Rovine in attesa. Recupero e riqualificazione del parco archeologico di San Cornelio ad Arezzo

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Sara Pasqui

Rovine in attesa Recupero e riqualificazione del parco archeologico di San Cornelio ad Arezzo



universitĂ degli studi di firenze DIDA a.a. 2013_2014 scuola di architettura corso di laurea magistrale in architettura anno accademico 2013-2014

Rovine in attesa recupero e riqualificazione del parco archeologico di San Cornelio ad Arezzo

relatore prof. arch. Andrea Innocenzo Volpe

correlatori interni prof. arch. Pietro Matracchi arch. Salvatore Zocco esterno dott.ssa Silvia Vilucchi

laureanda Sara Pasqui


Sara Pasqui | (Arezzo - 1988) sara.pasqui88@gmail.com 338 9939253


indice il sito archeologico nel contesto urbano aretino | 2 il luogo | 3

la cittĂ | 8

cenni storici | 9 le scoperte | 14

la storia | 18 dagli etruschi all’etruscologia | 19 arezzo veduta da fuori | 40

l’area di progetto | 48 gli studi | 49 il sito archeologico | 68

il progetto | 86 premesse | 87 il nuovo teatro | 92 il parco archeologico | 98

conclusioni | 118 bibliografia | 120 regesto | 126


Il sito archeologico nel contesto urbano aretino

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Il luogo

Il territorio interessato dal Parco di San Cornelio comprende l’intero colle di Castelsecco la cui altitudine è di 425 m s.l.m. Esso si presenta come un ampio sistema di aree verdi in cui si trovano valori ambientali diffusi, aree boschive e aree coltivate ad oliveto che, seppur intaccati da alcuni processi di antropizzazione, mantengono nel loro insieme un elevato grado di naturalità. Il complesso ambientale è così fortemente caratterizzato da un patrimonio naturalistico, storico ed archeologico da rappresentare uno dei più consistenti “giacimenti ambientali e culturali” del territorio aretino. L’amministrazione comunale, assieme all’intensa collaborazione con la Sovrintendenza Archeologica, ha programmato e già realizzato alcuni interventi tesi a migliorare e potenziare il parco secondo le indicazioni degli strumenti urbanistici vigenti. Ciò non è sufficiente. Obiettivo comune è quello di incrementare il livello di fruibilità del complesso naturalistico da parte dei cittadini e di promuovere la sua integrazione con attrezzature di carattere più urbano. 3


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Arezzo, riappropriandosi della collina di Castelsecco, con l’area archeologica di San Cornelio in sommità, viene ad assumere una dimensione diversa, più ampia, più completa e più attenta alla conservazione e alla valorizzazione delle sue risorse paesaggistico-naturalistiche e artistico-storiche per destinarle ad accogliere funzioni legate al tempo libero e alle attività didattiche, culturali e ambientali. Il parco, con la sua natura forte e suggestiva, costituisce infatti l’ambiente ideale per passeggiate, trekking, escursioni in bici, a cavallo, etc. Così come il recupero ed il ripristino funzionale, in parte avviato, delle strutture esistenti nell’area archeologica possono costituire un articolato ambiente archeologico di grande fascino ed importanza da utilizzare per attività didattiche e culturali.

Pagina precedente: Castelsecco. Muro monumentale. III-II sec. a.C. Castelsecco. Tratto del percorso CAI. 2014

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La cittĂ

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Cenni storici Alle pendici di un colle, in un punto di vitale importanza alla confluenza delle tre valli Valdichana, Casentino e Valtiberina, Arezzo occupa una strategica posizione che le permetteva un tempo il controllo dei valichi appenninici. Non bisogna dimenticare, inoltre, che si trova su quell’importante arteria che è la via Cassia, la quale forse già ricalcava un’antica strada preromana1. Il territorio nel complesso è abitato fin dall’epoca preistorica. Anche se le fonti non lo dicono espressamente, Arezzo doveva essere una delle dodici capitali della lega etrusca, sebbene non si sia formata prima del VI sec a.C. Le città dell’Etruria interna settentrionale appaiono più modeste per estensione di quelle sviluppate lungo la costa. Esse riflettono una diversa situazione strutturale legata ad una agricoltura estensiva che favorisce un popolamento sparso. L’asse Chiana-Arno risulta la direttrice preferenziale: Chiusi, Cortona e Arezzo sono quasi equidistanti tra loro, ma hanno una storia urbana differenziata, archeologicamente evidente fino dal IX sec. a.C. per Chiusi, assai più tarda per le altre due. La dinamica città-territorio è subordinata alle vicende del mondo produttivo. Nel territorio lungo la Valdichiana, dipendente in larga parte da Chiusi, in un’area di 500 chilometri quadrati circa, si contano in età arcaica soltanto quindici insediamenti che aumentano, dopo un periodo di abbandono quasi generalizzato nel V sec. a.C., agli oltre sessanta insediamenti di modeste dimensioni del II sec. a.C. 1

Basti ricordare che Arezzo appare nelle vie e nei luoghi più importanti dell’Europa riportati nella Tabula Peutingeriana una sorta di carta stradale dell’Impero Romano, copia medioevale di un documento di età tardo-antica (III-IV sec. d.C.)

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Pagina precedente: l’acquedotto vasariano. 1593-1603 Fortezza Medicea. 1538-1560

Lo sviluppo in età etrusco-romana è rapidissimo, come dimostrano le terrecotte architettoniche restituiteci da numerosi edifici templari. La città etrusca occupa il luogo dove oggi sorgono la Fortezza e il Duomo, ed era cinta originariamente da mura costruite con blocchi di pietra sovrapposti a secco, delle quali si vedono i resti presso la Fortezza e la collina di San Cornelio. Tra il IV e III sec. a.C. fu innalzata una nuova cerchia di mura, in mattoni, leggermente più ampia della prima, che stupì Vitruvio e Plinio il Vecchio per la sua tecnica inconsueta. Già nel V sec. a.C. la città si distingueva per una magnifica produzione di terrecotte architettoniche, ma gli artisti aretini eccelsero anche nella produzione bronzistica, ed è da qui che provengono capolavori come la Chimera e la Minerva, conservate al Museo Archeologico di Firenze. Tra il 60-50 a.C. e il 70 d.C. Arezzo era specializzata nella produzione di una ceramica a superficie rossa, sia liscia che decorata a stampiglio, famosa e ricercata in tutto l’impero romano (giunse fino in India). Attraverso i bolli apposti su queste ceramiche si sono potute distinguere nel territorio urbano circa 125 fabbriche. Il declino delle officine aretine fu determinato dalla concorrenza delle botteghe dell’Italia Settentrionale e della Gallia. Scarsi sono i resti di edifici aretini di epoca etrusca. Quello che investì la civiltà etrusca determinandone il declino fu un processo di romanizzazione, poiché non ci fu un momento preciso in cui l’Etruria, o alcuna delle lucumonie etrusche, cessò di essere etrusca e divenne romana. Del periodo romano, durante il quale la città si espanse notevolmente soprattutto verso la pianura, ben poco rimane se si escludono le sostruzioni ragguardevoli del grande anfiteatro in opera mista e lo scheletro del teatro. 10


Panorama casentinese. 2014

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Tabula Peutingeriana. III-IV sec. d.C.

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La Minerva. I sec. a.C.

Le scoperte Arezzo (in latino Arretium, in greco Αρρήτιον) è ricordata spesso nelle fonti, ed è rinomata nella letteratura archeologica, per aver restituito monumenti o complessi di prim’ordine – dai grandi bronzi come la Chimera o la Minerva, alle terrecotte architettoniche di età ellenistica, alla ceramica corallina – ma non è mai stata esplorata e studiata sistematicamente. Il centro antico era nello stesso sito in cui è la città moderna. Le antichità di Arezzo, in particolare la ceramica corallina, entrano piuttosto presto nel circuito letterario. Tra la fine del XV sec. e i primi del XVI sec. Giovanni de’ Medici, figlio secondogenito di Lorenzo il Magnifico e futuro papa Leone X, è presente alla scoperta di alcune fornaci e di vasi a vernice nera che recano segni alfabetici sul fondo. Un posto di primo piano hanno i monumenti archeologici di Arezzo nel “libello” di un dotto locale, Marco Attilio Alessi (1470-1546): l’acquedotto, l’anfiteatro, le terme, le fornaci, la statua della Minerva. Grande rinomanza ebbe la scoperta, effettuata nel 1553 presso Porta S. Lorentino, del deposito di bronzi di cui faceva parte la celebre statua della Chimera. Sul valore artistico della Chimera e sulla sua attribuzione all’arte etrusca si esprime subito il maggior critico d’arte di quel tempo, Giorgio Vasari. 2

Stando alle dichiarazioni di Benvenuto Cellini (La vita, II, 87), “insieme […] si era trovato una quantità di piccole statuette, pur di bronzo, le quali erano coperte di terra e di ruggine, e a ciascuna di esse mancava o la testa o le mani o i piedi; il Duca pigliava piacere di rinettarsele per sé medesimo con certi cesellini di orefici” in un laboratorio appositamente attrezzato in Palazzo Vecchio a Firenze.

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La Chimera. V-IV sec. a.C.

Da carte d’archivio del XVII sec. si apprende di vari ritrovamenti ad Arezzo: l’interesse principale è rivolto alle iscrizioni, etrusche o latine. Il rinvenimento di materiali archeologici ad Arezzo e negli immediati dintorni sarà stato un fatto continuo nel XVII sec. e nei primi del secolo successivo, se una pia istituzione locale come la Fraternita dei Laici istituisce nel 1822 un Museo di Storia Naturale e di Antichità con il preciso scopo di evitare la dispersione dei reperti archeologici, di minerali e di fossili, utili per la ricostruzione della storia della città. In questo museo, che con il suo primo direttore Antonio Fabbroni già nel 1823 diventa un museo pubblico, confluiscono nel corso dell’Ottocento le raccolte Bacci, Rossi, Rossi-Redi, Gamurrini, Funghini, le quali costituiscono il nucleo primo del futuro museo archeologico Mecenate di Arezzo. Un momento felice per i ritrovamenti, ma non altrettanto per i relativi rendiconti, si registra negli anni Sessanta e Settanta del XIX sec.: vengono messe in luce la necropoli di Poggio del Sole, con tombe a fossa che vanno dal periodo arcaico a quello ellenistico, e le stipi, ricche di bronzi tardo-arcaici, di San Bartolomeo (oggi dispersa) e della Fonte Veneziana. Le scoperte, in genere fortuite, sono continuate fino ai giorni nostri fornendo preziose testimonianze sulla cultura locale, comprese tra il tardo arcaismo (lastre architettoniche di Piazza S. Jacopo) e l’ellenismo (terrecotte della Catona e di Via della Società Operaia), tra cui il complesso santuariale di Castelsecco.

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Teatro romano di Fiesole. III sec. a.C.

La produzione di bronzetti prosegue in quantità piuttosto massiccia dal tardo orientalizzante al tardo arcaismo: i tipi ricorrenti sono, a seconda del periodo, guerrieri armati di spada o di lancia, offerenti di ambo i sessi, kouroi e korai, testine femminili, animali domestici, ex voto di varia natura. La provenienza, quando è accertata, è da santuari. Esemplari analoghi provengono da Volterra e dal suo territorio. Una produzione bronzistica quantitativamente rilevante, come quella documentata nei due centri, presuppone una disponibilità della materia prima in loco. Ed in effetti nei dintorni sia di Volterra che di Arezzo si conoscono coltivazioni di minerali cupriferi e ferriferi. I secoli II-I a.C. sono di particolare floridezza, effetto di una raggiunta concordia interna tra le parti sociali e per il tradizionale atteggiamento filo romano degli aretini, per i quali parteggiano in più occasioni nel corso della storia tanto che si distinguono fra gli altri popoli dell’Etruria per contribuire con frumento, armi e attrezzi agricoli in misura veramente consistente. La natura e la quantità di suddetto contributo forniscono precise indicazioni sull’economia della città. Il ferro usato nella fabbricazione delle armi e degli attrezzi agricoli ripropone il discorso, già accennato, dello sfruttamento di miniere metallifere della zona. Ma la specializzazione dell’industria locale nella fabbricazione, oltre che di armi, anche di attrezzi destinati all’agricoltura, è segno che questa attività era largamente praticata e dava una produzione in surplus. L’agro fra Arezzo e Fiesole era uno dei più fertili d’Italia: fra gli ex voto dei santuari arcaici figurano statuette bronzee di animali di allevamento. Da un deposito votivo della fine del V sec. a.C. proviene il noto gruppo bronzeo dell’aratore, conservato ora al museo Villa Giulia a Roma. 16


Volterra, le balze. 2014

Sempre al II sec. a.C risale il deposito votivo di un altro santuario urbano, quello di Via della Società Operaia, che comprende busti e teste fittili. Il complesso sacro più interessante di questo periodo rimane senza dubbio il santuario extra-urbano di Castelsecco: sul pianoro retto da mura poderose si trovano il podio di un tempio e un teatro ricavato nella roccia, il primo e l’unico esempio etrusco in pietra. I doni votivi di bambini in fasce attestano il culto di una divinità protettrice delle nascite, mentre due frustuli epigrafici attestano quelli di Tinia (Zeus). L’importanza di Arezzo nel II sec. a.C. è ridabita dal fatto che viene raggiunta da grandi strade consolari: nel 187 a.C. da una che parte da Bologna, nel 171 a.C. dalla Cassia. Come altre città dell’Etruria settentrionale, nella guerra civile tra Mario e Silla parteggia per il primo, per cui dopo l’82 a.C. è devastata dall’esercito sillano e subisce una colonia militare (Arretini Fidentiores) alla quale si aggiungerà successivamente una colonia cesariana (Arretini Julienses). In questo periodo il popolamento, sia in città sia in campagna, ha un notevole incremento. Subito dopo la metà del I sec. a.C. inizia la produzione di ceramica “aretina”, la tipica ceramica corallina liscia o decorata a stampo, che durerà fino a circa la metà del I sec. d.C. e avrà grande rinomanza nel mondo antico. Ai primi tempi dell’impero risalgono diversi edifici pubblici, come il teatro o l’anfiteatro o le terme, ma già dal II sec. d.C. comincia la decadenza, in concomitanza con l’affermazione di Firenze.

