/welcome#/

di realizzare oggetti semplici mettendo in evidenza la componente estetica di oggetti comuni. La Gran Bretagna possiede molti talenti che, data la scarsità d’industrie orientate al design, tendono a lavorare in altri paesi. La fama delle scuole inglesi oggi è affidata all’antico Royal College ma altrettanto alla St.Martin’s School of Art, la scuola della nuova moda britannica, quella che ha avuto come bandiera già dagli anni ‘70 la mitica ed eccentrica Vivianne Westwood. Quasi tutta la stirpe dei giovani designer inglesi, ha frequentato il Royal College of Art, e oggi molti di loro fanno parte del corpo docenti. Il Royal College, collaborando con una rete d’industrie, dà la possibilità di sperimentare ciò che si può realmente fare a livello di produzione di massa. Un ruolo positivo viene svolto con fortuna crescente del salone annuale che si tiene a Londra ogni anno, 100% Design 65 all’interno del quale la rivista Blue Print assegna un premio.

Queste si posso ritenere le maggiori istituzioni/enti che a livello europeo finanziano ed alimentano il design a livello sia nazionale che, e oserei dire sopratutto, a livello internazionale, cercando così di far conoscere il proprio design, i propri talenti, il proprio gusto “nazionale” all’estero ma sopratutto in Italia. Mentre le nazioni Europee si impegnano nella promozione del design in Italia, cosa accade a livello italiano? Quali sono gli enti che promuovono il nostro design?

63

64

73


2.3 La Situazione italiana

La situazione del design italiano degli anni ’90 ci fa riscontrare con la condizione comune che i designer italiani sono quasi tutti legati alla progettazione del mobile, del complemento e dell’illuminazione. Parlare quindi design in Italia, non rimanda alla creazione di un nuovo disegno, di un nuovo sistema di progettazione o una nuova elaborazione dati, bensì è proprio nel settore dell’arredamento che i designer storici come la maggior parte della nuova generazione spicca, emerge, ha maturato maggior conoscenza e fama. Questo rapporto tra designer e impresa ha permesso di generare un sistema del design esteso anche al circuito della comunicazione (le riviste, i premi, le manifestazioni fieristiche), della formazione (le scuole, i centri di formazione, le esperienze progettuali negli studi più importanti), delle professioni di servizio (i modellisti, fotografi, specialisti... ). L’avvicinamento all’impresa ha permesso ai designer italiani di sviluppare una sottile capacità relativa con il mondo aziendale, inoltre, unendo la conoscenza a livello progettuale con le istanze del mercato, della società e della tecnologia sono riusciti a valorizzare le capacità del sistema produttivo Made in Italy.

74

Il designer oggi non deve solamente pensare alla funzione estetica del prodotto bensì all’innovazione del processo produttivo che ne permetta la realizzazione. Se si vuole criticare un aspetto della produzione italiana lo si può fare analizzando quello che è stato il processo, l’avanzare tecnologico aziendale. In quanto l’azienda si è evoluta molto velocemente assumendo modelli operativi e comunicativi sempre più raffinati e a quest’evoluzione non è corrisposta una uguale crescita delle risorse progettuali. Negli ultimi anni si parla molto del Made in Italy il quale ha perso il suo potere di seduzione, sopratutto dal punto di vista progettuale e nella formazione dei designer. Le maggiori scuole di design ormai vengono considerate quelle in Inghilterra, in Olanda, in Svizzera. I designer emergenti vengono sempre meno dall’Italia, questo non vuol dire che i designer italiani siano scadenti ma che la maggior parte d’essi prosegue gli studi all’estero, affermandosi come designer proprio nella città in cui termina gli studi. Gli olandesi sotto questo punto di vista sono diventati molto italiani, una delle peculiarità del design italiano è stata per esempio avere una forte connessione con il


mondo delle arti, delle arti figurative, questo è stato assimilato dal design olandese che si è distinto proprio per un suo carattere spiccatamente concettuale. Questo concetto in parte appartiene all’Olanda ma anche all’Italia, che ha quel terreno culturalmente fertile di cui si sono cibati i designer più giovani, delle nuove generazioni. A livello di produzione l’Italia continua ad essere una meta, un paradiso ricercato da quasi tutti i designer del mondo. Questo perchè la produzione italiana non si basa sulla vera tecnologia o sulla esclusiva scienza applicata alla traduzione del progetto in prodotto, ma è sopratutto relazione, è creare un network con ancora un aspetto umano di condivisione dei saperi e delle conoscenze. La realtà produttiva dei distretti italiani è una realtà spettacolare perché al di la di alcuni distretti monotematici, quelli considerati eterogenei creano questo meccanismo di condivisione, di sharing, questo ha fatto la fortuna, della nomea che si sono fatte alcune aziende italiane.66 Nonostante L’Italia sia definito il paradiso ricercato da quasi tutti i designer del mondo, all’interno della stessa Italia a differenza

66

del resto dell’Europa, (basta soltanto dare uno sguardo alla realtà olandese), gli enti e le istituzioni che finanziano il design e lo stesso designer sono nettamente di meno. L’attività maggiormente promossa è quella del Business Meeting, un incontro tra designer e azienda o artigiano in un tempo limitato nella quale il designer attraverso una presentazione della sua idea progettuale e del suo lavoro, cerca di stabilire delle nuove connessioni, dei nuovi agganci per lavori futuri.

