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Le mura di quella torre d’avorio che separava la scienza dal resto della società umana sono crollate. Tra scienza e società, i rapporti sono diventati

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semplicemente necessari. Necessari per gli scienziati. Una parte crescente delle decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza viene ormai presa in compartecipazione tra le comunità scientifiche e un’intera costellazione di gruppi di non esperti. Necessari per la società. Nel medesimo tempo, la scienza entra sempre più nella vita quotidiana dei cittadini. È parte sempre più rilevante e ineludibile non solo della cultura dell’uomo, ma anche dell’economia, della politica, dell’etica. Scienza e democrazia sono due dimensioni che in parte si sovrappongono. Dalla qualità della loro intersezione dipende la qualità della società umana. Se la scienza diventa fonte di nuove diseguaglianze, allora l’intersezione con la democrazia diminuisce e la qualità della società umana si affievolisce. Se la scienza conferma l’ideale baconiano e contribuisce al benessere dell’intera umanità, allora l’intersezione con la democrazia si estende e si estende anche la qualità della vita sociale dell’uomo.

Pietro Greco

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Finita la seconda guerra mondiale, l’Italia è al disastro e un uomo si impegna per risollevarla. Con un piano preciso: scienza di base e applicata, sviluppo civile ed economico, integrazione europea. Storia di un progetto più attuale che mai.

88-901775-9-4 euro 15,00

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Indice

Il Manifesto contro ogni forma di razzismo – Pietro Greco

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Dossier – Edoardo Amaldi, la ricostruzione La lezione di un fisico – Carlo Bernardini Oltre la torre d’avorio: scienza e società – Pietro Greco La rinascita della fisica italiana – Luciano Maiani Lessico familiare – Ugo Amaldi intervistato da Vincenzo Napolano I fisici in rete: l’INFN – Giovanni Battimelli L’impegno istituzionale: CNR e dintorni – Giovanni Paoloni La Big Science sbarca in Europa: la nascita del CERN – Lucia Orlando Il sogno spaziale: lanciare un’Euroluna entro il 1965 Michelangelo De Maria Promotore di scienza e coscienza civile Carlo Bernardini, Francesco Lenci La scienza sotto accusa: il “caso Ippolito” – Vincenzo Napolano Insegnare la fisica – Nicola Cabibbo intervistato da Francesca Scianitti

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Ultime dalla Società della Conoscenza Cronache dal Mondo – L’Asia, leader del mondo multipolare della scienza – Pietro Greco Cronache dall’Europa – Il nucleare intorno a noi – Stefano Pisani Europa news – Gli ultimi sei mesi di Nano-scienze, ICT e Biotecnologie in Europa – Cristian Fuschetto, Romualdo Gianoli, Stefano Pisani Cronache dall’Italia – L’Italia al bivio – Vincenzo Napolano

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Scienza e Società Filosofia Scienza e diritto: se il giudice diventa peritus peritorum… Angela Simone Economia L’oscuro oggetto della bioeconomia – Sergio Ferrari Ambiente L’abbaglio dell’oro verde – Margherita Fronte Pace e Guerra Perché l’Iran fa così paura? – Roberta Ballabio, Lucilla Tempesti Comunicazione Analfabeti – Tullio De Mauro intervistato da Enrica Battifoglia Arte Ambienti immersivi – Pietro Pantano, Francesca Bertacchini Questioni di genere Donne e scienza: si può chiudere il gap? – Sveva Avveduto

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Recensioni Vietato non toccare Cyberdemocrazia. Saggio di filosofia politica e Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media Proust era un neuroscienziato Federica: la piattaforma per l’e-learning open access dell’Università degli Studi di Napoli Federico II Donne e Scienza 2008. L’Italia e il contesto internazionale

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Appendice Il manifesto degli scienziati antirazzisti 2008

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Il Manifesto contro ogni forma di razzismo

«Le razze umane esistono», esordiva il Manifesto della razza firmato nell’estate 1938, settant’anni fa, da un gruppo di dieci “scienziati” italiani e approvato dal Duce in persona, che addirittura ne rivendica la stesura di propria mano. «Le razze umane esistono» e ciascuna ha capacità anche intellettuali diverse dalle altre; esiste in particolare una “razza italiana” che, naturalmente, è più capace delle altre e deve essere tutelata da pericolose contaminazioni genetiche. In primo luogo dalle contaminazioni di sangue con razze palesemente inferiori, come quella degli ebrei. E dei rom. «Le razze umane non esistono», esordisce il Manifesto contro ogni forma di razzismo reso pubblico a San Rossore, in Toscana, lo scorso 10 luglio da un gruppo di scienziati italiani – tra cui Rita Levi Montalcini, Enrico Alleva, Guido Barbujani, Marcello Buiatti, Laura Dalla Ragione, Elena Gagliasso, Massimo Livi Bacci, Alberto Piazza, Agostino Pirella, Frencesco Remotti, Filippo Tempia, Flavia Zucco. «Le razze umane non esistono» anche se ogni uomo è geneticamente diverso da ciascun altro. Ma l’umanità non è costituita da piccoli e grandi gruppi diversi per struttura genetica. È piuttosto una rete estesa di persone geneticamente e culturalmente collegate in maniera dinamica tra loro. E quell’aggettivo, dinamico, è da sottolineare. Perché di fatto, nessun popolo nel corso dei secoli può essere considerato isolato geneticamente. E, in particolare, è un mito senza fondamento che sessanta milioni di nativi dell’Italia discendano da famiglie che abitano la penisola da almeno mille anni. Il “meticciato” genetico e culturale è una caratteristica dell’Italia come dell’intera umanità. Di più, è un bene. Sia sul piano strettamente biologico, sia sul piano culturale. Quello reso pubblico nel 2008 a San Rossore contro ogni forma di razzismo è un vero e proprio Contro-manifesto, puntuale e opportuno. È puntuale perché a ciascuna delle dieci tesi del famigerato Manifesto della razza pubblicato il 15 luglio 1938 sul Giornale d’Italia oppone una tesi diversa, alla luce delle moderne conoscenze scientifiche. Opportuno, perché dimostra che con quell’atto gli scien1


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ziati fascisti tradirono insieme la scienza, i valori della comunità scientifica e la loro stessa umanità. Tradirono la scienza, perché già allora vi erano tutti gli elementi per affermare che il concetto biologico di razza è una pura invenzione. Oggi tutti gli studi genetici lo dimostrano al di là di ogni possibile dubbio. La genetica, infatti, ha consentito di chiarire almeno cinque punti rispetto alla variabilità tra gli individui e all’esistenza delle razze umane: 1. Ogni uomo è geneticamente diverso da ogni altro. È un organismo biologico unico e irripetibile. 2. Se si considerano i singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. In pratica, la frequenza dei singoli geni di tutte le popolazioni umane è largamente sovrapponibile. E, in particolare, nessun gene specifico può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra. Le popolazioni umane sono geneticamente molto simili le une alle altre. 3. C’è invece una grande variabilità genetica tra gli individui. Nessuno di noi porta i medesimi geni di un altro uomo. Tuttavia la gran parte di questa variabilità è anteriore alla formazione delle diverse popolazioni ed è probabilmente persino anteriore alla formazione della specie sapiens. In ogni caso, diversi studi indipendenti hanno dimostrato che almeno l’85% della diversità genetica (ovvero dell’insieme dei geni umani) è presente in ogni popolazione del mondo, un ulteriore 5% della variabilità genetica è presente tra tutte le popolazioni del medesimo continente, e il residuo 10% è comunque presente in popolazioni di diversi continenti. 4. La variabilità genetica all’interno di singole popolazioni comunque scelte, per esempio tra gli europei o gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni – tra gli italiani e gli etiopi, per esempio – sono modeste e pressoché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni. In pratica, due italiani possono essere geneticamente molto diversi tra loro. Molto più di quanto non siano diversi un italiano medio e un etiope medio. 5. La contaminazione genetica tra le diverse popolazioni umane è costante ed elevatissima. Lo confermano persino gli ultimi sequenziamenti dell’intero genoma umano. Nei mesi scorsi, il premio Nobel per la biologia James Dewey Watson, scopritore con Francis Crick della struttura a doppia elica del Dna, ha pubblicato i risultati del sequenziamento del suo Dna. E non senza una sua certa costernazione – Watson aveva detto che i neri hanno mediamente capacità cognitive inferiori a quelle dei bianchi – ha scoperto che il 9% dei propri geni ha 2


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un’origine asiatica e che uno dei suoi bisnonni o, comunque, dei suoi antenati recenti era di origine africana. Il Manifesto contro ogni forma di razzismo dimostra anche – e soprattutto – che gli scienziati fascisti tradirono non solo la scienza (intesa come conoscenza rigorosa) ma anche i valori fondanti della comunità scientifica, mettendo il loro sapere non al servizio dell’intera umanità – come indicava già nel ’600 Francis Bacon – ma al servizio di un’ideologia pericolosa che voleva dividere gli uomini gli uni dagli altri, per discriminarli. E con ciò, quegli scienziati fascisti, si macchiarono della colpa più grave: tradirono la loro stessa umanità. Ma il Manifesto antirazzista che il gruppo di scienziati italiani ha reso pubblico a San Rossore lo scorso 10 luglio non ha solo un valore storico e scientifico (e già non sarebbe poca cosa). Ma ha un valore politico di stringente attualità. E giunge più che mai opportuno. Troppe parole, troppi episodi, persino qualche disposizione di governo nel nostro Paese stanno alimentando il fuoco della discriminazione razziale. È ora – ci dicono gli scienziati preoccupati di San Rossore – che questi venti cessino di soffiare e che il fuoco della discriminazione razziale venga definitivamente spento. Prima che scoppi, improvviso, un nuovo incendio. Pietro Greco

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Dossier

Edoardo Amaldi, la ricostruzione


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Figlio di Ugo Amaldi, insigne matematico, Edoardo fece parte del gruppo dei “ragazzi di via Panisperna”, il gruppo di studio che, capitanato da Enrico Fermi, ottenne risultati fondamentali nella fisica del nucleo, coronati nel 1938 dall’assegnazione del premio Nobel a Fermi. In quell’anno ricevette la cattedra di Fisica sperimentale a Roma, ruolo universitario che occupò per ben 41 anni. In seguito alla proclamazione delle leggi razziali fasciste del 1938, il gruppo di via Panisperna si disperse e Amaldi fu l’unico a restare in Italia, divenendo dopo la guerra uno dei principali promotori della ricostruzione e riorganizzazione della fisica in Italia. Fu uno dei fondatori dell’INFN (Istituto Nazionale per la Fisica Nucleare), del quale divenne presidente, e dei laboratori di Frascati dell’INFN. Sostenitore inoltre della necessità di una collaborazione internazionale per il proficuo sviluppo della ricerca scientifica, fu tra i promotori della nascita del CERN (Laboratorio europeo per la fisica delle particelle), con sede a Ginevra, di cui fu anche segretario generale. Ebbe un ruolo decisivo anche nella nascita dell’European Space Research Organization (ESRO), antesignano dell’attuale Agenzia Spaziale Europea (ESA). Nella fisica delle particelle elementari, diede fondamentali contributi alla determinazione delle caratteristiche dei costituenti della radiazione cosmica (mesoni K, iperioni, muoni di alta energia) e allo studio degli elementi subatomici della materia, utilizzando gli acceleratori di particelle. Negli ultimi anni si dedicò a studi pionieristici alla ricerca del monopolo magnetico e delle onde gravitazionali. Prestigioso socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, di cui divenne presidente, Amaldi si dedicò anche all’azione sociale e umanitaria, con la sua adesione al movimento “Pugwash”, impegnato per lo smantellamento delle armi nucleari, e la fondazione dell’ISODARCO (International School on Disarmament And Research on Conflicts).

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La lezione di un fisico Carlo Bernardini

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a figura scientifica e socio-politica di Edoardo Amaldi costituisce un esempio che, ormai, nel panorama italiano, possiamo considerare storico e insufficientemente noto al grosso pubblico. È la figura del personaggio autorevole, per scienza unita a saggezza, che tutti rispettano e che non ha mai chiesto consenso pur meritandolo più di ogni altro. Ricordo che, in conversazioni amichevoli in cui si discuteva delle responsabilità nell’organizzazione della ricerca, affermava con forza sia il principio di non chiedere mai posti di potere, pur accettando di essere eventualmente chiamati a occuparli; e di non dimettersi lasciando problemi irrisolti. Un simile Maestro, sobrio e rigoroso (soprattutto con se stesso) è, probabilmente inimitabile; ma di figure come la sua abbiamo ancora un estremo bisogno. Il senso stesso della democrazia cambia quando nel suo tessuto sono presenti “servitori dello stato” che dedicano ogni loro capacità allo sviluppo culturale del paese e non antepongono a tutto i propri interessi privati. Edoardo Amaldi era un formidabile lavoratore, spendendosi molto più di chiunque altro perché l’ambiente della ricerca crescesse a favore dei “capaci e meritevoli”, laico, libero, riconosciuto internazionalmente, altruista, pacifico, aperto ai giovani, al riparo dalla sciatteria e dall’incompetenza. Forse, non a caso i suoi referenti fuori dell’ambiente accademico ristretto della fisica erano personaggi come gli “Amici del Mondo”, la rivista che aveva portato l’attenta riflessione sulle responsabilità nella gestione della cosa pubblica. Come, non a caso, Amaldi era uno strenuo promotore della collaborazione attiva in strutture scientifiche adeguate aperte alla comunità scientifica mondiale: l’Istituto di Fisica Nucleare in Italia, il CERN e l’Agenzia Spaziale in Europa, la comunità del disarmo, la comunità per i diritti civili nel mondo. Quando, nel 1982, mettemmo in piedi l’Unione Scienziati per il Disarmo (USPID), la “benedizione” di Amaldi fu per noi il più importante riconoscimento del fatto che eravamo su una buona strada: non sono molte, ormai, le persone con l’autorevolezza necessaria a “certificare” l’avvio di una impresa nuova; Amaldi era anche il nostro miglior passaporto per stabilire relazioni con ogni paese e co7


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munità scientifica del mondo. La sua notorietà superava forse quella di quasi ogni altro italiano, grazie alla molteplicità dei suoi interessi. Voglio solo aggiungere ancora, a queste parole di grata e sincera ammirazione incondizionata, due commenti che possono essere utili a chi legge. Il primo riguarda lo stile con cui Edoardo Amaldi rientrava nella sua veste di professore, senza altro pretendere, alla scadenza di ogni suo “alto” incarico. Se ci si riflette, è una dote eccezionale, esemplare, istruttiva. Sta a significare che l’importante è fare bene ciò che si fa, di qualunque attività si tratti: insegnamento, ricerca, programmazione, sono tutte “nobili arti” da realizzare con il più totale impegno. È questo che si legge nei testi di storia scientifico che Amaldi ci ha lasciato. Il secondo commento riguarda la sua devozione riconoscente a chi, prima di lui, aveva ammodernato il polveroso sviluppo scientifica di un paese con altra tradizione culturale dominante, come il nostro. L’epico avvicendarsi di Orso Mario Corbino a Pietro Blasena e poi di Enrico Fermi a Corbino e poi di Amaldi a Fermi riassume la storia del riscatto dell’Italia dalle nebbie dell’irrazionalità e dell’arretratezza. Ogni ricordo di questi scienziati e di Amaldi in particolare, non può che finire coralmente con un: Grazie! ■

Carlo Bernardini, fisico, è professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma. Ha collaborato alla costruzione del primo elettrosincrotrone italiano e del primo anello di accumulazione, AdA. È autore di saggi e opere di divulgazione scientifica. Dal 1976 al 1979 è stato senatore, come indipendente del Partito Comunista. È direttore della rivista scientifica Sapere. 8


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Oltre la torre d’avorio: scienza e società Pietro Greco

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ento anni fa, il 5 settembre 1908, nasceva a Carpaneto Piacentino Edoardo Amaldi. Figlio di un grande matematico, Ugo, sarebbe diventato a sua volta un grande fisico, collaboratore tra i più stretti di Enrico Fermi e anche suo amico. Edoardo Amaldi e la moglie Ginestra furono i testimoni delle nozze che Enrico e Laura Capon celebrarono il giorno prima di lasciare l’Italia sul finire del 1938. Per tutta l’attività scientifica svolta fino al 1938 con Fermi e con i «ragazzi di via Panisperna» e dopo il 1938, senza Fermi, fino al giorno della sua morte, il 5 dicembre 1989, soprattutto coi colleghi del Dipartimento di Fisica dell’Università la Sapienza di Roma, Edoardo Amaldi merita certamente di essere annoverato tra i più grandi fisici italiani del XX secolo. Tuttavia per tutto quanto ha fatto dopo aver salutato Enrico Fermi e Laura Capon il 6 dicembre 1938 alla stazione Termini di Roma, merita di essere definito – insieme, forse, al matematico Vito Volterra – come il più grande costruttore di relazioni tra scienza e società che abbiamo avuto in Italia nel secolo scorso. È a questo aspetto della storia e della personalità del fanciulletto – come era chiamato a via Panisperna – che Scienza & Società dedica il dossier di questo numero. Non solo perché la nostra rivista si occupa proprio di questo, dei rapporti tra scienza e società. Ma perché – come abbiamo già scritto nell’editoriale dello scorso numero – la lezione di Edoardo Amaldi in questo campo è più che mai attuale. Essa consiste di una serie di passaggi concatenati, all’origine dei quali c’è la buona ricerca di base. Nell’assumersi il compito di ricostruire la fisica italiana dopo il “disastro” (la definizione è sua) provocato dalle leggi razziali e dalla guerra fascista, Amaldi opera, con successo, per restituire all’Italia la capacità di fare fisica di punta, scegliendo con attenzione i pochi settori su cui puntare e unendo le forze dell’intera comunità dei fisici italiani. È da questa sua intuizione e dalla collaborazione intelligente di una serie 9


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di altre persone come Gilberto Bernardini, che nasceranno strutture organizzative inedite come l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e laboratori – come quelli nazionali di Frascati – grazie ai quali la fisica italiana delle alte energie si conquista una posizione di primo piano nel mondo. Amaldi comprende meglio di altri che per fare ricerca di punta un paese deve avere non solo buoni progetti e buoni laboratori, ma anche luoghi di formazione di assoluta avanguardia. E comprende che la ricerca di base e l’alta formazione nel nuovo mondo emerso dalla guerra sono una leva per lo sviluppo complessivo del paese. Fonte di conoscenze per la ricerca applicata, l’innovazione tecnologica, il progresso civile e l’aumento della ricchezza economica. Il suo impegno per assicurare all’Italia una autonoma capacità di sviluppo nei settori dell’energia (in primo luogo dell’energia nucleare) e, più in generale, dell’innovazione tecnologica – prima e anche dopo il «processo Ippolito» – non è meno intenso e meno importante del suo impegno nella ricerca di base. La «grande sconfitta» conseguente all’arresto e alla condanna del geologo napoletano all’inizio degli anni Sessanta appaiono ad Amaldi – e sono – l’inizio di quel declino del paese che assume proporzioni macroscopiche all’inizio degli anni Novanta e sono tuttora vive: perdendo la capacità di produrre in maniera autonoma le tecnologie di punta più avanzate, l’Italia perde inevitabilmente la capacità di reggere il passo delle economie di punta fino a trovarsi virtualmente fuori dalla società della conoscenza. L’impegno per così dire nazionale di Amaldi per lo sviluppo della scienza e della società del suo paese non gli fanno perdere la consapevolezza della dimensione internazionale dell’impresa scientifica. Anzi, una delle sue più straordinarie capacità è quella di saldare in una sola queste due dimensioni. Ne viene fuori all’inizio degli anni Cinquanta il CERN di Ginevra: che non è solo il più grande laboratorio di fisica al mondo, ma costituisce il primo nucleo di condensazione dell’attuale Unione Europea. Amaldi ha voluto – contro il parere di molti fisici americani ed europei – che il continente si dotasse di un laboratorio comune: l’unico modo che aveva la frammentata e semidistrutta Europa di competere con la ricca e coesa America. Eppure ancora oggi l’Unione non ha imparato a ragionare alla moda di Amaldi (e di Antonio Ruberti): di effettivo spazio europeo comune della ricerca, che lungi dall’inibire consente di esaltare la scienza dei singoli paesi, proprio come è avvenuto con la fisica delle alte energie. La capacità di «pensare europeo» di Amaldi ha nell’ESA, l’agenzia spaziale continentale, un altro clamoroso frutto. Ma Amaldi ha anche forte la consapevolezza della responsabilità sociale degli scienziati. La terza espres10


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sione del suo lavoro differenziato, ma coerente, di tessitura dei rapporti tra scienza e società riguarda la pace e la necessità di impegnarsi, al solito con grande rigore, per il disarmo nucleare. Da questa ennesima intuizione – da questa ennesima vocazione che coinvolge tanti suoi colleghi – nasce l’Unione Scienziati per il Disarmo. Amaldi sembra avere, dunque, una visione illuministica della scienza: come valore culturale in sé, ma anche come fattore di progresso civile ed economico e come strumento di pace. Una visione che, alla luce della sua passione laica e della sua determinazione, assume la fisionomia di un’autentica lezione. La lezione di Amaldi su come costruire i rapporti tra la scienza e la società. ■

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Ginevra, settembre 1958. 12

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La rinascita della fisica italiana Luciano Maiani

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icorre quest’anno il centenario della nascita di Edoardo Amaldi e diverse istituzioni e università si preparano a celebrare l’evento. A ragione: Amaldi è stata una figura centrale nella fisica e nella società italiana del secolo scorso, come ben illustrato dagli articoli di questa rassegna. Uno dei ragazzi di via Panisperna che hanno aperto, con Enrico Fermi, la via delle applicazioni pacifiche della fissione nucleare, Amaldi ha attraversato da protagonista tutta l’epoca d’oro della fisica fondamentale del Novecento. Ma Amaldi è stato qualcosa di più. Nel nostro paese e in Europa, Amaldi è stato tra le menti illuminate che hanno percepito l’importanza della collaborazione internazionale nella ricerca moderna e che hanno lanciato l’Italia e l’Europa nella fisica delle particelle – con la creazione dell’INFN e del CERN – nella fisica spaziale – con l’ESA – nelle applicazioni pacifiche dell’energia nucleare – con il CNEN – e, negli ultimi anni della sua vita, nelle discussioni sul disarmo nucleare. A Roma abbiamo celebrato i suoi settant’anni, nel 1978, con una grande conferenza internazionale che si è svolta nel Dipartimento di Fisica della Sapienza. In quell’occasione, Amaldi tenne un discorso sulla Fisica in Italia nel periodo che va dal 1939, anno della partenza di Fermi dall’Italia a seguito delle leggi razziali, al 1954, anno della nascita del CERN e dell’INFN. Dal suo racconto emerge chiaramente come proprio negli anni bui della guerra la sua leadership nella fisica italiana ha preso forma e si è consolidata. Con pragmatismo, lucidità e un incrollabile ottimismo, Amaldi era riuscito in quegli anni a concentrare a Roma le forze migliori della fisica italiana che, formate sotto la guida del grande Fermi e dell’altrettanto grande Bruno Rossi, rischiavano di disperdersi verso lidi più sicuri dopo la partenza dei capiscuola. La scuola romana riusciva così a mantenere un livello eccezionale nella ricerca fondamentale, nel campo allora nascente della fisica delle particelle, anche andando a reperire valvole e altro materiale scientifico sulle bancarelle dei residuati bellici e grazie a personalità come Gilberto Bernardini, Oreste Piccioni, 13


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Ettore Pancini e Marcello Conversi. Proprio dagli ultimi tre veniva un risultato di valore eccezionale, ottenuto nel periodo che va dall’occupazione nazista alla liberazione di Roma: la dimostrazione sperimentale che la particella osservata dieci anni prima nei raggi cosmici non poteva essere il portatore delle forze nucleari, il tanto atteso mesone preconizzato dal fisico giapponese Hideki Yukawa. Lo stesso Amaldi ci racconta alcuni aspetti della storia di questo esperimento che starebbero bene in un film neorealista. Nel 1943, l’apparato con cui lavoravano Conversi, Pancini e Piccioni era installato nell’Istituto di Fisica G. Marconi, nell’attuale sede dell’Università la Sapienza. Nel luglio del 1943, ci fu il bombardamento di San Lorenzo e alcune bombe caddero proprio accanto all’Istituto di Fisica. Amaldi e gli altri decisero quindi di trasportare l’apparato in un luogo prossimo al Vaticano, reputato giustamente una zona più sicura. La scelta cadde sul Liceo Virgilio, a Via Giulia, e il trasporto fu organizzato dagli stessi fisici, nella Roma occupata. Nel racconto di Amaldi: “con l’ autorizzazione del Preside […] (l’ apparato) fu trasportato verso la fine del luglio 1944 su un carretto a mano. Io li accompagnai sulla mia bicicletta lungo Via Nazionale e Corso Vittorio Emanuele. Talvolta precedevo il carretto, talvolta lo seguivo, cercando di prevenire dei possibili incidenti stradali e chiedendo ai poliziotti sulla strada di darci la precedenza”. L’importante era riuscire a lavorare sulla particella osservata nei raggi cosmici. Alla fine del ’46, in viaggio negli Stati Uniti, Amaldi veniva raggiunto da una lettera di Piccioni con la conferma del risultato. In questo modo, lo si poteva illustrare direttamente a Fermi e alla più vasta comunità scientifica USA. Si apriva una discussione che si sarebbe chiarita solo un anno dopo, con la scoperta della “vera” particella di Yukawa da parte di Cecile Powell, Giuseppe Occhialini e Cesare Lattes. La rinascita della Fisica italiana nel dopoguerra è stata tenuta a battesimo da una conferenza organizzata da Giovanni Polvani per celebrare il bicentenario della nascita di Alessandro Volta, che si celebrò a Como, pochi mesi dopo la liberazione di Milano. La situazione di quei giorni, di nuovo, si coglie bene nella descrizione di Amaldi, che si recò alla conferenza partendo da Roma, insieme ad Amedeo Giacomini, allora direttore dell’Istituto O. Corbino. “Abbiamo raggiunto la nostra destinazione dopo un viaggio di 36 ore, con i nostri zaini pieni di provviste, dopo aver attraversato a piedi ponti di fortuna su alcuni fiumi, sulle rive dei quali i treni, in gran parte composti da carri bestiame, dovevano fermarsi. Questa fu la prima riunione dei fisici del Centro e del Sud d’Italia con quelli del Nord”. 14