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La storia

Anfiteatro romano di Arezzo. I-II sec. a.C.

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Dagli etruschi all’etruscologia Confrontarsi con una realtà come quella di Castelsecco, la cui natura è frutto della sovrapposizione di eventi che l’hanno resa come oggi ci appare, significa indagare l’essenza della civiltà che l’ha generata, capire le vicende che ne hanno scatenato l’origine e la trasformazione nella forma odierna, comprendendone il linguaggio dei mutamenti che nel tempo hanno portato le architetture del sito a caratterizzarne l’esistenza. Ciò è indispensabile per poter formulare nuove ipotesi di intervento, volte al recupero delle preesistenze e alla salvaguardia dei ruderi che compongono le parti di quello che, al giorno d’oggi, rimane l’unico esempio di teatro etruscoitalico finora discretamente conservato della penisola, al fine di proporre per esso un nuovo ruolo in un contesto socioculturale profondamente mutato rispetto a quello che ne ha visto l’origine. Questo tipo di analisi è fondamentale nella fase preliminare di qualsiasi attività di intervento e consiste in una presa di contatto con il territorio oggetto di studio per l’individuazione delle sua caratteristiche ambientali generali, non soltanto ecologiconaturalistiche, ma anche e soprattutto storico-culturali. Tale approccio è necessario per potersi confrontare con qualsiasi realtà di cui si richieda il riesame, per convertire un luogo che ha avuto una destinazione funzionale aulica, sacra dove eventi di carattere spettacolare si sono ripetitivamente succedute nel corso dei secoli, per mantenere il carattere solenne del luogo come l’avevano pensato fin dall’inizio i costruttori che ne posero la prima pietra. Occorre comprendere le radici e le

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H. Fussli. “L’artista disperato di fronte alla grandezza delle rovine antiche”, 1780

ragioni della sua essenza del passato per derivare quelle del futuro, mantenendo un carattere profondo, solenne, silenzioso all’atmosfera che aveva ispirato gli etruschi a scegliere questo come luogo prediletto per gli albori di una nuova civiltà, nel rispetto della spiritualità che ne costituisce la genesi.

L’antichità L’interesse per gli etruschi è antico e varia a seconda degli autori che se ne sono occupati, della loro formazione culturale, del loro orientamento politico, dell’ambiente e del tempo in cui questi sono vissuti. A noi non sono pervenuti né le opere degli scrittori etruschi, né quelle degli scrittori dell’antichità classica che trattavano specificatamente degli etruschi. I riferimenti alla loro civiltà, che ricorrono nelle fonti greche o latine, sono in genere succinti, occasionali e il più delle volte rientrano in tematiche generali: è il caso dei dati di carattere geografico ed etnografico che danno Strabone (V, 2, 2-9) e Plinio il Vecchio (Nat. Hist., III, 5052) descrivendo l’Etruria. Gli scrittori antichi, a prescindere dal contenuto e dall’importanza della notizia da loro riportata, non possono essere considerati in blocco: per gli scrittori greci, che vanno dall’arcaismo al primo ellenismo, la civiltà etrusca è una realtà del loro tempo, per gli scrittori greci e latini dell’età tardorepubblicana e imperiale la civiltà etrusca è ormai solo un patrimonio storico e culturale. Perciò è opportuno trattarne separatamente. Per gli autori del secondo gruppo, le notizie sugli etruschi sono molto più frequenti. La menzione di parole o di usi e costumi etruschi nei contesti più disparati ci permette di 20


Orvieto. Pianta del tempio del Belvedere. IV sec. a.C.

recuperarne aspetti peculiari della cultura, anche se vista da un’angolazione romana, o come la forma del tempio etrusco (Vitruvio, IV, 7). Secondo Vitruvio, la pianta del tempio “tuscanico” doveva essere quasi quadrata: il rapporto tra i lati era di 5:6. La metà anteriore era riservata al vestibolo colonnato, con otto colonne disposte su due file, mentre quella posteriore a una o tre celle, che costituiscono l’abitazione del dio. Questi canoni sono rispettati nella pianta del tempio di Belvedere di Orvieto risalente al IV sec. a.C., che si ergeva su un alto podio cui si accedeva attraverso una scalinata. Gli altari a loro volta presentavano un podio modanato e potevano assumere dimensioni monumentali, come accade nell’acropoli di Marzabotto. In generale, si può dire che il tipo edilizio del tempio “tuscanico” deriva dal modello della casa aristocratica e si fissa verso al fine del VI sec. a.C. I più antichi esempi ricorrono a Roma, Veio e Pyrgi (ove il tempio edificato attorno al 470 a.C. presenta una doppia fila di colonne e nell’antichità era affiancato da due pozzi sacri). Si può dire che la tendenza, nel periodo di maggiore grandezza di Roma, era quella di valorizzare la componente italica nella civiltà romana, secondo una tendenza invalsa nella cultura latina ufficiale dei tempi dell’ultima età repubblicana e del primo impero: le insegne magistrali (toga, bulla, fasci, sella curule, etc.), espressione della dignità e dell’autorità dello stato romano, sono considerate concordemente dagli scrittori antichi di origine etrusca. Gli aruspici etruschi sono presenti in diverse manifestazioni ufficiali della vita romana (Tac., Ann., XI, 15). Secondo questa ottica vanno valutati i pochi cenni sull’arte 21


etrusca, fatti da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia e quasi tutti derivanti da Varrone. Il genere sul quale egli insiste di più è la coroplarica, introdotta in Italia da maestri arrivati a Tarquinia da Corinto intorno alla metà del VII sec a.C. In Etruria quest’arte avrebbe avuto una grande fioritura e all’epoca dei Tarquini un maestro di Veio, Vulca, sarebbe stato chiamato a Roma per plasmare in terracotta la statua di culto del tempio di Giove Capitolino (XXXV, 157). Il labirinto di Chiusi, che doveva essere la tomba di Porsenna, è presentato come una costruzione così complessa e grandiosa, in una parola favolosa, che Plinio nella descrizione preferisce citare testualmente le parole della sua fonte, Varrone (XXXVI, 91). Rutilio Namaziano, nella descrizione del suo viaggio via mare da Roma in Gallia del 417 d.C., ci dà le ultime testimonianze del mondo classico sull’Etruria, testimonianze di uno stato di decadenza ormai inarrestabile (I, 179 ss.). I centri etruschi situati lungo la costa tirrenica, un tempo famosi, sono spesso abbandonati e ridotti a pochi ruderi: la grandiosità dei loro monumenti e il loro passato glorioso nulla hanno potuto di fronte alla forza distruttrice del tempo:

«Non prendiamocela se i corpi mortali si dissolvono: del resto costatiamo con esempi che persino le città possono morire» (I, 413-14)

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Ricostruzione dell’alzato e pianta del tempio di Menerva a Veio (500 a. C.). Assonometria del tempio di Fiesole (III a.C). Sistema costruttivo del tempio di Satrico.

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Il Medioevo Il quadro disastroso che dà Rutilio dei centri dell’Etruria costiera ha un pedant in quello , più conciso, che nella prima metà del XIV sec. dà dell’Etruria Giovanni Villani:

«In Maremma e in Maretima verso Roma alla marina di Campagna avea molte città e molti popoli, che oggi sono consumati e venuti a niente per corruzione d’aria: che vi fu la grande città di Populonia, e Soana, e Talamone, e Grosseto, e Civitaveglia, e Mascona, e Lansedonia» (Cronica, I, cap. L) Ancora una volta si sottolinea il contrasto tra un passato glorioso e lo stato di desolazione e spopolamento, che era iniziato in buona parte del territorio dell’Etruria nella tarda antichità e si era intensificato nel Medioevo, stato dovuto a situazioni contingenti, quali le invasioni barbariche o l’impaludamento della Maremma e della Valdichiana e la conseguente diffusione della malaria in queste regioni. La cultura medievale ufficiale non si occupò degli etruschi se non marginalmente. Soltanto negli scrittori più eruditi e più legati alla tradizione classica, occidentali e orientali, si può trovare qualche cenno, limitato per lo più agli stessi temi di cui si erano occupati gli scrittori della classicità. Spesso le opere antiche conosciute nel Medioevo sono state tenute in alta considerazione. Per le opere etrusche in particolare si possono citare i casi di urnette volterrane di età ellenistica, che hanno trovato un secondo uso contenendo reliquie di santi: ad esempio, quelle di S. Clemente, recuperate nel primo crollo della chiesa di S. Giusto a Volterra nel 1140 24


e deposte in un’urnetta di tufo con coperchio a doppio spiovente, su cui fu incisa un’iscrizione con il nome del santo; o quelle di S. Felice, deposte in un’urnetta di alabastro con la raffigurazione del mito di Pelope e Ippodamia, rinvenuta sotto un altare della cattedrale di Pistoia in seguito a lavori di restauro eseguiti nel 1414 e conservata nel tesoro della cattedrale del Duomo della stessa città. E’ importante che questi monumenti nella riutilizzazione abbiano avuto la stessa destinazione che avevano avuto nel mondo etrusco: il fatto tradisce una precisa volontà di ricollegarsi alla tradizione etrusca e, pertanto, di valorizzarla.

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Francesco di Giorgio Martini. Rilievo di una urna etrusca da Chiusi.

L’Umanesimo e il Rinascimento La scoperta e lo studio del mondo classico fu il programma principale dei dotti umanisti. E’ questo il tempo in cui in varie città d’Italia si afferma la moda del collezionismo per iniziativa di sovrani, patrizi, letterati, artisti. Il loro interesse è rivolto principalmente a sculture, pietre preziose, epigrafi e, in Toscana, anche a reperti etruschi: nella raccolta dell’umanista Niccolò Niccoli si annoverano “figure antiche di ottone”, cioè bronzetti, e nell’inventario di quella di Lorenzo il Magnifico ricorre spesso l’espressione “uno gnudo di bronzo”, ancora una volta bronzetti. Spesso artisti del Quattrocento si rifanno a precedenti etruschi: è il caso di Leon Battista Alberti, il quale nelle colonne del Tempio Malatestiano di Rimini usa un capitello decorato da una testa umana fra due volute, che replica un tipo diffuso nell’architettura di età ellenistica di varie località dell’Italia antica, fra cui le città etrusche di Vulci e Sovana. La decorazione è una variante di quella testa umana fra le foglie di acanto o di palma che si trova già in monumenti etruschi – arule, specchi, vasi – della seconda metà del IV sec. a.C. Ancora Leon Battista Alberti dichiara di rifarsi al tempio nella pianta della chiesa di Sant’Andrea di Mantova, ovviamente secondo una sua interpretazione delle Tuscanicae dispositiones date da Vitruvio (IV, 7) per il tempio etrusco. Nel XV sec. intorno agli etruschi nasce un vero e proprio mito. In un primo momento a Firenze e in un secondo momento a Viterbo, essi diventano un valido strumento di richiamo per auspicare, proporre o avvalorare scelte di ordine pubblico-

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Leonardo da Vinci (?). Progetto di mausoleo.

culturale, il più delle volte in senso antiromano. Quando i Medici diventano signori di Firenze, il passato etrusco continua ad essere tenuto presente nella cultura del tempo, ma ora il punto di riferimento è rappresentato non più dalle città libere e repubblicane, bensì da Porsenna, cioè da un monarca. L’Etruria che viene mitizzata dagli umanisti è quella della tradizione letteraria e dotta. Ciò che importa sottolineare è che certe direttive politiche trovano un valido appoggio nei dati culturali. Benché il revival etrusco abbia avuto una breve battuta d’arresto a Firenze quando i Medici con Piero, figlio di Lorenzo il Magnifico, perdono il potere (1494), le scoperte archeologiche che si venivano effettuando in vari siti dell’Etruria antica alimentavano sempre l’interesse per gli etruschi presso artisti e dotti di quel tempo. Francesco di Giorgio Martini disegna una scena di combattimento derivandola dalla rappresentazione di un’urnetta di età ellenistica, vista a “Chiusj”. Lo stesso Francesco di Giorgio, o più probabilmente Leonardo da Vinci, progetta un “grandioso monumento sepolcrale” rifacendosi al tumulo di Castellina in Chianti che era stato scoperto nel 1507. Una menzione particolare va fatta per Antonio da Sangallo il Giovane, che ha lasciato diversi disegni di opere etrusche. Egli tenta anche qualche ricostruzione del labirinto di Chiusi (mausoleo di Porsenna) secondo la descrizione di Varrone, tramandata da Plinio. Quando viene incaricato da papa Paolo III (1534-49) di costruire la Fortezza di Perugia, riproduce varie volte la Porta Marzia con lo scopo di salvare il monumento. Ciò che colpisce è non solo la varietà dei soggetti affrontati, ma anche l’attenzione prestata ai monumenti etruschi con 27


Antonio da Sangallo il Giovane. Disegno ricostruttivo del mausoleo di Porsenna.

l’intento di conservazione e studio: sono fatti che rivelano un interesse da etruscologo ante litteram. Nei primi decenni del XVI sec. i Medici riprendono il potere in Toscana e, di riflesso, si ripropone il mito etrusco. Gli aspetti politico e militare, come nel secolo precedente, saranno concomitanti: Giovanni, figlio secondogenito di Lorenzo il Magnifico, divenuto papa con il nome di Leone X (1513-21), incarica Baldassarre Peruzzi di dipingere in una sala del Campidoglio soggetti di storia etrusca e romana, con chiara allusione all’incontro tra Firenze e Roma. La spinta decisiva in questo senso si ha con Cosimo I, che nel 1537 diventa duca di Toscana. All’Accademia Fiorentina, voluta e patrocinata da lui, fanno capo dotti e letterati i quali, nelle loro opere, in buona parte commissionate da Cosimo e/o dedicate a lui, evocano e mitizzano il passato etrusco e trovano in esso una giustificazione storica alla situazione politica del loro tempo; essi fondono e confondono notizie del Vecchio Testamento e degli scrittori classici e medievali e, inoltre, elucubrazioni di dotti umanisti; il loro scopo è magnificare la Toscana. L’interesse di Cosimo I per le antichità etrusche è grande. Egli non solo assicura alla collezione medicea capolavori scoperti in Etruria al suo tempo, come le grandi statue bronzee della Minerva e della Chimera, rinvenute ad Arezzo rispettivamente nel 1541 e 1553, o dell’Arringatore, rinvenuta a Pila nei pressi di Perugia nel 1566, ma dedica anche una parte della sua giornata alla cura e pulitura dei bronzetti etruschi, che erano stati trovati ad Arezzo insieme alla Chimera e che erano stati affidati per il restauro a Benvenuto Cellini.