D. Dardi, Tendenze del design italiano, da Rai Arte http://www.arte.rai.it/articoli/tendenze-del-design-contemporaneo/16379/default.aspx

75


Questi meeting comunemente chiamati B2B vengono per lo più organizzati attraverso la Camera di Commercio e l’Enterprise Europe Network. L’Enterprise Europe Network è la più grande rete di servizi per aiutare le piccole e medie imprese a migliorare la loro competitività, sviluppare il loro potenziale di innovazione e confrontarsi in una dimensione internazionale. Nasce nel 2008 promossa dalla Commissione Europea ed agisce in Europa e in diversi Paesi nel Mondo. La rete opera attualmente in oltre 50 Paesi attraverso più di 600 organizzazioni, fra camere di commercio, associazioni di categoria, agenzie regionali di sviluppo, università e centri di ricerca e più di 5.000 professionisti esperti. Per l’Italia sono sei i consorzi che, aggregando 56 organizzazioni, coprono l’intero territorio nazionale: “Alps”,“B.R.I.D.G.€conomies”,“Else”, “FriendEurope”, “Simpler” e “SMEtoEU”. Confcommercio è presente nel consorzio “ELSE”68. I diversi consorzi offrono agli imprenditori del territorio numerosi servizi di informazione, feedback con la Commissione, assistenza specialistica, trasferimento tecnologico, sostegno alla internazionalizzazione, supporto tecnico nella progettazione. I palcoscenici privilegiati per questo tipo meeting sono le fiere ed i nuovi saloni. I quali propongono agli espositori incontri con designer e operatori provenienti dal settore dell’industria, dell’artigianato d’eccellenza, della distribuzione, sia italiani che internazionali.

76

Incontri B2B, Designer e Aziende Operae 2016


78


2.4 Le nuove fieremercato Si è parlato quindi di una produzione italiana di design che sta rivalutando, riscoprendo una dimensione dell’artigianalità, di designer fortemente legati ad aziende e imprese e altri ancora sconosciuti al mondo del design, i quali lo scopo finale è quello di trovare un posto all’interno del mondo del lavoro, all’interno del grande mondo del design. L’ambiente che privilegia questo tipo di autoproduzioni, di strategia di marketing, sono le fiere ed i saloni. Analizziamo quindi prima di tutto l’evento definito “Fiera”.

Nel sistema industriale italiano, composto principalmente da piccole e medie imprese (PMI), le manifestazioni fieristiche sono considerate lo strumento più efficace per promuovere i prodotti e servizi, per contattare nuovi clienti e per ottenere l’ingresso in nuovi mercati, questo è un ragionamento che vale sia per quanto riguarda la PMI che per il singolo, il quale compra uno spazio espositivo all’interno dell’evento fieristico per promuovere la propria produzione.69

La fiera, intesa come evento fieristico, è una manifestazione periodica che permette l’incontro tra domanda e offerta di beni e servizi, quindi tra imprese, aziende, gallerie e designer, operatori del settore, buyers, strutture commerciali, forza vendita, clienti e giornalisti.

Possiamo considerare le fiere di design delle fiere specializzate, le quali sono state storicamente lo strumento di marketing principale dei paesi esportatori. I prodotti esposti sono circoscritti ad un comparto, quale quello del design, dell’arredamento, o segmento specializzato di un determinato settore industriale. Alcune tra le più importanti fiere di design autoprodotto in Italia sono “Open Design Italia” a Venezia, “Maker Faire” a Roma, “Operae” a Torino e sono inoltre da considerare tutte quelle iniziative proposte durante il Salone del Mobile e il Fuorisalone a Milano all’interno di vari spazi tra cui la Fabbrica del Vapore e non solo.

Esse consentono di sviluppare il business dell’impresa o del singolo raccogliendo ordini, stipulando contratti d’affari, commercializzando beni e servizi, fino a penetrare nuovi mercati. Per quanto riguarda i destinatari della rassegna, si trovano manifestazioni business (B2B), manifestazioni consumer (B2C) e manifestazioni miste. Le prime si orientano verso il pubblico specializzato e gli operatori di settore (clienti business, buyers, fornitori, commercianti, promotori, forza vendita). Gli eventi B2C si indirizzano al consumatore finale e al pubblico generico e spesso prevedono la vendita diretta dei prodotti.

78


Salone del mobile e Fuorisalone Ogni anno, nel mese di aprile, il Salone del Mobile e il Fuorisalone definiscono la Milano Design Week, uno degli appuntamenti più importanti a livello interazione seguito per lo più da design addicted. Il Salone del Mobile è l’evento fieristico punto di riferimento a livello mondiale nel settore del design e dell’arredamento, un straordinario veicolo di promozione. Nasce nel 1961 con l’intento di promuovere le esportazioni italiane di mobili e complementi, impegno che ha soddisfatto pienamente divulgando nel mondo la qualità del mobile italiano e che continua a soddisfare essendo estera più della metà dei suoi visitatori. La manifestazione offre un panorama a 360° sul mondo del sistema casa, dal pezzo unico al coordinato, rappresentativa di tutti gli stili, dal classico al design. Un palcoscenico che da sempre coniuga business e cultura, facendo la storia del design e dell’arredo di ieri, oggi e domani, che si presenta al mondo con un’offerta di prodotti di altissima qualità, all’insegna dell’innovazione. Con Fuorisalone, invece, intendiamo l’insieme degli eventi distribuiti in diverse zone di Milano che avvengono in corrispondenza del Salone del Mobile. Il Fuorisalone non va inteso come un evento fieristico, non ha un’organizzazione centrale e non è gestito da un singolo organo istituzionale: è nato spontaneamente nei primi anni ‘80 dalla volontà di aziende attive nel settore dell’arredamento e del design industriale. Attualmente vede un’espansione a molti settori affini, tra cui automotive, tecnologia, telecomunicazioni, arte, moda e food.70