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Da quella riunione hanno avuto origine gli sviluppi che sono descritti in questa rassegna e dai quali emerge il ruolo centrale di Edoardo Amaldi nella costruzione dell’Italia e dell’Europa appena uscite da una guerra disastrosa. La prima occasione fu la costruzione della prima macchina acceleratrice di particelle europea, propiziata da Amaldi e da Pierre Auger, allora Direttore Scientifico dell’UNESCO. Guardando più lontano, una recente storia del CERN afferma: «Il loro scopo […] era di svegliare l’Europa, attraverso la costruzione di un acceleratore gigantesco, per farle capire l’urgenza e la necessità di sviluppare la ricerca scientifica fondamentale su grande scala, come stava accadendo negli Stati Uniti nel clima del dopoguerra». Forse dovremmo ritornare su questi concetti per ritrovare una strada che l’Europa sembra aver perso in questi anni di incertezza e di confusione. Le celebrazioni di Edoardo Amaldi ci possono fornire un’occasione propizia. ■

Luciano Maiani è professore di Fisica teorica all’Università di Roma La Sapienza. Dal 1993 al 1997 è stato presidente dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e dal 1999 al 2003 direttore generale del CERN. Ha svolto ricerche e ottenuto risultati fondamentali nel campo della Fisica teorica delle particelle elementari e dal 2008 è presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). 15


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Lessico familiare Ugo Amaldi intervistato da Vincenzo Napolano

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e descrizioni di piante e animali di Franco Rasetti, le vacanze in montagna con Enrico Fermi ed Emilio Segrè, i racconti del padre sulla costruzione del ‘tubo’ il primo acceleratore di particelle italiano, i ricordi tramandati in famiglia delle lezioni di fisica dopo le gite in montagna. È un pezzo di storia della scienza a popolare la ‘mitologia’ familiare e l’infanzia di Ugo Amaldi, anche egli fisico e ricercatore noto a livello internazionale. Il filo dei suoi ricordi ricostruisce un profilo del padre, Edoardo, da un punto di vista esclusivo e personale, partendo dagli anni della sua infanzia. “Sebbene io sia nato solo nel ’34, l’anno dei ‘neutroni lenti’, dai miei ricordi infantili e dai racconti familiari ho presto preso coscienza del fatto che i ragazzi di via Panisperna non erano semplicemente ricercatori che collaboravano, ma un gruppo di giovani che, legati da una profonda amicizia, vivevano insieme, scherzando e facendo sport, e condividevano viaggi, letture ed esperienze intellettuali”. All’interno del gruppo di collaboratori e amici si scambiano libri, letti quasi sempre in lingua originale, di Musil, Mann, Proust, Hesse… Assieme si va a teatro e si gioca a tennis. Tutti amano la montagna e in particolare Amaldi e Segrè, che sono i più bravi nelle ferrate e nelle scalate. “Mio padre era uno scalatore e un escursionista esperto, tanto che di alcune delle loro imprese restano tracce negli annali del C.A.I., oltre che bellissime fotografie. Ognuno dei ‘ragazzi’ d’altronde aveva le sue peculiari note caratteriali e umane oltre che un’attitudine ad aspetti differenti del lavoro scientifico”. Se Fermi era il ‘Papa’, leader indiscusso per carisma e grandezza scientifica, e Rasetti il ‘Cardinal Vicario’, il vero naturalista curioso di tutto e dotato di una memoria straordinaria, oltre che di un’estrema meticolosità nella realizzazione degli esperimenti, Emilio Segrè era il ‘Basilisco’ ed Edoardo ‘il Fanciulletto’. “Era lui a curare quella che oggi si chiamerebbe l’elettronica, si distingueva – come traspare anche da alcuni brani di Atomi in famiglia e nei ricordi di Laura Fermi – per la sua generosità e attenzione agli altri”.

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Amaldi, Wick, Fermi con le loro famiglie a Ostia nel 1936.

Il 1934 fu l’anno formidabile in cui il gruppo romano di giovani fisici guidati da Enrico Fermi scopre la radioattività artificiale prodotta dai neutroni – veloci e lenti – e produce, senza saperlo e per la prima volta al mondo, la fissione del nucleo atomico. Anno che sarà ancor più straordinario per Edoardo Amaldi. “Mio padre mi raccontava di una ‘memorabile vacanza’ del gruppo a Santa Cristina in Val Gardena nell’inverno del ’33. Durante quella vacanza, Fermi aveva spiegato ai suoi ragazzi seduti sul letto di una piccola camera d’albergo la teoria del decadimento debole e Ginestra, mia madre, gli aveva annunciato che aspettava un bambino. Sarei nato nell’agosto dell’anno successivo”. 17


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Amaldi arrampica in un cammino delle Dolomiti, estate 1926. 18


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Quegli anni naturalmente sono cruciali per la formazione e l’attività scientifica di Edoardo, ma anche per la vita dell’intera famiglia. La straordinaria avventura intellettuale e umana che stavano attraversando coinvolgeva con una dedizione e passione totalizzanti non solo i cinque fisici, ma anche le loro famiglie. “Era mia madre – racconta Ugo Amaldi – che lavorava alla redazione della “Ricerca Scientifica”, a portare le bozze degli articoli scientifici del gruppo alla rivista e a inviarne copia, prima ancora della pubblicazione, ai più importanti fisici dell’epoca, con una prassi che preannunciava i moderni ‘pre-print’”. Ginestra ed Edoardo si erano incontrati qualche anno prima proprio nelle aule dell’Istituto di Fisica di via Panisperna. Ginestra, che studiava fisica per divenire astronoma, è una ragazza bella e indipendente, determinata a non sposarsi per perseguire la sua passione per l’astronomia. “Del resto anche mio padre era attraente: ‘Adone’ era un altro dei soprannomi usati nel gruppo. Il momento cruciale del loro incontro fa parte dei racconti di famiglia. Mio padre, che faceva il servizio militare vicino a Roma, era andato in Istituto vestito da cavallerizzo e, seduto di traverso sull’angolo di uno dei tavoli da laboratorio di via Panisperna, batteva gli stivali con il frustino. Nello stesso laboratorio mia madre, con altri giovani studenti e ricercatori, faceva laboriosi calcoli su rumorose macchine calcolatrici. E lì scoccò quella passione, per cui Ginestra rinunciò al suo proposito di non sposarsi e, dopo essersi laureata in astronomia, si dedicò alla famiglia e, in parallelo, alla divulgazione scientifica”. Quell’unione fortissima del resto svolgerà un ruolo decisivo anche nelle scelte di Edoardo durante tutta la sua vita influenzando, tra l’altro, gli sviluppi della fisica italiana ed europea. Le diverse sensibilità dei componenti del gruppo si riflettevano naturalmente anche nei modi differenti di avvertire e reagire al disagio sociale e politico dell’Italia fascista. “Edoardo proveniva da una famiglia borghese e profondamente cattolica. I suoi genitori (il padre Ugo era tra l’altro un importante matematico) erano pronti ad aiutare coloro che avevano bisogno: avevano ospitato nelle loro abitazioni per molti mesi, durante e dopo sia la prima che la seconda guerra, famiglie di sfollati. Non avevano però coscienza della situazione sociale del loro tempo. Furono soltanto le chiacchierate con Emilio Sereni, cugino di Bruno Pontecorvo, che diverrà poi un noto intellettuale antifascista e comunista, ad aprire a mio padre gli occhi sulle questioni sociali”. Amaldi non diventa comunista, ma matura una profonda sensibilità per le situazioni politiche e sociali dell’Italia, che non condivide con gli altri ‘ragazzi’, indifferenti o inclini a una visione strumentale della politica, ad esclusione naturalmente di Pontecorvo. “Tutti però avvertivano acutamente il disagio della condizione storica dell’Ita19


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Ginestra Giovene sulla Balilla regalatale dal nonno Nestore per la laurea.

lia. Nel 1935, quando il gruppo si dissolse e Fermi e mio padre continuarono a lavorare ai neutroni lenti facendo molte scoperte, parlavano del lavoro come di “Soma”, la droga che nel romanzo Brave New World di Aldous Huxley serve agli uomini per far dimenticare la durezza della società in cui vivevano”. Il regime fascista a ogni modo avrebbe completamente dissipato l’incredibile potenziale scientifico e intellettuale del gruppo, disattendendo del tutto le speranze che il direttore dell’Istituto di Fisica, Mario Orso Corbino, e lo stesso Fermi, avevano coltivato. Dopo la partenza di Fermi dall’Italia, Amaldi continua a lavorare insieme a Rasetti al progetto, intrapreso già da qualche anno da Domenico Marotta e Fermi, dell’installazione di un acceleratore Cockroft and Walton all’Istituto di Sanità. Sono di questi anni i racconti del ‘tubo’, come Edoardo chiama in casa l’acceleratore. “Ricordo il mio stupore quando sentivo il Babbo raccontare che il ‘tubo’ faceva i capricci, qualche volta addirittura ‘sputava’ e che, talvolta, veniva riparato coprendolo di ‘sangue di pollo’. Così la fisica nucleare, a cui mi sarei dedicato per tutta la vita, è entrata nei miei ricordi coscienti”. 20


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Presto anche Rasetti lascia l’Italia per il Canada. Amaldi si imbarca sulla stessa nave che porta l’amico verso il Québec, diretto a sua volta negli Stati Uniti, con lo scopo di raccogliere informazioni dettagliate per la costruzione di un ciclotrone italiano. Visitando diversi laboratori si informa anche sulle possibilità di un trasferimento della sua famiglia in quel paese. La convinzione di Ginestra di restare in Italia e lo scoppio della guerra, il 1º settembre del ’39, lo avrebbero però riportato in patria. “Non so quanto mio padre abbia mai veramente creduto alla possibilità di abbandonare il suo paese, ma certamente mia madre era da sempre fermamente contraria. In parte perché non voleva lasciare i genitori, in parte, credo, per la fiducia che continuava a nutrire nell’Italia, non consapevole fino in fondo, a differenza di mio padre, della catastrofe che presto l’avrebbe inghiottita e anche per il dovere, a cui richiamava Edoardo, di non abbandonare l’Istituto, i suoi assistenti e allievi”. Nei suoi scritti Amaldi ricorderà quel suo primo viaggio negli USA come il momento in cui comprese le enormi responsabilità che lo aspettavano al rientro “e per le quali non si sentiva minimamente preparato”. Aveva trentun’anni, una moglie, due figli e un terzo in arrivo, ma – partiti i suoi compagni più ‘anziani’ – ora spettava a lui, rimasto solo, prendere le decisioni importanti e tirare le fila della “politica scientifica”, compiti di cui fino ad allora non si era mai occupato. Nonostante i disastri della guerra sarebbe riuscito nuovamente, insieme a Gilberto Bernardini, a riunire e mettere al lavoro gli studenti più bravi e mo-

Edoardo e Ginestra in navigazione verso l’America, settembre 1946. 21


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tivati, alimentando, mentre le bombe alleate cadevano sulla città di Roma, gli esperimenti sui raggi cosmici, “che erano divenuti per noi un simbolo della nostra volontà di continuità culturale e politica”, come scrisse in seguito. “Proprio il gruppo dei suoi colleghi e allievi era con la nostra famiglia in una vacanza in montagna, in Abruzzo, quando arrivò la notizia dell’esplosione della prima bomba atomica. ‘Allora l’hanno fatta’ fu il suo commento laconico. Pur essendosi battuto dal ’45 in poi contro l’uso militare dell’energia nucleare, su questo tema mostrò sempre un’onestà intellettuale esemplare. Avrebbe potuto evitare di prendere parte. Invece in seguito dichiarò che, se fosse stato negli USA, dopo lunga meditazione, anche lui avrebbe accettato di partecipare al progetto Manhattan per il timore che il nazifascismo arrivasse per primo alla realizzazione dell’arma nucleare”. Nel ’46 Amaldi visita nuovamente gli Stati Uniti per riallacciare i contatti con i suoi vecchi amici, informarsi delle ultime scoperte e per presentare i risultati scientifici ottenuti in Italia durante la guerra. In particolare la scoperta del ‘muone’, fatta nel ’45 – osservando i raggi cosmici – da Pancini, Conversi e Piccioni. Si trattava di un risultato clamoroso, secondo lui senz’altro meritevole del premio Nobel. “Questo secondo viaggio, insieme alla mamma, durò a lungo e fece temere a molti dei suoi collaboratori un possibile abbandono, tanto che al loro ritorno il gruppo li accolse alla stazione con lacrime e abbracci e Pancini prese sottobraccio mia madre e, allontanandosi dal gruppo, le disse ‘Grazie Ginestra per avercelo riportato’”. “Io avevo dodici o tredici anni e ricordo distintamente questa enorme montagna di piccoli fili di metallo infilati in misteriosi cilindretti che noi ragazzini dovevamo districare e separare in base al colore delle bande che portavano […] Era finita la guerra e il materiale elettrico dismesso dagli apparati bellici americani veniva catalogato e “riconvertito” dai fisici ai fini scientifici. I nostri genitori si facevano aiutare a separare le resistenze elettriche, che volevano utilizzare per gli esperimenti, e noi lo prendevamo come un gioco, almeno all’inizio […]”. Da questo panorama di precarietà e povertà devastanti, ma anche di tenacia inventiva la ricerca scientifica prova a ripartire e prende le mosse l’azione di Amaldi, fondamentale, prima, per ricostruire la fisica italiana e, in seguito, come promotore e organizzatore della ricerca italiana ed europea. “Eppure nella vita personale e familiare restò sempre una persona molto semplice, frugale. Non amava i fasti e le cerimonie pubbliche ed era un instancabile lavoratore, molto preciso e ben organizzato. Era severo, forse più con sé che con gli altri, e qualche volta su alcuni 22


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La famiglia Amaldi nel 1948: Ugo, Ginestra, Franceso e Daniela in braccio a Edoardo.

principi diveniva anche duro. Non sopportava ad esempio le superstizioni e gli oroscopi e ogni discorso al riguardo lo faceva molto adirare. Apprezzava chiunque facesse il proprio lavoro con entusiasmo e impegno e ci spronava sempre al lavoro e all’attività, anche quando si era in vacanza. Ricordo, ad esempio, quando festeggiava con la mamma il capodanno con un paio d’ore di anticipo (la chiamava ‘la mezzanotte convenzionale’) per potersi svegliare la mattina dopo alla solita ora e andare a sciare, come sempre, alle otto e un quarto sulle piste deserte, mentre noi dormivamo fino a tardi. Fu per tutta la vita, fino alla malattia che immobilizzò mia madre, un grande sportivo”. L’intransigenza e la dirittura morale di Amaldi d’altronde traspaiono da tutti gli atti della sua vita pubblica, come la rinuncia a essere il primo direttore gene23


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rale del CERN. “Mi disse che aveva un grande desiderio di tornare a fare ricerca a tempo pieno e, per di più, non ammetteva che qualcuno potesse pensare che avesse lavorato alla costituzione del CERN per poi divenirne il direttore”. Già nel dopoguerra Amaldi sviluppa inoltre una coscienza molto acuta della necessità di educare le nuove generazioni alla cultura scientifica. Ginestra all’epoca ha già scritto un libro di divulgazione scientifica con Laura Fermi – Alchimia del tempo nostro – e insieme pubblicano un primo volumetto per l’insegnamento della fisica negli Istituti Commerciali. “Da lì si avviò la produzione di una serie di testi di fisica per scuole medie e superiori di ogni ordine e grado, che sono il risultato di una collaborazione strettissima, ma non facile, tra Edoardo e Ginestra. Causando praticamente le uniche occasioni in cui li ho sentiti litigare. Ginestra infatti scriveva nel modo più piano possibile rinunciando talvolta alla completezza per essere più chiara”. Avrebbe scritto anche libri per i giovani tradotti in molte lingue e animato programmi televisivi e radiofonici tanto che, negli anni Sessanta, al grande pubblico era più nota di suo marito. Edoardo invece voleva evitare ai ragazzi l’illusione che la fisica fosse tanto facile da non aver bisogno di impegno personale. Da buon cavallerizzo egli sapeva, che ‘se si vogliono avere dei cavalli da corsa bisogna mettere la greppia alta, per sviluppare i muscoli pettorali e avere un certo portamento’. Nasce così la tradizione dei celebri manuali di fisica per le scuole superiori, pubblicati dalla casa editrice Zanichelli, continuata dopo la morte del padre da Ugo Amaldi. “Trovo ancora oggi eccezionali l’amore, la dedizione e l’unità di intenti che animarono la relazione tra i miei genitori per tutta la loro vita. Mai intravidi tra loro contrasti o dissapori, pur nella differenza di idee. Mia madre, ad esempio, era una fervente cattolica, mentre mio padre non era credente, ma acconsentì all’educazione religiosa dei figli; mai li sentii discutere su questo argomento, anche se egli criticava fortemente alcune prese di posizione delle gerarchie ecclesiastiche. Quando poi nel ’71 mia madre, a causa della rottura di un aneurisma cerebrale, restò parzialmente paralizzata, la dedizione di mio padre nei suoi confronti crebbe a dismisura, fino a volerla accudire in prima persona e a rinunciare a sciare, alla montagna e a molti viaggi, ‘perché la mamma non può più’. Ricordo con affetto, ad esempio, come emergeva puntualmente dal suo studio, per scambiare con mia madre il “segno di pace” della messa, che ogni domenica lei ascoltava alla televisione”. Nella vita pubblica, però, il ‘fanciulletto’ di via Panisperna, si mostrò capace di grande tenacia e fermezza e anche di una certa durezza, senza mai chinare il capo di fronte ai politici né cedere ai contestatori del ’68, non altrettanto intransigenti verso se stessi. “È celebre l’episodio che lo contrappose al24


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l’allora ministro dell’Industria Togni, all’epoca del processo Ippolito, così come il moto d’ira in diretta televisiva in occasione del referendum sul nucleare. Quando da Ginevra, gliene chiesi per telefono la ragione “È vero Ugo, mi disse, ho un po’ esagerato, ma, lo sai, non sopporto che non mi lascino parlare”. Lo ha dimostrato, a nostro beneficio, per tutta la sua vita, e oggi ne avvertiamo la mancanza. ■

Edoardo Amaldi all'inizio degli anni Sessanta.

Ugo Amaldi, fino al 2006 docente di Fisica medica all’Università di Milano Bicocca, ha svolto un’intensa attività di ricerca e ottenuto importanti risultati in vari settori della Fisica. Ha creato e presiede la “Fondazione Tera”, che ha lo scopo di realizzare il Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica (CNAO). 25


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I fisici in rete: l’INFN Giovanni Battimelli

“S

olo assai recentemente il Consiglio Nazionale delle Ricerche, con l’istituzione di un Centro di Fisica Nucleare presso l’Istituto Fisico dell’Università di Roma, è venuto incontro alle necessità più immediate degli studi riguardanti le proprietà del nucleo e le sue applicazioni… è però evidente che con questo non si risolve che una parte di un aspetto particolare del problema, il quale, per altro, merita di essere affrontato in maniera ben più radicale”. Siamo all’inizio del 1946, ed Edoardo Amaldi è in piena attività per cercare sostegno e risorse per la ripresa delle ricerche di fisica nucleare in un paese stremato dalla guerra da poco terminata. Invia al chimico Luigi Morandi, fratello del ministro dell’Industria e Commercio Rodolfo Morandi, e all’amministratore delegato della FIAT Vittorio Valletta un circostanziato rapporto sulla situazione del settore, prospettando in dettaglio i passi necessari per affrontare adeguatamente il problema generale, esaminando di questo i differenti aspetti: la ricerca fondamentale nella fisica delle particelle elementari e della fisica nucleare propriamente detta, lo studio del nucleo in vista di possibili finalità applicative, la prospettiva dell’utilizzo dell’energia nucleare a scopi civili. Dei vari centri della fisica italiana, Roma è certamente quello che esce dalla fine della guerra nelle migliori condizioni; Amaldi si è adoperato per concentrarvi quasi tutto ciò che è rimasto in piedi dell’attività di ricerca, in termini di uomini e di attrezzature. La costituzione nell’ottobre del 1945 del Centro di studio del CNR (la cui denominazione completa è “Centro di studio della fisica nucleare e delle particelle elementari”), con sede presso l’istituto di fisica dell’università, riflette questa situazione di fatto. È il primo passo in direzione della soluzione dell’aspetto del problema generale più direttamente legato alla ricerca fondamentale, che si avrà nel giro di pochi anni con la costituzione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Si tratta di un processo intricato che vede in azione molti protagonisti: fisici, industria26


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li, uomini ai posti chiave delle principali istituzioni scientifiche nazionali. Tra questi, Amaldi svolge un ruolo particolare, nella fase di fondazione dell’Istituto e nei suoi primi anni di vita, e per varie ragioni. Senza entrare nei dettagli della storia dell’Istituto, le ricordiamo sommariamente nel seguito. A partire dal 1936, Amaldi resta di fatto l’unico, del gruppo originario di via Panisperna, a mantenere una collaborazione continua con Enrico Fermi, fino alla sua definitiva partenza nel dicembre del 1938. È dunque testimone diretto dei vani tentativi fatti da Fermi in quegli anni per mantenere la fisica fondamentale italiana a un livello competitivo sul piano internazionale, dotandola di quei mezzi e di quelle strutture di ricerca divenuti ormai indispensabili. Anche se Amaldi non è coinvolto in prima persona nella gestione di queste trattative, è del tutto ragionevole ritenere che l’averle osservate da posizione privilegiata, grazie allo stretto contatto con Fermi, abbia fatto maturare in lui una duplice convinzione, che sarà il filo conduttore delle sue manovre di politica scientifica negli anni del dopoguerra; la necessità per la fisica italiana di attrezzarsi con istituzioni di respiro nazionale, superando definitivamente la gabbia dei localismi dei singoli istituti universitari, e l’inadeguatezza del CNR a operare efficacemente in questa direzione, tanto per la cronica insufficienza di mezzi finanziari quanto, e forse più, per la paralisi derivante dalla logica di spartizione a pioggia dei pochi fondi disponibili imposta dai conflitti di interesse delle varie realtà locali rappresentate nei comitati dell’ente. Il programma originale del Centro di Roma, che prevedeva anche la costruzione di una macchina acceleratrice, si rivela presto eccessivamente ambizioso; alla fine del 1946 un viaggio negli Stati Uniti mette Amaldi a diretto confronto con l’abisso che si è scavato tra la disastrata situazione della ricerca in Italia e il salto di scala che la fisica sta conoscendo invece oltreoceano. La realtà della situazione conduce Amaldi e Gilberto Bernardini, che insieme sono in questi primi anni del dopoguerra la coppia trainante della ricostruzione (Amaldi stabilmente a Roma, Bernardini in perenne oscillazione tra l’Italia e gli Stati Uniti) a limitare l’attività di ricerca al settore dei raggi cosmici, dove non sono necessari mezzi finanziari ingenti ed esistono nel paese le competenze necessarie, come prova il brillante risultato ottenuto in quei mesi dal trio Conversi, Pancini e Piccioni. La stessa scelta sarà fatta dai Centri che si formano negli anni successivi (Padova nel 1947, Torino nel 1951 e Milano nel 1952), che insieme a Roma diventeranno le prime quattro sezioni dell’Istituto; a dispetto del “nucleare” che compare nella designazio27


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Edoardo Amaldi, Gilberto Bernardini ed Ettore Pancini al laboratorio della Testa Grigia nel 1948.

ne ufficiale, sarà lo studio delle particelle elementari nei raggi cosmici il fulcro dell’attività dell’INFN nella fase costitutiva e nei primi anni di vita. La prima importante realizzazione del Centro di Roma è il laboratorio della Testa Grigia per lo studio dei raggi cosmici, inaugurato nel gennaio 1948 presso la stazione superiore della funivia del Plateau Rosa a Cervinia. Mentre il progetto e la direzione scientifica sono di Bernardini e Pancini, Amaldi è in questa fase la persona chiave per il reperimento dei fondi necessari. L’esca lanciata verso gli ambienti industriali (sia pubblici che privati) dà i primi frutti; il progetto del laboratorio va in porto grazie a fondi ottenuti dal ministro dell’Industria e Commercio Rodolfo Morandi, integrati da sostanziose donazioni di industriali del Nord. Mentre alla Testa Grigia cominciano le ricerche, che ben presto coinvolgono fisici provenienti da altre sedi, Amaldi continua a svolgere una incessante opera di pressione in tutte le direzioni alla ricerca di supporti finanziari; dietro sua sollecitazione, Fermi interviene 28