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Cerveteri. Necropoli della Banditaccia. VI sec. a.C.

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Il Seicento e il Settecento Fin dagli inizi del XVII sec. l’attività di scavo e di recupero di materiali archeologici nel territorio dell’Etruria è molto intensa, in particolare nel Granducato di Toscana. Prelati e nobili in Toscana, Umbria e a Roma mettono insieme le collezioni cospicue con oggetti restituite dalle tombe etrusche: urnette, epigrafi, pietre preziose, bronzetti, specchi, vasi bronzei, vasi fittili dipinti, ma anche vasi di impasto e di bucchero, i quali ultimi si impongono all’attenzione non per la monumentalità o per la decorazione, ma per il valore antiquario. In massima parte, i materiali delle collezioni sono stati rinvenuti nei terreni dei rispettivi proprietari. La moda del collezionismo ha anche conseguenze negative. L’apprezzamento è per il cimelio in se stesso e non per il contesto di ritrovamento che, come oggi tutti sanno, è indispensabile per la corretta valutazione di qualsiasi reperto. Spesso si conservano i pezzi interi e si trascurano i frammenti: ciò comporta una forte limitazione delle nostre conoscenze. Talvolta la mania di cercare tesori porta a irreparabili rovine: Johann Joachim Winckelmann lamenta nella Storia dell’arte nell’antichità (Dresda 1764) che “alcuni dipinti delle tombe di Tarquinia sono stati sciupati dall’aria, subito dopo l’apertura della tomba, e altri sono stati distrutti dal piccone nella speranza di trovare un tesoro nascosto dietro il dipinto”. Nei primi decenni del XVIII sec. i reperti etruschi cominciano ad essere divulgati attraverso riproduzioni grafiche, che corredano i lavori di eruditi di quel tempo. Un’opera complessiva sull’Etruria è il De Etruria regali dello scozzese Thomas Dempster, scritta fra il 1616 e il 1619, quando l’autore era docente di diritto all’ateneo di Pisa. Commissionata da 30


Populonia. Tomba a tumulo.

Cosimo II de’ Medici, essa è una summa di nozioni antiquarie sugli etruschi, derivate dagli scrittori classici o dai dotti umanisti e rinascimentali e combinate a credenze bibliche e medievali. La fortuna dell’opera negli studi etrusco logici è notevole non per il contenuto, ma per le circostanze in cui fu edita un secolo più tardi da Filippo Buonarroti, il quale aggiunse un’appendice di Explicationes et conjecturae e un apparato illustrativo di 93 tavole fuori testo. Nell’introduzione, il Buonarroti fa una dichiarazione programmatica: i monumenti figurati contengono notizie sulla religione e sugli usi degli etruschi molto più eloquenti di quelle che ci tramandano gli scrittori antichi. L’opera del Buonarroti, secondo un giudizio di intonazione barocca di Scipione Maffei, “fu come la prima tromba dalla quale furono eccitati diversi ingegni”. Difatto Anton Francesco Gori e lo stesso Maffei, che si distinguono per i suoi studi in merito in età illuminista, progettano viaggi con l’intento di trovare monumenti etruschi inediti, da riprodurre ed inserire nei loro scritti. I loro viaggi in Etruria risalgono al quarto decennio del secolo e sono descritti con dovizia di particolari nelle rispettive opere, Museum Etruscum e Della nazione etrusca e degli Itali primitivi (Verona 1739). Nel 1731 il Gori in particolare fa un sopralluogo a Volterra, spinto dalla notorietà delle scoperte che si venivano facendo, visitando le mura, una porta, una tomba che conservava ancora quaranta urnette e diverse case patrizie ricche di reperti etruschi. Incoraggiato dall’esperienza volterrana, effettua un altro viaggio in “quasi tutta l’Etruria”. Le tappe sono Arezzo, Cortona, Perugia, Chiusi, Montepulciano, Siena, Poggibonsi, Pogni, Panzano, San Casciano Val di Pesa. Non si può non notare il silenzio sulle località dell’Etruria laziale, dove erano state effettuate 31


scoperte importanti, come Civita Castellana, Veio, Tarquinia. E’ un’esclusione che può dipendere dall’equivoca equivalenza tra Toscana ed Etruria, affermata da tempo nell’ambiente culturale fiorentino. Le descrizioni dei viaggi dei due antiquari, che sono complementari, fanno il punto sui ritrovamenti etruschi nella prima metà del Settecento, diventando il principale oggetto di discussione in due fra le più gloriose accademie della Toscana: l’Accademia Etrusca di Cortona, fondata nel 1727, e la Società Colombaria di Firenze, fondata nel 1735. Il merito delle opere etruscologiche del XVIII sec. sta non nelle teorie espresse, bensì nella divulgazione e nella utilizzazione di vari tipi di fonti – letterarie, epigrafiche, monumentali, toponomastiche – nell’impostazione dei problemi. In effetti gli antiquari settecenteschi hanno chiaramente e fortemente esagerato nell’esaltazione della civiltà etrusca, al punto che la loro produzione è stata bollata dalla critica posteriore con l’etichetta spregiativa di “etruscheria”. Nel contempo continua la tradizione dei viaggi nelle città toscane da parte di eruditi per visitare i siti di interesse archeologico e i materiali raccolti nelle varie collezioni. L’interesse per il mondo etrusco viene perdendo il carattere marcatamente toscano che lo ha distinto nella sua genesi e nella sua fortuna: degli etruschi ormai si occupano dotti e artisti transalpini.

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Cortona. 2014

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Vulci. Ricostruzione dell’impianto urbanistico sulla base delle tracce aerofotogrammatiche rilevate nei voli effettuati dal 1954 al 1988.

L’Ottocento Le indagini sulle antichità etrusche ad opera di specialisti, archeologi, linguisti o storici di tutto il secolo XIX hanno il vantaggio di una conoscenza settoriale più approfondita, ma anche lo svantaggio di aver rotto l’unità e la convergenza di ricerche intorno al mondo etrusco che era stata una prerogativa degli antiquari del Settecento. Gli studi di storia italica subiranno un arresto nel prosieguo dell’Ottocento, in quanto le ricerche nel settore della storia antica erano basate essenzialmente sulle fonti scritte, letterarie ed epigrafiche, le quali scarseggiano per il mondo etrusco (e italico preromano). Nella prima metà del XIX sec. a Perugia e nei centri etruschi compresi nel Granducato di Toscana si continua a scavare, anche se a ritmo ridotto rispetto ai secoli precedenti. Questo periodo è caratterizzato anche dalle scoperte archeologiche nei centri dell’Etruria meridionale, le quali comportano un radicale cambiamento del quadro culturale dell’Etruria antica. Purtroppo più che di una esplorazione metodica si tratta di un autentico saccheggio con l’intento di recuperare pezzi destinati al mercato, cui attingono i grandi musei dei paesi transalpini. Nella seconda metà del secolo l’attività di scavo nelle necropoli etrusche sarà intensa: a Roselle, Chiusi, Sovana, dove l’operazione è patrocinata dall’Accademia Toscana La Colombaria; ad Arezzo, dove viene scoperta la necropoli di Poggio del Sole; a Tarquinia, dove si esplorano molte tombe, alcune delle quali dipinte. L’intervento è sempre mirato al 34


Sarcofago degli sposi. IV sec. a.C.

recupero di oggetti da piazzare sul mercato. Contro questo metodo si levano le prime proteste della scienza ufficiale: la raccomandazione è di conservare distinti i singoli contesti e di annotare con precisione l’ubicazione degli oggetti all’interno delle tombe. Al penultimo decennio dell’Ottocento risale la scoperta di Vetulonia, la ben nota metropoli etrusca che fin dal XV sec. era stata cercata e supposta in varie località (Viterbo, Vulci, Marsiliana d’Albegna, Orbetello, Massa Marittima) e che finalmente viene individuata a Poggio Colonna nel Grossetano. Le scoperte archeologiche d’Etruria ormai sono un’acquisizione negli ambienti culturali europei. E’ indicativo che i grandi musei di varie città transalpine – ad esempio il British Museum, l’Ermitage, il Louvre, le Antikensammlungen di Monaco, gli Staatliche Museen di Berlino, il Musée d’Art e d’Histoire di Ginevra, il Musée du Cinquantenaire di Bruxelles, la Ny Carlsberg Glyptothek di Copenhagen – abbiano messo su una collezione etrusca con acquisti e donazioni. Anche in Italia nascono i primi grandi complessi museali dedicati alla civiltà etrusca: a Firenze il Museo Etrusco Centrale, istituito con decreto regio del 17 marzo 1870, che raccoglie i reperti etruschi o di provenienza etrusca delle raccolte granducali, i quali saranno esposti secondo il criterio tipologico (vasi, urnette, bronzi, gemme, etc.), e quelli di nuovo rinvenimento che saranno esposti secondo il criterio topografico. Notevoli progressi si registrano anche nel campo degli studi linguistici: la nozione di “indeuropeo”, quale base comune di molte lingue antiche (e moderne) parlate del limite occidentale dell’Europa fino al bacino dell’Indo, viene applicata a varie lingue attestate nell’Italia antica: etrusco, latino, osco, umbro, venetico, etc. 35


Roselle

Il Novecento Agli inizi del XX sec. i grandi centri etruschi, di cui le fonti antiche tramandano il nome, sono quasi tutti identificati. Le monografie che si vengono a pubblicare sulle città etrusche mettono a disposizione una quantità di dati che, correttamente classificati, consentono di fare una serie di precisazioni sulle culture locali, sulla consistenza dei vari centri nel loro sviluppo storico, sulle relazioni di un centro con gli altri, sul rapporto tra città e territorio. A cominciare dagli anni venti l’iniziativa scientifica sarà una prerogativa, oltre che di singoli studiosi, che dell’Istituto di Studi Etruschi. L’indagine di scavo, sentita sempre più come indagine storica, si è venuta affinando specialmente nella seconda metà del secolo: nell’individuazione delle aree di interesse archeologico si fa ricorso alla fotografia aerea o a sofisticati strumenti sismici ed elettrici; nell’operazione sul terreno si fa attenzione, oltre che agli oggetti, alla collocazione topografica, alla stratigrafia, al rilievo grafico, all’inventariamento dei reperti, ai resti paleobotanici e faunistici, in una parola a tutte le circostanze del ritrovamento. Rilevanti sono i risultati degli scavi in aree urbane o urbanizzate, scavi che sono diventati un preciso programma delle soprintendenze archeologiche a partire dagli anni cinquanta: così sono stati conosciuti gli impianti urbanistici e i tipi di abitazione in diversi centri etruschi (Marzabotto, Massa Marittima, Roselle, Vulci, Tarquinia, Caere, etc.), i santuari di Gravisca e di Pyrgi che appartengono alle infrastrutture dei porti di Tarquinia e di Caere.

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Populonia

Un incremento notevole si registra nell’attività museale. Molti reperti del XX secolo finiscono non nei grandi musei di Firenze o di Roma, ma in quelli di antica o di recente istituzione dei luoghi di scoperta. Allo stesso principio scientifico e didattico risponde l’apertura al pubblico di aree archeologiche, come quelle di Caere, Vulci, Tarquinia, Populonia, Roselle, etc. In questo contesto si inserisce la volontà di incrementare il livello di fruibilità del complesso naturalistico del parco archeologico di Castelsecco da parte dei visitatori e di promuovere la sua integrazione con attrezzature di carattere più urbano. Solo così facendo, l’area al pari delle altre realtà archeologiche dell’Etruria verrà ad assumere una dimensione diversa, più ampia, più completa e più attenta alla valorizzazione delle sue risorse paesaggistico-naturalistiche e artistico-storiche, destinandola ad accogliere funzioni legate al tempo libero e alle attività didattiche, culturali e ambientali.