70

http://fuorisalonemagazine.it

Ogni anno il Fuorisalone aggiorna la sua morfologia aggiungendo novità in tema di autoproduzione, proposte da progettisti, artigiani, creativi, nuovi brand e designer indipendenti. I riflettori sono accesi su autoproduzione e filiera corta; un esercito di designer indipendenti che porta un patrimonio di cultura, tradizione, artigianalità e innovazione che affranca il Made in Italy a un futuro complesso ma possibile. La maggior parte delle iniziative all’interno della scena milanese e riguardanti l’autoproduzione avvengo all’interno della Fabbrica del Vapore, la quale si può considerare la Cattedrale di questa festa del designer/bricoleur, il mercato della sua partecipazione variamente vintage, sofisticata, alternativa al sistema del design. Una tra queste è “Sharing design, Making makers”, un evento appunto riservato al tema dell’autoproduzione, dell’innovazione green e della progettazione condivisa promosso e organizzato dall’associazione Milano Makers in collaborazione con il Comune di Milano. Nel periodo del Fuorisalone la scena si circonda di spazi e gallerie che trattano il tema dell’autoproduzione, tra queste SUBALTERNO1 che inneggia: “...l’autoproduzione è un insieme di attività che comprende l’autoorganizzazione della progettazione, della costruzione, produzione, della promozione, della distribuzione.”(...)

79


Tutte queste operazioni possono essere compiute in modo differente e libero ma devono coesistere per poter parlare realmente di autoproduzione (...) SUBALTERNO1 è il luogo dove si rende visibile il discorso sull’autoproduzione italiana. E’ uno spazio dove mostrare, raccontare e distribuire i designer autoproduttori e i loro oggetti. E’ una reale vetrina su strada che parla a chi transita nel quartiere Lambrate. E’ una iniziativa gestita direttamente, autoprodotta in maniera condivisa da chi partecipa al progetto”.71

Subalterno1 ha aperto al pubblico nel 2011 in occasione del Fuorisalone di Milano, sviluppando ogni anno una o più mostre collettive, a partire da AUTOPRODUZIONI ITALIANE che fu segnalata dal Corriere della Sera come uno dei cinque appuntamenti da non perdere. La mostra ANALOGICO/DIGITALE, curata da Stefano Maffei e Stefano Micelli nel 2012, dimostra grazie a sette casi studio la nascente contaminazione tra mondo maker, design e artigianato italiano. La mostra MONDOPASTA è stata segnalata da Domus nella top ten dei migliori eventi del Fuorisalone 2014 ed è stata riproposta in diverse occasioni in Italia e all’estero: Maker Faire Paris 2014, Maker Faire Rome 2014, Ailleurs en Folie (Mons, BE) 2015. Subalterno1 ha partecipato all’edizione 2016 di Miart - Fiera Internazionale d’arte moderna e contemporanea - nella sezione Object a cura di Domitilla Dardi. In occasione delle celebrazioni della XXI Triennale, è stata dedicata una retrospettiva dei primi cinque anni di attività della galleria presso la mostra New Craft a cura di Stefano Micelli.72 Un evento svoltosi l’anno scorso all’interno del Fuorisalone è “Design autoprodotteo Jam session” proponeva lavori caratterizzati dall’essere stati (e)seguiti, dall’ideazione alla progettazione alla produzione, interamente dai chi li presenta.

71

80

72

http://www.subalterno1.com ibidem

Oggetti originali e versatili, slegati dalle dinamiche della grande produzione e inediti. Quest’ambito di nicchia mette insieme, in una sorta di osmosi, l’educazione alla bellezza e l’inventiva, le competenze tecniche e le sapienze artigiane a rappresentare la vera ricchezza e le potenzialità del patrimonio culturale italiano. Gli artefici provengono da diverse parti d’Italia e sono connessi da uno spirito comune, dal piacere di dar vita a oggetti necessari, la cui utilità si completa soddisfacendo l’esigenza di un’estetica semplice, essenziale, che rende spesso la loro funzionalità implicita e da indagare e scoprire. Il tutto nella location di Garibaldi Connection, un punto d’incontro in centro, a Milano, dove Cristina Prinetti e Marinella Campagnoli mettono “in connection” idee, persone, iniziative.


In alto, la mostra “Sharing Design Make makers�, Lavanderia a Vapore. In basso, Galleria SUBALTERNO1, Milano.