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direttamente su Alcide De Gasperi, all’indomani delle elezioni politiche dell’aprile 1948, richiamandone l’attenzione sulla necessità di un sostanziale incremento della dotazione del CNR. L’INFN si costituisce ufficialmente nell’agosto 1951. Il suo primo presidente è Bernardini; Amaldi fa parte del Consiglio Direttivo in quanto direttore della sezione di Roma, insieme ai direttori della altre sezioni Piero Caldirola (Milano), Antonio Rostagni (Padova) e Gleb Wataghin (Torino). In quegli stessi anni, è assorbito dagli impegni legati alla fase di realizzazione del laboratorio europeo, e assume la funzione di segretario generale del CERN provvisorio nel periodo cruciale della gestazione, dal 1952 al 1954. Le scelte programmatiche dell’INFN saranno sempre collegate, nell’ottica di Amaldi, a un disegno complessivo che eviti di fare dei centri di ricerca dell’Istituto una sorta di CERN su scala ridotta, ma li renda intelligentemente complementari a quanto si sta realizzando su più larga scala a Ginevra. Questa complementarità di scelte si manifesta appieno nel percorso che porta alla realizzazione del laboratorio dell’elettrosincrotrone di Frascati, in parallelo con la costruzione del grande protosincrotrone del CERN. Negli anni seguenti si imporranno scelte anche drastiche, dovute all’impossibilità di sostenere insieme la partecipazione ai programmi del CERN e progetti ambiziosi di sviluppo per l’INFN, come quando, alla metà degli anni Sessanta, i fisici italiani dovranno scegliere tra il sostegno al progetto della nuova macchina a Ginevra e l’idea di un protosincrotrone nazionale. Per il suo duplice ruolo all’interno delle due istituzioni, Amaldi sarà in grado di orientare queste scelte secondo le linee sopra indicate. L’evento che configura veramente l’INFN come una novità significativa nel panorama dell’organizzazione del sistema della ricerca italiana è la decisione, presa all’inizio del 1953, di realizzare un laboratorio nazionale dotato di una grande macchina acceleratrice; dal semplice coordinamento di realtà locali radicate negli istituti universitari si punta alla creazione di un centro interuniversitario indipendente con laboratori, officine e servizi propri. Nella vicenda che porta alla costruzione dell’elettrosincrotrone di Frascati, che entra in funzione cinque anni più tardi, Amaldi gioca un ruolo fondamentale nel processo decisionale circa la localizzazione del laboratorio. La scelta di Frascati viene fatta definitivamente nell’aprile 1954 al termine di un periodo di serrato confronto tra le ragioni e le aspirazioni di Milano e Roma, sostenute rispettivamente dal presidente del CNR Colonnetti e dal presidente del CNRN Giordani. D’intesa con quest’ultimo, Amaldi è attivissimo nel sollecitare l’intervento di tutte le autorità pubbliche interessate per mettere sul 29


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piatto della bilancia un’offerta finanziaria che risulti vincente. È in questa circostanza che si salda ulteriormente il rapporto tra Amaldi e Giordani. Sul piano della distribuzione geografica del sistema della ricerca, la scelta di Amaldi è fondata su una valutazione delle risorse che si condensa nella formula “al nord la ricerca applicata sul nucleare, al centro la ricerca fondamentale”, che diventa così “a Milano il reattore, a Roma il sincrotrone”. E il rafforzamento dell’intesa con Giordani – e con il segretario del CNRN Felice Ippolito – segna un passo ulteriore in quel processo di sganciamento dal CNR in direzione dell’autonomia istituzionale che Amaldi vede come fondamentale. Nel 1952 Amaldi fonda a Roma la Scuola di perfezionamento in fisica, per supplire alla mancanza, nell’università italiana, di corsi di approfondimento disciplinare successivi al conseguimento della laurea, analoghi al dottorato del sistema americano e necessari per garantire la buona qualità scientifica dei giovani fisici italiani (un’iniziativa analoga era stata presa da poco al Politecnico di Milano per la formazione di laureati in ingegneria verso le applicazioni civili del nucleare). L’esperienza romana viene ripresa dall’INFN negli anni successivi, e si costituiscono analoghe Scuole di perfezionamento presso le varie sezioni. Pur nella confusione che ancora regna circa l’esatta natura dei rapporti tra istituti universitari e sezioni dell’INFN, e tra queste e il CNRN, fonte di persistenti difficoltà amministrative e finanziarie, le Scuole svolgono a partire dalla metà degli anni Cinquanta un ruolo fondamentale per la preparazione di nuove generazioni di ricercatori, aprendosi sempre più spesso a indirizzi non strettamente connessi alle attività specifiche dell’INFN (in particolare stato solido e basse temperature). Quando serve, l’Istituto sostiene la creazione di una Scuola anche in sedi universitarie presso cui non esiste una sezione INFN; è il caso di Napoli, dove grazie all’interessamento diretto di Amaldi Eduardo Caianiello attiva nel 1957 una Scuola di perfezionamento in fisica teorica e nucleare. Amaldi succede a Bernardini come presidente dell’INFN all’inizio del 1960, e resta in carica fino alla fine del 1965. È un periodo particolarmente travagliato nella vita dell’Istituto, in cui vengono al pettine i problemi di carattere istituzionale e occorre prendere importanti decisioni di carattere amministrativo e scientifico. Sotto la sua presidenza, l’INFN imbocca con decisione la strada dello sviluppo dei laboratori di Frascati nella direzione inaugurata con la realizzazione di AdA, il primo anello di accumulazione per elettroni e positroni, e mette in cantiere la nuova macchina, Adone. E con l’esplosione del caso Ippolito (in cui Amaldi non esita a schierarsi con decisio30


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Gita ai castelli nel 1953. Al centro, dopo Ginestra ed Edoardo Amaldi, il fisico teorico di origine austriaca Bruno Touschek e il fisico di origine ceca George Placzek.

ne in sostegno dell’operato del segretario del CNEN) conflitti e tensioni non risparmiano l’INFN, che pure non è direttamente toccato dalla vicenda, mostrando come sia tuttora irrisolta e cruciale la questione dell’autonomia gestionale e della personalità giuridica dell’ente. La mancata soluzione del problema costituirà per Amaldi “senza alcun dubbio la più importante questione che con rammarico lascio aperta alla fine del mio mandato”. Un altro problema che Amaldi si trova ripetutamente a fronteggiare è la necessità di difendere l’INFN, e in particolare la fisica delle alte energie, dagli attacchi di quanti vorrebbero ridimensionarne le risorse per riequilibrare, in una situazione di stagnazione del finanziamento alla ricerca, il rapporto tra la fisica nucleare fondamentale e gli altri settori della scienza in genere e della stessa fisica: i suoi argomenti a difesa dell’anomala posizione che l’Istituto occupa nel sistema della ricerca italiana possono ben essere posti a conclusione di questa breve panoramica: “È naturale che chi è responsabile della programmazione scientifica e tecnologica nel suo insieme si faccia guidare da finalità di interesse generale per il Paese e che si preoccupi fortemente di quei campi della ricerca che nonostante la loro utilità e importanza socia31


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Messaggio scherzoso del personale dell’Istituto al direttore in missione, 24 febbraio 1949. 32


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le non sono ancora al livello desiderato. Questa preoccupazione non deve però portare a una sottovalutazione delle necessità vitali dei campi che per circostanze storiche vengono a essere più progrediti; in primo luogo perché il semplice fatto di essere oggi a buon livello è come ho già detto il risultato di circostanze assai complesse relative inerenti alla evoluzione scientifica mondiale, alla tradizione scientifica e alla struttura culturale del Paese. In secondo luogo perché una costrizione delle attività più progredite difficilmente risulterebbe di beneficio ad altre, ma al contrario, molto probabilmente, determinerebbe una depressione della ricerca scientifica in generale. Il limitare forzatamente lo sviluppo di un arto di un bambino non ha di solito come conseguenza un maggiore sviluppo di altre parti del suo corpo; e sul piano dello sviluppo scientifico e tecnologico non è forse sbagliato paragonare il nostro Paese a un promettente bambino”. ■

Gianni Battimelli è professore presso il Dipartimento di Fisica dell’Università La Sapienza di Roma. Autore di vari lavori sulla storia della Fisica del Novecento, ha pubblicato Da via Panisperna all’America (Roma, 1997) e, con G. Paoloni, la raccolta di scritti di E. Amaldi Twentieth Century Physics - Essays and Recollections (Singapore, 1998). 33


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L’impegno istituzionale: CNR e dintorni Giovanni Paoloni

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uest’anno non abbiamo concluso molto, salvo qualche lavoro di raggi cosmici, ma è stato duro riorganizzarci nelle nuove condizioni economiche del paese che sono veramente piuttosto cattive. Sono riuscito a far fare al CNR un Centro di Fisica Nucleare con una discreta dotazione annua di sede presso l’Istituto di Fisica; se le condizioni ambientali lo permetteranno potremo fare ancora qualche cosa, altrimenti non ci resterà che emigrare”. Con queste parole Amaldi descrive in una lettera a Fermi, nell’estate del 1945, la situazione in cui si trova il suo gruppo all’Università di Roma. È passato giusto un anno dalla liberazione della capitale il 4 giugno 1944, e davvero l’impegno principale è stata la riorganizzazione istituzionale, pur con risultati precari, dell’attività di ricerca. Gli alleati, appena entrati a Roma, hanno commissariato il CNR affidando il delicato incarico al matematico Guido Castelnuovo: ma il compito che questi si trova davanti, in realtà, è soprattutto quello di difendere il Consiglio dai numerosi attacchi che mirano a ottenerne la soppressione, per togliere di mezzo un concorrente fastidioso nella spartizione delle magre risorse disponibili. Nel dicembre 1944, quando ormai la sopravvivenza del CNR è assicurata, Castelnuovo passa la mano a Gustavo Colonnetti, che nel marzo 1945 riesce a ottenere il varo di un decreto di riorganizzazione che rimane poi alla base delle attività del Consiglio nei primi anni del dopoguerra. Già nel 1944 Castelnuovo aveva designato Amaldi alla presidenza provvisoria di una commissione per l’astronomia e la fisica; successivamente sono ricostituiti d’autorità i comitati, in attesa di poter provvedere con procedure normali, e Amaldi si trova a essere segretario di quello per la fisica e la matematica, con Giuseppe Armellini presidente. È nel contesto normativo stabilito dal decreto del 1945 che egli riesce a ottenere l’istituzione del Centro di studio per la fisica nucleare e delle particelle elementari, che è poi l’antecedente istituzionale della Sezione di Roma dell’INFN. In un contesto in cui la gestione del Consiglio è di fatto demandata al mondo accademico, i centri di studio sono una so-

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Trieste, 1 giugno 1948.

luzione di compromesso tra l’esigenza del CNR di disporre di una rete di ricerca propria e la necessità di finanziare la ricerca universitaria. La natura ibrida dei centri di studio darà luogo a inconvenienti e polemiche ricorrenti, che non è questa la sede per discutere; basti dire però che il solo Comitato di Fisica, che al 1948 ne aveva attivati otto, pochi anni dopo ne ha una sessantina. Amaldi, oltre alla costituzione del Centro di Roma, appoggia la formazione di altri centri analoghi a Padova, Torino e Milano, cioè laddove è possibile far arrivare il finanziamento a gruppi di ricerca pronti a trarne profitto. Ciò risponde a una sua radicata convinzione, espressa anni dopo in un’intervista a Piero Angela: “Non 35


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Riproduzione della lettera del 1948 con cui Enrico Fermi, su suggerimento di Amaldi, chiede ad Alcide De Gasperi maggiori fondi per la ricerca italiana. 36


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si deve pensare che se si raddoppiano i fondi si raddoppiano anche i risultati. Infatti non è tanto la quantità delle persone che conta, ma la loro qualità. […] Del resto ci sono dei limiti pratici, poiché sarebbe una follia allargare un campo di ricerca aumentando fondi e personale più del 20% l’anno. Non è possibile. Non si riesce a formare abbastanza gente preparata, assolutamente”. Dal 1949 al 1955 Amaldi è coinvolto su molti fronti, che trovano all’interno del CNR il loro riferimento istituzionale: insieme ad altri ricercatori, e grazie a una vasta rete di contatti politici che si va costituendo, si impegna per dare vita anche in Italia a un’organizzazione per le ricerche sul nucleare civile; in parallelo, appoggia i progetti per dotare l’Italia di risorse di calcolo adeguate, come il calcolatore elettronico dell’Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo (FINAC) e le importanti iniziative pisane che porteranno poi alla nascita dell’Istituto per l’Elaborazione dell’Informazione. È in questo contesto che nel 1951, all’interno del CNR, si forma l’INFN, in cui confluiscono i quattro centri di studio sulla fisica nucleare, e successivamente, nel 1952, nasce il Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari come organismo congiuntamente dipendente dal CNR e dal Ministero dell’Industria. È a queste due nuove istituzioni e al CERN che Amaldi dedica la sua attività di organizzatore nel prosieguo degli anni Cinquanta, tanto che nel 1956, quando si rinnovano e si dividono il Comitato per la Matematica e quello per la Fisica, egli ne resta fuori. D’altra parte, Amaldi continua a essere presente e attivo nel CNR occupandosi dei programmi spaziali, che costituiscono già dal 1958 un’ulteriore frontiera del suo impegno come politico della ricerca. Negli anni Sessanta il Comitato di Fisica del CNR dedica gran parte delle proprie risorse al finanziamento di quei gruppi la cui attività è al di fuori dell’ambito operativo dell’INFN e del CNEN. Ciò non toglie che sia proprio questo Comitato, di fronte alla crisi che dopo il caso Ippolito investe il progetto ADONE dei Laboratori di Frascati, a intervenire su richiesta di Amaldi per finanziare l’acceleratore lineare che serve a completare la nuova e importante apparecchiatura. Gli anni Sessanta sono un periodo di forti tensioni all’interno della comunità scientifica italiana e nei rapporti di questa col mondo politico; queste tensioni non possono non coinvolgere una personalità influente come Amaldi. Per il fisico romano si tratta di un periodo complicato, segnato da delusioni personali (il mancato riconoscimento dei risultati ottenuti sull’antiprotone) e da rilevanti questioni istituzionali (il caso Ippolito e l’autonomia dell’INFN in primo luogo). Le vicende giudiziarie che nel 1963-1964 investono Felice Ippolito e poi Domenico 37


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Marotta sono vissute da Amaldi come la sconfitta di un progetto di sviluppo scientifico, industriale e civile di cui si era sentito partecipe; questa percezione è condivisa da una parte significativa della comunità scientifica, che però trova in lui e nella sua coraggiosa testimonianza un punto di riferimento. È scoraggiato dall’insipienza del mondo politico: “Ogni partito ha un ufficio che si occupa della ricerca e quasi sempre lo affidano a una persona inverosimile, una persona incompetente e non di rado cretina. È una gravissima mancanza non capire che queste cose vanno fatte sul serio. È proprio un caso di stupidità che uccide”. A questo si aggiunge la sua critica severa alla contestazione del 1968, la difficoltà, per un breve momento, nel rapporto coi ricercatori più giovani. Negli anni Settanta Amaldi ritorna all’impegno nel CNR, assumendo la presidenza del Comitato di Fisica dal 1971 al 1978. Le linee direttive della sua proposta sono: a livello di Comitato la necessità di favorire il più vasto coordinamento possibile delle attività di ricerca attraverso la nascita di nuovi istituti che riuniscano i vari gruppi già operanti in determinati settori sul “modello INFN”; a livello di consiglio di presidenza il contributo dato al potenziamento della rete degli istituti CNR presenti nel Sud e alla nascita di nuove modalità organizzative, che nel 1973 vedono l’avvio di quelli che saranno i progetti finalizzati. È probabile che Amaldi non abbia tratto grandi soddisfazioni da questa fase della sua attività: sono gli anni in cui il CNR subisce la riforma amministrativa che lo porta nel parastato, con una conseguente intensa burocratizzazione del lavoro di ricerca. “Ma insomma, un conto è organizzare una ricerca, un altro è doversi occupare continuamente di problemi burocratici. Perché qui ci sono delle cose straordinarie […] Soprattutto nell’ambito del CNR […] negli ultimi anni sono state stabilite regole tali che i capi laboratorio sono veramente sommersi dai problemi del personale, dalle questioni sindacali, ecc. Si tratta di problemi gravissimi che distraggono molto dall’attività di ricerca. Da questo punto di vista siamo certamente in una situazione drammatica”. Molte sue idee saranno comunque sviluppate, sia pure con ritardo, negli anni successivi. Negli ultimi anni l’impegno istituzionale di Amaldi si arricchisce di una nuova dimensione: la storia. Coltivata da molto tempo, con contributi sempre più “storiograficamente professionali” e lontani dall’agiografia e dalla memorialistica, negli anni Ottanta alla riflessione sulle radici storiche delle vicende che hanno riguardato la scienza in Italia, si affianca un consapevole programma di recupero e salvaguardia delle fonti d’archivio e del patrimonio storico-scientifico delle istituzioni cui si sente più legato. È attivo promotore del recupero degli 38


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archivi Touschek e Persico presso il Dipartimento di Fisica della “Sapienza” e della valorizzazione degli archivi Volterra e Marconi presso l’Accademia dei Lincei, nonché del deposito di una copia degli Archives for the History of Quantum Physics presso l’Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL. È molto vicino, in questa opera, a Giovanni Battista Marini Bettòlo, che dopo la sua morte gli intitolerà il Centro di studi per la storia della scienza contemporanea e dei XL presso la stessa Accademia. Le sue ultime iniziative culturali come presidente dei Lincei sono l’organizzazione dell’importante convegno sulle “Conseguenze culturali delle leggi razziali” (1988) e la preparazione del Convegno e della Mostra su “Vito Volterra e il suo tempo” (1990) che purtroppo non potrà vedere realizzata. ■

Sincrotrone, un particolare di un magnete.

Giovanni Paoloni insegna Archivistica generale all’Università di Roma La Sapienza. Esperto di storia della scienza, della tecnologia e dell’industria in Italia, ha curato il catalogo della mostra storico-documentaria Guglielmo Marconi e l’Italia e, per l’editore Laterza, i volumi Per una storia

del Consiglio Nazionale delle Ricerche e La città elettrica. Esperienze di elettrificazione urbana in Italia e in Europa fra Ottocento e Novecento. 39


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La Big Science sbarca in Europa: la nascita del CERN Lucia Orlando

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l più grande monumento all’opera di Edoardo Amaldi”. Così, a ragione, viene definito il CERN (Organisation Européenne pour la Recherche Nucléaire). Il lungo cammino che porterà alla nascita del maggior centro mondiale della ricerca fisica sulle particelle elementari, parte alla fine del 1949, subito dopo lo scoppio della prima bomba atomica sovietica. La guerra fredda gela i rapporti internazionali, ma sia la politica sia la scienza sono consapevoli dell’importanza di mantenere vivo il dialogo ed è proprio attraverso la tradizione internazionalista della scienza che si può tenere aperto un canale di comunicazione tra i paesi, scongiurando lo spettro di altri, definitivi, conflitti. Con questo spirito, nel dicembre 1949, si riunisce a Losanna il Movimento Europeo: 172 delegati da 22 paesi e per la prima volta nel dopoguerra si avanza una proposta di collaborazione scientifica internazionale nei settori astrofisico e nucleare. Tra i padri di questa embrionale idea, lo scrittore svizzero Denis de Rougemont che ricorda “parlare di ricerche atomiche a quell’epoca significava subito evocare almeno preparativi per la terza guerra mondiale, gravi atti di spionaggio, segreti di Stato, se non addirittura la possibilità di far saltare in aria il mondo intero”. Non è affatto facile, in quei mesi, anche solo suscitare interesse per una cooperazione scientifica a livello europeo nel campo della fisica nucleare che abbia l’obiettivo di colmare il divario accumulato con le due superpotenze, evitando al tempo stesso ogni interferenza dei militari. Che si tratti di progetti sulle alte energie (costruire acceleratori di particelle) o sulle basse energie (impiantare reattori nucleari), le varie ipotesi di quel periodo si scontrano tutte con il timore di non riuscire a superare la concorrenza degli Stati Uniti, che già hanno un’expertise di alcuni anni, e di non poter evitare gli appetiti dei militari. Senza una presa di posizione esplicita di Isidor Rabi, a metà del 1950, l’iniziativa europea si sarebbe arenata sul nascere. È infatti il fisico americano che fa approvare all’unanimità una risoluzione all’UNESCO nella quale l’organismo internazionale è autorizzato ad “assistere e incoraggiare la formazione e l’organizzazione di cen40


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Pierre Auger, Edoardo Amaldi e Leo Kowarski a una riunione del costituendo CERN.

tri e laboratori di ricerca regionale per incrementare e rendere più fruttuosa la collaborazione internazionale di scienziati […] in campi nei quali gli sforzi di ciascun paese sarebbero insufficienti allo scopo”. L’ipotesi che i fisici europei costruiscano un nuovo centro di ricerca, dove allestire un acceleratore di particelle d’intensità paragonabile a quella delle migliori macchine americane, riceve in quest’occasione la sua prima e decisiva benedizione. A questo punto si può cominciare a tessere la tela per trasformare questo primo abbozzo di idea in un progetto concreto e condiviso e, a questo punto, si mettono all’opera due abili tessitori: Pierre Auger e Edoardo Amaldi. Quest’ultimo, in particolare, ha l’opportunità di applicare la tenacia e la lungimiranza che ne contraddistinguono la personalità, nonché il pragmatismo appreso in giovane età da Enrico Fermi e Orso Mario Corbino, in un’impresa che richiede anche un notevole acume nella valutazione scientifica del livello delle proposte e una 41


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capacità di visione complessiva. Non ultimo, anche l’antimilitarismo di Amaldi – maturato negli anni della guerra e corroborato dallo scoppio della bomba atomica – fa del fisico italiano la persona giusta al posto giusto. In queste fasi iniziali, dunque, Amaldi si assume il compito prioritario di estendere il consenso all’iniziativa europea sull’altro lato dell’Atlantico. Negli Stati Uniti, Amaldi incontra i vecchi amici dei tempi di via Panisperna e conquista al progetto Gilberto Bernardini, Bruno Rossi, Bruno Pontecorvo. Inoltre, secondo il suo stile, va a studiare gli acceleratori americani: dal bevatrone in costruzione a Berkeley, al cosmotrone dei laboratori di Brookhaven. “Passo la giornata a visitare Brookhaven. Colossale!” appunterà sui suoi diari. Insieme a Bruno Ferretti, suo amico e collaboratore dell’area romana, assume l’incarico di redigere un progetto preliminare per il laboratorio europeo. Auger, dal canto suo, insieme a Raoul Dautry, amministratore generale del Commissariat à l’Énergie Atomique francese, riesce a unificare le proposte di iniziativa politica con quelle di iniziativa scientifica: nel dicembre del 1950 si riunisce a Ginevra il Centro Europeo della Cultura (CEC), nato come filiazione del Movimento Europeo. Una riunione a cui partecipano non solo politici, ma anche scienziati. Il gruppo di questi ultimi è piuttosto giovane (età media: 42 anni) ed entusiasta: si discute la proposta di Amaldi e Ferretti e, sulla sua base, viene votata un’ambiziosa risoluzione finale nella quale si afferma la volontà di costruire un acceleratore di prestazioni superiori a quelle raggiunte dalle macchine americane. La tela comincia ad allungarsi. Bisogna sollecitare l’impegno anche economico dei singoli stati europei. In Italia Amaldi trova terreno fertile: il presidente del CNR, Gustavo Colonnetti, è un sostenitore della prima ora della cooperazione internazionale e si assume l’incarico di chiedere al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi un cospicuo finanziamento al progetto (3-400 milioni annui per 5 anni) forzando decisamente la mano sulle argomentazioni di necessità: “condizioni di emergenza – scrive Colonnetti a De Gasperi – impongono imperiosamente e improrogabilmente una vera e propria mobilitazione della scienza e degli scienziati ai fini della difesa nazionale”. Un argomento, questo, che paradossalmente fa leva sull’ambiente politico proprio mentre gli scienziati prendono la decisione definitiva di rinunciare a ogni aspetto del progetto riconducibile ad applicazioni civili dell’energia nucleare. L’ipotesi del laboratorio europeo coinvolge ormai 15 paesi. Oltre a Italia e Francia, ci sono Svizzera, Germania, Gran Bretagna, Svezia, Belgio, Danimarca, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Austria, Grecia e Jugoslavia. Tuttavia, più la platea si allarga, più crescono difficoltà e contrasti da ricomporre. Diventano essenziali capacità di mediazione e di saper concentrare energie 42


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diverse su un progetto comune, cioè doti come quelle di Amaldi. Non gli è facile, per esempio, sostenere l’idea che venga coinvolto nel progetto un personaggio scomodo come Werner Heisenberg. Il padre del programma per la bomba atomica tedesca nella seconda guerra mondiale risveglia ancora nel 1950 i fantasmi del regime nazista. Ma Amaldi non accetta questo veto, l’internazionalismo scientifico viene prima di tutto, si tratta quasi di riaffermare un primato della scienza sulla politica. Altra grana, ben più consistente da affrontare, è lo scetticismo britannico. Vincerlo è, probabilmente, il maggior merito di Amaldi. Il coinvolgimento della Gran Bretagna nel laboratorio europeo avrebbe rappresentato un gran vantaggio per l’impresa: i britannici avevano un know how ineguagliabile, avendo partecipato ai progetti statunitensi per la bomba atomica e rappresentando il paese europeo che aveva investito maggiormente in un programma nucleare nazionale. Con la partecipazione della Gran Bretagna, si sarebbero riequilibrati il preponderante peso della Francia – potenza nucleare – nel progetto e la presenza (per alcuni, la minaccia) della consistente rappresentanza del partito comunista nel Commissariat à l’Énergie Atomique. Ma proprio le ragioni che rendevano appetibile il coinvolgimento inglese per il resto dei partecipanti, rappresentavano un ostacolo in Gran Bretagna: perché imbarcarsi in un’impresa che sembrava un doppione di quanto già realizzabile a livello nazionale? Dopo gli entusiasmi iniziali, dunque, il 1951 è l’anno più duro per la gestazione del laboratorio europeo. Allo scetticismo britannico si aggiungono le perplessità di Svezia e Danimarca che si coagulano in un vero e proprio fronte di opposizione rappresentato dall’establishment scientifico di grandi fisici come Niels Bohr, James Chadwick, Hendrick Kramers, Charles G. Darwin, George P. Thomson, come dire il gotha della fisica degli anni ’20-’30. Il nuovo fronte produce addirittura una controproposta: invece di costruire un nuovo laboratorio, meglio utilizzare quello di Bohr a Copenhagen e, per quanto riguarda la macchina da costruire, è preferibile procedere in due tappe, prima un piccolo acceleratore e poi uno più grande. Sul fronte opposto, Italia, Francia e Belgio. Dal punto di vista del prestigio scientifico, la bilancia pende dalla parte dei nordeuropei, perciò tocca ancora una volta ad Amaldi e Auger tentare una mediazione, nella convinzione che gli scienziati si debbano presentare come un fronte compatto davanti all’interlocutore politico, se vogliono che il progetto vada in porto. Ne nasce una proposta che prevede la costruzione di due acceleratori di differente potenza, i cui studi di fattibilità partiranno insieme, ma si costruirà un centro di ricerca ex novo, in Svizzera, paese preferibile ad altri – come sostiene Amaldi – per il suo internazionalismo, per la qualità del lavoro, oltre che per 43