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Giotto. Cacciata dei diavoli da Arezzo. 1295-1299

Arezzo veduta da fuori A paragone di altre città di analoga grandezza, Arezzo può vantare una notevole serie di vedute, grazie al suo particolarissimo insediamento collinare e nel contempo all’essersi trovata, dal XVI secolo in poi, a cavallo di una delle più battute vie d’Europa, la via del Grand Tour. Per chi visita una località di qualche pregio, l’acquisto di una veduta equivale, più di ogni altro souvenir, ad un’appropriazione simbolica, ad un’introiezione mentale e alla garanzia di una memoria duratura. Per chi invece in quel luogo vive, il piacere di confrontarsi con una o più vedute corrisponde ad una dichiarazione d’identità e ad una implicita richiesta di assicurazione. Per comprendere lo spirito del luogo non ci sono infatti testimonianze migliori della penna dei viaggiatori o della matita dei paesanti e di vedutisti antichi e moderni. Vedute di Arezzo sono state disegnate da illustri artisti quali Giotto, Piero della Francesca, Benozzo Gozzoli, Giorgio Vasari, oppure da viaggiatori stranieri quali William Brockedon, Anton Hallman, André Durand, Joseph Pennell, mentre per alcune splendide opere è sconosciuto il nome dell’autore. Vedute di Arezzo sono state ritratte in affreschi, disegni acquerellati, disegni a china, tempere su tavola, disegni a penna, incisioni, litografie, etc. Talvolta le inquadrature si rivelano pedisseque, didascaliche, legate al giro turistico più o meno obbligato. Altre volte le vedute sono originali ed organiche, veri e propri ritratti di città connotati dalla lucida capziosità settecentesca o dal brillante gusto romantico. Si possono avere dei cicli nei quali

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G. Vasari. Allegoria con la veduta della città di Arezzo. 1565

le singole tavole si organizzano in sequenze narrative che esauriscono l’illustrazione mettendo in evidenza angoli o scorci meno rappresentanti. In molti cicli la città raffigurata è pura invenzione, ma in altri è si una notevole attendibilità topografica. Oltre che dalla matita o dal pennello, le vedute di Arezzo sono tracciate anche dalle parole, come ci testimoniano alcune descrizioni della città lasciateci da innumerevoli viaggiatori di passaggio ad Arezzo. Nel 1840, ad esempio, Carl Frommel afferma con estrema concisione

«Arezzo s’innalza pittoresca su una dolce altura, alla confluenza della Chiana e dell’Arno» e cinque anni dopo il botanico Otto Speyer annota con maggior respiro «Arezzo s’inerpica su per il pendio del colle: dalla sommità l’antica cattedrale domina la pianura circostante, rendendosi visibile sin dal fondo delle convalli». Ai primi del Novecento a Frederick Treves la città appare come

«un agglomerato di case che modellano la collina sulla cui modesta sommità sorgono il curioso campanile di S. Maria della Pieve, la torre del palazzo comunale e il lungo tetto della cattedrale» mentre André Suares, raffinato e geniale esteta, ne trasforma la veduta nel profilo di sintesi che oggi chiamiamo skyline

«Arezzo sembra una mano che sale e s’allarga sull’altura, il pollice riverso a levante, l’indice puntato verso il cielo». 41


Arezzo. Santa Maria delle Grazie. 2014

Nel 1886 Edoardo Sonzogno, annunciando l’uscita della collana “Le cento città d’Italia” in allegato al quotidiano “Il Secolo”, ricorda che

«ciascuna delle nostre città ha un tipo suo proprio. Le genti che prima abitarono la regione, quelle che vi si sovrapposero, i Comuni, le Signorie varie dei duchi, di conti e di Repubbliche, gli stranieri diversi di lingue e di costumi, gli sforzi fatti dal popolo per liberarsi e assurgere a nazione, tutto questo lasciò la sua traccia nei monumenti, nell’arte e nell’indole dei cittadini, che è sempre varia, che ha sempre qualche cosa di speciale, di indipendente. Tutte le città grandi o piccole sono, in certa guisa, altrettante stelle fisse che brillano di luce propria». “Arezzo veduta da fuori” è il titolo di uno dei piccoli paragrafi in cui il supplemento mensile pubblicato dalla Casa Editrice Sonzogno nel 1892, dedicato ad Arezzo, descrive i caratteri significativi della città. Nel testo si sottolinea il rapporto fondamentale tra l’esterno della città e la sommità della collina su cui, separati da un “altoprato”, si ergono il Duomo e i resti della Fortezza. Nelle stesse pagine il Panorama da S. Maria delle Grazie (riportato nelle illustrazioni che accompagnano il testo insieme al Portico di Benedetto da Maiano, edificato di fronte alla chiesa) riassume in modo icastico questo carattere, segnato dalle relazioni fra monumenti che, insieme alle mura, stabiliscono la gerarchia dei rapporti ordinati tra paesaggio naturali e paesaggio urbano, quale riconoscibile sintesi architettonico-insediativa.

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Prospetto altimetrico della cittĂ di Arezzo (equidistanza 5 m).

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La veduta appare come parte fondamentale della interpretazione della città e, letteralmente, ne fissa il più significativo carattere. Si direbbe quindi che, per quanto riguarda Arezzo, l’approccio panoramico costituisca una particolare declinazione della tipologia urbana e che seguendo quel percorso, ancor più che conoscendone le interne articolazioni, la città vada intuita e svelata. E’ in questo profilo della città vista da fuori che si inserisce Castelsecco. Veduta di grande suggestione e di non minore interesse topografico per la vastità dell’orizzonte e l’inconsueto punto di avvistamento. Questo è da individuare sulle pendici orientali del colle di San Cornelio, sede della cittadella etrusca. Il suo profilo, con l’ampio pianoro sommitale appositamente sagomato da consistenti interventi antropici, risulta in lontananza ben riconoscibile dalla piana di Arezzo e dalle valli circostanti. La monumentalità dell’area, una sorta di “belvedere” sulla città che era sorta e si andava sviluppando sul colle di San Donato, la sua peculiarità di santuario extraurbano ma in diretto contatto con la comunità urbana, posto a controllo del contado e di importanti direttrici di traffico, l’abbinamento di edifici templari ed edificio per spettacoli in muratura distanziati da un ampio spazio libero per assemblee, riunioni, feste e forse dedicato anche ad attività commerciali, attestante contatti culturali con l’area medio-italica ed il recepimento di influssi culturali ellenizzati nelle fasi iniziali di romanizzazione, forniscono straordinarie indicazioni sul ruolo vitale di Arezzo nel panorama dell’Etruria settentrionale, anche in relazione ai rapporti privilegiati con la potente Roma.

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Castelsecco. Veduta panoramica. 2007

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L’area di progetto

Castelsecco. Veduta aerea. 1969

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Storia degli studi La presenza della vistosa opera di terrazzamento di Castelsecco ha determinato negli studiosi locali fin dal XIX secolo un comprensibile interesse, ma anche fantastiche interpretazioni non basate su alcun dato storico o archeologico. La prima, breve descrizione delle mura si trova nella celebre opera di Emanuele Repetti3 . Egli propende per una datazione del complesso in età romana, senza tuttavia escludere quella etrusca, ponendo un problema che riscuoterà tanta fortuna fino ai nostri giorni, se cioè si trattasse dell’antica acropoli di Arezzo. Il tema fu approfondito a distanza di pochi anni, con una maggiore consistenza critica, da Francesco Inghirami, in un articolo4 in cui l’autore esamina soltanto il complesso delle mura, propendendo a datarle il età sillana. Bisogna attendere la fine dell’Ottocento perché si abbia notizia di scavi condotti da un collezionista, oltre che appassionato studioso di cose aretine, che possedeva una villa sul poggio di S. Cornelio, l’arch. Vincenzo Funghini. Nel 1886 egli fece vari studi ed indagini, eseguendo saggi nella zona archeologica e producendo preziosi rilievi grafici, i cui risultati vennero da lui esposti in un’opera5, pubblicata postuma, dedicata a questo complesso.

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E. Repetti, Dizionario grafico, fisico, storico della Toscana , Firenze, 1835-45

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F. Inghirami, Sopra alcuni antichi ruderi di Castel Secco o Monte S. Cornelio presso Arezzo, al chiarissimo signor Canonico Vagnoni, Bibliotecario della pubblica Libreria di Arezzo , in Il Progresso, 1836 5

V. Funghini, L’Antica acropoli di Arezzo, Firenze, Mariani, 1897

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La parte illustrativa, assai precisa, può ancora costituire un elemento prezioso di riferimento, con elaborati grafici che mostrano le piante dei monumenti allora noti. Se gli scavi condotti dall’arch. Funghini non furono radicali e sistematici, portarono comunque alla luce frammenti ed oggetti dell’epoca etrusca e romana, recuperando inoltre vari elementi che rivelavano la presenza di un luogo di culto, ma che non distolsero lo studioso aretino dal fantasticare sulle antiche origini del colle. In una dissertazione asserisce infatti che Castelsecco corrisponderebbe all’Arretium vetus, ossia alla città d’origine italica, sconfitta tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C. dagli Etruschi, fondatori di un Arretium novum in corrispondenza del centro attuale. Castelsecco sarebbe rimasta l’acropoli sacra anche della nuova città, immaginando che i resti delle mura visibili nel centro storico di Arezzo e i resti delle mura di S. Cornelio facessero parte di un’antica cinta muraria estesa, in modo inverosimile, per circa dodici chilometri. L’archeologo Gian Francesco Gamurrini che, essendo aretino e dimorando ad Arezzo, avrebbe potuto studiare a fondo quegli interessanti ruderi, ma si limitò a fare su essi in varie conferenze alcuni accenni purtroppo contraddittori tra loro, riducendo la costruzione ad un castello etrusco divenuto con il tempo una villa romana. Il problema sulle origini del complesso viene successivamente ripreso da Lopes Pegna che, sulla base dei rinvenimenti archeologici all’interno della cerchia muraria, ne abbassò la cronologia al III-II sec. a.C. Egli tuttavia ipotizzava, trascurando il carattere votivo dei rinvenimenti solo una natura strategicomilitare. Decaduti e poi disfatti gli Etruschi dai Romani, la città che sorgeva nel luogo dell’Arezzo attuale (che crediamo sia da 60


Pagine precedenti: illustrazioni di Funghini, 1886. Frammenti dall’area di Castelsecco.

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identificarsi con l’antica Arretium), si amplia sempre più verso mezzogiorno, munita più volte di nuove e più ampie mura. Debellati e messi in rispetto in popoli umbri delle montagne, la città del colle di Castelsecco fu abbandonata e la sua acropoli venne a perdere molta della sua importanza strategica, assunta in epoca romana a ruolo di castrum, dalle colonie romane di Silla inviate dopo la distruzione di Arezzo, operata da questi. Il nome odierno derivato da Castrum Siccum (l’appellativo siccum è spiegato dal genere di costruzione delle sue mura, formate con blocchi senza unione di calcina, che ancora oggi si dice a secco), starebbe ad confermare questa ipotesi. Dopo brevi saggi eseguiti negli anni ’60 del Novecento, si deve però a Guglielmo Maetzke alla metà degli anni ’70, con ulteriori approfondimenti nel 1983-84, la sistematica esplorazione dell’area e la prima corretta interpretazione del sito sotto il profilo archeologico. Si è così accertato come l’altura fosse frequentata fin dal periodo arcaico, come fosse stata oggetto di un grande intervento edilizio nel periodo ellenistico con costruzione del santuario e del muro monumentale di sostegno, cui fecero seguito rifacimenti architettonici in età romana, come fosse frequentata ed utilizzata in età medioevale e moderna, fino a tutto il XVIII secolo. Successivamente l’area è stata usata per coltivazioni agricole con massicci interventi di spietra mento, ma anche oggetto di vandalismi e usi impropri (pista di motocross). A partire dal 1969 la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana ha proceduto all’asportazione degli accumuli di terre e detriti ed alla rimozione della vegetazione infestante 62


Il muro monumentale prima e dopo i lavori di pulitura dai detriti e dalla vegetazione infestante. 1969

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Pianta dello scavo archeologico del teatro. 1970

lungo il lato esterno del grande muro semicircolare di sostegno ed ai relativi interventi di consolidamento e restauro, restituendo all’imponente struttura tutta la sua monumentalità. Contestualmente, partendo dalla pianta redatta dal Funghini, ha proceduto all’esecuzione di saggi esplorativi e scavi approfonditi sul pianoro sommitale, evidenziando il grande “podio” rettangolare, con orientamento Nord Est – Sud Ovest, che si erge sul piano del santuario e che risulta costituito da uno sperone di roccia emergente regolarizzato, ritagliato ed integrato dai riporti di terra, su cui doveva elevarsi l’edificio templare, di cui restano scarsissime tracce. Ma la scoperta più rilevante fu la messa in luce dei resti di un edificio per spettacoli all’estremità Sud del pianoro più prossima al muraglione semicircolare perimetrale, assiale ma distanziato rispetto agli edifici di culto, in un abbinamento teatro-tempio analogo ai complessi architettonici e culturali dei santuari medio-italici. Il teatro appare progettato e realizzato contestualmente al muro di sostegno monumentale. I reperti rinvenuti in varie epoche sono conservati ed esposti nel Museo Archeologico Nazionale Gaio Cilnio Mecenate di Arezzo. Nel 1978 fu dichiarato con decreto ministeriale l’importante interesse archeologico dell’area. Al termine della lunga campagna di scavo, fu effettuato un intervento conservativo e di restauro anche delle strutture del teatro, di cui poi fu decisa la ricopertura. Si vuole a tal proposito sottolineare la saggezza e la lungimiranza dell’allora Soprintendente Guglielmo Maetzke che prese le difficile e coraggiosa decisione di reinterrare le strutture emerse, al fine di garantirne la salvaguardia e la conservazione per 64


I rilievi del teatro. 1983-1984

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Resti dell’altare nell’orchestra. 1983-1984

le generazioni future, in una zona isolata e di non facile vigilanza, soggetta a forte impatto degli agenti atmosferici ed in presenza di materiali costruttivi di alta deperibilità. Possiamo dire oggi che grazie a tale scelta, Arezzo possiede ancora il complesso archeologico di Castelsecco. Agli inizi degli anni ’90 la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana ha intrapreso un ulteriore consistente intervento per il risanamento ed il restauro della poderosa struttura semicircolare e nel 1992 si è svolto ad Arezzo un importante convegno promosso dal locale Centro UNESCO, in cui fu fatto il punto sullo stato degli studi e della ricerca, sui progetti di recupero e sulle prospettive dell’importante sito archeologico, che restano ancor oggi valida base per future strategie di valorizzazione. Il recente rinnovato interesse per il parco, con la finalità dichiarata del recupero e della riqualificazione sotto il profilo ambientale, paesaggistico, storico-archeologico di un ampio ambito territoriale comprendente la collina di San Cornelio, deve tener conto della salvaguardia dei beni presenti, dando il giusto e meritato rilievo ad un’area tanto importante sia dal punto di visto archeologico che sotto il profilo naturalistico. Il teatro di Castelsecco emana un forte senso di sacralità, che va conservato nel recupero. La sua messa in luce deve ispirare nuove regole di comportamento: rispetto per il luogo dovuto alla sua antichità, per l’ambiente che circonda il sito immerso nel verde, valorizzazione dell’identità culturale smarrita e punto di incontro per una riflessione comune.