81


2.5 Torino Design Week Nel novembre del 2009 si è dato il via per la prima volta alla Torino Design Week, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di una rete fortemente partecipativa, stimolando il dialogo tra tutte le componenti della filiera del design e coinvolgendo quindi il mondo della formazione, della progettazione, della produzione e della distribuzione. Una settimana di mostre, workshop e dibattiti organizzato dall’Associazione Torino Design Week con il sostegno della Camera di Commercio di Torino, della Regione Piemonte e con il patrocinio della Città di Torino, della Provincia di Torino e dell’ADI-Associazione per il Disegno Industriale. Si inserisce all’interno del calendario di Contemporary Art Torino Piemonte, la rassegna che caratterizza la stagione autunnale delle arti contemporanee con la programmazione di eventi relativi alle arti visive, alla musica, al teatro, al cinema e alle performing arts. 73

Tutti i progetti di Torino Design Week hanno come focus prevalente il design e lo scopo di coinvolgere progettisti e aziende design oriented dell’area Torinese, favorendone la visibilità e incentivandone lo sviluppo nella direzione della ricerca e dell’innovazione sostenibile. La TDW vuole contribuire alla diffusione di una Cultura del Design consapevole, inteso come opportunità comportamentale di mediazione tra i valori espressivi, economici e tecnologici delle merci e servizi con altrettanto importanti valori ambientali, culturali, etici e sociali.74

ARTISSIMA Edizione 2016 Oval Lingotto Torino

82


A destra, Luci d’Artista A sinistra, manifesto per “Torino Graphic Days” 2016

Perchè Torino? Da alcuni anni a questa parte Torino viene Torino viene considerata un punto di riferimento per l’arte contemporanea ed il design grazie ad un tessuto intrecciato di realtà pubbliche e private, di collezioni e fondazioni, musei e gallerie la cui attività, nel campo delle arti visive e delle performing arts, sfociano in una molteplicità di mostre, eventi e manifestazioni riconosciuti a livello internazionale. Inoltre nel dicembre del 2014, la Città di Torino è stata eletta “Creative City UNESCO per il Design”. Il capoluogo piemontese vanta infatti importanti eccellenze e grande esperienza in tale settore. Il settore del design (una delle principali categorie del network delle città creative, dove Torino è unica esponente per l’Italia) è stato scelto per Torino in quanto la città ne ha fatto una delle chiavi per il suo sviluppo post-industriale, e per i prestigiosi riconoscimenti internazionali che ha ricevuto nel tempo.

L’autunno torinese è di fatto il periodo dell’anno in cui si concentrano in città e nella Regione appuntamenti non solo con le arti visive, ma anche con la musica, il teatro, la videoarte e il design all’insegna dell’innovazione, della ricerca e della contaminazione tra le diverse arti.75 Il cartellone torinese propone nell’autunno il consueto appuntamento nella sede dell’Oval Lingotto “Artissima”, la più importante fiera d’arte contemporanea in Italia, osservatorio privilegiato sulla migliore ricerca; le “Luci d’Artista” che illuminano le vie della città fino metà gennaio; “Paratisima” e “The Others” ormai appuntamenti consolidati con la creatività giovanile; Operae e Torino Graphic Days al Toolbox Working; infine l’irrinunciabile appuntamento con la “Notte delle Arti” con l’apertura straordinaria di tutti i musei, gli spazi per l’arte e le gallerie.

83


Operae DESIGNING THE FUTURE Rientra nel cartellone della TDW anche Operae che dal 2009 propone ogni anno una fotografia dello scenario contemporaneo del design indipendente italiano e internazionale, presentato attraverso una selezione di designer e prodotti. Ogni edizione viene caratterizzata da un tema curatoriale differente e una location che varia di anno in anno. Il tema caratteriale dell’edizione passata (edizione 2016) era: “Designing the Future”, che aveva come sottotitolo “Fai la tua scelta, e questo perché, come dice la curatrice: “è in dubbio che il designer sia una figura chiave nei campi di innovazione, comunicazione, sostenibilità. Ma gli va riconosciuta una posizione altrettanto rilevante su fronti quali educazione, etica, sanità, giustizia sociale”.76 Al centro della selezione dei prodotti c’è l’eccellenza della manifattura, esito nella maggior parte dei casi di radici locali e tradizioni antiche, che trovano nuova espressione tramite l’energia e la sperimentazione del design. Porta così alla luce il nuovo Made in Italy in cui design e manifattura trovano la loro migliore sintesi, fatta di ricerca, stimoli produttivi contemporanei e lavorazioni radicate nelle tradizioni dei territori italiani.

Palazzo Cisterna, sede Operae 2016

84

76

http://operae.biz/designing-the-future/


Parallelamente Operæ attrae le migliori produzioni internazionali che più sapientemente fondono le identità dei diversi Paesi con le correnti di ricerca più apprezzate in tutto il mondo, promuovendo la visibilità della ricerca, dell’innovazione e della sperimentazione nel campo della creatività, del progetto e della manifattura contemporanea. E’ una piattaforma di incontro tra design, impresa, artigianato, distribuzione, istituzioni e media ma anche vetrina per affermati designer e trampolino di lancio per progettisti emergenti. Operæ si svolge in concomitanza con Artissima, fiera internazionale d’arte contemporanea e con gli innumerevoli eventi di Contemporary Art, un calendario dedicato alle espressioni artistiche, tra cui ClubToClub, festival internazionale di musica elettronica. Il pubblico di Operæ ha un’età prevalentemente compresa tra i 25 e i 50 anni, è fatto di addetti ai lavori ma anche di persone incuriosite dalle nuove tendenze e affascinate dall’atmosfera che si respira nei giorni del festival. Possiamo suddividere il pubblico di Operæ in Design lovers: ovvero professionisti del settore, giornalisti e critici, studenti e appassionati di design, curiosi di scoprire nuove produzioni, orientamenti e linguaggi contemporanei; “Trend researches”, individui informati sulle tendenze, in continua esplorazione delle novità offerte dal mercato, capaci di interpretare il linguaggio contemporaneo; “Craft & design fans”, persone alla ricerca di esperienze e oggetti che valorizzino il saper fare, coloro che apprezzano la cura nella fattura di prodotti, prestano attenzione alla storia produttiva e culturale di cui sono portatori, riconoscono il valore delle tradizioni territoriali; e “Furniture shoppers”, persone con capacità di spesa medio-alta e buon livello culturale che amano popolare la propria casa con pezzi scelti in maniera accurata, capaci di restituire un significato della propria identità. Giunto alla settima edizione, Operæ fa convergere pubblico e addetti ai lavori attorno a progetti accomunati da una particolare attenzione nei confronti della materia così come del processo e della tecnica produttiva.