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Appunti originali di Amaldi durante una riunione preparatoria alla costituzione del CERN nel 1951, in cui sono già annotati alcuni passaggi del programma scientifico della futura istituzione. 44


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ragioni di sicurezza. Su questa base, si svolge a Ginevra, tra il 12 e il 15 febbraio 1952, la conferenza intergovernativa dell’UNESCO, dove finalmente viene firmato un accordo provvisorio tra undici paesi per la creazione del CERN. Edoardo Amaldi ne è Segretario Generale. La Gran Bretagna, però, non è tra i firmatari e Amaldi profonderà tutte le sue energie per far tornare i britannici sui propri passi. Ancora una volta lo scienziato italiano incontra i parlamentari del Regno Unito per spiegare le ragioni del progetto. E mentre crede di aver fallito per il suo modo diretto e incastrante di argomentare, è proprio allora che riesce ad aprire una breccia nella granitica posizione del governo di Sua Maestà: “Lord Cherwell [membro del governo Churchill, NdA], mostrò di essere chiaramente contro la partecipazione della Gran Bretagna alla nuova organizzazione. Non appena fui introdotto nel suo ufficio, egli disse che il laboratorio europeo sarebbe stato un altro dei molti organismi internazionali che sprecavano denaro e producevano un mucchio di carta senza alcun uso pratico. Fui contrariato, e risposi piuttosto seccamente che era un gran peccato che la Gran Bretagna non fosse pronta a unirsi a una tale impresa, che senza ogni dubbio era destinata al pieno successo e andai spiegando le ragioni dei miei convincimenti. Lord Cherwell concluse l’incontro dicendo che il problema sarebbe stato riconsiderato dal governo di Sua Maestà. Quando lasciammo il Ministero della Difesa dove si era svolto l’incontro, ero piuttosto scontento per la mia mancanza di autocontrollo, ma Sir John [Cockroft] e Sir Ben [Lockspeiser, futuro presidente del CERN, NdA] erano alquanto soddisfatti e cercarono di mettermi di buonumore”. Finalmente, l’entrata in funzione del cosmotrone di Brookhaven, convince definitivamente la Gran Bretagna a firmare l’adesione al CERN. Il resto della storia è più semplice, anche se occorreranno altri due anni circa per giungere alla firma dell’accordo definitivo. Dopo essersi dedicato con tutte le sue energie al compimento del progetto, Amaldi fa un passo indietro, comunicando la sua indisponibilità ad assumere l’incarico di Direttore Generale dell’organismo definitivo, sia per fugare ogni sospetto di ambizione personale (sollevato dalla Svezia) sia per il desiderio di tornare a occuparsi delle sue ricerche, passate in secondo piano per troppo tempo. Felix Block, che gli subentra alla guida del CERN, lo vuole assolutamente come vice, ruolo che Amaldi accetterà di ricoprire solo per qualche mese, il tempo necessario per facilitare l’avvicendamento. Delle due macchine previste, il protosincrotrone, acceleratore di protoni da 28 GeV, sarà pronto nel 1959, mentre il superprotosincrotrone da 300 GeV entrerà in funzione nel 1976. Amaldi, pur avendo rinunciato a dirigere l’organizzazione europea, conti45


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nuerà a ricoprire incarichi di prestigio negli organi tecnici per tutti gli anni Sessanta, accompagnando la fase dei primi, grandi successi delle macchine europee. Dopo oltre mezzo secolo, mentre l’unità europea è un concetto politico scricchiolante forse mai come prima, il CERN si appresta a conoscere un’altra stagione fulgida con l’entrata in funzione di LHC, la più grande macchina acceleratrice del mondo. Come dire che “il monumento all’opera di Edoardo Amaldi” resiste come simbolo di un’Europa della cultura unita. Oltre l’economia, oltre la politica. ■

Lucia Orlando, storica della Fisica, collabora con il gruppo di Storia della fisica presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Roma La Sapienza per il quale ha riordinato l’Archivio Amaldi. I suoi più recenti ambiti di interesse riguardano la storia della Fisica italiana negli anni Trenta e dei programmi spaziali italiani. Per l’ESA è coautrice del volume appena pubblicato assieme a M. De Maria, Italy in Space. In search of a strategy 1957 -1975 (Paris, 2008). Si occupa anche di comunicazione scientifica collaborando con la RAI e vari periodici. 46


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Il sogno spaziale: lanciare un’Euroluna entro il 1965 Michelangelo De Maria

Edordo Amaldi e la nascita della ricerca spaziale in Italia e in Europa Secondo la ricostruzione del grande fisico francese Pierre Auger, il primo abbozzo di un’organizzazione europea per la ricerca spaziale fu elaborato da lui e da Edoardo Amaldi, nell’aprile del 1959, nel corso di una passeggiata che i due fecero a Parigi nei giardini del Luxembourg. Poche settimane dopo, il 22 maggio 1959, Amaldi completò la prima stesura in inglese di un suo famoso articolo, Space Research in Europe, che inviò sotto forma di dattiloscritto a un nutrito gruppo di influenti scienziati spaziali europei e direttori di istituti di ricerca europei equivalenti al nostro CNR. L’articolo di Amaldi costituì la scintilla che mise in moto una serie di reazioni a catena che portarono, nel giro di 3 anni, nel giugno 1962, alla fondazione dell’European Space Research Organization (ESRO). 1 Ma il racconto di Auger è solo parzialmente vero perché l’idea di fondare un’organizzazione europea per la ricerca spaziale era scaturita nella testa di Amaldi quasi un anno prima del suo incontro con Auger a Parigi ed era stata portata avanti esclusivamente da lui con notevole testardaggine e tenacia. Ma facciamo un passo indietro. Il 4 ottobre 1957 il lancio dello Sputnik da parte dell’URSS nell’ambito dell’International Geophysical Year iniziato nel luglio del 1957, provoca un enorme shock in tutto il mondo, e in particolare negli Stati Uniti che acquistano una coscienza improvvisa, quanto traumatica, della loro vulnerabilità a un potenziale attacco nucleare sovietico. Come noto, gli USA rispondono e, il 31 gennaio 1958, con il lancio da Cape Canaveral del loro primo satellite, l’Explorer 1, che porta all’importante scoperta scientifica delle Fasce di Van Allen. Successivamente sarà fondata la NASA. Comincia la sfida fra le due superpotenze per la conquista dello spazio. 1

L’articolo di Amaldi verrà pubblicato in francese soltanto nel dicembre 1959 con il titolo Créons une organisation européenne pour la recherche spatiale. 47


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Edoardo Amaldi, uno dei pionieri di quella politica scientifica europea che aveva portato alla nascita del CERN nel 1954, si convince subito che l’Europa Occidentale non deve e non può accettare di essere tagliata fuori dalla conquista dello spazio, così come era riuscita a fare nel campo della fisica delle particelle elementari. Discute per la prima volta di questo suo embrionale progetto nel luglio 1958, a casa di Giorgio Salvini, 2 a Rocca di Papa, con il suo vecchio amico Luigi Crocco, in vacanza in Italia. Crocco era all’epoca professore di Aerospace Propulsion presso il Department of Aeronautica1 Engineering a Princeton, e un esperto di fama mondiale nel campo della propulsione di razzi e missili. Dopo questo incontro Amaldi inizia a muoversi a tamburo battente e nei giorni successivi scrive al suo collega Luigi Broglio, all’epoca direttore dell’Istituto di Ingegneria Aeronautica presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università “La Sapienza”, ma anche Colonnello dell’Aeronautica Militare. La risposta di Broglio arriva il 28 agosto 1958. In essa Broglio, pur concordando con la necessità di una cooperazione europea per raggiungere l’ambizioso obiettivo del lancio di satelliti artificiali, si mostra però scettico rispetto alla possibilità di “una gestione extra-militare, (da Amaldi fermamente voluta) intorno a problemi nei quali è ancora fortemente preminente l’interesse bellico”. La tiepida reazione di Broglio non scoraggia però Amaldi, che resta convinto che un progetto del genere “debba essere perseguito su scala europea come è stato fatto per il problema della costruzione delle grandi macchine acceleratrici per cui è stato creato il Cern”. Come scriverà a Crocco nel dicembre del 1958: “Il lancio di una o più Eurolune, effettuato da un organismo ad hoc, avrebbe evidentemente un’importanza, sia morale che pratica, di prim’ordine per tutti i paesi del continente”. All’inizio di settembre 1958 si reca al CERN per la conferenza di Ginevra e parla del suo progetto con il suo vecchio amico e collega, Isidor Isaac Rabi, 3 che accoglie con entusiasmo il progetto e gli promette il suo appoggio presso gli ambienti scientifici e politici degli USA. Inoltre, come delegato del governo americano nel Scientific Committee della NATO, suggerisce ad Amaldi di usare que2

Giorgio Salvini, fisico di origine milanese, già ordinario di Fisica generale all’Università di Roma, ha diretto la costruzione del primo elettrosincrotrone italiano di Frascati tra il 1953 e il 1960. È stato presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e, negli anni Novanta, Ministro dell’Università e della Ricerca del governo Dini. 3 Isidor Isaac Rabi, premio Nobel nel 1944, fu uno dei più importanti fisici della generazione di Los Alamos e una figura chiave della politica scientifica e di sicurezza degli USA a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Giocò un ruolo cruciale nella fondazione del CERN, come delegato USA all’UNESCO. 48


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sto comitato della NATO come “padrino” dell’organizzazione spaziale europea (o forse sarebbe meglio dire, per usare le parole di Amaldi, come “madre e balia della nuova organizzazione”). Proposta che però Amaldi rifiuta con forza, continuando con testardaggine a portare avanti una serie di incontri internazionali per fare decollare il suo progetto. Nel novembre 1958 discute, sempre al CERN, del progetto “spaziale” con H.S.W. Massey, la più prestigiosa personalità della ricerca spaziale inglese, che, come dirà lo stesso Amaldi, “si è mostrato alquanto scettico, ma questo è il normale atteggiamento inglese di fronte a qualsiasi iniziativa continentale”. Il mese successivo discuterà del suo progetto con Francis Perrin, una delle figure più influenti della comunità dei fisici francesi, che appoggia con entusiasmo il progetto e si impegna a metterlo in contatto con scienziati francesi competenti nel campo. Sarà proprio Perrin, infatti, di ritorno a Parigi, a parlare con Auger e a raccontargli del progetto “Euroluna” di Amaldi. Dalle lettere di quel periodo emerge dunque che Amaldi, già nel dicembre del 1958, avesse chiarissima sia la strategia d’azione per realizzare il suo progetto, sia gli obiettivi scientifici che questo avrebbe dovuto porsi nella sua prima fase. Descrive infatti così il suo piano d’azione: “Qualche esperto autorevole in materia (io speravo Broglio, ma mi sembra che non abbia il necessario entusiasmo) dovrebbe cominciare ad agitare il problema ed ottenere l’adesione di massima di uno o due esperti dei principali paesi europei. Per cominciare ci vorrebbe qualche esperto italiano, qualche francese e qualche tedesco. Queste cinque o sei persone dovrebbero preparare in un periodo di qualche mese, un piano di sviluppo tecnico [...] (Successivamente) un simile programma dovrebbe essere sottoposto ai governi per l’approvazione e la conseguente creazione dell’organizzazione definitiva”. Mentre il piano di sviluppo inizialmente concepito da Amaldi, lucido e allo stesso tempo molto ambizioso, avrebbe dovuto includere “uno scopo estremamente definito ma così alto da essere paragonabile alle mete che gli USA e l’URSS si sono prefisse in questo campo […] e la costruzione di laboratori europei comuni per la soluzione dei problemi di maggiore portata”, oltre a “un programma di ricerche collaterali da eseguire nei paesi partecipanti”. Le spiegazioni addotte da Amaldi sono legate a due ordini di ragioni, come si è già detto, una di ordine “pratico” e una di carattere “morale”. Per quanto riguarda l’aspetto pratico, sostiene che attraverso queste attività “la struttura scientifico-tecnica di tutti i paesi partecipanti risulterebbe notevolmente rafforzata”. L’aspetto “morale” è invece connesso alla sua concezione dell’internazionalismo scientifico, da lui ritenuto un pilastro centrale e ineli49


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minabile per una “sana” crescita della ricerca scientifica. Ecco infatti in quali termini si esprime scrivendo sempre a Crocco: “Io penso che sia assolutamente essenziale che la futura Organizzazione non abbia carattere militare nè sia collegata ad organizzazioni militari, essa deve essere un’organizzazione puramente scientifica aperta, come il CERN, a tutte le forme di collaborazione, sia interne che esterne rispetto ai paesi partecipanti”. Non si deve però credere che Amaldi fosse un ingenuo sostenitore di una posizione pacifista e antimilitarista tout court. L’aspetto “pratico” e quello “morale” infatti sono, secondo Amaldi, intimamente connessi perché il rafforzamento della struttura scientifico-tecnica, sia a livello europeo che di singole nazioni, in caso di necessità (per esempio nel caso dello scoppio di eventuali conflitti che avessero coinvolto l’Europa) avrebbe portato a ricadute “vantaggiose” anche per i militari. “La realizzazione del programma [sarebbe] però più difficile e complicata se i militari, direttamente o indirettamente, fossero i padroni”. Conclude la lettera al suo amico con le seguenti parole profetiche: “Io credo che se gli esperti europei nel campo dei missili e dei satelliti si cominciano ad agitare subito, nel 1965 essi potranno, accanto ai gruppi americani e russi, contribuire in maniera del tutto considerevole allo studio dei problemi spaziali […] includendo fra questi anche [la realizzazione] di un’Euroluna prima del 1965”. In gennaio e febbraio Amaldi continua quindi a darsi molto da fare per far decollare la sua Organizzazione Europea per la Ricerca Spaziale. In particolare incontra Giuseppe Gabrielli, direttore della FIAT AVIO, (che era cognato di Crocco ed ex studente di von Kármán 4 ad Aachen e poi suo caro amico), per sondare la disponibilità della FIAT per il suo progetto da un punto di vista industriale. Intanto Crocco incontra von Kármán a New York il 27 gennaio 1959 su richiesta di Amaldi, a cui riferisce immediatamente sui contenuti del colloquio. Amaldi deve anche difendere la ‘purezza europea’ del suo progetto, con Cecil Frank Powell (numero uno nella fisica dei raggi cosmici in Gran Bretagna, e vincitore del premio Nobel nel 1950 per la scoperta del mesone π), all’epoca membro del Scientific Policy Comittee del CERN. Anche Powell tocca il delicato tasto dei rapporti con i militari e suggerisce ad Amaldi di allargare il progetto di collaborazione europea su scala mondiale, coinvolgendo da subito anche l’URSS. All’inizio di febbraio, a Parigi, Amaldi viene informato da Perrin che anche Pierre Auger “era interessato agli stessi problemi”. Tornato a Roma, scrive su-

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Theodore von Kármán fu uno dei padri dell’astronautica e missilistica moderne. Immaginò di usare la Nato come base di partenza per la cooperazione scientifica internazionale nel campo dei razzi e dell’astronautica. 50


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bito ad Auger, ribadendo però con caparbia e coerenza i capisaldi ideali su cui si doveva fondare l’organizzazione spaziale europea: “Secondo me i punti essenziali sono: 1) L’organizzazione deve essere solamente civile e a carattere strettamente scientifico, senza vincoli militari o di segretezza. 2) L’organizzazione deve avere una base europea grande, possibilmente, come quella del Cern”. In seguito alla sua lettera Auger lo informa immediatamente che in Francia a gennaio era stato creato un “Comité des Recherches Spatiales” (CRS), con il compito di definire un programma nazionale di ricerche nello spazio e nell’alta atmosfera e che lui stava per esserne eletto presidente. Amaldi, che aveva concepito una partenza ‘più artigianale’, basata sull’entusiasmo di pochi esperti europei, si convince immediatamente che il modo corretto di partire è quello di fondare in tutti i paesi europei analoghi comitati nazionali per la ricerca spaziale, sulla base del modello francese. Infatti questi comitati spaziali nazionali avrebbero costituito un più corretto sistema di riferimento istituzionale per una partenza ufficiale della cooperazione europea nello spazio. E così ad aprile Amaldi e Auger si incontrano nei giardini del Lussemburgo per definire un programma d’azione. Appena rientrato a Roma Amaldi si mette a lavorare al celebre articolo, già citato, il cui contenuto e le cui decisive implicazioni sono state ampiamente analizzate da John Krige. 5 Ciò che qui ci interessa è che in esso Amaldi tiene fermi i principi, sui quali nell’ultimo anno aveva pensato dovesse fondarsi un’organizzazione europea per la ricerca spaziale. Nel suo articolo inoltre, seguendo il modello del CRS francese, prevede la formazione “di commissioni nazionali, che esaminino i problemi della ricerca spaziale ed […] elaborino un programma dettagliato da sottoporre ai governi nazionali”. La Commissione per le Ricerche Spaziali (CRS) italiana sarà costituita ufficialmente nell’ambito del Consiglio Nazionale delle Ricerche già nel settembre 1959, con l’obiettivo di valutare le capacità nazionali nel campo e di raggiungere “un comune programma di lavoro tra le nazioni europee”. Luigi Broglio ne è il presidente e Amaldi uno dei sette membri, tutti professori universitari, come lo stesso Amaldi aveva chiesto. Nella sua seconda seduta, il 14 dicembre 1959, la commisione approva all’unanimità il progetto di creare un’organizzazione europea per lo spazio. 5 J. Krige “The prehistory of ESRO 1959/60. From the first initiatives to the formation of the COPERS” ESA HSR-1, 1992.

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Nel frattempo la diffusione dell’articolo di Amaldi comincia a esercitare un ruolo maieutico, riscuotendo pareri positivi da autorevoli scienziati europei. Amaldi e Auger del resto sono molto attivi nel mobilitare la rete di relazioni personali e scientifiche, costituitesi all’epoca della nascita del CERN, arrivando alle prime discussioni pubbliche del progetto. Dopo questa fase, però, Amaldi esce di scena, lasciando a Broglio il ruolo di delegato italiano nelle successive riunioni europee. Questa scelta era stata probabilmente premeditata da tempo, poichè Amaldi non era un esperto di ricerche spaziali e voleva limitarsi semplicemente “a lanciare l’idea”, forte della sua esperienza al CERN e nella ricostruzione post-bellica della fisica italiana, nonché sulla base di considerazioni politiche e “morali”. La gestazione della European Space Research Organization (ESRO) si sarebbe dimostrata molto più lenta, complessa e piena di ostacoli, di quanto gli scienzati avevano immaginato. La Convenzione di ESRO, firmata nella conferenza di plenipotenziari del 14 giugno 1962, diviene effettiva solo il 20 marzo 1964. Amaldi continua a seguire gli sviluppi della sua creatura e allo stesso tempo dà un contributo decisivo allo sviluppo di un programma di ricerca spaziale italiano. Grazie ad Amaldi, infatti, anche l’Italia, non solo l’Europa, entra nello spazio. Il suo sforzo, insieme a quello di Luigi Broglio, fa sì che il nostro paese, con il progetto San Marco, sia il primo in Europa, nel 1964, a lanciare in orbita un proprio satellite. Un altro dei miracoli scientifico-tecnologici che puntellano la storia italiana di quegli anni, ma da cui non avremmo saputo trarre la giusta lezione. ■

Michelangelo De Maria è docente di Storia della Fisica presso il Dipartimento di Fisica dell’Università La Sapienza di Roma. Ha scritto numerosi lavori sulla storia della fisica del Novecento, occupandosi sia degli sviluppi disciplinari che degli aspetti istituzionali. Ha curato con G. Battimelli Da via Panisperna all’America (Roma, 1997) ed è autore della biografia,

Fermi (Milano, 1999). Recentemente ha pubblicato, insieme a Lucia Orlando, il volume Italy in Space. In search of a strategy 1957 -1975. 52


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Promotore di scienza e coscienza civile Carlo Bernardini, Francesco Lenci

Amaldi e l’Unione Scienziati per il Disarmo Se Edoardo Amaldi non avesse considerato la nascita dell’Unione Scienziati per il Disarmo (USPID 1) un fatto positivo, questa non si sarebbe mai costituita. Nessuno che sappia quello che Amaldi è stato e ha fatto per la comunità scientifica del nostro paese può meravigliarsi di questo generale devoto rispetto, meno che mai quanti hanno avuto il privilegio di averlo come professore-maestro, prima, e come amico, poi. Amaldi, come pochissimi altri, godeva non solo di un’indiscussa autorevolezza ma anche della rara qualità di saper coinvolgere e motivare persone, anche le più diverse, intorno a un progetto comune. Amaldi pensava che fosse importante che gli scienziati italiani si assumessero la responsabilità sociale di dedicare attenzione ai problemi internazionali della coesistenza pacifica tra i popoli. Per questo egli riteneva che gli scienziati dovessero considerare come un dovere e come una autentica vocazione quella di usare le proprie competenze al fine di studiare i problemi legati alla corsa agli armamenti e, laddove possibile, anche tentare di prospettare delle soluzioni. Per Amaldi l’USPID poteva e doveva essere uno spazio culturale nel quale convivessero – in un clima di confronto critico e mutuo rispetto – istanze anche molto diverse. Dichiarato intento dell’USPID, infatti, era ed è quello di favorire in Italia un dibattito senza preconcetti sulle problematiche della corsa agli armamenti e il disarmo, senza mai scivolare in posizioni affrettate o superficiali, con l’obiettivo, oltre al lavoro di studio e ricerca sui temi sopra accennati, di fornire un’informazione aggiornata e imparziale su queste problematiche al mondo politico, ai mezzi di comunicazione, alle scuole e a tutti cittadini interessati. Il suo consenso a divenirne il Presidente fu indubbiamente da tutti sentito come un riconoscimento della giustezza della strada che era stata imboccata. 1

Per informazioni più dettagliate si veda il sito della USPID: www.uspid.org 53


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Edoardo Amaldi in compagnia di Marcello Mastroianni in aereo, diretti a Mosca per il forum della pace del 1987.

Scienza, società e diritti civili Amaldi ha vissuto la seconda guerra mondiale in una condizione particolarissima: rimasto in Italia, fuori della diaspora, aveva tuttavia condiviso la creazione delle basi scientifiche e tecnologiche degli ordigni che sarebbero stati creati a Los Alamos. Egli conosceva perciò da vicino sia gli orrori del nazifascismo sia l’importanza di annientarlo per il bene e il futuro delle democrazie occidentali. Democrazie di lì a poco minacciate dall’alleato sovietico, che, come è noto, a guerra finita diventò un partner con esse incompatibile. Per tastare anche solo in superficie la sua capacità di promotore di iniziative e di virtuose relazioni di cooperazione in vista di nobili ideali basta dire che egli, pur non potendo partecipare nel 1957 alla prima Conferenza Pugwash (Pugwash, Nuova Scozia, Canada), auspicata dal Manifesto Russell-Einstein del 1955, cominciò comunque a contribuire, già dall’anno successivo – anche come Membro del Council – alle attività e alle iniziative del Movimento Pugwash 2 e, inoltre, nello stesso periodo riuscì a spingere l’Italia a sostenere il Trattato di Non Proliferazione, convincendo da par suo opinione pubblica ed esponenti politici. Ma non è tutto. Nel 1966, assieme a Carlo Schaerf, organizzò, con il supporto NATO, il primo della serie dei corsi ISODARCO (International School on Disarmament and Re2

Cfr. www.pugwash.org

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search on Conflicts) 3, ancora oggi regolarmente tenuti, con lo scopo di fornire a giovani studiosi, diplomatici e giornalisti, le cognizioni tecnico-scientifiche di base necessarie per la comprensione della situazione internazionale del momento: dalla proliferazione orizzontale delle armi nucleari, alla corsa agli armamenti nucleari con lo sviluppo di sistemi missilistici sempre più avanzati, alla militarizzazione dello spazio, al terrorismo, alla comprensione dei requisiti necessari per un processo di controllo e di riduzione degli armamenti. Amaldi, in tempi in cui la comunicazione scientifica era una nozione ancora tutta da scoprire, acquisì dunque la chiara consapevolezza che di comunicazione “qualificata” ci fosse bisogno. Egli capì come pochissimi altri che tra scienza e società fosse cioè giunto il momento di aprire uno strutturale e paritario confronto. E ciò divenne presto evidente a tutti anche nel nostro paese. Con il crescere delle tensioni nell’area mediterranea, vennero trasferite in Italia armi di distruzione di massa, mettendo così l’Italia nella condizione di diventare un obiettivo militare in un conflitto est-ovest. Bisognava assolutamente riaffermare il carattere pacifico dell’Italia sancito dalla nostra Costituzione. Per questo, nel 1979, Amaldi fu uno degli ispiratori e il più autorevole dei sottoscrittori di un documento di numerosi fisici italiani in cui si analizzavano i rischi dell’installazione sul territorio italiano dei missili Cruise, documento che lo stesso Amaldi consegnò al Presidente della Repubblica Sandro Pertini nel novembre del 1982. E fu sempre grazie a una sua intuizione che l’Accademia Nazionale dei Lincei istituì il Gruppo di Lavoro per la Sicurezza Internazionale e il Controllo degli Armamenti (SICA). Ma la sua attenzione ai problemi internazionali non si limitò solo alla questione degli armamenti. Egli, infatti, aveva da tempo iniziato anche un’intensa attività di difesa dei diritti civili degli scienziati perseguitati in campo internazionale (a cui si stavano dedicando anche i matematici Lucio Lombardo Radice e Ennio De Giorgi – quest’ultimo come membro influente di Amnesty International).