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Fondazioni del piccolo insediamento. 1983-1984

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Il sito archeologico Il colle di Castelsecco chiude a Sud-Est la conca aretina, dominandone sia i passaggi obbligati per la Valtiberina (la Foce dello Scopetone e quella del Torrino), sia gli sbocchi per la Valdichiana (Val di Romana e la Sella dell’Olmo). Il sito è posto a controllo di una delle principali vie di comunicazione tra la valle dell’Arno e quella della Chiana da un lato, la valle del Tevere ed il territorio umbro dall’altro. L’isolamento e l’altezza del rilievo, nonché l’ampio pianoro sommitale definito e sottolineato dall’azione dell’uomo, rendevano l’altura immediatamente riconoscibile anche per chi giungeva nella piana di Arezzo dalle facili vie del Casentino e del Valdarno Superiore, perfettamente visibili per lungo e ampio tratto dalla cima.

Il muro monumentale etrusco La parte meridionale della collina si presenta superiormente come un terrazzo leggermente gradonato che si protende verso Sud in forma ovale, sorretto da una monumentale e scenografica struttura muraria semicircolare. Il muraglione è costruito con grandi blocchi irregolarmente squadrati, cavati in loco e murati a secco, e prosegue con blocchi più modesti tutto intorno alla collina. Conservato per un’altezza massima di 10 m, presenta nel tratto di massima curvatura quattordici contrafforti o speroni aggettanti larghi da 1,40 m a 2,60 m, distanti fra loro da 3,90 m a 6,80 m. I sei centrali hanno la parete di fondo ricurva, a formare esedre e forse un tempo chiusi in alto, ad arcata.

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La cima del colle di San Cornelio doveva mostrare in antico i nudi e possenti affioramenti di roccia viva della struttura geologica monoclinale di galestro costituente l’ossatura del rilievo. Un esteso intervento edilizio databile al III-II sec. a.C. ha regolarizzato l’intera area realizzando un ampio e ben livellato spiazzo sommitale di altezza media di 416 m, perimetrato da un temenos che, con un andamento a ferro di cavallo, in parte coronava i versanti del colle naturalmente dirupati e, in alcuni tratti come in quello Sud-Ovest, esaltava il taglio artificiale delle pendici, taglio realizzato sia per isolare e monumentalizzare il pianoro e gli edifici soprastanti, sia per cavare il materiale da costruzione, che è quello degli affioramenti geologici del colle stesso. Avendo tali sedimentazioni arenacee un diverso spessore e fornendo quindi in cava blocchi di diversa altezza, furono utilizzati quelli di minor pezzatura sulla maggior parte del perimetro del temenos, privilegiando per cura ed imponenza alcuni tratti del prospetto murario. Sembra infatti che i blocchi di maggior grandezza e consistenza furono concentrati nel tratto curvilineo di Sud-Ovest, quello che sembra esser stato realizzato con maggiore enfasi sia nella pianta che nell’alzato: tra i sei contrafforti centrali l’andamento del muro è concavo, come a maggior contrasto della spinta del terrapieno interno, e rettilineo negli altri. E’ questo un tratto particolarmente imponente e sempre rimasto in vista: ha probabilmente contribuito a formare uno dei nomi medioevali del sito, Castelsecco, e ha offerto forse un lato fortificato all’insediamento presente nell’alto Medioevo sulla cima, con almeno due chiese: “Ecclesia Sancti Petri in Castello”, citata nei documenti dall’819, officiata ancora nel 69


1390 e non più attiva alla metà del sec. XVIII; San Cipriano “de Castro Sicco”, presente nei decimari del 1274-75, 1278-79, 1302-3, non più officiata al tempo del Lami, diruta al tempo del Repetti, considerata antichissima nel ‘700. Nel ‘300 il colle era interessato da almeno due piccoli insediamenti organizzati in un comunello rurale: il 28 novembre 1342, “gli uomini delle ville di San Cipriano e di San Pietro di Castelsecco, adunatisi in Arezzo, costituiscono Scaffa del fu Neri come Sindaco per fare atto di sottomissione al vicario del Duca di Atene in Arezzo”. Nel 1390 il Libro della Lira riporta l’allibrazione “Castri Sicchi” ad appena 4 lire, tra le più modeste nel territorio aretino, ad indicare una realtà insediativa in declino o comunque non cospicua. Taciuta, forse perché ritenuta medioevale, dall’umanista aretino M.A. Alessi, l’imponente struttura suscita interesse a partire dal ‘700. A tale epoca possono essere fatti risalire i primi rinvenimenti documentati ed è ascrivibile una preziosa china acquerellata che documenta, tra l’altro, conservandosi allora anche parte delle assise sommitali, come gli attuali contrafforti si chiudessero superiormente ad arco. La muraglia era quindi scandita almeno su questo lato da un ritmo di false arcate che, nella parte centrale, inquadravano brevi esedre. Interventi di risarcimento del tratto monumentale di muraglia vengono eseguiti per cura dei proprietari dell’area nella seconda metà dell’800 e degli anni ’20 del ‘900, con un paramento a piccole pietre al fine di preservare le superfici coltivabili del pianoro. L’intervento conservativo eseguito agli inizi degli anni ’80 del Novecento ha comportato la reintegrazione della parti 70


mancanti con porzioni di muratura realizzate con l’utilizzo di analoga pietra arenaria, ma di pezzatura più piccola, lasciate leggermente arretrate per distinguerle chiaramente da quelle originarie. La sommità del muro è stata impermeabilizzata e lasciata volutamente irregolare, non avendo dati sull’aspetto finale originario della struttura monumentale.

Tratto del muro di Castelsecco nel tratto di massima elevazione. 2014

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Il teatro In occasione di un intervento di restauro negli anni ’70 del Novecento, eseguito in varie campagne annuali da Guglielmo Maetzke, dell’apparato murario, è stata intrapresa un’esplorazione che ha portato a notevoli risultati. Mentre si metteva in luce e si restaurava tutto il tratto già visibile del muraglione del terrazzamento, si è esplorata l’area immediatamente soprastante, nel ripiano più basso, dove sono stati messi in luce i resti di un piccolo edificio per spettacoli, orientato verso Sud. Esso è apparso molto danneggiato dagli sbancamenti e dai lavori agricoli che vi si sono succeduti per secoli. Temporaneamente ricoperti per proteggerli dalle intemperie e dai vandalismi, i resti di questo edificio per spettacoli sono considerati di notevole interesse, in quanto rappresentano l’unico esempio di teatro etrusco-italico finora discretamente conservato. Purtroppo dell’edificio non rimane quanto desiderato: tutte le sue parti elevate e più fatiscenti sono rapidamente scomparse dopo il suo abbandono in epoca romana. Una buona parte delle sue strutture in pietra della scena e delle gradinate sono state certamente utilizzate come cava per la costruzione prima della chiesetta di San Pietro, poi per la costruzione della casa tardo-medioevale appoggiata sui resti occidentali della scena, infine per la costruzione del lungo muro a secco, ora demolito per liberarne i ruderi, di sostegno del più elevato terreno retrostante.

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Salta subito all’attenzione la modestia delle sue dimensioni: il diametro massimo della cavea è di circa 45 m, quello dell’orchestra di 15 m, il frons scaenae, che si estende anche oltre la base delle gradinate, di poco più di 20 m. Delle sue tre parti essenziali – cavea, orchestra e scena – l’unica chiaramente delineata è l’orchestra semicircolare, originariamente pavimentata in lastre di pietra e oggi quasi totalmente asportate, nelle quali erano scolpite delle canalette con sezione ad U che assicuravano il deflusso delle acque in una fognatura sotterranea raggiunta da caditoie, realizzate con lastre forate, sostituite nel 1975 con chiusini in cemento. Molto problematiche restano le strutture della cavea e della scena. Della cavea, appoggiata ad uno sperone di roccia accuratamente livellata, restano solo quattro bassi gradini (ima cavea), costruiti con pietrame minuto, originariamente ricoperti da lastre di travertino, di cui si sono trovate varie tracce. Un saggio radiale verso Nord, effettuato nel 1983-84 a tergo del quarto gradino, dove il terreno si rialza di circa un metro, si sono trovate le tracce sicure di altri tre gradini analoghi (media cavea), molto manomessi. In tutto si riconoscono quindi almeno sette gradini. Sul ripiano superiore rimane buona parte di quello che possiamo considerare il perimetro esterno dell’edificio: una muratura semicircolare costruita in grossi blocchi accuratamente squadrati e ben connessi, che si alzano sul piano interno di roccia, in cui sono incassati per circa 0,60 m. Sull’arco interno di questo elemento curvilineo è un marciapiede di lastre di pietra, anch’esse incassate nella roccia, che qui affiora, 73


spianata, protendendosi verso l’orchestra. La summa cavea delimitata da tale marciapiede parallelo al muro curvilineo perimetrale, doveva quindi essere costituito da strutture lignee o da subselia mobili. La cavea doveva pertanto essere a due meniani, di cui quello inferiore di sette gradini, e quello superiore – se vi era – in materiale del tutto diverso appoggiato sulla roccia. All’orchestra si accedeva attraverso due stretti parodoi per una larghezza di circa 1,40 m. Attraverso questo corridoio dovevano entrare non solo gli spettatori ma anche gli attori, i quali salivano all’edificio scenico per la stretta scaletta che si trova a sinistra, ora di tre gradini (in origine poteva arrivare al massimo a quattro), che adduceva ad un modesto ambiente (circa 5,00 m x 2,50 m) dal quale sicuramente si doveva passare al palcoscenico. Questo modesto ambiente corrisponde al paraskenion orientale, al quale doveva corrispondere quello occidentale, i cui resti sono stati distrutti o almeno ricoperti dalla casetta tardo medioevale. Anche sul alto occidentale si trova una parodos, leggermente più larga, soltanto parzialmente conservata perché investita dalle costruzioni della piccola abitazione e attualmente chiusa da una parete di fondo. Non è possibile ipotizzare l’aspetto che aveva l’alzato dei due paraskenia, se cioè fossero aperti e costituiti da colonne che reggevano un tetto, o se fossero chiusi da due pareti con porte per i movimenti degli attori. Fra i due paraskenia era il palcoscenico rettilineo, o pulpitum, chiuso sul fondo da una parete continua, il frons scaenae. Questa, lunga circa 18 m per una profondità di 6,50 m, 74


presentava in facciata otto speroni a pettine, di rinforzo, con interasse di 1,50 m circa, forse basi di altrettante colonne che decoravano lo sfondo della scena, creando una sorta di porticato. Purtroppo non conosciamo l’altezza degli elevati dell’edificio scenico sul piano dell’orchestra, ma possiamo supporre che fossero costituiti per lo più da materiali non lapidei (lignei o forse mattoni crudi o semicrudi), protetti da rivestimenti fittili, lastre decorate a stampo a rilievo e antefisse. Giova a questo punto ricordare che, proprio nel periodo cui si è assegnato il complesso di Castelsecco, si ritrova abbastanza frequentemente in Arezzo l’uso del mattone crudo, ricordato da Vitruvio e da Plinio il Vecchio per le sue mura di cinta ellenistiche e di cui i ritrovamenti hanno testimoniato la presenza in vari punti della città antica. La struttura verticale non doveva comunque raggiungere un’altezza eccessiva, lasciando allo spettatore anche la vista del panorama retrostante. Non abbiamo elementi per calcolare con sicurezza l’altezza del palcoscenico, ma possiamo ipotizzare che non dovessi alzarsi più di 0,80 – 1,00 m rispetto al piano dell’orchestra. D’altra parte, il modesto alzato dei gradini della cavea e la loro relativa vicinanza al palcoscenico non consentivano che questo fosse molto alto, pena la perdita di visibilità, da parte degli spettatori più in basso, di quanto si svolgeva sul palcoscenico a poca distanza dalla fronte di questo. Lo spazio compreso fra il frons scaenae e il lato interno del muraglione è troppo esiguo (circa 2,70 m) perché potesse esservi movimento di attori come nei teatri. Eventuali movimenti sul pulpitum dovevano svolgersi giungendovi 75


esclusivamente dalle parodoi. Se ne deduce che la pianta e le caratteristiche rilevabili in questo edificio non lo caratterizzano esclusivamente come teatro, ma in generale come luogo per spettacoli, probabilmente sacri, o come odeon. A sostegno di questa ipotesi, rilevante è il rinvenimento di un piccolo altare in pietra, ritrovato rovesciato e semisepolto nel piano dell’orchestra davanti al pulpitum, a poca distanza da esso. E’ molto probabile che esso fosse collocato, quale arredo mobile o permanente, sul palcoscenico, essendo fra l’altro elemento necessario per l’azione di molte rappresentazioni di carattere religioso o drammatico, come testimoniano numerosi rilievi di urne etrusche più o meno coeve. Altro elemento essenziale per la ricomposizione del complesso scenico sono le terrecotte decorative, raccolte frammentarie in questa area. Quelle ritrovate duranti gli scavi effettuati da Maetzke si aggiungono ai frammenti a suo tempo raccolti da Funghini e ad altri recuperati da privati in varie occasioni e conservati da collezionisti. Per quanto frammentarie, ci danno una documentazione sufficiente della decorazione di alcune parti dell’edificio scenico. Attualmente esposte al Museo Archeologico Aretino, sono facilmente databili tra il II sec. a.C. e gli inizi del I sec. a.C. Si tratta di motivi che si trovano riprodotti anche nella decorazione della cornice superiore e inferiore di alcune urnette etrusche volterrane, sulla cui fronte appaiono scene tragiche o mitiche ed episodi ricorrenti nelle tragedie greche o romane.