Quello proposto dalla manifestazione è un paesaggio da oggetti portatori di valori nuovi, siano essi economici, sociali, produttivi o relazionali, che nascono dall’intersezione tra competenze artigiane e saperi digitali, tra pratiche locali e bisogni globali, tra professionalità specializzate e narrazioni collettive. La manifestazione offre l’opportunità di scoprire prodotti, di prendere nota dei fenomeni emergenti, entrare in contatto con gli attori del processo, fermarsi a riflettere sui tanti aspetti che il design tocca. Grazie a un programma di incontri con personalità del mondo del design, dell’economia e della cultura e a un ricco calendario di workshop, Operæ coinvolge sia professionisti del settore sia appassionati e curiosi. Oltre a essere incubatore di storie, porta alla ribalta approcci sperimentali, innovativi e multidisciplinari, consentendo ai designer di vendere i propri prodotti e ai visitatori di acquistare pezzi unici o realizzati in serie limitata. Operæ si può definire un market place che esalta il mondo dell’autoproduzione e che chiama designer nazionali e internazionali a esporre e vendere direttamente al pubblico i propri prodotti. Appartenenti a diverse categorie merceologiche (oggetti per l’arredamento, oggetti per la persona, ...), i prodotti acquistabili a Operae sono il frutto di quelle realtà che, a partire da progettazione e ricerca, attuano il controllo integrale della filiera di prodotto (progettazione, produzione, comunicazione, distribuzione) e che hanno nell’eccellenza, nell’innovazione e nella modesta dimensione numerica delle serie prodotte la loro specificità.

85


86


Da in alto a sinistra: Allestimento Camp Design Gallery; Edgar Flauw, tavola da surf; ingresso principale di Operae 2016. Da in alto a destra: Allestimento Gio Minelli; Giulia Tomasello con “Future Flora”.

La forza del festival sta nel coinvolgere contemporaneamente gli attori principali del design indipendente, progettisti, imprese e artigiani e nell’ultima edizione anche le gallerie d’arte riconosciute come il canale di distribuzione più indicato per il design “da collezione”, quello dei pezzi unici, delle piccole serie o delle tirature limitate, quel design che per la maggior parte viene esposto ad Operæ, in quanto la maggior parte dei progetti esposti (intendo sottolineare la maggior parte e non la complessività), sono progetti destinati alla collezione, in quanto vengono esposti come se fossero su una sorta di piedistallo, dal quale non sono intenzionati a scendere (basta controllare i prezzi medi degli oggetti esposti per capire che buona parte dei progetti esposti presenta dei costi proibitivi).

77

Tra i progetti speciali di questa edizione troviamo Piemonte Handmade: Operæ 2016 invita dieci gallerie internazionali a sviluppare altrettanti oggetti unici insieme ai designer rappresentati e agli artigiani piemontesi. La selezione degli artigiani è avvenuta tramite un bando lanciato dalla Regione Piemonte in collaborazione con Operæ. Antica università dei Minusieri: l’università dei Minusieri, nata a Torino nel 1636 e ancora attiva, è il luogo nel quale da quattro secoli si tramandano i segreti della più raffinata lavorazione del legno. E proprio alle doti dei maestri Minusieri - le cui professioni portano nomi antichi: legnaioli, ebanisti, carrozzai - è dedicato il progetto speciale di Operae 2016. L’installazione intende essere un percorso narrativo che dal passato arriva al presente e valorizzare questa realtà straordinaria e poco conosciuta. 77

http://www.artemagazine.it/design/item/2476-a-torino-la-settima-edizione-di-operae-il-festival-del-design-indipendente

88


C h i a r a INTERVISTA | CHIARA ONIDA 89


90


Chiara inizia i suoi studi presso il Politecnico di Torino dove si laurea in Disegno Industriale, succesivamente consegue un master in Industrial Design alla Saint Martin di Londra. Come freelance ha partecipato a progetti di product, exhibit e visual design. Qual’è stato il tuo percorso di studi e come ti ha avvicinato all’autoproduzione? Ho seguito i corsi della laurea triennale al Politecnico di Torino, allora era ad indirizzo “Disegno Industriale” e poi ho iniziato a lavorare come freelance sempre a Torino. I miei primi lavori spaziavano dalla grafica al prodotto, successivamente ho collaborato con la prof.ssa Elena Della Piana ad un progetto di ricerca, ma il mio vero lavoro in quegli anni, quello che mi permetteva di portare la pagnotta a casa era la musica. Dopo la laurea al Politecnico decisi di provare ad iscrivermi allo Iuav di Venezia, dove però la mia iscrizione non venne accettata per motivi di tempistiche sbagliate in relazione alla mia laurea. Decisi quindi di fare l’application alla Saint Martin di Londra dove ho iniziato il master nel 2008 . Nel 2010 mi sono laureata al MA di Disegno industriale e subito dopo (il pomeriggio stesso della laurea), ho iniziato a lavorare in un agenzia di branding. L’elaborato della laurea era composto da tre progetti legati al suono, materializzati con tecniche e materiali differenzi, c’era un oggetto speculativo in metallo, un oggetto semispeculatico e semi-funzionale in vetro e un oggetto totalmente funzionale realizzato in pelle. L’oggetto in vetro ha avuto appeal in quanto è stato uno dei primi progetti di rilancio del vetro in quel periodo, venne pubblicato, acquisito da un museo per una mostra permanente e successivamente una galleria di Berlino si interessò e mi chiese di collaborare con loro.