I convegni di Castiglioncello Nell’ottobre del 1985 si tenne il primo dei Convegni Internazionali di Castiglioncello sui temi del disarmo e del controllo degli armamenti (l’ultimo – il dodicesimo – si è tenuto nel settembre 2007 e il prossimo si terrà a settembre 2009). Naturalmente, anche in questo caso, Amaldi dette il suo contributo prezioso. Tanto per render conto del suo carisma, ricordiamo di quando redarguì un partecipante al Convegno che, in un commento impregnato di ideologismo e animosità, aveva mancato di rispetto a uno dei relatori semplicemente perché provenien3

Si veda www.isodarco.it 55


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te dai laboratori Livermore (California, USA): stupidità e arroganza non avevano certo modo di sfuggire alla sua sferzante critica. Questo suo piglio, sempre pronto a rintuzzare una certa “prepotenza politica” particolarmente diffusa tra i giovani in quegli anni, fece sì che si formasse tutto un repertorio di regole di buon comportamento che, senza di lui, difficilmente avrebbero cementato la nostra associazione. E solo perché “era lui” la condotta democratica del lavoro dell’USPID non ha subito il minimo danno in quasi trent’anni di vita, conservando il reciproco rispetto anche tra colleghi di diversissimo orientamento politico. Del resto, che la correttezza formale fosse la chiave di volta del dialogo, pur senza peli sulla lingua, lo avevamo visto negli anni Sessanta al tempo del famigerato “caso Ippolito”, nel quale Amaldi si era esposto in prima persona a difesa del collega contro politici avventurieri, come più autorevole testimone dei fatti. Tornando a Roma da Castiglioncello, una sera, alla stazione di Livorno, Amaldi si fece scappare la storia dei suoi quaderni: da anni e anni, in tutte le occasioni nella quali ascoltava qualcosa di importante, di grave, Amaldi annotava l’evento su un quaderno, utilizzando poche parole chiave, lasciando poi alla signora Ginestra il compito di riordinare e “mettere in bella” gli appunti. Crediamo sia facile immaginare il patrimonio di fatti e idee che in quei quaderni è stato racchiuso.

Un’indimenticabile lezione per un mondo più “aperto” A Mosca, nel febbraio 1987, l’USPID dette un contributo rilevante all’organizzazione di un Forum per la Pace al quale parteciparono esponenti politici, uomini di cultura e scienziati da tutto il mondo, un evento voluto da Gorbaciov in persona per gettare le basi di un nuovo approccio, non più basato sulla corsa agli armamenti, ai problemi della sicurezza nazionale e internazionale. Ovviamente la presenza di Amaldi era cruciale, ma lui – che nel 1986 aveva istituito nell’Accademia dei Lincei la Commissione per la Difesa dei Diritti Civili – subordinò la sua partecipazione al Forum alla liberazione di Andrej Sacharov (Premio Nobel per la Pace nel 1975). Anche questo fu un suo successo: Sacharov venne liberato. Lì a Mosca Amaldi dimostrò quale può essere il fascino della saggezza, seducendo con i suoi argomenti persone anche molto lontane dall’ambiente dei fisici. Ricordiamo ancora il nostro maestro che intrattiene a lungo Marcello Mastroianni (che lo guardava con sbalordito interesse) o Luciano Berio (che divenne poi un “benefattore” dell’USPID, tenendo gratis un paio di concerti a Castiglioncello in occasione dei Convegni), e tanti altri esponenti del mondo dello spettacolo e dell’arte; e ricordiamo come condusse un’animata discussione in casa dell’allora ambasciatore italiano, il professor Sergio Romano. Al ritorno da quel viaggio decidemmo di scrivere, tutti e tre assieme (E. 56


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Amaldi, C. Bernardini e F. Lenci), un breve resoconto per La Repubblica, “Disarmo atomico. Se lo vogliono ci si arriva così”, copia del quale è ancora sulle nostre due scrivanie. Rileggere i punti cruciali messi in evidenza in quella nota, da un lato crea sconforto (era il febbraio del 1987, e a più di venti anni di distanza, di progressi decisivi sulla via del disarmo ne sono stati fatti pochi), dall’altro conferma la determinazione a continuare a percorrere la strada solcata da Amaldi. Pensavamo che fossero necessarie e possibili drastiche riduzioni degli arsenali nucleari senza che peraltro venisse turbato l’equilibrio internazionale, e ancora oggi questo è un problema cruciale e non risolto. Eravamo convinti che i negoziati e le trattative fossero lo strumento “principe” per favorire disarmo e distensione, e ancora oggi queste sono le vie da percorrere, anche nel caso dell’Iran. Auspicavamo un enforcement del trattato ABM del 1972, e gli Stati Uniti lo hanno abbandonato nel 2002. Consideravamo irrimandabile il trattato per il bando completo dei test nucleari (CTBT), e ancora oggi – nonostante alcuni significativi passi avanti – gli Stati Uniti sono tra gli stati (assieme a Cina, Israele, Iran e pochi altri) che non hanno ratificato il trattato. Ritenevamo, e riteniamo con sempre maggior convinzione, che la cooperazione scientifica internazionale possa essere un potente strumento per andare verso quel “mondo aperto” che Niels Bohr e Amaldi avevano sempre cercato di creare. Amaldi ci ha lasciati all’improvviso, la mattina del 5 dicembre 1989, all’Accademia dei Lincei, dove – come al solito – era andato a fare il suo lavoro di Presidente. Oggi ci sentiamo, senza alcuna retorica, orfani di quella saggezza e autorevolezza che erano state indispensabili perché l’Italia occupasse un posto di rilievo nella comunità scientifica internazionale. Non ci sono parole per esprimere la gratitudine a un personaggio così eccezionale. ■

Carlo Bernardini, fisico, è professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma. Ha collaborato alla costruzione del primo elettrosincrotrone italiano e del primo anello di accumulazione, AdA. È autore di saggi e opere di divulgazione scientifica. Dal 1976 al 1979 è stato senatore, come indipendente del Partito Comunista. È direttore della rivista scientifica Sapere e membro del consiglio scientifico dell’USPID. Francesco Lenci, dirigente di ricerca del CNR dell’Istituto di Biofisica del CNR e Membro del Consiglio Scientifico Generale del CNR, si occupa soprattutto di biofisica sensoriale e spettroscopia di fotopigmenti. Dagli inizi degli anni Ottanta si occupa di problemi di disarmo e controllo degli armamenti. Membro del Pugwash e del Consiglio Scientifico dell’Unione Scienziati per il Disarmo (USPID), insegna nel corso di laurea di Scienze per la Pace dell’Università di Pisa (CISP). 57


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La scienza sotto accusa: il “caso Ippolito” Vincenzo Napolano

“S

i trattò per l’Italia di una sconfitta grave quanto lo fu Caporetto”. Così Edoardo Amaldi, in un’intervista a Piero Angela nel 1980, definiva il “caso Ippolito”, ovvero l’intricata vicenda politica, scientifica e giudiziaria, che nel 1963 aveva portato nel giro di pochi mesi Felice Ippolito, segretario generale del Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare (CNEN), prima sul banco degli imputati e poi addirittura in carcere. Amaldi, che era stato uno dei protagonisti della politica scientifica del CNEN sarà, così come molti altri prestigiosi scienziati italiani ed europei, uno strenuo e coraggioso difensore di Ippolito. Interpretò inoltre l’esito negativo del processo non solo come una sconfitta personale e umana, ma come una battuta d’arresto verso la modernizzazione della società italiana e, come dirà egli stesso, dalle “conseguenze paragonabili solo alle più gravi sconfitte subite dal nostro paese”. Ma come si era arrivati a quel processo, avvertito da gran parte della comunità scientifica come un vero e proprio “processo nei confronti della scienza” e che avrà, secondo le parole di Amaldi, “implicazioni così gravi e durature?”. 1

La nascita della ricerca nucleare applicata L’avvio delle ricerche applicative nel campo dell’energia nucleare risale in Italia al secondo dopoguerra, con la costituzione nel 1946 del Centro informazioni studi esperienze (CISE), da parte di un gruppo di fisici milanesi guidati dal prof. Giuseppe Bolla. Si tratta di una società a responsabilità limitata, a cui partecipano varie industrie private interessate allo sviluppo della nuova fonte energetica: la Edison, la Cogne e la Fiat, ma anche, come azionisti di minoranza, aziende a partecipazione statale. Il CISE resta di fatto l’unico punto di riferimento del settore fino alla creazione nel giugno del 1952 di un Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare (CNRN) all’interno del CNR. Erano stati il pro1

E. Amaldi, Intervista sulla materia dal nucleo alle galassi, a cura di P. Angela, Laterza, RomaBari 1980, p. 138.

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fessore di Chimica ed ex-presidente dell’Iri, Francesco Giordani e lo stesso Amaldi a esercitare sull’allora Ministro dell’Industria Francesco Campilli pressioni decisive per il varo del decreto istitutivo. I due saranno designati rispettivamente presidente e vice-presidente del nuovo comitato, di cui fanno parte rappresentanti del mondo industriale e del governo e tra gli altri il professore di Geologia napoletano, Felice Ippolito, incaricato della ricerca delle materie prime, ovvero dell’uranio. La costituzione del CNRN avrebbe portato gradualmente allo scoperto tutte le tensioni e i conflitti che si addensavano attorno all’energia nucleare: su quale ruolo dovessero avere nella sua gestione le industrie private e il governo, sul posto che la nuova fonte energetica dovesse occupare nel sistema elettrico del paese e infine, ciò che più toccava interessi economici e politici, sulla questione della nazionalizzazione dell’energia elettrica. Pur privo di personalità giuridica e di stabili finanziamenti di bilancio, il comitato comunque da subito “rappresentò un esempio, insolito e nuovo per l’Italia, di gestione estremamente dinamica dell’attività di ricerca [e quindi] un possibile modello anche per altri settori di attività scientifica”. 2 Oltre ai finanziamenti per la ricerca applicata, facevano capo al CNRN anche i fondi per la ricerca fondamentale in fisica nucleare. È infatti anche grazie all’atteggiamento intraprendente ed efficiente del Comitato, che si raggiungono in quegli anni alcuni straordinari successi scientifici, come la costruzione dell’elettrosincrotrone di Frascati e in seguito degli anelli di accumulazione AdA e Adone, che valgono all’Italia una posizione di primo piano nel campo della fisica delle alte energie. Dirà Carlo Bernardini, uno dei fisici protagonisti di quelle imprese: “Si parlava di costruire un anello di accumulazione e l’idea era approvata in ventiquattr’ore, in una settimana si piazzavano gli ordini per i componenti e dopo un anno questo già funzionava” 3. Il CNRN inoltre rappresentava l’Italia al CERN e a partire dal 1957 amministra direttamente l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Questo dinamismo, che puntava a legittimare il CNRN come unico organo governativo nel campo nucleare, naturalmente non mancò di generare attriti, soprattutto con il CNR e lo stesso CISE e di guadagnarsi l’ostilità delle industrie private, che guardavano con crescente interesse al mercato del nuovo settore energetico. Nei suoi pri2

G. Paoloni, Dal Cnrn al Cnen, 1952-1960, in Energia, Ambiente, Innovazione: dal Cnrn all’Enea, a cura di G. Paoloni, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 11-12 e 37. 3 Intervista a Carlo Bernardini, in L. Sebastiani, Il Caso Ippolito, Tesi di Laurea, Università di Roma la Sapienza, Facoltà di Scienze Politiche, A.A. 1994-95, pag. 250. 59


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mi quattro anni di vita comunque il comitato riuscì a ottenere un finanziamento complessivo di quasi cinque miliardi di lire. Quando nell’estate del 1956 il presidente Giordani decide di dimettersi, per richiamare l’attenzione del governo sul precario statuto istituzionale del CNRN, Ippolito viene nominato segretario generale e sarà da ora in poi il principale motore e responsabile del comitato. Amaldi e Ippolito del resto si trovano in perfetta sintonia su tutte le scelte cruciali della strategia politico-scientifica: sulla necessità di una programmazione attenta dei differenti indirizzi di ricerca, sull’opposizione a qualsiasi indebita ingerenza dei militari, così come sulla coraggiosa intraprendenza delle scelte scientifiche. Sarà su suggerimento di Amaldi che il CNRN collaborerà e darà impulso alle ricerche in campi apparentemente distanti da quello dell’energia nucleare, come la genetica e la biologia molecolare con Adriano Buzzati Traverso. Dichiarerà Ippolito: “Io e Amaldi formammo una coppia molto decisa ad andare avanti in questo settore […] creammo un ente, che però non aveva personalità giuridica”. 4 È per questo che il nuovo segretario generale scatenerà una violenta campagna giornalistica sulla necessità di definire una strategia nazionale nel settore nucleare. Ma è solo nell’agosto del 1960 che il governo dà legittimità giuridica al Comitato, che diventa Comitato nazionale per l’energia nucleare (CNEN), con il compito “del controllo scientifico e tecnico sulle ricerche nucleari, sui materiali fissili e sulla costruzione e gestione degli impianti”. Il decreto sancisce anche che il presidente del nuovo ente sia il ministro dell’Industria del governo in carica e approva un piano di finanziamento di circa 75 miliardi di lire per il quadriennio successivo. Il mutato clima internazionale nell’ambito delle ricerche per il nucleare civile ha fatto cadere nel frattempo molti top-secret e ha reso manifesto l’avanzato livello tecnico e scientifico raggiunto da alcuni paesi, come Stati Uniti, Gran Bretagna, URSS, Canada e Francia. In Italia si abbandona quindi il progetto della produzione di un “reattore nazionale”, considerando invece la possibilità di acquistare direttamente all’estero i reattori di ultima generazione. Tre diversi e contrapposti attori si affacciano allora sulla scena nucleare: oltre al CNEN, la Società elettronucleare italiana (SELNI), capitanata dalla Edison, e l’ENI di Enrico Mattei. Ingaggiati nella gara per arrivare primi, costruiranno indipendentemente e affidandosi a tecnologie diverse le prime tre centrali nucleari italiane. Il progetto che fa capo al CNEN, in seguito a un accordo del 1960 tra il governo 4

B. Curli, Il progetto nucleare italiano, Rubettino, Soneria Mannelli 2000, pag. 158.

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Amaldi in compagnia di Felice Ippolito.

e la Banca Mondiale, punta alla costruzione di una centrale alle foci del Garigliano, che inizia la sua produzione di energia elettrica nel gennaio del 1964. A meno di quattro anni dell’erogazione del prestito. Altrettanto straordinari sono i tempi di realizzazione della centrale di Latina, la cui realizzazione è affidata dall’Agip nucleare alla Società italiana meridoniale per l’energia atomica (SIMEA) di proprietà per il 75% dell’ENI, e infine di quella di Trino Vercellese, la cui co61


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struzione è avviata dalla Società Elettro Nucleare Italiana (SELNI), senza nemmeno disporre dell’autorizzazione ministeriale. Sta di fatto che alla fine del 1964 l’Italia con una produzione lorda di 3510 GWh è il terzo paese al mondo per la produzione di energia elettronucleare, dopo Gran Bretagna (15135 GWh) e Stati Uniti (3913 GWh), e seguita dalla Francia (1053 Gwh). 5 L’istituzione del CNEN aveva, in effetti, lasciato irrisolto il nodo della gestione e dell’utilizzo dell’energia prodotta. Sarà sciolto due anni dopo con la legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’istituzione dell’ENEL, del cui consiglio di amministrazione fa parte, su sollecitazione del ministro dell’industria Emilio Colombo, anche il prof. Ippolito. Ed è proprio nel consiglio dell’ENEL che si affrontano due visioni contrapposte della politica energetica del paese e in particolare dello sviluppo dell’energia nucleare. Da una parte il progetto di privilegiare la convenienza economica a breve termine del direttore generale Arnaldo Maria Angelini, rimandando di fatto indefinitamente il progetto nucleare; dall’altro la visione di Ippolito di “una politica di ricerca in rapporto alla necessità di un paese moderno e altamente industrializzato”, che scelga “i settori e i tipi di ricerca” da incentivare, in relazione “agli obiettivi economici e industriali da raggiungere”. 6 Nella primavera del 1963, però, mentre questo scontro anima il dibattito politico e mediatico, l’ente nucleare, dopo la fervente attività degli anni precedenti, si trova a fronteggiare una grave crisi finanziaria. Il presidente dell’ente e ministro dell’industria Emilio Colombo non riesce però a convincere il Tesoro ad approvare un secondo piano di finanziamento quinquennale del CNEN. Il più preoccupato della possibilità di completare i programmi di ricerca in corso e avviare quelli previsti, nonché di adempiere agli impegni presi in ambito internazionale è proprio Amaldi, che in quei mesi lancia numerosi e sempre più allarmati appelli al mondo politico. Le risposte apparentemente tranquillizzanti del ministro Colombo, che assicura “la sopravvivenza dell’ente e il mantenimento del personale”, mettono in luce, come dirà Amaldi, “una concezione che ben poco ha a che fare con il futuro della ricerca nucleare”. Affermando “di non essere preoccupato della sopravvivenza del CNEN, ma precisamente dell’attuazione dei programmi predisposti”. 7 È in questo contesto che matura il clima politico e mediatico del cosiddetto “caso Ippolito”.

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Ivi, pag. 71. Un colloquio con Felice Ippolito, l’espresso, 26 agosto 1962. 7 CNEN, Verbali della Commissione direttiva, 2 maggio 1963. 6

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Il processo Sono una serie di note del segretario del Psdi Giuseppe Saragat, diramate tramite l’agenzia stampa del suo partito, a innescare la miccia di una violentissima campagna stampa contro il CNEN e il suo segretario generale. Le dichiarazioni di Saragat mirano a difendere l’operato del consiglio di amministrazione dell’ENEL e a stigmatizzare “lo sperpero di denaro pubblico dell’avventura nucleare”, inoltrandosi in valutazioni, che Amaldi definirà “un monumento imperituro alla stupidità umana”. Sorprendentemente la polemica, sebbene partita a cavallo di ferragosto, viene immediatamente ripresa da autorevoli giornali nazionali, come Il Sole 24 Ore e il Corriere della Sera. Il culmine è raggiunto dalla pubblicazione il 29 Agosto da parte del settimanale cattolico Vita, di un dossier “segreto”, frutto di un’indagine “privata” di quattro senatori democristiani sul CNEN e sull’operato di Ippolito, che, si è concesso la prima vacanza dopo molti anni. Al suo rientro si trova al centro di una polemica incandescente, ma non avrà il tempo di organizzare una possibile difesa. Le confuse accuse che gli vengono rivolte innescano un rapido incalzare di eventi, dietro cui si intravede un calcolato disegno politico, volto a far cadere in disgrazia il segretario generale dell’ente nucleare. È così che il 31 agosto il nuovo Ministro dell’Industria Togni, senza altri elementi che quelli pubblicati sulla stampa, sospende Ippolito dal suo incarico al CNEN e nomina una commissione d’indagine amministrativa sul suo operato, seguita dopo pochi giorni dall’apertura di un’inchiesta della procura generale della Repubblica. La relazione della commissione ministeriale viene resa pubblica il 20 ottobre e contiene numerose accuse a suo carico: falso in bilancio, criteri discutibili nell’assunzione del personale, stipula di un accordo sindacale in una fase di avvicendamento dei presidenti, interessi diretti o indiretti in alcune società di consulenza; esautoramento della commissione direttiva e incompatibilità tra il suo ruolo al CNEN e la carica di consigliere ENEL. Improvvisamente le irregolarità contabili e le leggerezze amministrative dell’ente nucleare, nonché la sua conduzione personalistica e spregiudicata, da sempre note all’autorità governative, si prestavano, in un mutato clima politico, a essere usati per un “regolamento di conti” interno alla classe politica. Il nuovo stato di fatto rende comunque ancora più grave la crisi che attanaglia il CNEN. Durante alcune drammatiche sedute del consiglio direttivo, Amaldi prova a discutere le conclusioni della commissione ministeriale “che travisano del tutto la situazione del Comitato nucleare, in modo […] da offrire il destro agli attacchi mossi […] alla politica delle ricerche nucleari”, ma Togni, neopresidente del CNEN, in qualità di Ministro dell’Industria, si rifiuta di discutere. “Per tre volte tentati di parlare, ma il presidente non me lo permise, e alla fi63


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ne persi la pazienza, perché nessuno mi ha mai impedito di esprimere le mie opinioni” testimonierà Amaldi al processo. Ma le decisioni di quei primi mesi dell’anno anteponevano alle preoccupazioni per la ricerca nucleare italiana la scelta del rispetto formale delle regole amministrative e aprivano la strada a una progressiva burocratizzazione dell’ente. E così, mentre l’inchiesta giudiziaria nei confronti di Ippolito procede, il programma dell’ente verrà ridefinito solo in base a valutazioni contabili, mentre, osservava Amaldi “la natura e l’entità dei tagli dovrebbero dipendere da decisioni sui programmi di ricerca”. Il 3 marzo 1964 Felice Ippolito viene arrestato su ordine di cattura della procura generale di Roma e poco dopo rinviato a giudizio. L’11 giugno si apre il dibattimento, di quello che è definito all’epoca “il più grande processo politico del dopoguerra”. Ippolito deve difendersi da cinquantacinque ipotesi di reato, e lo farà, come scrive Indro Montanelli, “parlando liscio, spedito, padrone della propria materia […] e mettendo in evidenza il divario tra una società che vuole muoversi con scioltezza e dinamismo e lo Stato legato a una burocrazia lentissima”. 8 Riesce a dimostrare l’inconsistenza di molte delle accuse o a fornirne una corretta interpretazione nel contesto della vita dell’ente, richiamandosi alle responsabilità del ministro e del consiglio direttivo. In nessun caso, comunque, viene riscontrato un suo interesse personale. Del resto degli oltre centocinquanta testimoni ascoltati, quasi tutti difendono l’integrità morale e il valore scientifico dell’ex segretario generale del CNEN. Tra questi prestigiose personalità come il presidente dell’Euratom Etienne Hirsch e scienziati di fama mondiale, quali Eduardo Caianiello, Adriano Buzzati Traverso, Vincenzo Caglioti e naturalmente Edoardo Amaldi. “Le personalità più accediate in campo internazionale – dirà Amaldi – […] sono esterrefatte che in Italia sia accaduta una cosa simile. Tutti dicono che se si applicassero questi criteri si dovrebbero mettere sotto accusa quasi tutti gli enti atomici europei”. 9 Lo stesso ministro Colombo, forse il vero bersaglio del processo in atto, si assume in tribunale l’intera responsabilità della gestione scientifica e politica del CNEN, dando l’impressione, con la sua testimonianza, di scagionare definitivamente Ippolito. In modo quasi surreale, invece, l’atteggiamento vessatorio del pubblico ministero Romolo Pietroni si inasprisce e arriva ad affermare che “non

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O. Barrese, Un complotto nucleare. Il caso Ippolito, Newton, Roma 1980, p. 12. Intervento di Amaldi alla tavola rotonda indetta dal “Movimento Salvemini” al Teatro Eliseo a Roma, 14 novembre 1964.