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C’è però da osservare che la messe maggiore di ritrovamenti sul pianoro, ed in particolare in prossimità del podio e del rialzo che lo fronteggia, è data da frammenti di statuette in terracotta di bambini in fasce, di cui moltissimi esemplari sono conservati al Museo Archeologico e molti altri in collezioni private. Si tratta di un tipo di ex voto molto comune e diffuso, con varianti nel mondo tardo etrusco, che testimonia la presenza del culto di una divinità femminile legata alla fertilità e alla protezione della maternità. Parimenti significativo appare anche il ritrovamento nel XVIII secolo di due lastre di pietra recanti dediche in lettere etrusche ad una divinità probabilmente femminile non nominata, forse perché era la titolare del santuario, e a Tinia, il Giove etrusco. Si può quindi ipotizzare la presenza di un culto misto a conferma dell’esistenza di due edifici templari. Dopo un accurato restauro, nel 1984 da parte della Soprintendenza fu deciso il reinterro del teatro al fine di garantire la salvaguardia e la conservazione di strutture soggette a forte impatto degli agenti atmosferici ed in presenza di materiali costruttivi di alta deperibilità, oltre che per evitare che l’area venisse scempiata da scavi clandestini.

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Gli edifici templari Nella parte centrale del pianoro si eleva sul piano del santuario un “podio” rettangolare, identificabile come la piattaforma su cui doveva sorgere l’edificio templare, di cui restano scarsissime tracce. La sopraelevazione risulta costituita da un grande sperone di roccia emergente, sul cui lato Ovest è possibile riconoscere gli strati rocciosi e i tagli da essi subiti in antico per regolarizzare il fianco di questo grande risalto tronco piramidale, che invece sul lato opposto, dove la roccia va progressivamente sprofondando, era costituito da terreno di riporto, sorretto da muri di contenimento, continuamente rifatti durante i secoli. Il “podio” misura alla sommità circa 55 x 20 m e, alla base, 70 x 35 m, per un’altezza media di 5,50 m. La regolarità della sua pianta e del suo alzato, riconoscibilissima anche attraverso le degradazioni, fa pensare che esso sia stato ottenuto sin dall’inizio artificialmente, con un grande lavoro di taglio da un lato, di riporto dall’altro. Un rialzo leggermente meno elevato ma più ampio, parallelo, situato ad Est, fa ipotizzare la probabile presenza nel santuario di un secondo edificio di culto. La realizzazione di un alto “podio” di queste dimensioni ha fatto ipotizzare che essa non potesse avvenire altro che in periodo classico, e che non potesse avere altro scopo che quello di costituire la base di un edificio sacro. Considerando che l’imponente muro perimetrale di terrazzamento è costruito con blocchi della stessa pietra, e che il muro stesso è collegato con le fondazioni della frons scaenae, si può pensare che il tutto sia l’attuazione di un unico progetto 78


di creazione di un grande complesso nel quale si riconosce un santuario di tipo italico, caratterizzato dalla presenza dei due elementi tipici: il tempio, la cui presenza sarebbe testimoniata dal podio, e il piccolo spazio per spettacoli. Queste scoperte hanno dato fin da subito la chiara sensazione di trovarsi di fronte ad un complesso architettonico e culturale di grande interesse, analogo, almeno nelle linee essenziali, ai santuari al tempo già noti di Gabii, Tivoli e in particolare di Pietrabbondante. Si è quindi resa necessaria un’indagine del grande spazio compreso tra il podio e il teatro, per controllare se vi fossero strutture intermedie. L’esplorazione condotta con grandi trincee disposte a pettine ha avuto risvolti negativi, in quanto non si è trovata in questa area alcuna traccia di costruzione, e il terreno non ha nemmeno restituito frammenti archeologici: quasi ovunque l’humus è apparso molto sottile sopra la roccia che sembrava livellata, intaccata solo da canali di drenaggio forse relativi alle coltivazioni e da alcune grandi e profonde cavità – probabili cave di pietra – ricolme di terreno sterile di resti. Durante l’esplorazione, che si è estesa a Est dell’edificio teatrale, sono stati messi in luce i resti di un edificio absidato già esplorato da Funghini ed in cui egli credette poter identificare un tempio di età classica, con la sua ara. Nonostante i resti siano stati ridotti ad una pura espressione poco più che lineare dalle continue manomissioni in oltre un secolo di coltivazioni e frugamenti clandestini, si possono riconoscere i resti dell’abside e del corpo principale di una piccola chiesa medioevale, intorno alla quale sussistono 79


ancora resti delle sepolture a fossa. Si può evincere quindi che, dopo una fase di abbandono del colle, dall’alto medioevo l’altura appare nuovamente frequentata con la costruzione di questa piccola chiesa, ancora esistente nel XVIII secolo, identificata come San Pietro “in Castro Sicco” di cui parlano le fonti documentarie e della quale si sa che era ancora officiata nel XVIII secolo. Al centro dell’abside fu rinvenuto un altare del IX-X secolo, ricavato da un blocco parallelepipedo proveniente sicuramente dalle mura monumentali. Attualmente è conservato al Museo Archeologico della città. L’osservazione di questi vari interventi, tutti collegati fra loro, è importante perché testimonia che la situazione del complesso avvenne coordinatamente e fu quindi l’attuazione di un unico progetto architettonico. Una testimonianza di grande interesse per lo studio della religione, dei rapporti fra città, della cultura di questo periodo e, in particolare, per la storia di Arezzo.

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Gli altri edifici del parco Chiesa di San Cornelio E’ opportuno ricordare che la Chiesa di San Cornelio, da cui prende il nome il colle, non era di proprietà comunale, ma apparteneva agli eredi della famiglia del poeta Giuseppe Giusti, residenti a Monsummano Terme. Rimasta abbandonata per molto tempo, negli anni ’70 i proprietari avevano manifestato la loro intenzione a cederla. Soltanto nel 2008, dopo varie ricerche, l’Associazione Castelsecco ha acquistato dall’allora proprietaria, unica erede della famiglia Giusti, l’immobile in pessimo stato di conservazione con annesso resede. L’intento era quello di recuperare e restaurare l’edificio per adibirlo a punto di ricezione ed accoglienza per i visitatori dell’area archeologica. Fino a quel momento, la chiesa si presentava in grave stato di abbandono, peggiorato dalla presenza della vegetazione arbustiva ed arborea che era cresciuta sia all’interno che all’esterno del fabbricato, compromettendo in maniera invadente anche le strutture stesse dell’edificio. Posta ai margini dell’antica area sacra etrusca, è accessibile dal percorso che porta al complesso archeologico. L’edificio, il cui impianto attuale è di epoca settecentesca, è costituito da due corpi di fabbrica, uno rettangolare costituiva la chiesa vera e propria, l’altro a forma di “L” costituiva probabilmente la canonica, o comunque ambienti accessori alla chiesa stessa. E ‘ realizzato in muratura tradizionale costituita da blocchi di pietra locale e malta di calce dello spessore variabile tra 0,50 e 0,60 m. 82


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Chiesa di San Cornelio. 2014

Le coperture, completamente crollate, erano in legno e laterizio. Le strutture murarie della chiesa erano in discreto stato di conservazione, mentre preoccupanti segni di dissesto, strapiombi e fessurazioni si manifestavano sui muri perimetrali della così detta canonica. La casa colonica diruta Il rudere della casa colonica si trova sulla sommità di San Cornelio, in posizione strategica all’interno dell’area archeologica, a pochi metri dalla chiesetta di San Cornelio. Esso è stato da tempo abbandonato alle intemperie e alla violenza di chi l’ha depredato per ricavarne materiale da costruzione (coppi, pietre e legname) sempre più pregiato. Quello che è certo è che l’immobile è stato frutto di interventi succedutesi nel tempo per adeguarlo alle esigenze che man mano insorgevano. Allo stato attuale la situazione all’intorno del rudere è di degrado e d’abbandono. Il manufatto è avvolto da fitta vegetazione arbustiva ed arborea, che ne mette a repentaglio anche la parte strutturale. Lo stato dell’area circostante è peggiorato dalla presenza di materiali instabili, soggetti in ogni momento a crollo e pertanto è a rischio. E’ ancora leggibile la pianta, i vari piani abitabili, alcune aperture e l’impianto strutturale. L’edificio, di due piani fuori terra, è realizzato in muratura tradizionale costituita da blocchi di pietra locale, con qualche ricorso di mattoni agli angoli, e malta di calce. Le strutture orizzontali, di tipo tradizionale e ormai tutte crollate, erano realizzate in legno e laterizi. 84


Le apparecchiature murarie rimaste presentano segni gravi di dissesto, con qualche preoccupante spanciatura e un fisiologico grado fessurativo. La posizione strategica dell’immobile all’interno dell’area archeologica ne suggerisce il suo recupero per destinarlo ad una funzione legata all’istituzione del Parco, in particolare alle attività di carattere didattico-culturale.

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Il progetto

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Premesse La scelta di intervenire sulla riqualificazione del parco archeologico non nasce da una mera ipotesi accademica, ma si inserisce all’interno di un processo in atto e di un dibattito cittadino che da anni coinvolge l’Amministrazione comunale di Arezzo, la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, gli enti pubblici e/o di diritto pubblico e gli operatori economici e culturali, che si occupano della salvaguardia dei beni del territorio aretino, che investe proprio il recupero del sito in questione partendo dagli obiettivi di Piano Strutturale e di Regolamento Urbanistico, individuati per l’Area Strategica di Intervento A.S.I. 4.5 “Parco Urbano di San Cornelio”:

«Le proposte dovranno prevedere soluzioni progettuali tese al potenziamento e al miglioramento qualitativo del sistema dei parchi e delle attrezzature collettive per il tempo libero, finalizzati all’incremento del livello di fruibilità dei contesti naturalistici e della loro integrazione con le attrezzature di carattere urbano. In particolare le soluzioni progettuali dovranno essere finalizzate alla tutela, al recupero e alla salvaguardia del paesaggio e degli assetti agricoli storici ed alla realizzazione di un luogo verde specialistico, di facile accesso alla città, in gran parte già sistemato per poter accogliere funzioni di tempo libero, didattiche e di sperimentazione ambientale.»

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Le previsioni di piano collocano l’area in un ambito territoriale di rilevante interesse archeologico e paesaggistico. Il parco ha una estensione di circa 280 ettari e si presenta attualmente come un ampio sistema di aree verdi, caratterizzato dalla presenza di lembi di bosco alternati a terrazzamenti di colture di olivi (deturpato negli ultimi anni da massicci interenti di spietramento, atti di vandalismo e usi impropri), spazi interstiziali di ambiente agricolo che, seppure intaccati da processi di antropizzazione, mantengono nel loro insieme un elevato grado di naturalità e testimonianze storiche di rilevante entità. Il complesso è così fortemente caratterizzato da un patrimonio naturalistico, storico ed archeologico che rappresenta uno dei più consistenti giacimenti ambientali e culturali del comprensorio aretino. Il progetto intende formulare un programma di intervento che incida sulla riqualificazione dell’area, tenendo presenti in primo luogo le valenze e le vocazioni che la sostanziano. La necessità di conservare e valorizzare l’area archeologica ha pertanto richiesto un avvio di procedimento di tutela (ai sensi del D.M 25/05/62 con declaratoria di vincolo n.198 per l’area denominata “Colle di Castesecco e San Cornelio da parte del B.U.R.T. e degli artt. 136 e 139 del D.L. n. 42/2004). La proposta di progetto avanzata nella tesi prende le mosse da queste premesse urbanistiche e si pone in un piano di dialettica con le previsioni di piano, tenendo presente che lo sviluppo reale delle dinamiche di trasformazione, che è legato ai limiti e ai condizionamenti burocratici, è in continua modificazione.

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Un progetto di riqualificazione complessiva di un’area così vasta e che accoglie al proprio interno presenze storiche, archeologiche e paesaggistiche di così rilevante entità non può che partire da una lettura attenta dell’intero sistema ambientale. Attualmente l’area non gode di un equilibrio ambientale perfetto. Inoltre, nonostante i tentativi di rendere il parco luogo di attività culturali e di spettacolo che interessino la collettività, versa comunque in condizioni di trascuratezza e abbandono, nonostante l’impegno delle amministrazione per mantenere la parte naturalistica curata, sgombera dalla vegetazione infestante con periodici interventi di ripulitura. Per restituire al colle la sua organicità occorre pertanto effettuare innanzitutto interventi di riqualificazione naturalistico - ambientale per guidare i visitatori alla scoperta del sito archeologico, dando agli stessi una percezione del luogo simile a quella che ne avevano un tempo i viandanti che frequentavano l’area santuariale, al centro degli scambi culturali e commerciali della città. Si è quindi reso necessario un piano sistematico di interventi di varia natura per restituire al parco l’aspetto di un organismo unitario, vivo e funzionale. Una operazione puntuale e localizzata che prevede la progettazione di un nuovo modesto complesso teatrale in antitesi al teatro etrusco, fuori dall’area di vincolo, il restauro e reintegrazione dei manufatti esistenti, lo sviluppo lineare di una viabilità pedonale per l’accesso al parco e la visita ramificata lungo i punti strategici di intervento, la musealizzazione delle rovine del teatro e lo sviluppo di un “passage” panoramico delle rovine, in vista della riattivazione delle campagne di scavo che ne rendano possibile il contatto visivo completo con i ruderi.