90

Qual’è stato il collaborazione?

frutto

di

questa

Proposi alla galleria un nuovo progetto di sperimentazione sul vetro. Per la realizzazione chiamati dei vecchi amici che studiavano a Venezia e che aveva già un contatto con una fornace che è per l’appunto Salviati. Io dalla mia avevo una galleria, loro una fornace, proposi così di creare un team-up e di realizzare insieme il progetto per la galleria berlinese. Da questa collaborazione è nato “Breking the Mould”, che consiste in tre diverse ricerche sul vetro, iniziate nel 2011 e terminate nel 2014, colminate nel 2015 con una consulenza per la fornace che ha prodotto i pezzi. Ora rientro nel ruolo di Art direction/Creative direction dell’azienda, vuol dire che progetto molto poco, ma fornisco una overview sulla progettazione e sulla ricerca di designers e eventi. Come percepisci il design italiano di questi anni, sopratutto in relazione con il design estero? Quello che io percepisco del design italiano è che soffre principalmente di due problemi: uno è sicuramente il retaggio con la storia, quindi è legato ad un passato da cui non si scolla, il secondo è che le nuove generazioni di designer che si autoproducono sono molto simili nel lavoro che fanno, non c’è una varietà e una vera spinta alla ricerca ma tante produzioni di cose mediocricri facilmente producibili a livello industriale ma non c’è un vero e proprio tentativo di spingere i limiti di una produzione. Non c’è una ricerca intellettuale, un significato dietro al prodotto ma il vero e proprio tavolo o piatto. Io vivo a Londra ormai da 8 anni e ogni volta che devo produrre qualcosa penso all’Italia, perchè l’Italia ha davvero una risorsa incredibile. Non parlo del famoso “Made in Italy”, perchè ormai lo si può definire “vecchio”, non ci sono più gli Enzo Mari o i Castiglioni, che prendono i


progettisti e li fanno entrare nel panorama del design, delle industrie. Ed è quello che io volevo cercare di fare con il progetto “Breking the Mould”, dove c’è un autoproduzione ma anche un industria che ha un know how. Di questo sicuramente peccano gli olandesi, che alle loro spalle non hanno un industria, continuano a fare degli esperimenti che spesso fanno faticano a trovare uno sbocco su una produzione. In Italia secondo me ci sarebbe davvero la possibilità di legare i progettisti ad uno slancio di ricerca e sviluppo all’interno dell’azienda. C’è bisogno però che i progettisti siano creativi e l’industria sia ricettiva. Parliamo di autoproduzione. Secondo me l’autoproduzione ha ancora dei limiti, che sono i limiti di un progettista che si approccia a un materiale e lo conosce relativamente poco, l’industria conosce benissimo il materiale ma fa fatica a rinnovare perchè lo conosce talmente bene. Mi viene in mente il progetto di una tua collega, “Future Flora” di Giulia Tommasello, potrebbe rientrare nella categoria di design autoprodotto citato prima? Giulia si colloca in un panorama che è contemporaneo, dove i materiali contemporanei non hanno senso di esistere perchè non sono più sostenibili a livello ambientale, c’è la necessità di studiare cose nuove, c’è bisogno di spingersi oltre alla sedia in marmo e iniziare a cercare quello che è la possibilità di un esistenza sostenibile. La ricerca di Giulia è molto interessante perchè spezza quei tabù dettati dalla società.

91


J a ma i s CASO STUDIO | JAMAI SANS TOI 89



Dopo aver analizzato le varie distinzioni di designer che autoproducono e dopo aver intervistato Chiara Onida, designer dalla formazione prettamente industriale, passiamo ora ad analizzare il caso: “Jamais sans toi”. Jamai sans toi nasce dall’unione delle passioni di due sorelle di Chiomonte, paese dell’alta Val Susa. Loro sono Camilla e Valentina Gallo, la prima diplomata in scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Torino e successivamente specializzata in restauro della ceramica presso la scuola Maria Luisa Rossi, la seconda, laureata in design, attrice e doppiatrice, ha frequentato diversi corsi di approfondimento delle tecniche di oreficeria. Nel 2012 decidono di fondere le loro passioni, il gusto e le competenze in questo progetto, aprendo il primo laboratorio nel cuore di Torino. Jamais sans toi è un piccolo laboratorio artigianale del gioiello contemporaneo, il nome del brand, come raccontato le sorelle Gallo, si ispira al motto di Chiomonte, la loro città natale. Lo stemma della cittadina piemontese raffigura un sole che illumina due grappoli d’uva sovrastati dalla frase “Jamais Sans Toi”, letteralmente “mai senza di te”, in antico dialetto occitano. Il sole e l’uva, elementi primigeni, sono tra le suggestioni che hanno portato all’identificazione nella sfera, forma pregna di simbologia, come modulo ispiratore delle creazioni JST: composizioni modulari complesse, accuratamente realizzate a mano attraverso le prassi della ceramica artistica. La materia, l’argilla, è il campo di conoscenza comune, luogo di evoluzione e ricerca continua.78