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si può pretendere che gli uomini di scienza e i politici vengano in tribunale a dichiarare di essere stati esautorati e farsi dare una patente di ingenuità”. Non mostrando alcuna intenzione di accertare le responsabilità e condurre le accuse a un livello politico e istituzionale più alto. La sentenza del 29 ottobre 1964, seppur riconoscendo il valore dell’attività del CNEN, condannerà Ippolito a 11 anni e quattro mesi, ascrivendogli ben quarantasette dei cinquantacinque reati contestati, suscitando incredulità e disapprovazione in gran parte dell’opinione pubblica e della stampa. Sarà criticata peraltro anche da giuristi autorevoli come Alessandro Galante Garrone e Carlo Arturo Jemolo. L’Economist scriverà che in Italia “ i dirigenti degli istituti non hanno altra scelta che ignorare regolamenti amministrativi antiquati e complicati, nella speranza di ottenere un benestare post factum oppure procedere con esasperata cautela.” Era stata in effetti smascherata un’incompatibilità profonda tra l’istanza di modernizzazione e sviluppo dell’attività scientifica e l’arretratezza culturale della classe politica e dell’apparato dello stato. E, come ben comprende Amaldi, la posta in gioco riguarda il futuro di tutta la ricerca scientifica italiana. “In questo clima” – dirà dopo la sentenza – “non è facile trovare chi voglia assumersi il compito di mandare avanti queste attività. Può darsi che questo sia il risultato […] che si desiderava da qualche parte. Può darsi che qualcuno volesse incutere tanto timore che, in definitiva, tutti fossero inclini a fare pochissimo, e questo pochissimo potrà rientrare facilmente nelle leggi antiquate che ancora dominano il settore della ricerca”. Il progetto nucleare aveva messo in discussione assetti politici, equilibri economici e burocratici. La condanna a Ippolito equivaleva alla rinuncia a perseguire quel progetto e a una “scelta conservatrice”, che sacrificherà su più fronti lo sviluppo scientifico e tecnologico, dando luogo a una vera e propria anomalia dell’Italia rispetto alle politiche dei più importanti paesi industrializzati. In quello stesso anno infatti una vicenda analoga avrebbe coinvolto l’ex-direttore generale dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) Domenico Marotta, ponendo fine a un’altra esperienza di straordinaria eccellenza scientifica, (l’ISS è all’epoca l’unico istituto di ricerca in cui lavorino due premi nobel, Daniel Bovet e Ernest B. Chain). E nello stesso periodo i cambiamenti degli assetti proprietari della Olivetti e della Montecatini porteranno a dissipare l’incredibile patrimonio di risultati di ricerca e industriali, raggiunti dall’Italia nei settori dei calcolatori elettronici e delle materie plastiche. La sentenza d’appello del processo Ippolito, emessa il 4 febbraio 1966, farà decadere molti dei capi d’accusa e rivelerà come una montatura l’intero castello accusatorio del primo grado, ma continuerà ad applicare una chiave di lettura molto rigida degli illeciti amministrativi di minore entità, definitivamente ac65


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certati. Sarà Giuseppe Saragat, a estrema ironia della sorte, a concedere la grazia nel 1968 a Felice Ippolito, che anche grazie alla stima immutata del mondo scientifico e alla sostanziale convinzione della sua innocenza, tornerà a ricoprire incarichi prestigiosi e nel 1978 fonderà “Le Scienze”. Al di là della vicenda giudiziaria e umana, Amaldi aveva profeticamente intravisto anche la valenza generale del “caso Ippolito”, come battuta d’arresto sulla strada di una politica della ricerca adeguata alle esigenze di uno sviluppo moderno. Un arretramento di cui sarà testimone amareggiato nei decenni successivi della sua vita e che avviò il declino scientifico e tecnologico di cui ancora oggi subiamo le conseguenze. “Chiunque altro avesse assunto il compito di fare il segretario generale del CNEN avrebbe commesso errori; probabilmente avrebbe commesso errori diversi […]. – dirà Amaldi dopo la condanna di Ippolito – Soltanto nel non far niente, tutti si comportano allo stesso modo. Il non far niente, o il fare pochissimo, è la sola cosa veramente ■ uguale per tutti”. 11

11 Intervento di Amaldi alla tavola rotonda indetta dal “Movimento Salvemini” al Teatro Eliseo a Roma, 14 novembre 1964.

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Insegnare la fisica Nicola Cabibbo intervistato da Francesca Scianitti

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he la capacità di trasferire conoscenza agli altri sia propria di una vocazione oppure no, il buon maestro sembra sempre mosso da un’autentica passione per la ricerca. Non c’è da stupirsi, quindi, se oltre che grande scienziato, Edoardo Amaldi sia stato anche un grande didatta. Lo caratterizzava, infatti, oltre al desiderio di comunicare il patrimonio di conoscenza che guidava il suo lavoro di fisico, la curiosità di comprendere il meccanismo della conoscenza: quel percorso spesso imprevedibile che porta all’intuizione e alla comprensione, e che dipende da numerose variabili, tra le quali certamente la formazione di chi ascolta e il contesto in cui si realizza l’insegnamento. Amaldi era perfettamente consapevole che l’azione didattica può sempre essere valutata attraverso la sperimentazione, la deduzione di risultati e l’induzione di leggi generali, come una variabile fisica dipendente da grandezze che possono essere modificate con criterio. Un vero e proprio lavoro da ricercatore sperimentale che Amaldi ha condotto per più di quarant’anni e che continua a essere un solido riferimento per il moderno insegnamento della fisica. L’avventura didattica di Edoardo Amaldi, come i molti libri di matematica e fisica firmati con questo cognome, hanno origini che in qualche modo precedono l’autore e che affondano nella tradizione didattica della famiglia Amaldi, iniziata dal padre di Edoardo, Ugo. Animato da fervente passione per la didattica della matematica, Ugo Amaldi indagava a fondo i meccanismi pedagogici del suo insegnamento promuovendo la produzione di testi didattici in collaborazione con studiosi di grande fama. Fu così che nel 1900 nacquero gli “Enriques-Amaldi”, i testi di geometria e algebra per le scuole secondarie destinati a restare per lungo tempo un modello e, in seguito, il famoso trattato di meccanica razionale in tre volumi che Ugo scrisse in collaborazione con Tullio Levi-Civita, divenuto famoso come il “Levi-Civita Amaldi”. Fu dunque ereditando la passione per la ricerca didattica del padre che Edoardo diede origine alla lunga tradizione dei libri scolastici detti gli “Amaldi” che oggi portano la firma del figlio Ugo. Fisico delle particelle impegnato 67


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Amaldi durante una lezione nel 1962.

per diversi anni al CERN di Ginevra, Ugo Amaldi mantiene viva una tradizione didattica che dura da più di un secolo, rielaborando e aggiornando ormai da diversi anni i testi di fisica che portano il suo nome, per adattarli a ogni edizione alle nuove generazioni di studenti. La prima edizione degli “Amaldi”, scritta a quattro mani da Edoardo insieme alla moglie Ginestra, astronoma e divulgatrice scientifica, nacque in realtà come rielaborazione di un corso per licei che Enrico Fermi aveva scritto per la Zanichelli nel 1929, nove anni prima di trasferirsi negli Stati Uniti. I percorsi scientifici di Fermi e Amaldi coincisero per alcuni anni, a partire da quando, alla fine del suo secondo anno di università, Amaldi accolse l’appello di Orso Mario Corbino e si unì un nuovo gruppo di ricerca su temi di fisica moderna. Il gruppo avrebbe dovuto lavorare proprio sotto la guida di Fermi presso l’Istituto di via Panisperna. Fu così che Amaldi divenne compagno di studi di Emilio 68


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Segrè, del quale era già buon amico, e di Ettore Majorana, laureandosi con lui nel 1929 con una tesi assegnatagli da Franco Rasetti, suo relatore. Nel 1937, in seguito alla scomparsa di Corbino, Amaldi venne chiamato presso l’Università di Roma a ricoprire la cattedra di Fisica Sperimentale: ebbe inizio così il suo percorso da docente, rimasto ininterrotto per i successivi 41 anni. “Ebbi l’opportunità di conoscere Edoardo Amaldi nella doppia veste di docente e di scienziato” – racconta Nicola Cabibbo, autore di scoperte fondamentali nella fisica teorica degli ultimi decenni e il cui nome è indissolubilmente legato al fenomeno del ‘mescolamento dei quark’. “Il mio primo contatto con Amaldi fu nel 1953 quando, giovane studente di fisica, frequentavo il corso di fisica sperimentale all’Università di Roma – spiega il professor Cabibbo con lieve tono di riverenza – più tardi, circa 10 anni dopo, ebbi anche l’occasione di collaborare con lui a un lavoro di rassegna sui monopoli magnetici, io da fisico teorico, Amaldi da sperimentale”. Quando chiedo a Cabibbo quale sia il suo primo ricordo di Amaldi professore, esita per un istante: “L’autorevolezza di Amaldi professore era tale da incutere un particolare rispetto. All’epoca in cui seguivo i suoi corsi, aveva 45 anni, ma appariva certamente come un professore di grande esperienza, e la sua fama era effettivamente indiscussa nonostante la giovane età. Sì, l’autorevolezza è certamente il mio primo ricordo, e il più nitido, di Amaldi professore. Inoltre, era rigoroso e aveva una straordinaria capacità di esporre gli argomenti con chiarezza, utilizzando esempi semplici ed efficaci”. “Sarebbe certamente una guida per la mia attività didattica – mi spiega Cabibbo, che è anche professore di fisica delle particelle elementari all’Università la Sapienza di Roma, quando gli chiedo se Amaldi possa essere considerato un riferimento per la didattica universitaria – se tenessi corsi di fisica di base. Mi sarebbe piaciuto farlo: sarebbe stata certamente una sfida molto interessante. Io però tengo corsi di fisica avanzata: gli argomenti di cui tratto hanno avuto sviluppo a partire dagli anni Settanta e il riferimento per la didattica moderna è certamente l’americano Richard Feynman, un altro eccezionale modello per la didattica della fisica. Tornando ad Amaldi, però, ricordo ancora la spiegazione molto semplice, seppur rigorosa, del ruolo degli atomi nella rifrazione della luce, fatta con esempi molto chiari, in modo da risultare facilmente intuibile e rimasta indelebile nella mia memoria. Io non credo che si debba scadere nell’eccessiva semplificazione quando si spiega la fisica. La comprensione avviene a livello più che altro intuitivo e la possibilità di comprendere dipende molto anche dalle esperienze precedenti, dalla curiosità scientifica dell’adolescenza e della giovinezza. Tuttavia il ruolo del docente può essere decisivo nell’accompagnare il flusso dell’apprendimento”. 69


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A proposito di libri, Cabibbo mi confessa di conservare ancora con cura il testo di fisica che Amaldi scrisse a quattro mani con Gilberto Bernardini, come manuale per il corso di fisica sperimentale. “Rimane per me un riferimento, oltre che un oggetto di valore storico e affettivo – spiega – come esempio di chiara e rigorosa esposizione degli argomenti della fisica di base”. Dalle parole di Cabibbo capisco che nell’instancabile rigore, oltre che nel naturale talento, il didatta Amaldi incontra lo scienziato: “Nel periodo in cui abbiamo collaborato alla ricerca, tra il 1962 e il 1963 – racconta Cabibbo – fui impressionato dall’instancabilità di Amaldi: era un lavoratore formidabile. La sua dedizione al lavoro era totale e voleva capire a fondo tutto il background teorico esistente sull’argomento di cui ci stavamo occupando. Lo ammiravo e l’invidiavo per questo. Quello sui monopoli magnetici è stato anche uno dei suoi ultimi lavori nel campo delle particelle, prima di dedicarsi alla sperimentazione sulle onde gravitazionali. E per me fu di fondamentale importanza. In coda a questa collaborazione, infatti, ebbi l’occasione di dedicarmi più a fondo alle ricerche sui monopoli magnetici. Oggi siamo ormai in grado di spiegare il perché della loro non esistenza e questo è certamente uno dei lavori cui sono maggiormente affezionato”. Quando chiedo a Cabibbo quale sia il miglior nutrimento per una buona attività didattica a livello universitario, mi risponde naturalmente e senza esitazione: “La ricerca. Si insegna con l’esempio: non a caso i professori sono scelti tra ricercatori di grande valore. Viceversa, l’attività didattica obbliga a interrogarsi ed è una continua occasione di conoscenza per il docente, che non deve solo ricordare, ma anche ricreare. Edoardo Amaldi era incredibilmente bravo in questo e ogni sua affermazione era perfettamente giustificata ed esemplificata, senza inutili passaggi e senza dare nulla per scontato: una guida ideale per l’intuito”. ■

Nicola Cabibbo è docente presso l’Università di Roma La Sapienza di Fisica delle particelle elementari, settore di ricerca in cui ha ottenuto fondamentali risultati scientifici. È stato presidente dell’INFN e dell’ENEA. Accademico dei Lincei, dal 1993 è presidente della Pontificia Accademia delle Scienze. Francesca Scianitti è comunicatore scientifico presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, dove collabora alla realizzazione di mostre, alla redazione della rivista Asimmetrie e alla divulgazione della Fisica delle particelle in Italia e in Europa. 70


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L’Asia, leader del mondo multipolare della scienza Pietro Greco

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atlante delle idee sta cambiando. La geografia della conoscenza non è più quella di trecento, settanta o anche solo venti anni fa. La scienza non è più appannaggio della sola Europa – come è avvenuto, in buona sostanza, tra il XVII e il XX secolo. E non è più neppure un gioco che si svolge tra le due sponde dell’Atlantico (con l’unica eccezione del Giappone nel secondo dopoguerra), come è avvenuto negli ultimi settant’anni. Ormai è un gioco multipolare. Cui partecipano paesi di ogni parte del mondo (Tabella 1) Paese Usa Cina Giappone Germania Francia India Gran Bretagna Corea Brasile Canada Taiwan Italia Russia Spagna Mondo

Spesa 2007 (miliardi $ a ppa) 353,0 175,0 143,5 64,6 44,0 41,8 40,1 37,7 26,0 24,5 19,9 19,0 18,0 15,0 1.124,0

In questi ultimi anni l’Asia, in particolare, è tornata a essere – dopo molti secoli, probabilmente – il continente dove si investe di più in ricerca e sviluppo (R&S). Certo, la conoscenza non è riducibile alla sola produzione di nuova scienza e di 73


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Ultime dalla Società della Conoscenza

nuove tecnologie. E, a loro volta, lo sviluppo della scienza e l’innovazione tecnologica non si misurano solo in termini di investimenti. E tuttavia questo dato ci dice che il mondo sta cambiando. Che l’atlante delle idee, appunto, si sta modificando. Entro un paio di decenni, si calcola, il 90% degli scienziati e dei tecnici di tutto il pianeta vivrà lungo le sponde asiatiche che affacciano sull’Indopacifico. Non è questa la sede per analizzare i rischi e le opportunità associati a questo “nuovo mondo”. Ma intanto occorre registrare il fatto che siamo in un “nuovo mondo”, che il vento della conoscenza spira sempre più forte a Oriente, che l’Asia si propone come un nuovo polo – il terzo – nella geografia della conoscenza (Tabella 2). Paese Asia Americhe Europa Indopacifico Nord-Atlantico

Spesa 2007 (miliardi $) 436 387 276 823 654

Percentuale 38,9% 34,4% 24,6% 75% 58%

Cosa sta avvenendo, dunque, in Asia? Se diamo uno sguardo alle due tabelle possiamo averne se non una descrizione, certo un’idea. L’Asia nel suo complesso – dal Medio Oriente al Giappone – nell’anno 2007 ha investito in R&S circa 436 miliardi di dollari. Una cifra enorme che costituisce il 39% dell’attuale spesa mondiale e che è superiore a quanto il mondo intero investiva in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico venti anni fa. Quella dell’Asia è, sostanzialmente, una new wave, almeno in epoca moderna. Nata e sviluppatasi essenzialmente negli ultimi due decenni. Solo il Giappone vanta una tradizione di investimenti più antica (sviluppatasi a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo). Protagonisti di questa nuova stagione non sono tutti i paesi asiatici, ma solo una dozzina tra loro. Tra cui spiccano tre paesi molto diversi tra loro: la Cina, l’India e la Corea del Sud. Il primo, la Cina, è il più popoloso paese del mondo. Ha un regime comunista, ma ormai un’economia di mercato con caratteri spinti di centralismo. L’India è, invece, la più grande democrazia del mondo, segnata da enormi disuguaglianze e da un’economia che segue più un modello caotico che centralizzato. La Corea del Sud è più piccola degli altri due paesi, potremmo definire il suo regime 74


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Cronache dal Mondo

di democrazia con una certa vocazione autoritaria che non disdegna di dirigere dal centro un’economia aperta di mercato. I tre paesi stanno puntando molto sulla scienza e la tecnologia. E si collocano, ormai, rispettivamente al secondo, al sesto e all’ottavo posto nella classifica dei paesi che al mondo investono in termini assoluti di più in R&S. Diversa, tuttavia, è la loro storia scientifica recente. La Corea del Sud ha iniziato a investire in R&S già a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo e ha raggiunto un’intensità di investimenti, prossima al 3%, che la colloca tra i primi paesi al mondo. La Cina è partita molto dopo – solo negli anni Novanta. Ma la velocità di crescita degli investimenti in R&S (superiore, in media, al 20% annuo) ha ben pochi precedenti nella storia e le ha consentito di recuperare rapidamente sia in termini assoluti (da due anni la Cina ha superato il Giappone ed è il paese al mondo che investe di più, dopo gli Stati Uniti), sia in termini relativi: gli investimenti ammontano all’1,6% del Pil (Prodotto interno lordo), poco meno della media dei paesi europei (1,8% del Pil). L’India – sebbene avesse una struttura accademica non trascurabile anche prima – ha iniziato a investire ancora dopo, ma vanta ormai ritmi di crescita di tutto rispetto, appena inferiori a quelli cinesi, che le consentono di ospitare, ormai, il principale distretto informatico del mondo (a Bangalore), di spendere in termini assoluti più della Gran Bretagna (in termini relativi gli investimenti sono introno all’1% del Pil), il paese di cui era colonia fino a cinquant’anni fa, e di laureare ogni anno 2,5 milioni di giovani in materie scientifiche o in ingegneria. Con caratteri politici ed economici così diversi e una storia tecnoscientifica così differenziata tra questi paesi (ma simili argomenti valgono anche per gli altri della costellazione emergente), è chiaro che non esiste un modello unico – un modello asiatico – di sviluppo della scienza e della tecnologia. Esiste piuttosto una pluralità di modelli. Con alcuni tratti comuni, tuttavia. Tra questi tratti comuni, forse, il più significativo è il ruolo attivo dello stato nello sviluppo della scienza e della tecnologia. In Cina gli investimenti pubblici, dopo un avvio stentato, stanno crescendo a ritmi superiori a quelli privati (in gran parte stranieri). In Corea del Sud, sebbene la maggior parte degli investimenti siano pubblici, lo stato investe il 7% del proprio budget in R&S (in Italia la spesa è inferiore al 2%). E anche in India lo stato sta allestendo una rete di istituti di ricerca che cresce a vista d’occhio sia per quantità (può già contare su oltre 400 laboratori), sia per qualità. L’Asia non avrà un modello unico di ricerca e sviluppo tecnologico, ma da questo punto di vista costituisce un modello.

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Cronache dall’Europa

Il nucleare intorno a noi Stefano Pisani

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uella dell’energia è una delle sfide più importanti con cui si sta confrontando attualmente l’Europa. La crescente preoccupazione per i cambiamenti climatici e la dipendenza europea da fonti energetiche straniere il cui prezzo aumenta sempre di più hanno riportato sul tavolo delle scelte della politica i temi della sostenibilità, dell’efficienza, della individuazione e la scelta di fonti energetiche alternative. Si ricomincia, in particolare, a parlare di nucleare. E non solo in Italia, dove il dibattito circa il ritorno all’atomo è entrato nel vivo con l’insediamento del nuovo Governo. Anche nel resto dell’Europa – e del mondo – questa forma di approvvigionamento energetico occupa le agende politiche e strategiche delle nazioni. Gli attori sul terreno della discussione sono sostanzialmente due: il raggiungimento dell’obiettivo del dimezzamento delle emissioni dei gas serra rispetto ai valori del 1990 entro il 2050 e la dipendenza energetica dal petrolio. L’energia nucleare sembra fornire un’alternativa agli altri tipi di energia dell’Unione Europea. Negli scorsi mesi, il ritorno nel club del nucleare promesso dal nuovo esecutivo ha suscitato in Italia un’accesa discussione. Ma se è ancora incerto dove costruire le eventuali centrali annunciate, quello che è sicuro è che l’Italia si trova già, di fatto, “immersa” nel nucleare europeo. La nostra penisola è circondata da 82 impianti (solo a voler guardare quelli di Francia, Germania, Slovenia, Svizzera, i paesi che ci sono più vicini). Nel vecchio continente, il 35% dell’energia elettrica è di provenienza nucleare e in Europa si concentrano 197 centrali, circa la metà degli impianti complessivi del mondo. Un’Europa la cui opinione pubblica è sempre più favorevole al nucleare. Stando all’ultimo sondaggio Eurobarometer della Commissione Europea sulle attitudini dei cittadini europei verso il nucleare dello scorso giugno, negli ultimi tre anni gli europei favorevoli sono aumentati complessivamente di circa 7 punti percentuali. Naturalmente, l’entusiasmo maggiore si registra nei paesi nuclearizzati, a eccezione di Spagna e Romania, mentre c’è un certo scetticismo in quelle 76


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Cronache dall’Europa

Reattori nucleari in Europa – fonte: European Nuclear Society

nazioni che non ospitano centrali. Il problema delle minori emissioni di gas serra sembra poi soprattutto una preoccupazione dei governi perché, in media, il 20% degli europei interpellati nello stesso sondaggio non sa se le centrali nucleari emettono meno gas serra dei combustibili fossili. All’ultimo vertice del G8 che si è tenuto in Giappone, tutti i paesi tranne la Germania hanno puntato sul rilancio della fissione nucleare come fonte di energia ecologica. In gran parte del mondo si sta rivedendo il giudizio sull’energia atomica, sia a causa dell’emergenza energetica sia perché questa tecnologia ispira sempre più fiducia. In Europa, in particolare, si annunciano progetti di nuove centrali. In Finlandia, tecnici tedeschi e francesi stanno costruendo un moderno reattore ad acqua pressurizzata, un reattore di terza generazione in cui i danni sarebbero limitati anche se si dovesse verificare l’incidente più catastrofico, la fusione del nocciolo. In quelli di quarta generazione, questo tipo di incidente sarà escluso in linea di principio. Sotto il profilo della ricerca, però, il mondo potrebbe non essere al passo con le sue ambizioni tecnologiche. Secondo Jürgen Trittin, esponente dei Verdi tedeschi ed ex ministro federale per l’ambiente infatti, “negli Stati Uniti non ci sono 77


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state grosse novità dalla fine degli anni Settanta e in Europa c’è un’unica esperienza attiva, quella della Finlandia. E nel frattempo, nel resto dell’Unione europea sono state chiuse cinque centrali atomiche”. Nonostante tutto, comunque, i 439 reattori attualmente esistenti nel mondo sembrano destinati ad aumentare. Samuel Bodman, ministro statunitense dell’energia, prevede un fabbisogno futuro di altri cento reattori, la Cina vuole quadruplicare il numero delle sue centrali portandole a 40 e l’India prevede importanti investimenti nel settore. Il Financial Times, in un corsivo di qualche mese fa, ha però sollevato una questione politica, accusando i leader mondiali di non voler dire la verità ai propri cittadini, e cioè che l’unica soluzione realistica è convincersi che bisogna risparmiare energia. Tuttavia, secondo Gordon Brown, premier britannico, nell’arco dei prossimi 40 anni il mondo andrà incontro a una tale crisi climatica ed energetica da richiedere la costruzione di almeno 1000 nuovi impianti, per liberarsi dalla dipendenza del petrolio. Solo 12 anni fa, la Royal Commission on Environmental Pollution definiva “moralmente indifendibile” sostenere il ricorso all’energia nucleare, e lo stesso governo Blair (predecessore di Brown) più volte e per molti anni ha ritenuto l’opzione nucleare “non attraente”. Ma sembra che la corsa al rialzo del prezzo del petrolio abbia fatto cambiare le carte in tavola. Adesso, il segretario di Stato per Affari e Imprese John Hutton ritiene che l’energia nucleare sia “indispensabile, e la Gran Bretagna diventerà un volano fondamentale per il rinascimento nucleare di tutta l’Europa”. Dopo aver spento 26 reattori, il governo inglese ha infatti annunciato un cambio di rotta in fatto di nucleare. Il primo ministro britannico vuole garantire l’autonomia energetica del paese con la costruzione di almeno altri venti reattori, che si affiancherebbero agli attuali 19 ancora attivi. I primi 8 da realizzare nel giro dei prossimi 15 anni e le nuove centrali saranno costruite nelle vicinanze dei siti già esistenti, dove l’opposizione degli abitanti è minore perché la gente ha già superato i timori relativi alla sicurezza e spera in nuovi posti di lavoro. Entro due anni sapremo se le sedi saranno confermate. I nuovi reattori di taglia media dovrebbero essere già in grado di produrre energia a partire dal 2018. Nucleare in primo piano anche in Germania. Nel 2000, il paese ha deciso di smantellare gradualmente una serie di centrali entro i successivi vent’anni. Centrali modello, ritenute fra le più sicure e affidabili del mondo, testimonianza del livello di eccellenza raggiunto da questo paese in questa tecnologia. Ma l’inversione di tendenza, con una opinione pubblica tedesca che negli ultimi tre anni ha registrato un +8% di pareri favorevoli al nucleare, è entrata oggi nel dibatti78


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to politico. Erhard Eppler, del partito socialdemocratico tedesco, ha avanzato la proposta di prorogare l’uso delle centrali esistenti sul territorio tedesco, a patto di includere nella costituzione il divieto di costruirne di nuove. La Cdu, i cristiano democratici del cancelliere Angela Merkel, hanno recentemente proposto di tornare sulla decisione di abbandonare il nucleare e di lasciare in funzione, dopo il 2020, le 17 centrali presenti sul territorio tedesco. L’esplosione dei prezzi petroliferi e le preoccupazioni per le emissioni di gas stanno evidentemente modificando il pensiero dell’opinione pubblica. E così, la Merkel ha deciso di portare nella prossima campagna elettorale il tema rilancio del nucleare per contenere i costi energetici e continuare a privilegiare una produzione che (scorie a parte) ritiene meno inquinante. Un paese in cui il nucleare sembra procedere a gonfie vele è la Francia, nonostante la sua opinione pubblica faccia sì registrare, sempre secondo i dati Eurobarometer, i livelli più alti di consenso al nucleare, ma anche quelli più bassi di informazione circa la gestione delle scorie. Il gigante nucleare Areva ha confermato che sarà avviata la costruzione di un secondo reattore nucleare di terza generazione. L’impianto si aggiungerà così a quello, sempre Evolutionary Power Reactor (EPR, ad acqua pressurizzata), attualmente in costruzione a Flamanville, e che dovrebbe diventare operativo fra 4 anni. L’annuncio è stato dato direttamente dal presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, senza però precisare né la data di messa in opera dell’impianto né la sua sede. I reattori di terza generazione nel mondo la cui costruzione è stata pianificata (o già avviata), diventerebbero dunque sei: due in Francia, uno in Finlandia, due in Cina, uno negli Stati Uniti. Il paese, sotto Sarkozy, ha subito una ulteriore accelerazione filonucleare, stringendo accordi bilaterali di commercio nucleare con Algeria, Giordania, Libia, Marocco, Tunisia, Emirati Arabi Uniti. La Francia si è inoltre impegnata ad aiutare Cina, India e Brasile a espandere il proprio programma nucleare anche se, per paesi in cui bisogna partire da zero, l’Autorità per la Sicurezza Nucleare francese ha stimato che occorrano almeno 15 anni per costruire il necessario quadro regolatorio. Gli attuali 59 reattori francesi forniscono il 78% dell’elettricità della nazione, che corrisponde però solo al 18% della energia finale, ovvero quell’energia che effettivamente arriva al consumatore dopo le fasi di processamento, trasformazione e distribuzione. Il 70% dell’energia finale francese è ancora assicurata dai combustibili fossili. Un problema importante poi sono i tecnici esperti di nucleare che, fra un po’ di anni, in Francia cominceranno a scarseggiare. È previsto infatti che il 40% degli operatori atomici della EDF, il colosso energetico francese, andrà in pensione nel 79


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2015. In vista di un rimpiazzo, il governo ha già detto di aver bisogno di circa 1200 laureati all’anno per i prossimi 10 anni nel settore dell’energia atomica, sebbene finora il numero di questi laureati non superi i 300 l’anno, e l’Eliseo si sta già attivando per promuovere l’immigrazione dei cervelli. La stessa Areva si sta impegnando a formare ingegneri nucleari investendo ingenti cifre nelle università della Bulgaria. La mancanza di personale esperto e qualificato del settore è uno dei principali problemi anche in Russia, che sta comunque pianificando la costruzione di 40 nuovi reattori nel prossimo futuro. Attualmente, nel paese funzionano 31 reattori. Il governo di Mosca prevede di espandere il suo arsenale nucleare civile e costruire altri 40 reattori nei prossimi 25 anni, e poi altri 60, a sentire Sergei Kiriyenko, capo della compagnia Rosatom e già vice primo ministro di Boris Eltsin. La tecnologia utilizzata sarà ancora quella RBMK, impianti realizzati durante gli anni Cinquanta e Sessanta e solo nell’ex Unione Sovietica. Il reattore numero 4 di Chernobyl in cui si verificò l’incidente era di questo tipo. Dopo quella tragedia, la tecnologia impiegata è stata continuamente migliorata e ora, a detta di Kiriyenko, è in grado di superare gli standard occidentali, anche se molti osservatori internazionali ritengono che nessuno dei reattori RBMK sia ancora sufficientemente sicuro. Inoltre, il governo russo non sembra avere ancora molto chiare le idee sullo smaltimento delle scorie. Un punto ancora non risolto che la grande Russia ha in comune con la piccola Svizzera. La questione nucleare nel paese elvetico è sempre stata molto controversa, in parte a causa delle conseguenze che un incidente nucleare avrebbe in un piccolo e densamente popolato stato come quello elvetico. La Svizzera, attualmente, esporta i rifiuti nucleari provenienti dai suoi 5 reattori verso La Hague, in Francia e Sellafield, in Gran Bretagna. Ma da trent’anni lo stato è alla ricerca di una soluzione interna. Se si riuscirà a convincere la popolazione, probabilmente dal 2040 le scorie altamente radioattive potranno essere depositate in una formazione argillosa sotterranea chiamata Opalinus. Lo strato di roccia è impermeabile all’acqua ed è posto a molti metri sottoterra. Tuttavia, finora, un sito di stoccaggio finale non è stato ancora individuato definitivamente. Dopo aver sospeso la costruzione di nuove centrali per dieci anni, in seguito a un referendum nel 2003, il paese ha deciso di non rinnovare la moratoria. La Svizzera, che attualmente ricava il 60% della sua energia da impianti idroelettrci e il 40% da quelli nucleari, si prepara a costruire da cinque a otto nuovi reattori. Ma la decisione finale spetterà ai cittadini elvetici, che saranno chiamati a esprimersi in un nuovo referendum che si terrà nel 2012 o nel 2013.