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Il nuovo teatro L’area di progetto destinata ad accogliere il nuovo intervento è situata nella parte settentrionale dell’altura che affaccia verso la città ed è raggiungibile tramite la via di Castelsecco, che costeggia il sito archeologico e che conduce direttamente alla radura al margine del parco, in diretta connessione con esso ma fuori dalla perimetrazione del vincolo. Il nuovo edificio per spettacoli è pensato come una porta del bosco da cui ha inizio la visita. Nel completare ed integrare le varie funzioni presenti, il complesso per spettacoli ha l’obiettivo di divenire la riconoscibile méta di strade e sentieri che attraversano il luogo. Dato il suo isolamento, l’intervento vuole iscriversi nella morfologia rurale della tradizione costruttiva del territorio, configurandosi come una piazza adagiata lungo il pendio che compone in unità con il padiglione al suo fianco un nuovo luogo per esibizioni all’aperto, rievocando quella che era la destinazione funzionale della zona teatro al tempo degli Etruschi. Una scelta che prevede l’accettazione di un possibile esito finale di grande rudere. Il nuovo intervento non vuole porsi in contrasto con le preesistenze, ma dialogare con esse, ponendosi - in termini di estensione e di impatto visivo - dove il naturale declivio del colle permette di sfruttare la pendenza del suolo, rivolto verso Arezzo a voler richiamare un collegamento visivo con il contesto urbano fuori dal quale San Cornelio si trova. L’uso stagionale dell’edificio oltre che l’isolamento del luogo dall’urbs portano ad una essenzialità delle forme: il padiglione, con il basamento che funge da terrazza panoramica, vuole essere una propensione verso la città, dando al visitatore la possibilità di godere di ampie visuali verso il verde e verso il 92


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cielo. Il muro di contenimento del terreno dal quale fuoriesce l’edificio forma l’artificiale orizzonte del paesaggio montano verso l’area di accesso dal parcheggio a valle. Tale muro, rivestito in pietra arenaria locale, avvolge lo spazio come un foglio sottile e si apre invece sul basamento, il quale si rompe con sottili fessure quasi a negare la compattezza e la forza del suo involucro, al quale corrisponde all’interno una spazialità aperta e flessibile, negandone l’essenza che si percepisce a primo impatto dall’esterno. Il corpo di fabbrica, concepito come un blocco parallelepipedo incastrato nel pendio , nasce come un tutt’uno con l’orografia circostante e diventa una piattaforma basamentale orizzontale adagiata sul terreno. Il piano d’ingresso, definito in sezione come una piegatura ad “L” della struttura muraria principale, ospita al proprio interno i servizi di accoglienza e ristoro per i visitatori, protendendosi verso il teatro all’aperto di fianco ad esso tramite una terrazza che corre lungo tre lati liberi. Il piano interrato, al quale si accede tramite una scalinata continua appoggiata al muro esterno e che prende luce tramite lucernario, ospita al centro l’aula conferenze concepita come un auditorium al coperto, per piccole rappresentazioni che non necessitino di particolari scenografie come letture di brani, musica da camera o altri tipi di eventi al chiuso. L’anello di distribuzione attorno all’aula diventa una promenade lungo la quale il visitatore può conoscere la storia di Castelsecco e delle sue origini tramite pannelli illustrativi che ricostruiscano l’excursus storico del sito, il paesaggio e il contesto territoriale, tramite foto aeree degli scavi e dei ritrovamenti archeologici avvenuti nel corso del tempo. I tagli nel basamento, oltre a far entrare la luce in corrispondenza della galleria e del foyer, rompono la solidità della parete in pietra, favorendo l’unità tra 96


interno e esterno. All’esterno il teatro si sviluppa in modo semplice ed essenziale. Una grande piastra lapidea rettangolare fa da palcoscenico con una spettacolare coreografia naturale data dagli ulivi che circondano l’area. Frontale, lungo il terreno che sale naturale verso l’area archeologica, accanto al padiglione, sono disposte in modo regolare lunghe sedute in pietra per gli spettatori, come se emergessero dal terreno. Questa piccola architettura lascia spazio ad una duplice lettura dei suoi significati. E’ possibile apprezzarne la riuscita capacità di inserirsi nel paesaggio circostante proprio “come se ci fosse sempre stata”, citando un noto adagio michelucciano, cogliendo la chiarezza della sua geometria e la purezza della sua materia, ma è anche possibile coglierne la capacità che un edificio può avere, di porsi come frammento assonante nei confronti di una antica visione del tutto.

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Il parco archeologico La volontà di rendere fruibile alla collettività i nuovi spazi aperti e la visita alle rovine rende necessaria la considerazione sulla possibilità di chiusura e di controllo dell’intera area, per garantire la sicurezza e la manutenzione degli stessi. Da questa premessa si è giunti alla necessità di prevedere come accesso principale al parco quello sul versante settentrionale dell’area, più prossimo allo spazio di arrivo e di parcheggio. Un altro accesso è previsto sul versante meridionale del colle, in prossimità del muraglione etrusco, chiuso al momento opportuno per impedire il degrado doloso del parco. Lasciato il nuovo complesso alle spalle, inizia il vero e proprio percorso di visita all’area, una passeggiata che trova il suo primo punto di sosta in quelli che sono al momento gli unici manufatti sviluppati in alzato, di epoca tardo medioevale e moderna, che sono pervenuti fino ai nostri giorni dopo vari rimaneggiamenti: l’ex chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano e l’attigua casa colonica. Sono piccoli edifici accomunati dalla stessa destinazione funzionale, pensati come spazi espositivi per preparare il visitatore all’incontro con il mondo etrusco. Alla casa colonica si accede attraverso un ingresso volutamente semplice, che esalta per sorpresa le qualità dello spazio interno, un vuoto centrale a doppio volume con funzione di ricezione e punto informativo, biglietteria e spazio di vigilanza, in comunicazione con il vano attiguo dell’ufficio per il personale, anch’esso a doppio volume, collegato dall’altra parte a spazi di deposito attrezzature. Varcata la soglia di questo spazio, l’unico coperto, si accede ad una serie di tre stanze espositive a cielo aperto, nelle quali sono 98


protagoniste, a servizio delle opere esposte, la materia stessa dei grandi muri perimetrali e la natura circostante che svetta sopra di essi. Da qui si ha ancora la percezione di ciò che ci circonda, e il visitatore può sostare in tranquillità ammirando le opere esposte all’interno, oltre che godere di una prospettiva particolareggiate verso la cima più alta del colle, il podio, dove sorgeva il tempio etrusco. Dall’esterno, attraverso la scalinata che un tempo portava al piano nobile della casa, quindi a quello che era il vero ingresso all’edificio, si accede ad una terrazza coperta ma ancora all’aperto, come il loggiato delle antiche case coloniche, che gode di una vista privilegiata verso il panorama della città tramite una finestra priva di infisso, una bucatura che marca il segno di un’antica apertura sul muro, mentre dall’altro lato si affaccia sul foyer d’ingresso al piano terra.

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Il tema cardine del recupero della casa colonica è la messa in sicurezza delle opere murarie esistenti, il cui stato di degrado e di abbandono ha portato ad una profonda riflessione su come intervenire sul loro consolidamento senza gravare ulteriormente sulla fragilità strutturale, senza adoperare un atteggiamento di accanimento terapeutico. L’obiettivo principale del progetto è quello di conservare l’antico perimetro del fabbricato e la fisionomia di rudere, facendogli assumere il ruolo di testimonianza della rovina, un frammento del passato arrivato a noi. Ad un primo impatto, i resti dell’antica casa ancora presenti come macerie che occupano la pavimentazione interna potrebbero far pensare ad un tipo di intervento per anastilosi, recuperando i pezzi originali della costruzione andata distrutta, rimettendo insieme elemento per elemento quelli che sono i paramenti murari mancanti, oltre che la copertura. La fragilità strutturale delle opere murarie impone piuttosto una riflessione critica, non solo per quanto riguarda il consolidamento delle porzioni di muro esistenti e la loro risarcitura, ma anche sulla necessità di dare una nuova copertura all’organismo. Qualsiasi soluzione strutturale basata sulla collaborazione statica dei resti implicherebbe interventi così consistenti che consentirebbero di restituire la fisionomia originaria ma non senza un dispendio notevole di risorse economiche. Inoltre, non terrebbe in considerazione lo stato di abbandono in cui si trova l’edificio. Al contrario, bisogna evidenziare che la casa colonica non è più quella di un tempo, esaltandone il carattere di rovina e distaccandosi da una semplice ricostruzione che toglierebbe forza alle scelte architettoniche dell’intervento, che deve comunque avere un linguaggio contemporaneo nel rispetto delle preesistenze, 102


ponendosi in continuità con i principi compositivi delle tecniche costruttive delle architetture agricole che dominano la realtà del territorio. L’intervento si pone come obiettivo dunque la conservazione, per quanto possibile, dell’antico perimetro murario, reintegrando modeste porzioni di parti mancanti di pietra, congelando il crollo murario con la rasatura di alcune parti sommitali. Consolidando l’esistente, si prepara il fabbricato ad accogliere una nuova porzione di muratura in mattoni disposti a due teste, intonacata, poggiante sulla parte mediana del muro in pietra, con il compito di restituire al manufatto l’originaria immagine della casa. Questa nuova integrazione fa capo, oltre che alle scelte di tipo etico, a motivazioni di tipo meramente tecnico, che non permetterebbero l’uso di un materiale integrativo che si discosti dalle caratteristiche meccaniche del muro esistente in caso di deformazioni elastiche prodotte da eventuali fenomeni sismici. Vibrazioni di questo tipo produrrebbero piccole deformazioni elastiche, in risposta alle forze agenti, che graverebbero ancor più sullo stato già precario della struttura, provocandone ulteriori crolli. Questo tipo di approccio integrativo si ritrova anche nel restauro di opere d’arte, dove è necessario considerare la storia senza cancellarne i segni. Nel caso di quadri o di affreschi, si può frequentemente presentare il caso della perdita di una parte della superficie pittorica, dove non si può evitare il ripristino della superficie di sostegno, pena la perdita della rimanente parte superstite del dipinto. Ciò comporta il reintegro dell’immagine complessiva con un intervento che interferisca con la percezione dell’opera. E’ assolutamente escluso che si possa reintegrare la parte mancante ricostruendo l’immagine originale (restauro di ripristino), perché in questo caso si commetterebbe un falso 103


paramento murario esistente paramento murario ripristinato pilastri HEB 140 con rivestimento circolare nodo dela capriata, piatto d’acciaio catena della capriata, barra in acciaio tonda puntone della capriata, profilati a “C” accoppiati arcarecci, profilati doppio “T” cornice perimetrale, profilati a “C” termopannello di alluminio e poliuretano barriera al vapore profilati omega forati per sistema ventilato manto di copertura in lastre ondulate multistrato (finitura superiore in lamina di rame) 13| colmo areato 14| canale di gronda 15| bordatura, scossalina in rame

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Nuova copertura. Particolare tecnologico.

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paramento murario esistente paramento murario ripristinato pilastri HEB 140 con rivestimento circolare nodo dela capriata, piatto d’acciaio catena della capriata, barra in acciaio tonda puntone della capriata, profilati a “C” accoppiati arcarecci, profilati doppio “T” cornice perimetrale, profilati a “C” termopannello di alluminio e poliuretano barriera al vapore profilati omega forati per sistema ventilato manto di copertura in lastre ondulate multistrato (finitura superiore in lamina di rame) 13| colmo areato 14| canale di gronda 15| bordatura, scossalina in rame

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Nuova copertura. Particolare tecnologico.