78

90

79

Jamais Sans Toi è una bottega italiana che produce articoli di gioielleria contemporanea. Nei suoi laboratori Jamais Sans Toi realizza gioielli in ceramica con le tecniche più antiche del mondo, dando vita a opere uniche di grande fascino, luminose e di una bellezza senza tempo. Le loro creazioni, si possono quasi considerare eterei gioielli in ceramica che subiscono una minuziosa lavorazione: foggiate a mano in terraglia bianca, cotte, smaltate e successivamente sottoposte a un’ulteriore cottura. Ogni oggetto è un pezzo unico, frutto di un processo creativo che impiega tecniche antiche di centinaia di anni. Forme arrotondate, organiche e fluide, che sembrano come crescere su chi le indossa per avvolgerlo in un abbraccio materico. Grazie al processo di lavorazione della materia prima, la fabbricazione di ogni gioiello di Jamais Sans Toi diventa un atto di creazione complesso e unico, arcaico e moderno al tempo stesso. La caratteristica tipica di Jamais Sans Toi è infatti la versatilità dei pezzi: molte collane sono trasformabili e possono essere indossate in differenti modalità per adattarsi al meglio ai diversi abiti e scollature. Nonostante il design essenziale, comporre i gioielli è una procedura piuttosto complicata ed ogni pezzo viene creato a mano, pallina dopo pallina.

http://www.jamaissanstoi.it/it http://rottasutorino.blogspot.it/2016/03/jamais-sans-toi-i-gioielli-di-ceramica-a-torino.html


Si possono quindi definire Camilla e Valentina Gallo, due designer/artigiane imprenditori di loro stesse. Da una semplice attività artigianale in laboratorio iniziata nel 2011, ad ora contano diverse collaborazioni a livello internazionale ed i loro gioielli sono arrivati anche nel lontano Oriente. Raccontano così le sorelle Gallo: “..Abbiamo iniziato a creare gioielli in ceramica quasi per gioco, l’idea era farli per noi, provare cose nuove e vedere cosa veniva fuori, ma poi è successo che mi chiedessero dove li avevo comprati, mi avvicinavano persino in treno per farmi i complimenti. Così abbiamo iniziato seriamente a pensare a un progetto nostro. Abbiamo comprato il forno per la ceramica (che raggiunge altissime temperature) e abbiamo cominciato a lavorare l’argilla a Chiomonte, il nostro paese d’origine, e non so quanti chilometri alla settimana facevamo per portare le nostre ceramiche a Torino, avanti e indietro!”79 Curano personalmente a 360° il brand identity del loro marchio. Hanno studiato i tutti i packaging proposti dal 2011 ad oggi, ed hanno inoltre curato e curano tutt’ora la commercializzazione dei loro gioielli e la partecipazione alle più grandi fiere internazionali, crescendo di giorno in giorno e diventando una giovane realtà imprenditoriale torinese.

91


92

C

o

n

c

l

u

s

i

o

n

i

.


L’obiettivo di questa tesi è quello di indagare le vicende del design italiano dalla fine degli anni Quaranta ai giorni nostri ed in particolare di prendere in considerazione le esperienze che in quegli anni sarebbero uscite dai tradizionali confini della disciplina della produzione per accostarsi alle tematiche dell’autoproduzione. Sebbene il concetto di “autoproduzione” sia ancora a volte poco chiaro, possiamo ritenerlo un fenomeno anziano, un fenomeno che è sempre esistito. Abbiamo più volte osservato all’interno dell’elaborato i mutamenti che il design ha subito negli anni, gli sconfinamenti in campo artistico con le serie numerate e le realizzazioni definite da collezione, tanto da capire che non si tratta di design esclusivamente quando c’è di mezzo l’industria. Le parole industria, artigianato e design possono essere utilizzate contemporaneamente parlando di nuova nuova produzione, di una nuova autoproduzione. Quella autoproduzione che parte da un giovane designer che studia il materiale, i processi di lavorazione come un vero e proprio artigiano, o ancora si rivolge personalmente all’artigiano, per creare un qualcosa di nuovo, ponendo alla base una ricerca sociale, un progetto che un industria potrà in un futuro sviluppare e mettere in commercio. Non sempre la parola industria viene considerata “limitativa”, basta pensare a tutti quei grandi designer che si sono legati all’industria, un industria che si faceva portatrice d’innovazione e futuro. Basta pensare agli anni ’60, dove per esempio l’industria della plastica ha rivoluzionato la nostra vita e i progettisti hanno accompagnato questo movimento oerchè curiosi di sperimentare. Tutte le nuove tecnologie di oggi non potrebbero essere utilizzate senza l’aiuto della mente curiosa del designer per la loro applicazione. Come afferma Chiara Onida, “In Italia ci sarebbe davvero la possibilità di legare i progettisti ad uno slancio di ricerca e sviluppo all’interno dell’azienda. C’è bisogno però che i progettisti siano creativi e l’industria sia ricettiva.”. Bisogna pensare all’autoproduzione come ad un completamento dell’industria e non come la sua contrapposizione. Bisogna pensare all’autoproduzione come ad un incentivo per i giovani designer di sperimentare col materiale per la realizzazione di un progetto che abbia alla base una ricerca intelletuale che vada incontro alla società odierna.