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Europa news Gli ultimi sei mesi di Nano-scienze, ICT e Biotecnologie in Europa Cristian Fuschetto, Romualdo Gianoli, Stefano Pisani

Russia e Usa unite dalle nanotecnologie La Russia investirà un totale di 4 miliardi di dollari nella ricerca nanotecnologica nell’arco dei prossimi quattro anni. Secondo Leonid Melamed, capo della società Rosnanotech, l’accordo raggiunto con il National Institute of Standards and Technology americano durante la conferenza di tre giorni di Denver dedicata alle energie rinnovabili rappresenta “una possibilità unica per espandere e sviluppare questo tipo di commerci in Russia”. Ma chissà se questa collaborazione fra le due superpotenze non serva anche alla parte americana per recuperare terreno perché, secondo le stime del Project on Emerging Nanotechnologies, al 2006 l’Europa ha investito in ricerche sulla sicurezza delle nanotecnologie il doppio di quanto abbiano investito gli Usa: 24 milioni di dollari contro 13. La Rosnanotech investirà il 70% del proprio budget per favorire quelle aziende nascenti che vogliono impegnarsi nel campo delle nanotecnologie, e le sosterrà finché non saranno indipendenti. Coinvolti nel progetto, oltre al NIST e alla società di Melamed, anche l’Istituto Kurchatov, che si occuperà più direttamente della ricerca, mentre la Rosnanotech si concentrerà principalmente sulle attività commerciali.

Olanda terzo investitore mondiale in nanotecnologie I Paesi Bassi sono il terzo investitore in campo nanotecnologico al mondo, dopo Israele e Singapore, in rapporto alla percentuale sul Prodotto interno lordo dedicata a questo settore di ricerca. Il governo olandese sta pianificando ulteriori azioni che mireranno a espandere l’esperienza già acquisita in questo campo, con particolare riferimento ai settori della ricerca, innovazione, gestione del rischio, aspetti etici e legali, dialogo e comunicazione con la società legati alle nanotecnologie. La nuova agenda della ricerca nanotecnologica olandese è stata presentata questa estate e riguarda progetti che prenderanno il via a partire dal 2010. Il punto principale riguarda un investimento annuo del 15% del budget complessivamente a disposizione sulla ricerca sul rischio delle nuove nanotecnologie. Inoltre, un ampio comitato di consulenti governativi sugli aspetti etici e su quelli di comunicazione e confronto con la società sarà costituito entro la fine dell’anno.

I nanotubi di carbonio come l’amianto? Un nuovo studio condotto da una squadra di scienziati del Regno Unito e degli Stati Uniti ha svelato il potenziale cancerogeno di alcuni nanotubi di carbonio. Su Nature Nanotechnology, i ricercatori denunciano infatti caratteristiche simili all’amianto dei nanotubi lunghi e a parete multipla (MWCNT). Dunque, secondo gli scienziati dell’Università di Edimburgo, se inalati in quantità sufficiente i nanotubi di carbonio lunghi e sottili hanno gli stessi effetti delle fibre di amianto,

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hanno cioè il potenziale di causare il mesotelioma. Il mesotelioma è un cancro della pleura che può impiegare da 30 a 40 anni per comparire dopo che una persona è stata esposta a una sostanza nociva. Negli anni Quaranta del secolo scorso si è scoperto che l’amianto causa il mesotelioma e persino oggi, dopo che il suo uso è stato drasticamente ridotto, i cancri imputabili all’amianto probabilmente continueranno ad apparire ancora per diversi decenni. “Questo è un segnale d’allarme per la nanotecnologia in generale e per i nanotubi in carbonio in particolare – ha aggiunto Andrew Maynard, coautore dello studio e capo consulente scientifico per il Progetto sulle Nanotecnologie emergenti. Come società non ci possiamo permettere di non sfruttare questo materiale incredibile, ma non ci possiamo permettere nemmeno di sbagliare, come abbiamo fatto con l’amianto.” Secondo il Progetto sulle Nanotecnologie emergenti, si prevede che il valore del mercato globale totale dei nanotubi di carbonio, catalizzatori, celle solari, batterie, celle a combustibile e sensori oltre a innovativi materiali di rivestimento in campo medico e nuovi farmaci, supererà 1,2 miliardi di euro entro il 2010.

In Svezia tunnel puliti con le nanotecnologie Nanogate, pioniere nanotecnologico tedesco, e ALRON, società svedese di prodotti chimici, sono stati incaricati dalla città di Stoccolma di rivestire dei prodotti della Nanogate il sistema di tunnel Södra Länken. Le pareti della rete, lunga circa 16 chilometri complessivamente, saranno dunque ricoperte da superfici

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speciali che ridurranno significativamente l’adesione, permettendo una pulizia molto più semplice ed economica, con una considerevole riduzione dell’uso di agenti chimici dannosi per l’ambiente. Il sistema di gallerie dello Södra Länken è il più ampio in Europa e i fumi di scarico delle numerose autovetture costringono a ripulire il cemento più esposto spesso e con un dispendio economico notevole. Inoltre, durante queste frequenti manutenzioni il traffico cittadino deve essere deviato altrove. Il contratto consentirà dunque di risolvere problemi di carattere pratico e ambientale non indifferenti, e si stima che il suo valore si aggirerà intorno al milione di euro.

L’Europa si riunisce a novembre per tracciare la strada della ricerca nell’ICT del prossimo decennio Dal 25 al 27 novembre si svolgerà a Lione “ICT 2008”, il più grande evento europeo sulla ricerca nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione anzi, in assoluto, il più grande evento dedicato alla ricerca europea di tutto il 2008. I prossimi dieci anni vedranno importanti trasformazioni nel panorama tecnologico, industriale e commerciale che circonda il settore dell’ICT, giudicato cruciale per l’economia mondiale nel prossimo decennio. L’Europa non vuol farsi trovare impreparata all’appuntamento e, per questo, chiama a raccolta tutte le proprie migliori energie del settore. Si discuterà di una molteplicità di temi diversi quali, ad esempio, il ruolo dell’Europa nel dar forma alla futura rete internet, il possibile contributo dell’ICT alle tecno-


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Cronache dall’Europa

logie della sostenibilità e i percorsi di ricerca alternativi per i futuri sistemi e componenti per l’ICT. Ma ci sarà spazio anche per leaders “visionari” e lungimiranti provenienti dal mondo accademico e industriale, per immaginare in modo innovativo il futuro europeo dell’ICT.

Pubblicato a giugno l’“Aho Report”, il rapporto sulla ricerca europea nelle alte tecnologie dell’Information Society

la ricerca e per spingerla a rischiare di più e ad aprirsi a più partner internazionali”. In definitiva l’Aho Report suona come una sveglia per i responsabili politici ed economici europei, sollecitati a delineare nuove strategie di investimento, che siano in grado di far fruttare maggiormente gli oltre 4 miliardi di euro investiti che, in fondo, sono pur sempre una parte non trascurabile delle tasse pagate dai cittadini dell’Unione Europea.

L’Europa sceglie l’Open Source Tra il 2003 e il 2006 l’Unione Europea ha investito oltre 4 miliardi di euro in ricerca nel settore dell’Information Society, che vanno ad aggiungersi agli altri 100 miliardi investiti dai singoli Stati Membri e dalle aziende private. Ora, mentre si sta sviluppando il piano che guiderà la ricerca europea fino al 2013, Bruxelles ha voluto fare il punto della situazione per capire in che misura il denaro investito è stato effettivamente in grado di rafforzare la competitività europea. Lo studio è stato affidato a un apposito panel di esperti indipendenti, guidato dall’ex Primo Ministro finlandese Esko Aho (http://ec.europa.eu/dgs/information_society/evaluation/data/pdf/fp6_ ict_expost/ist-fp6_panel_report.pdf). “Negli ultimi anni – afferma Aho – la ricerca europea nell’Information Society ha dato risultati incoraggianti, dalle comunicazioni mobili ai sistemi di controllo elettronico per le automobili. Ma io ritengo che sia ancora necessario un cambiamento di rotta nella politica della ricerca europea, per evitare che gli investimenti si riducano a niente più che una goccia nell’oceano. È necessario che gli Stati Membri e il Parlamento Europeo si dotino di strumenti flessibili per meglio focalizzare

L’Europa punta sull’Open Source, il software il cui codice sorgente viene lasciato aperto al contributo di chiunque e dunque, liberamente utilizzabile. Questo è quanto si deduce dall’intervento del Commissario Europeo per la Concorrenza Neelie Kroes (già protagonista della vicenda che vide la Microsoft condannata in Europa per abuso di posizione dominante), durante una conferenza organizzata a giugno a Bruxelles dall’organizzazione indipendente OpenForum Europe. Kroes ha pubblicamente raccomandato alle aziende e ai governi europei l’uso di software basato su standard aperti e accettati internazionalmente, piuttosto che su standard proprietari. “So riconoscere una soluzione d’impresa intelligente quando ne vedo una – ha affermato Neelie Kroes – e scegliere standard aperti è sicuramente una soluzione intelligente”. Le affermazioni del Commissario Kroes sembrano, dunque, un implicito appoggio alla petizione “Open Parliament”, lanciata lo scorso marzo da OpenForum e altre associazioni, nella quale si chiede l’adozione di software open source da parte del Parlamento Europeo. Che il fenomeno dell’open source, poi,

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sia in crescita continua ed esponenziale già nel mercato consumer europeo, è sotto gli occhi di tutti. Basta pensare che, nella sola Italia e durante il solo mese di giugno 2008, sono state scaricate da internet 523.234 copie della suite per ufficio gratuita alternativa a quella di Microsoft: in pratica una ogni 5 secondi. Non deve stupire, dunque, che gli analisti stimino in quasi 5 miliardi di dollari il fatturato complessivo del software open source entro il 2012 e che più del 90% delle aziende utilizzerà tale software per svolgere la propria attività.

metodi sviluppati. ENCITE lancerà un bando competitivo in questo autunno per assicurarsi nuovi partner. Gli esperti hanno stabilito tre diversi principi alla base del trattamento dei disturbi medici: cellule trapiantate usate come una ‘medicina attiva’, cellule trapiantate usate per sostituire tessuti danneggiati e degenerati e cellule usate come veicolo per un farmaco. La medicina ha usato la terapia cellulare nel corso degli anni per trattare una miriade di disturbi, tra cui il cancro, le lesioni del midollo spinale, i disturbi autoimmuni e il morbo di Alzheimer.

Lanciato nuovo progetto Ue per trattamento con cellule staminali

Al via Bioforum 2008

Sviluppare tecnologie e metodi di imaging nel campo della terapia cellulare, intesa come trapianto di cellule vive per sostituire o riparare tessuti o cellule danneggiate. È questo il principale obiettivo di European network for cell imaging and tracking expertise (Rete europea di competenza per imaging cellulare e monitoraggio - ENCITE), un progetto quadriennale sostenuto dall’Unione Europea con 11 milioni di euro e seguito da un gruppo di esperti di imaging cellulare coordinato dall’Istituto europeo di ricerca sull’imaging biomedico (EIBIR), con sede a Vienna. Il progetto ha preso il via a giugno e riunisce 21 partner provenienti da 10 paesi. I membri del team hanno detto che man mano che avanza, la collaborazione di altri partner altamente qualificati rafforzerà la ricerca o le attività di divulgazione e formazione per i nuovi

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Bioforum 2008 si terrà l’1 e il 2 ottobre a Milano. Bioforum, mostra-convegno nata con l’intento di far incontrare l’impresa con la scienza nel campo delle biotecnologie favorendo così il trasferimento della conoscenza a livello internazionale, ospiterà sessioni dedicate alla biotecnologia nella sanità, bioinformatica, agricoltura e alimentazione, industria e ambiente, servizi, al finanziamento della ricerca biotecnologica e alle apparecchiature. Durante il Bioforum, avranno luogo anche i Bio&Pharma Days, due giorni di orientamento interamente dedicati a imprese e a candidati interessati alle biotecnologie e all’innovazione nell’area sanitaria e farmaceutica. Grazie ai Bio&Pharma Days le aziende del settore biotech potranno incontrare presso il proprio stand i candidati e raccoglierne i curricula, così come tenere presentazioni aziendali all’interno delle iniziative di Bioforum.


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Cronache dall’Italia

L’Italia al bivio Vincenzo Napolano

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li italiani non amano la scienza. Né comprendono la cruciale importanza della ricerca scientifica e tecnologica in una società avanzata. È questo uno degli alibi di una classe politica, quella italiana, che non riesce a credere fino in fondo, né a investire davvero nello sviluppo scientifico e nella ricerca tecnologica. Ma quest’alibi, a quanto pare, non regge. A giudicare da un’indagine, commissionata dal Ministero dell’Università e della Ricerca alla Swg nell’aprile 2008, la cultura e le scelte della classe politica del nostro paese, infatti, non sembrano affatto rispecchiare la percezione che della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico ha la maggioranza della popolazione. L’indagine, che è stata condotta con un questionario strutturato, ha coinvolto tre distinti campioni, uno rappresentativo della popolazione maggiorenne per sesso, età e provenienza geografica e due target specifici: manager privati o pubblici e studenti universitari. I risultati descrivono un panorama molto lontano dai sentimenti di disaffezione o diffidenza verso la scienza, che spesso vengono attribuiti all’immaginario diffuso nel nostro paese. Gli intervistati mostrano al contrario un’accentuata convinzione del valore sociale della ricerca scientifica e di un’educazione adeguata, con differenze molto piccole tra i tre campioni analizzati. Tant’è che l’importanza dell’istruzione, della ricerca e dell’innovazione (quantificata con una scala di valori da 1 a 10) è addirittura superiore (più di 9) per tutti e tre i campioni a quella della difesa (7,3), dello sviluppo dei servizi (8,6) e dell’industria (8,4) e pari solo a quella dell’ambiente. Oltre il 60% del target generico, il 65% degli studenti e il 75% dei manager inoltre considera la ricerca scientifica “molto importante per lo sviluppo economico dell’Italia”, ma in tutti i campioni la percentuale di coloro che la considera abbastanza o molto importante supera il 90%.

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Ruolo della ricerca scientifica e sviluppo tecnologico nell’economia del Paese Per lo sviluppo economico dell’Italia, secondo Lei, quanto è importante un modello economico basato sulla ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico?

Dati Swg 2008

Questa convinta adesione all’idea di utilità dello sviluppo scientifico e tecnologico per il nostro paese è d’altra parte accompagnata da un’altrettanto acuta consapevolezza del ritardo italiano in questa direzione. Oltre il 65% degli intervistati (e oltre il 75% tra i manager) infatti è convinta che l’Italia investa poco o per niente in ricerca e sviluppo e comunque oltre il 90% di ogni campione giudica l’investimento in questi settori limitato e pensa, in modo corretto, che sia inferiore alla media europea. L’investimento dei privati nel settore ottiene un giudizio meno severo di quello pubblico, ma l’80% della popolazione e quasi il 90% degli stessi rappresentanti del mondo industriale giudica comunque limitato l’investimento delle industrie. Ne consegue che più della metà degli intervistati (e in particolare oltre il 60% degli studenti) ritiene che l’Italia, in ambito economico e produttivo, sia un paese arretrato rispetto agli altri paesi industrializzati. Le cause di questa arretratezza risiedono per il 72% degli adulti maggiorenni, il 78% dei manager e il 76 % degli studenti proprio nella mancanza di ricerca e sviluppo scientifico e solo l’incapacità dei politici, tra le motivazioni proposte, ottiene percentuali paragonabili. Mentre tra i rimedi possibili al ritardo italiano la minore burocrazia, il miglioramento delle infrastrutture e l’alta tecnologia sono quelli che convincono di più. 86


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Cronache dall’Italia

Percezione del livello degli investimenti Per quanto ne sa in Italia quanto si investe in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico?

Dati Swg 2008

La netta maggioranza degli intervistati, dunque, identifica nella ricerca scientifica un elemento di sviluppo e modernizzazione, imbrigliato da un apparato statale arretrato e da scelte politiche sbagliate. L’atteggiamento verso la scienza e la tecnologia è positivo, ma per nulla semplicistico. Così se è naturalmente la medicina e la salute a ottenere più consensi tra i settori disciplinari in cui sarebbe più importante investire, oltre il 60% include tra queste anche le scienze ambientali e circa la metà (del target generico e dei manager) le scienze fisiche e chimiche. Paradossalmente è proprio il campione più giovane a mostrare percentuali d’interesse minori verso queste discipline. Infine, l’ambito in cui secondo oltre il 70% degli intervistati, può incidere positivamente la ricerca scientifica e tecnologica è lo sviluppo economico, una netta maggioranza vede benefici alti anche all’immagine nazionale e circa il 60% (50% tra gli studenti) alla qualità della vita. Questi ultimi dati, corroborati anche dall’analisi testuale delle risposte, riflettono una rappresentazione complessa dell’utilità della ricerca. È riconosciuto con nettezza il collegamento tra innovazione scientifico-tecnologica e sviluppo economico, ma il vantaggio sociale che viene dalla scienza non si misura solo in termini di propellente economico o di miglioramento della qualità della vita. Secondo le analisi testuali dell’Swg , gli intervistati individuano nella scienza un bene comune, anche perché in grado di coniugare cultura e denaro, economia e conoscenza. 87


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Opportunità per l’economia del Paese A suo avviso, per un miglioramento economico. L’italia dovrebbe puntare su:

Minore burocrazia Aumento dei salari Miglioramento delle infrastrutture Aumento della qualità dei servizi Alta tecnologia Miglioramento dell’offerta del turismo Prodotti tipici Moda Somma citazioni

popolazione 55,7 53,4

manager 61,1 27,8

studenti 51,0 46,9

52,6

66,7

56,2

48,2 31,9

50,9 38,9

42,7 29,2

29,4 12,0 4,2 400

30,6 9,3 3,7 108

28,1 13,5 7,3 96

Dati Swg 2008

Le aspirazioni degli italiani però non corrispondono affatto alla realtà del paese, così come è fotografata dal rapporto Ocse sull’educazione 2008 (Education at Glance 2008). 1 L’Italia infatti con il 17% di laureati nella popolazione tra i 25 e i 34 anni e il 9% nella fascia di età 55 - 64 anni, è molto al di sotto della media dei paesi Ocse, in cui il 33% e il 19% della popolazione nelle fasce di età corrispondenti ha ottenuto la laurea. Sebbene la frazione di giovani che si iscrivono all’università sia paragonabile alla media Ocse, l’Italia mantiene il primato degli abbandoni, poiché degli iscritti solo il 45% completa il programma di istruzione contro il 69% della media Ocse. Inoltre mentre negli altri paesi il numero di laureati e dottori di ricerca nelle materie scientifiche è divenuto in media 4 volte maggiore negli ultimi venti anni, in Italia è cresciuto solo del doppio. Il nostro sistema universitario inoltre non attira quasi per nulla studenti di altri paesi. Meno del 2% dei giovani che studiano in un paese diverso da quello di cittadinanza arrivano in Italia, mentre il 20% va negli USA, l’11% in Gran Bretagna, il 9%in Germania e l’8% in Francia. Il nostro livello di istruzione in sostanza cresce troppo lentamente, aumentando il divario con gli altri paesi più industrializzati. E gli investimenti, che sarebbero ne1

www.oecd.org

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Cronache dall’Italia

cessari a colmarlo, sono di gran lunga insufficienti. La spesa per studente al livello di istruzione terziaria è infatti di 8026 dollari molto al di sotto della media Ocse di 11512 dollari. Dal 1995 al 2005 la spesa complessiva per l’educazione e l’istruzione è cresciuta del 12% (contro un incremento medio Ocse del 41%), passando però dal 4,8 % al 4,7% del Pil. Abbiamo fatto cioè un ulteriore passo indietro rispetto al trend dei paesi industrializzati, che in media investono per l’educazione il 5,8%. Il contrasto di questi dati con la descrizione della percezione pubblica di scienza e tecnologia non potrebbe essere più stridente. Riconosciamo che la formazione e la ricerca scientifica sono il motore dello sviluppo, ma le teniamo al minimo, illudendoci forse di poter posticipare indefinitamente una scelta in realtà ineluttabile. L’Italia, per livello di istruzione e capacità di ricerca scientifica e tecnologica, scivola così lentamente ai margini dei paesi più sviluppati. E se ormai la percezione collettiva di questa regressione è nitida, scarse sono le novità sulla scena politica. A differenza di quanto accade in Spagna e in Germania, dove le politiche di ricerca scientifica sono da anni un passaggio cruciale dei programmi di maggioranza e opposizione, l’idea che solo un cambiamento strutturale, che metta al centro dell’economia scienza e tecnologia, possa garantire una reale ripresa economica, non sembra fare breccia nel nuovo governo. Nonostante i buoni propositi del Ministro Maria Stella Gelmini, simili in gran parte a quelli del suo predecessore, la bilancia dei conti pubblici penalizza ancora una volta ricerca e formazione, prevedendo nei prossimi anni tagli per 500 milioni di euro all’Università e 900 milioni alla Scuola. E il prolungamento della delega al governo in materia di riordino degli enti di ricerca prolunga lo stato, ormai cronico, di incertezza delle regole e instabilità istituzionale di una parte significativa della ricerca italiana. L’Italia è a un bivio, lo sa, ma finge di ignorarlo.