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storico. Rimangono due possibili soluzioni: la tinta neutra e l’abbassamento di livello. La tinta neutra consiste nel riempire le lacune con un colore che non alteri l’armonia cromatica generale del dipinto. In questo caso, trattandosi comunque di una nuova superficie pittorica, per far capire che si tratta di un intervento di restauro, la tinta neutra viene posta con tecnica riconoscibile, che può essere a puntini o a tratteggio. L’abbassamento di livello è una tecnica che evita di integrare le superfici pittoriche ma che mostra la superficie inferiore di supporto, così da evidenziare solo la parte originale dell’opera, lasciando all’occhio dell’osservatore il compito di ricostruire mentalmente l’immagine complessiva. In modo analogo, nella casa colonica l’integrazione viene collocata in asse con la struttura portante, arretrata rispetto allo spessore del paramento murario, per evidenziarne l’aggiunta posteriore. Il progetto della nuova copertura si basa sull’accurata analisi del fabbricato, che permette di affermare fin da subito la necessità di una geometria essenziale dello spazio da ricostruire. Questo porta alla scelta di una soluzione architettonica di un involucro leggero e reversibile, che ridefinisca lo spazio interno proprio come quello di un tempo, con la tipica copertura a falde che contraddistingue i fabbricati agricoli delle nostre campagne. L’obiettivo della genesi della originaria spazialità è possibile grazie all’adozione di un sistema autonomo rispetto alla struttura esistente, poggiante su pilastri metallici immediatamente arretrati rispetto al filo interno del muro, affinché l’involucro ed i carichi che su esso insistono, non gravino sull’organismo esistente di per sé compromesso. Così la nuova copertura avrà il compito di ridare unità al fabbricato, senza affidare il proprio peso al muro perimetrale di pietra, che dovrà solo sorreggere il carico

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Casa colonica deruta. 2014

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di una esigua porzione di rivestimento in mattoni. La muratura fatiscente rimarrà semplice memoria dell’antico disegno. Accanto alla casa colonica vi è la piccola chiesa sconsacrata, recentemente restaurata e riportata al suo stato originario dopo un intervento di ricostruzione com’era dov’era che ha permesso di ripristinare i caratteri architettonici celandone l’effettivo stato di abbandono in cui versava l’edificio. L’edificio, usato adesso come punto informazioni e piccola sala riunioni dell’Associazione Castelsecco, diventa il luogo della memoria del parco archeologico. Al suo interno, il corpo principale ad un’unica aula diventa antiquarium, con l’esposizione dei reperti che nel corso dei secolo sono stati rinvenuti all’interno dell’area e che attualmente si trovano al primo piano della Sala II del Museo Archeologico Nazione “Gaio Cilnio Mecenate” di Arezzo. Tali resti offrono una testimonianza dello sviluppo della città in epoca ellenistica, periodo nel quale Arezzo assunse un assetto urbanistico ben definito ed allargò i limiti del territorio sottoposto alla sua influenza. La floridezza della città è testimoniata dalle numerose terrecotte architettoniche e votive in parte esposte nella presente aula della chiesa. Castelsecco è stato il fulcro di importanti attività non solo per la presenza del santuario, ma in quanto sede di scambi commerciali che con molta probabilità avvenivano nel pianoro che corre tra il teatro e il podio dove si ergeva il tempio ellenistico. L’aula presenta un carattere raccolto, ancora liturgico per la neutralità del fondale intonacato e della debole luce che penetra all’interno dall’unica bucatura posta sopra l’ingresso centrale, quasi a richiamare la riservatezza gli spazi ipogei delle architetture etrusche. Al suo interno ospita i reperti, in teche di cristallo con base in ferro cerato. L’allestimento prevede alcuni materiali provenienti dai saggi 110


effettuati negli anni 1886/87 dal Funghini ed altri rinvenuti durante lavori agricoli. Tra questi vi sono uno scarabeo di corniola, una fibula, bronzetti votivi, fra cui uno raffigurante Ercole, di epoca ellenistica, ed un gruppo di volatili posti su fulmine stilizzato. Degne di particolare attenzione sono alcune statuette fittili, che riproducono neonati in fasce e corrispondono ad ex-voto assai diffusi nei depositi sacri etruschi ed italici. Essi attestano, nell’ambito del santuario, la venerazione di una divinità femminile legata al culto della fertilità e alla tutela delle nascite o dell’infanzia. Al centro della sala, fa da protagonista un piccolo altare sagomato in calcare rinvenuto davanti al pulpitum della scena del teatro. L’allestimento si completa con l’esposizione su parete di lastre fittili di rivestimento, alcune decorate da festoni di frutta con alternati bucrani e teste di Gorgone (II-I sec. a.C.), e due iscrizioni etrusche su pietra: FLERE e TINS/LUT, rinvenute nel secolo scorso nelle immediate vicinanze del santuario. Il disegno di una nuova pavimentazione esterna, leggera, reversibile, che abbracci i due interventi, permette di unire in un unicum in due manufatti che, con la collocazione di strutture per la sosta e la sedute del visitatore, offre una vista panoramica delle rovine dall’esterno, regalando una prospettiva privilegiata del luogo con il contatto visivo completo con i ruderi della casa, la chiesa e il podio del tempio in prossimità di essi.

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La musealizzazione dell’area archeologica fa si che il paesaggio svolga il ruolo di educatore e di controllo indiretto del comportamento dei visitatori, non ponendo dei limiti ma al contrario permettendo la facile fruizione del luogo nei vari spazi che lo compongono, fornendo la sicurezza necessaria per l’escursione al parco. La passeggiata, che prosegue dall’antiquarium verso la parte meridionale del parco, è disegnata in modo da collegare i punti di interesse e condurre lo spettatore all’obiettivo finale del camminamento: il muro monumentale e scenografico di contenimento dell’estremità meridionale dell’altura e di sostegno del teatro. Continuando la passeggiata, la pavimentazione si allarga in prossimità del podio centrale, così come accade nelle vicinanze del teatro etrusco, per permettere anche ai diversamente abili di raggiungere con facilità le tappe fondamentali della visita al parco e non ostacolando la percezione diretta con i ruderi scoperti. Al podio si accede tramite delle scale in pietra che poggiano direttamente sul terreno, incassate in profondità come se ci fossero sempre state, sul versante prospiciente al teatro, per restituire al visitatore la percezione dei viandanti di un tempo che dallo stesso lato accedevano al tempio etrusco. Una volta raggiunta la sommità del podio, ci attende un pianoro opportunamente sagomato al centro del quale poggia una piattaforma che secondo il Funghini doveva avere la dimensione della cella centrale del tempio. Qui si può sostare grazie alla seduta posta in modo centrale, come un altare, rivolta verso la città, in diretto contatto visivo con il colle di San Donato ed il duomo, le alture che circondano la valle aretina dall’altra, che restituiscono la sensazione di sacralità e di riverenza di questo luogo sacro, che non ha mai abbandonato Castelsecco nei secoli. 112


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Ridiscendendo lateralmente dal podio, verso quello che doveva essere un altro pianoro sul quale sorgeva forse un secondo piccolo tempio, il visitatore giunge al teatro, dove un intervento di scavo e di restauro conservativo riporta le strutture della scena e delle gradonate al livello di calpestio originale. A questa azione dovrà far seguito una manutenzione ordinaria e costante e una prevenzione dalle attività dolose ai danni del patrimonio archeologico rimesso in luce. La pavimentazione disegna perfettamente l’andamento dei due meniani della media e ima cavea, permettendo la facile fruizione del luogo in completa sicurezza grazie al parapetto leggero sul lato interno che delimita la passeggiata, e la discesa alla quota dell’orchestra. I percorsi, larghi due metri, sono realizzati con una struttura leggera e smontabile di listelli di acciaio, appoggiata a terra e regolati a 10 cm dal piano di campagna. La sezione è completata da altri 10 cm di corten che fanno da sponda per garantire la sicurezza di ogni parte del percorso di visita. Archi di circonferenza di questi percorsi sono pensati come sedute in pietra per permettere durante la sosta di godere a pieno lo spettacolo delle rovine. Grazie alla scalinata sagomata secondo la pendenza della cavea, si giunge all’orchestra, coperta da terra battuta per evidenziare la sua antica funzione, mentre il palcoscenico è rivestito con pannelli in legno verniciato per evocarne l’originaria connessione con questo materiale largamente usato nelle opere architettoniche etrusche. Le modeste dimensioni del teatro, unite alla scelta di spostare eventuali spettacoli per il pubblico nel nuovo teatro all’aperto, suggeriscono la fruizione del teatro più come punto panoramico verso il paesaggio che fa da scenografia e le rovine, piuttosto che come restituzione della funzione antica e sua riabilitazione a sito per manifestazioni pubbliche. 114



La passeggiata prosegue e discende lungo il perimetro del muraglione, vera immagine icastica riconoscibile del colle. Un piccolo mirador si adagia sull’andamento del terreno scosceso, appoggiandosi al terrazzamento degli uliveti sottostanti. La sua misura è scandita dalla larghezza del modulo del contrafforte per un’altezza massima di tre metri dal piano del sottostante declivio del colle. Volumetricamente semplice nelle forme, discreto nella scelta dei materiali, è posto in corrispondenza della curvatura del muro dove ha inizio lo sviluppo delle esedre a fondo ricurvo. Con la seduta continua lungo il lato ad est rivolta verso l’imponente opera muraria, offre al visitatore un punto di vista panoramico privilegiato sull’accesso all’area e sulla vallata antistante. Questo ultimo intervento è pensato come coronamento del percorso di visita al parco archeologico per fornire una lettura completa a 360 gradi dell’intero colle.

«Guardo dall’alto delle mura della città. La campagna non fa pompa di ville e fattorie. Ce ne sono molte, è vero, ma celate e difese. Le corti, a cui solo il bisogno ha aggiunto nuove costruzioni, sono, non solo nello stile, ma in ogni sfumatura dei mattoni e dei vetri, raffinate come non lo è nessuna casa di ricchi perduta nel verde. Ma il muro a cui mi appoggio partecipa del segreto dell’ulivo, la cui chioma, come un serto tenace e poroso, lascia filtrare da mille varchi il cielo.»6 6

W. Benjamin, Immagini di città, Torino, Einaudi, 2007

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Conclusioni

La proposta di progetto vuole restituire l’area archeologica di Castelsecco alla città, in attesa che ritorni a far parte del vivere quotidiano dei cittadini integrandola nelle manifestazioni di interesse culturale. Gli interventi di collegamento tra le varie quote del parco sono pensati per trasformare il sito il un complesso museale a cielo aperto collegato in tutte le sue parti. L’obiettivo è guidare lo spettatore in una scenografia naturale che sappia far cogliere dall’altura le prospettive più significative verso la città. Il carattere vario degli interventi deriva dalla necessità di rispondere a diverse situazioni di degrado e di recupero di una realtà ricca di peculiarità e di punti di forza, che presuppongono un accostamento delle parti mitigato da un unico linguaggio architettonico, per esaltarne la necessaria continuità.

«Uno degli scopi del nostro lavoro di architetti è di opporre una certa resistenza al rapido esaurirsi della ragione pratica che determina la costruzione di un edificio. Suscitare un tempo nascosto che resista al tempo del suo uso e che sia in grado di conferirgli nuove valenze estetiche persino nel caso estremo in cui l’iniziale funzione, esauritasi, sia incomprensibile, o che l’edificio stesso sia stato dal tempo o da eventi traumatici ridotto a rovina» F. Venezia 118



Bibliografia

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Altre letture _Augé M., Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2004 _Boullèe E.L., Architettura. Saggio sull’arte, Einaudi, Torino, 2006 _Brook P., Il teatro e il suo spazio, Feltrinelli, Milano, 1968 _Calvino I., Le città invisibili, Mondadori, Milano, 2002 _Conforti C., Vasari architetto, Milano, Electa, 1995 _Didi-Huberman G., Come le lucciole. Una politica della sopravvivenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2010 _Fiore V., Spazio teatro. Luoghi recuperati per la scena, LetteraVentidue, 2010 _Grassi G., Giorgio Grassi: i progetti, le opere, gli scritti, introduzione di J.J. Lahuerta, Electa, Milano, 1996 _Grassi G., Teatro romano di Brescia. Progetto di restituzione e riabilitazione, Electa, Milano, 2003 _Hesse H., Dall’Italia. Diari, poesie, saggi e racconti, Oscar Mondadori, Milano, 1990

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_Polacco L., Kyklos. La fenomenologia del cerchio nel pensiero e nell’arte dei Greci, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Venezia, 1997 _Rossi A., Architettura della città, Città Studi, Milano, 1995 _Rossi A., Autobiografia scientifica, Nuove Pratiche Editrice, Milano, 1999 _Settis S., “Futuro del classico”, Einaudi, Torino, 2004 _Yourcenar M., Il tempo grande scultore in Il tempo grande scultore, Einaudi, Torino, 1985 _Yourcenar M., Memorie di Adriano, Einaudi, Torino, 2002 _Venezia F., Che cos’è l’Architettura, un intervento, Electa, Milano, 2011 _Venezia F., Francesco Venezia: l’architettura, gli scritti, la critica, Electa, Milano, 1998 _Venezia F., Francesco Venezia: le idee e le occasioni, Electa, Milano, 2006 _Vitruvio M.P., De Architectura. Libri decem, Kappa, Roma, 2002

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Regesto

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1 | inquadramento territoriale_1:20000 2 | inquadramento archeologico 3 | l’area di progetto 4 | planivolumetrico_1:500 5 | il nuovo teatro_pianta quota +409,00 1:200 6 | il nuovo teatro_pianta quota +405,50 1:200 7 | vista del nuovo teatro verso l’area archeologica 8 | vista del nuovo teatro verso Arezzo 9 | la casa colonica e la chiesa_pianta coperture 1:200 10 | la casa colonica e la chiesa_pianta quota +419,70 1:200 11 | abaco dei reperti 12 | il teatro etrusco_1:200 13 | vista del mirador 14 | vista del teatro

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A me stessa, per la costanza e la serietà nella carriera studentesca. Alla mia famiglia, per avermi incoraggiato in questi anni di studio ed esortato ad andare avanti serenamente nonostante le difficoltà. Alle amiche di sempre, Francesca, Anna e Silvia, per il sostegno continuo e l’aiuto inappagabile. Ai compagni universitari, con i quali sono arrivata alla fine di questo viaggio, ad Elena, Mirko e Ludovico che hanno speso un po’ del loro tempo per rendere questo lavoro migliore. Ai coinquilini, per l’allegria e i momenti di svago. Ad Angela, per l’aiuto tecnico e morale in tutti gli anni universitari. All’Arch. Salvatore Zocco, per i consigli progettuali. Alla dott.ssa Silvia Viluccchi, all’Arch. Rossella Sileno, all’ing. Paolo Berti, per il gentile contributo nella raccolta dei documenti e nel lavoro di ricerca. Ai prof. Andrea Volpe e Pietro Matracchi, per gli insegnamenti e la disponibilità dimostrate. Grazie


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