93


Bibliografia A. Boaretto, G. Noci, F.M. Pini, Open Marketing, strategie e strumenti di marketing multicanale, op. cit

C. Anderson, Makers. Il ritornodei produttori, Rizzoli, 2013

A. Branzi, Il design italiano,Electa, Milano 1964-2000

D. Sudjic, Ron Arad: cose di cui la gente non ha veramente bisogno, postmedia. Postmedia Books , Milano 2003

A. Branzi, Global Tools, in Radical Notes, “Casabella”, n.377, 1973, p. 8

E. Della Piana, Italy at work in “Design Issue”, in corso di stampa

A. C. Quintavalle, Enzo Mari

E. Sottsass, Arrivano gli Archizoom, in “Domus”, n. 455, 1967.

A. Cappelieri, R. Arad, Mondadori Arte, Milano, 2008

G. D’Amato, Storia del Design, Mondadori, pag 173

A. Marangon, L’Evoluzione del sistema fieristico italiano: sfide e strategie per i principali operatori, tesi di laurea, 2011

Global Tools, Documento 1, in “Casabella” , n. 377, 1973 p. 4

A. Natalini, Dal Superstudio all’architettura di resistenza, Edizione dell’Arengario, 2011

G. Manzini, in “Paese sera”, 1974

A. Natalini, Spazio di coinvolgimento, in “Casabella” n 326, 1968

G.Ponti, in “Corriere della Sera”, 1939

B. Finessi, Il design italiano oltre le crisi. Autarchia, austerità, autoproduzione, catalogo VII edizione del Triennale Design Museum, 2014

P. Antonelli, States of Design: design fatto a mano, “Domus”, 2012

B. Radice, Memphis: ricerche, esperienze, risultati, fallimenti e successi del Nuovo Design, Electa, Milano, 1984

P. Auster, Il libro delle illusioni, Einaudi, Milano, v2002

C. Rossi, Crafting Design in Italy: From Postwar to Postmodernism, Manchester University Press, 2015 94

P. Navone e B. Orlandoni, Architettura Radicale, Documenti di Casabella, Milano, 1974.


R.Arad, “Ron Arad talks to Matthew Collings” – Ed. Phaidon Relazione della Giuria 1962, in Compasso d’oro 1954- 1984, Electa, Milano 1985. R.Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2008 Superstudio, Design d’evasione d’invenzione, in“Domus”, n. 475, 1969

e

Superstudio, dal catalogo degli istogrammi la serie Misura, in “Domus”, n. 517, 1972 “Superachitettura”, manifesto della mostra, Pistoia 1966. V. Gregotti, M. Zanuso, Architetto della seconda generazione, in “Casabella”, n. 216, 1957. VII Triennale, Catalogo, 1940

95


Sitografia http://www.maddamura.eu/blog/language/it/ crafting-design-in-italy-rossi-catharine/

http://www.arte.rai.it/articoli/tendenze-deldesign-contemporaneo/16379/default.aspx

http://old.triennale.org /it/archivio/ esposizione/23381-viitrn?filter_catphoto=+

http://www.een-italia.eu http://fuorisalonemagazine.it

h t t p : //w w w. a r t e . r a i . i t /a r t i c o l i / l e avanguardie-radicali-e-la-nuova-culturadel-progetto/18753/default.aspx http://www.raiscuola.rai.it/articoli/enzomari-lezioni-di-design/7105/default.aspx

http://www.subalterno1.com http://www.lavorincasa.it/torino-designweek/ http://operae.biz/designing-the-future/

http://www.fucinemute.it/2006/02/enzomari-tra-etica-e-design/ http://www.frizzifrizzi.it/2016/04/12/ design-oggi/ http://blog.contemporarytorinopiemonte. it/?p=23250 http://blog.contemporarytorinopiemonte. it/?p=23250 http://www.instructables.com http:/www.disegnoindustriale.net/12 http://it.wikipedia.org /wiki/Hardware_ libero http://www.makerfairerome.eu/it/chisono-i-maker/ http://danishdesignaward.com https://www.designforum.fi/etusivu https://www.wbdm.be http://www.dutch-doc.nl/ http://en.via.fr/presentation http://www.ifa.de/en/funding.html 96

http://www.artemagazine.it/design/ item/2476-a-torino-la-settima-edizione-dioperae-il-festival-del-design-indipendente



Ringraziamenti Non mi sono mai considerata abbastanza brava nel ringraziare le persone che in passato mi hanno aiutato. In questa occasione però voglio impegnarmi e ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questo momento. Un ringraziamento speciale alla mia relatrice, la prof.ssa Elena Della Piana che oltre ad essere un insegnante fantastica, dispensa “pillole di vita quotidiana” con saggezza e leggerezza allo stesso tempo. Un grazie alla mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto in tutti i miei percorsi accademici e in tutte le mie scelte, a volte considerandole quasi delle pazzie. Grazie. Un grazie a tutte quelle persone che mi hanno accompagnata dal primo anno di università e che mi hanno insegnato, a volte involontariamente, le basi per iniziare questo percorso. Grazie Isabela. Grazie Giò. Grazie Angela. Un grazie a tutti quegli amici che hanno reso tutto più frizzante e leggero, amici nuovi, amici vecchi e amici lontani ma non per questo meno importanti. Grazie. Ma sopratutto voglio ringraziare colui che crede sempre in me, che nonostante questi ultimi mesi siano stati burrascosi non mi ha mai mollata, anzi spronata. Grazie Lele.

98



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.