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Scienza e diritto: se il giudice diventa peritus peritorum... Angela Simone

Scienza e diritto in America: il primato del giudice Cosa succede quando la scienza entra nelle corti e nei tribunali? In questo contesto, chi può essere considerato un esperto di scienza? E chi decide chi è ammesso a parlare in nome della scienza? La risposta non è univoca e ogni singolo paese sceglie in base alle sue specifiche regole e tradizioni. Un caso abbastanza peculiare è quello delle corti statunitensi. Nei tribunali americani, infatti, ai giudici è lasciato un ampio margine di autonomia nel decidere quali attori e interessi possano entrare a fare parte della discussione. È compito del giudice ammettere prove, testimonianze e, inoltre, gli esperti chiamati a deporre in qualità di testimoni (nell’apparato tipico dei sistemi di common law, questi vengono proposti da ciascuna delle due parti, accusa e difesa). 1 Tuttavia va rilevato che, in un momento storico in cui la scienza potrebbe essere considerata argomento dirimente nei processi giuridici, fornendo prove pressoché oggettive, come per esempio impronte digitali e DNA dalle tracce biologiche ritrovate sul luogo di un delitto, i giudici americani paiono spingere oltre il loro compito di gatekeeper, vale a dire di “guardiani degli accessi”. 2 Essi, infatti, non si limitano ad acquisire prove scientifiche e a interpretarle sulla base del principio della peer review, il criterio secondo cui la comunità scientifica certifica la validità di studi e ricerche, ma arrivano ad accogliere anche altre istanze non comprovate dalle regole scientifiche classiche, ammettendo per esempio come testimoni e periti, “esperti” che dimostrino di sapersi avvalere delle conoscenze e dei metodi scientifici. 1 2

Cfr. S. Jasanoff, La scienza davanti ai giudici, Giuffrè, Milano 2001. Cfr. L. Butti, Più scienza nel diritto, in “Nòva24review”, 2007. 93


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Fino al 1993 le corti americane si affidavano esclusivamente al principio della peer review: in base alla regola Frye, le prove scientifiche erano ammissibili ai fini processuali se conformi al metodo generalmente accettato dalla comunità scientifica. Nel caso Frye, 3 i giudici della corte d’Appello decisero che non era possibile accettare la macchina della verità (un test basato sul rilevamento della variazione della pressione sanguigna sistolica in presenza di menzogne) come strumento di indagine richiesto dall’imputato accusato di omicidio, poiché la validità non era concordemente riconosciuta dalla comunità scientifica. Venne così di fatto stabilita una regola, valsa come principio giurisprudenziale di riferimento almeno, come si è accennato, fino 1993, anno in cui le cose sono drasticamente cambiate. In una sentenza della corte Suprema degli Stati Uniti si stabilì che la regola Frye era in conflitto con la regola 702 delle Federal Rules of Evidence (in cui si parla di parametri mediante i quali ammettere o meno esperti come testimoni sulla base di “dati e fatti sufficienti”, “principi e metodi credibili”, applicazione “in maniera credibile dei principi e metodi ai fatti del caso”). 4 La decisione avvenne durante il processo Daubert vs Merrell Dow Pharmaceuticals, 5 un processo in cui si discuteva se l’assunzione da parte di donne incinte di un farmaco anti-nausea (Benedictin), prodotto dalla Merrel Dow Pharmaceuticals, potesse causare al feto difetti genetici fino a portare gravi malformazioni agli arti. La casa farmaceutica si difese dall’accusa mostrando pubblicazioni scientifiche peer review in cui si evidenziava che non esistevano collegamenti tra l’assunzione del farmaco e le malformazioni. I genitori dei bambini nati malformati, invece, richiesero la possibilità di ammettere a testimoniare esperti che avrebbero portato dati, in vitro e in vivo, non pubblicati su riviste scientifiche. Mentre la Merrel Dow invocava la consolidata regola Frye, la Corte Suprema rimise in pratica la dimenticata regola 702. In sostanza la Corte Suprema, pur non rigettando la validità del principio della peer review e l’accettazione generale di dati da parte della comunità scientifica, non limitò soltanto a questi i parametri della corte per ammettere esperti come testimoni. 6 Questo processo non solo ha aperto le strade alla rivendicazione della pari autorevolezza di scienza e diritto nelle corti americane, ma ha addirittura rilanciato il 3

Frye vs. Stati Uniti d’America, 1923 (Court of Appeals of District of Columbia 54 app. D.C.; 293 F. 1013; 1923 U.S.). 4 Le Federal Rules of Evidence, che comprendono la regola 702 qui citata, si possono trovare anche presso il sito: www.law.cornell.edu/rules/fre/overview.html. 5 Daubert vs. Merrell Dow Pharmaceuticals, 509, United States, 579, 1993. 6 Cfr. M. Tallacchini, Giudizi, esperti, cittadini: scienza e diritto tra validità metodologica e credibilità civile, Notizie di Politeia. Rivista di Etica e scelte pubbliche, XIX, 70 (2003). 94


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totale primato e la centralità del giudice rispetto alla scienza, alle sue regole e ai suoi periti, consacrandolo come peritus peritorum (perito dei periti). 7

L’orientamento dei giudici in Italia: il primato degli organi tecnico-scientifici Nel caso italiano, la consuetudine è molto diversa. La Corte costituzionale italiana, nel 2002, si è espressa a favore del principio secondo cui bisogna ascoltare solo esperti il cui valore sia certificato dalle regole dell’accademia scientifica, dichiarando che, in materia di salute dell’uomo, «un intervento sul merito delle scelte terapeutiche in relazione alla loro appropriatezza non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso Legislatore, bensì dovrebbe prevedere l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali o sovranazionali – a ciò deputati, dato l’‘essenziale rilievo’ che, a questi fini, rivestono ‘gli organi tecnico-scientifici’». 8 L’essenziale rilievo degli organi tecnico-scientifici è un rimando a una precedente sentenza storica, sempre della Consulta: la numero 185 del 1998. In questa sentenza sulla legittimità costituzionale del decreto-legge su “Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria” (decreto che ha dato il via alle sperimentazioni cliniche del multitrattamento “Di Bella”) si asserisce che “è appena il caso di ricordare che questa Corte non è chiamata a pronunciarsi, in alcun modo, circa gli effetti e l’efficacia terapeutica di detto trattamento [...]. Non è chiamata, né potrebbe esserlo, a sostituire il proprio giudizio alle valutazioni che, secondo legge, devono essere assunte nelle competenti sedi, consapevole com’è dell’essenziale rilievo che, in questa materia, hanno gli organi tecnico-scientifici”. Ma anche in sentenze più recenti delle corti di merito sono riscontrabili diversi riferimenti all’affidamento al giudizio della comunità scientifica, come si può vedere nella recente sentenza della corte d’Appello di Milano, del 9 luglio 2008, sul caso di Eluana Englaro. Questa ragazza (il cui nome è ben conosciuto perché il padre, Beppino, è da anni impegnato in una battaglia pubblica e mediatica circa la situazione della figlia) è in stato vegetativo permanente dal 1992 a causa di un incidente automobilistico che le ha comportato un importante trauma craniocerebrale con fratture del cranio e della colonna cervicale. Fin dall’inizio dello stato comatoso è stata in grado di respirare autonomamente perché 7

Cfr. K.R. Foster, P.W. Huber, Judging Science. Scientific Knowledge and the Federal Courts, M.I.T. Press, Cambridge MA 1997. 8 Corte Costituzionale, 26 giugno 2002, n.282. 95


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non ha riportato danni al tronco cerebrale, ma per alimentarsi ha sempre avuto bisogno di una sonda naso-gastrica. 9 Suo padre, sulla base di conversazioni avute con la figlia prima dell’incidente, ha sempre sostenuto e rivendicato il diritto a cessare l’alimentazione forzata della figlia per poterle dare una fine non dipendente da macchine, così come Eluana aveva chiesto. Nei casi precendenti in cui la famiglia si è rivolta ai giudici (sia in primo grado che in Appello a Lecco e a Milano per diverse volte), la magistratura ha ritenuto inammissibile la richiesta per mancanza di leggi specifiche e per mancanza di concordanza nella comunità scientifica sul riconoscimento dell’alimentazione e idratazione artificiali come trattamenti terapeutici, senza cui non è possibile decidere di accordare o meno la richiesta. 10 Una recente sentenza della prima sezione della Corte di Cassazione, datata 16 ottobre 2007, ha sbloccato la situazione di stallo: è stata riconosciuta l’ammissibilità della richiesta e ha posto i parametri secondo cui il Tribunale d’Appello di Milano ha quindi accordato il distacco della spina dell’alimentazione di Eluana con la sentenza di luglio. Nelle disposizioni accessorie della sentenza, cui attenersi in fase attuativa, la corte indica le modalità mediante quali attuare il distacco del sondino “e l’eventuale sospensione dell’erogazione di presidi medici collaterali o di altre procedure di assistenza strumentale” devono avvenire: o “in hospice o in altro luogo di ricovero confacente ed eventualmente – se ciò sia opportuno e indicato in fatto dalla migliore pratica della scienza medica – con perdurante somministrazione di quei soli presidi atti a prevenire o eliminare reazioni neuromuscolari paradosse”. Non si sa ancora se questa sentenza sarà effettiva, ciò per le delicate e controverse ripercussioni sul campo morale della vicenda, ma anche in questo caso la scienza ha avuto un ruolo fondamentale per orientare i giudici nel loro delicatissimo compito di decisori. Angela Simone, laurea in biotecnologie farmaceutiche presso l’Università di Bologna e master in comunicazione della scienza presso la SISSA di Trieste, frequenta il dottorato in diritto e nuove tecnologie (indirizzo bioetica) presso l’Università di Bologna. Si occupa di comunicazione scientifica con particolare interesse per i progetti europei: prima in BIOPOP sulla comunicazione pubblica delle biotecnologie e ora con formicablu srl per CIRCE sugli impatti del cambiamento climatico nel Mediterraneo. È consulente per enti e musei per attività di comunicazione scientifica con scuole e pubblico e giornalista free lance per diverse testate e in redazione per Janus.

9

Cfr. C.A. Defanti, Soglie, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Cfr. E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari 2007.

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L’oscuro oggetto della bioeconomia Sergio Ferrari

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ono storicamente frequenti gli studi che partendo dalla constatazione degli aumenti demografici, dalla conseguente crescita nell’utilizzo delle risorse naturali e dalla finitezza di queste risorse, si sono esercitati in previsioni circa le possibilità di sopravvivenza per l’umanità intera. Già alla fine del Settecento il contrasto tra la crescita della popolazione e l’ammontare della terra necessaria per il suo mantenimento si sarebbe risolto, secondo Malthus e poi anche secondo John Stuart Mill, in una condizione di reddito di pura sussistenza per la classe dei lavoratori, sino a incidere sugli andamenti demografici per poter recuperare un qualche riequilibrio. Le preoccupazioni di Malthus si rivelarono errate e i timori per l’esaurimento delle risorse si rivolsero verso altri aspetti. A metà dell’Ottocento, ad esempio, in piena rivoluzione industriale, un altro grande economista, W.S. Jevons, fece notare come i costi, inevitabilmente crescenti, dell’estrazione del carbone minacciavano in maniera preoccupante l’industria britannica e che quindi, essendo inimmaginabile la disponibilità di sostituti, le felici condizioni di progresso di quel periodo avevano davanti un futuro limitato. Una preoccupazione che si sarebbe riproposta anche negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento. Sino al più recente Rapporto Meadows del 1972 secondo il quale un declino catastrofico per l’umanità era prevedibile nell’arco di un secolo. Lungo questa linea si colloca la posizione di Nicholas Georgescu-Roegen (19061994), capostipite di una concezione che, con coerenza, critica il concetto dello sviluppo sostenibile in quanto comunque connesso a un pur “sostenibile” sviluppo, considerato invece irrealizzabile, e individua nella decrescita l’unico comportamento responsabile verso le generazioni future. Queste ultime comunque condannate in quanto è scientificamente ineluttabile l’esaurimento delle risorse naturali in genere e di quelle energetiche, in particolare. La novità nelle argomentazioni di Georgescu rispetto ai precedenti autori sta nel richiamo a una legge scientifica che dovrebbe eliminare quei margini di aleato97


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rietà impliciti in ogni previsione ancorché apparentemente logica e coerente. 1 Questa base scientifica è rappresentata dal II Principio della termodinamica che, in questo contesto, potrebbe essere così espresso: in ogni processo la qualità dell’energia (cioè la possibilità che essa possa essere ancora utilizzata da altri) è sempre peggiore rispetto all’inizio, quindi ogni trasformazione materiale implica la perdita irreversibile di una parte dell’energia impiegata. Avendo le fonti di energia fossile a loro volta una dimensione finita ne segue che lo sviluppo economico, così come da sempre lo conosciamo, non può essere proiettato indefinitamente nel tempo. È evidente che nessuna teoria economica può contraddire le certezze di una legge scientifica e poiché le risorse energetiche naturali sono finite e, in base al II Principio della termodinamica, subiscono un degrado parziale, ma irreversibile, non è possibile alcuna ipotesi di sviluppo economico basato sull’uso di risorse naturali e tanto meno sulla crescita dei consumi di prodotti energetici. Non è quindi possibile alcuno scenario di progresso, essendo discutibili solo le scadenze della crisi finale in funzione dell’andamento della demografia, dei consumi pro-capite e delle tecnologie di produzione e di consumo. Naturalmente non è indifferente sapere se tale ineluttabilità riguarda un orizzonte di tempo in qualche misura limitato oppure se si tratta di una prospettiva “teorica” indefinita nel tempo. La stessa responsabilità morale che occorre manifestare verso le generazioni future diventa molto soggettiva se si allude ai secoli, piuttosto che ai millenni o alle ere geologiche. Ma tutto questo non modifica l’ineluttabilità individuata precedentemente. Il riferimento al II Principio della termodinamica rende, secondo questa scuola, indiscutibili le previsioni negative e marginali gli eventuali ripieghi escogitati dall’uomo per superarle. E questo vincolo energetico si riflette anche sulla disponibilità delle altre risorse materiali: una volta disperse nell’ambiente le materie prime precedentemente concentrate in giacimenti nel sottosuolo, possono essere reimpiegate o riciclate nel sistema economico solo in misura molto parziale al prezzo di un alto dispendio di energia. 2 Quindi anche queste risorse materiali, oltre a quelle energetiche, sono destinate all’esaurimento. In questo caso ovviamente si ipotizza che la Terra sia un sistema termodinamicamente chiuso cioè un sistema che consente il passaggio ai propri confini di energia ma non di massa.

1

Sulla teoria di Georgescu-Roegen si veda anche M. Bonaiuti, Appunti per la decrescita felice, in “Scienza & Società”, 3-4, 2008, pp. 81-88 (n.d.r.). 2 N. Georgescu-Roegen, Bioeconomia, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 107, 142. 98


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A questo punto e con le conoscenze oggi disponibili, due sono le possibilità teoriche di modificare queste conclusioni negative. Da un lato chiamare in causa un’altra legge scientifica e in particolare l’equazione di Einstein sul rapporto tra massa ed energia (la ben nota E = mC2) e dall’altra ricordare che ci si riferisce a un sistema chiuso che, quindi, consente lo scambio di energia ai propri confini. In definitiva prendere in considerazione i flussi di energia provenienti sulla Terra da parte del Sole. Naturalmente l’esistenza di queste due possibilità non sfugge a Georgescu. Tuttavia le conclusioni non sembrano modificarsi. Egli, infatti, esclude la possibilità di un uso efficace dell’energia solare e anche che le fonti energetiche di origine nucleare siano realizzabili. Nel primo caso l’impossibilità è dettata dal fatto che gli apparati per il recupero e l’utilizzo di questa energia ne richiedono più di quanta siano poi in grado di produrne durante l’arco della loro vita: “attualmente è impossibile produrre collettori solari tramite la sola energia solare da essi accumulata e che quindi qualsiasi applicazione dei metodi esistenti basati sui collettori solari è parassitaria della tecnologia corrente”. 3 Nel caso dell’energia da fissione nucleare il problema sembra consistere essenzialmente in una condizione di non accettazione sociale, 4 mentre per l’energia da fusione l’impossibilità deriva, sempre secondo Georgescu, dal fatto che “nessun contenitore materiale può resistere alla temperatura di reazione”. 5 Anche l’esistenza di una equivalenza tra massa ed energia espressa dall’equazione di Einstein non modifica questa situazione, ma anzi l’aggrava in quanto le diverse possibilità tecnologiche di “utilizzare” quella equazione, come si è visto, sono con varie motivazioni escluse, mentre il fatto che in nessuna parte dell’universo sia possibile trasformare l’energia in massa, 6 trasferisce le ipotesi di esaurimento delle risorse energetiche anche a quelle materiali in genere. Questa impossibilità conduce, sempre secondo Georgescu, a una prospettiva di esaurimento dei materiali necessari e quindi impedirebbe una crescita economica indefinita visto che, come già affermato, “la materia non può essere completamente riciclata”. 3

Ivi, p. 170. Appare tra l’altro piuttosto singolare che sulla base di una affermazione vera in termini molto contingenti – si dice infatti che questo limite delle celle fotovoltaiche è vero “attualmente” – si pensi di costruire un’intera teoria economica. Lascia inoltre perplessi il fatto che se quell’affermazione poteva essere vera nel momento specifico in cui Georgescu la riferiva, tuttavia era noto già da allora che si trattava di una “verità” tecnologica in corso di trasformazione. Sarebbero altrimenti da rivedere immediatamente e drasticamente le strategie di contenimento dei gas serra adottate da quasi tutti i paesi dove un posto particolare è occupato dalla diffusione dell’energia fotovoltaica. 4 Ivi, p. 181. 5 Ivi, p. 89. 6 Ivi, p. 137. 99


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A questi risultati Georgescu tuttavia perviene attraverso delle considerazioni tecnologiche, non scientifiche. Naturalmente sono perfettamente legittime modellizzazioni, simulazioni e approssimazioni. Basta non dimenticarsene quando si devono trarre le conclusioni. E in particolare occorre ricordare che la forza cogente del riferimento a una legge scientifica non può essere trasferita automaticamente alle ipotesi e alle argomentazioni tecnologiche. Inoltre occorre sempre ricordare come le leggi della fisica, proprio in quanto leggi universali, si riferiscono a modelli generali e non alle specifiche e variabili condizioni che si possono trovare nella realtà o anche in laboratorio. E questo non perché in tali condizioni particolari quelle leggi non valgano più, ma perché le variazioni delle condizioni reali rispetto al modello generale implicano effetti che possono apparentemente contraddire l’esistenza di quelle leggi. La legge della gravità non è smentita dall’esistenza di condizioni di assenza di gravità. A parte le osservazioni critiche di merito alle specifiche argomentazioni tecnologiche di Georgescu (alcune delle quali sin troppo evidenti) le osservazioni centrali e pregiudiziali sono “scientifiche” e si riferiscono ai tentativi di applicare un principio scientifico a un contesto non coerente. Nel tentativo di precisare la differenza tra energia accessibile ed energia disponibile e tra sistemi aperti, chiusi o sistemi isolati, sembra alle volte che a Georgescu sfuggano le connessioni: “Essendo l’entropia un indice dell’energia non disponibile in un sistema isolato, un’espressione equivalente della legge di entropia si traduce in questa popolare formulazione: qualsiasi cosa si faccia, l’entropia di un dato sistema non può diminuire”. 7 Se non che, essendo sparito il riferimento al sistema isolato, il lettore “popolare” è autorizzato a pensare che questo sia vero sempre e qualunque sia il sistema di riferimento. E questo non è vero. In secondo luogo se si assume che la Terra sia un sistema chiuso, non ha fondamento scientifico ipotizzare che lo scambio di energia che avviene ai suoi confini dia luogo a un’energia, quella solare, inutilizzabile. Se si abbandona il rigore scientifico – operazione peraltro che può essere anche proposta ed esaminata a titolo di studio – allora si entra nel campo delle dinamiche tecnologiche, delle valutazioni economiche, sociali, ecc., cioè in quel campo di valutazioni e argomentazioni che hanno caratterizzato tutte le precedenti previsioni. E, come si è visto, anche le argomentazioni di Georgescu non fanno eccezione. Non a caso è possibile rilevare come si ripropongano alcune posizioni, che già hanno caratterizzato altre previsioni negative per il futuro dell’umanità, basate sul fatto che gli economisti – ma forse non solo loro – fanno 7

Ivi, p. 217.

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una certa fatica a riconoscere che non è possibile ragionare a bocce ferme, come se non facesse parte della storia la capacità dell’uomo di modificare le tecnologie e di crearne di nuove. Infatti anche per Georgescu sembrano valere le osservazioni formulate in occasione di analoghe previsioni e cioè che esistono difficoltà obiettive in questo campo derivanti dal fatto che disponiamo di informazioni relative alle tecnologie esistenti e poco più in là e per le quali l’unica certezza è che, sicuramente, queste tecnologie non saranno quelle in uso nei tempi previsti. Naturalmente non si tratta di sposare ipotesi miracolistiche e tecnocratiche ma nemmeno commettere l’errore opposto. Per la verità gli scritti di Georgescu non sempre appaiono così perentori. Se il riferimento a princìpi scientifici indiscussi non può concedere margini e i suoi scritti tendono ad assumere gli apparenti vincoli tecnologici come altrettanto indiscutibili, tuttavia egli per primo concede delle possibilità a scenari diversi. Per quanto riguarda l’energia solare, ad esempio, scrive che “il quadro può essere radicalmente modificato dalla scoperta di metodi più efficienti” e “cercare tenacemente di scoprire metodi più efficienti non solo è legittimo, è imperativo”. 8 Quindi deve trattarsi di metodi in linea di principio fattibili anche se “L’attesa potrebbe essere assai lunga prima che Prometeo III offra all’umanità la grande opportunità di una soluzione”. 9 “Il reattore autofertilizzante, che converte materiali fertili in combustibili fissili, sarebbe un terzo dono prometeico se la sua realizzazione pratica non fosse pregna di rischi addirittura maggiori e anche di ostacoli tecnici”. 10 “Finché l’uso diretto dell’energia solare non diventa un bene generale o non si ottiene la fusione controllata, ogni spreco di energia […] dovrebbe essere attentamene evitato”. 11 “Possiamo inoltre essere pressoché certi che, sotto la medesima pressione (della necessità), l’uomo scoprirà mezzi capaci di trasformare direttamente l’energia solare in forza motrice. E riguardo al problema entropico dell’uomo una scoperta del genere costituirà sicuramente la più grande delle conquiste possibili perché assoggetterà al suo controllo la fonte più abbondante dei mezzi necessari alla vita”. In definitiva sembrerebbe che Georgescu più che una fine ineluttabile della civiltà umana, preconizzi delle gravi difficoltà e incertezze nella disponibilità delle risorse materiali e di quelle energetiche in primo luogo. In questa attesa si comprendono gli allarmi e le critiche alle soluzioni economiche, tecnologiche e so8

Ivi, pp. 172 e 173. Ivi, p. 224. 10 Ivi, p. 181. 11 Ivi, p. 96. 9

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ciali che trascurano quelle minacce e le sollecitazioni, anche drammatizzate, per tutte quelle proposte che consentano invece di allungare i tempi dell’attesa. Diventerebbe centrale, a questo punto, un’analisi e una valutazione dei tempi necessari per arrivare a disporre di un nuovo Prometeo ma anche dei tempi di attesa ancora disponibili. Questo è un lavoro che Georgescu non affronta e sembra un compito che intende lasciare ad altri. Peraltro i tempi disponibili non sono solo quelli derivanti dalla valutazione dell’entità delle risorse energetiche naturali esistenti, quanto piuttosto quelli che definiscono questa disponibilità in relazione ai costi di estrazione di queste risorse. Costi che, a loro volta, non hanno un andamento connesso in modo rigoroso con i prezzi di mercato. Per quanto riguarda la valutazione dei tempi necessari per disporre delle soluzioni offerte da un nuovo Prometeo, alcuni sostengono che ci siamo già arrivati e che i problemi eventualmente aperti sono di ordine tecnologico e finanziario. Poiché nella storia dell’uomo le certezze rappresentano dei desideri forti e diffusi, molti degli epigoni e dei seguaci di Georgescu hanno sposato il II Principio della termodinamica in termini di fede, evitando accuratamente le pur esistenti aperture tecnologiche espresse da Georgescu, potendo così soprassedere anche a una piena comprensione dello stesso Principio e al bagaglio culturale e dialettico di Georgescu. Così, ad esempio, poiché si assume che non è più “scientificamente” possibile prevedere un processo continuo dello sviluppo economico quale quello che abbiamo conosciuto, questa impossibilità si trasferisce allo sviluppo del sistema capitalistico; il II Principio della termodinamica prende così il posto della certezza fornita a suo tempo dalla previsione marxista sulla fine del capitalismo stesso. È in questa area socioculturale che in effetti sembra trovare maggior successo la teoria della decrescita. La quale, a sua volta, diventa finalmente – e in maniera altrettanto “scientifica” – indiscutibile e come tale non solo una necessità ma anche un modo per recuperare stili e modelli di vita virtuosi, parsimoniosi nei consumi e negli scambi, giusti, ecologici e elevati (o assunti come tali) nei rapporti e nell’organizzazione sociale. Lungo questo percorso si possono collocare le soluzioni positive di qualunque questione. Così le stesse prospettive di decrescita, che potrebbero avere contenuti da guerra all’ultimo sangue, si trasformano in ipotesi bucoliche, serene e in comportamenti virtuosi. Si tratta di percorsi “ideali” già presenti in altre “visioni” millenaristiche che si ritrovano nella storia dell’umanità e che probabilmente fanno parte di una dimensione sostanzialmente reazionaria del pensiero umano. In questo caso, tuttavia, il ricorso alle leggi scientifiche consente di dare un tono di modernità e laicità a questa teoria, al prezzo, naturalmente, di forzature e deformazioni degli stessi riferimenti scientifici e tecnologici. Tuttavia, come 102


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accennato, questa estensione politico-sociale non appartiene a Georgescu (che infatti non si diffonde nella descrizione della società della decrescita), ma riguarda quegli adepti che sembrano interessati più ad assumere le sue conclusioni più radicali, che a vagliarne criticamente la validità. Naturalmente le critiche a queste “deformazioni” non cancellano l’esistenza dei problemi ambientali, della distribuzione delle risorse, della qualità dello sviluppo. La questione è esattamente nei termini opposti, nel senso che se a tutti questi problemi provvede comunque il II Principio della termodinamica, potremmo anche dormire tranquilli e occuparci d’altro. Ma cosi non è.

Sergio Ferrari, laureato in Chimica industriale, ha iniziato a lavorare nel 1958 al Comitato Nazionale per la Ricerca Nucleare (CNRN), trasformatosi successivamente in Comitato Nazionale Energia Nuclerare (CNEN) e poi in Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente (ENEA). Direttore del Laboratorio Tecnologie dei Materiali dell’ENEA, si occupa dei processi di produzione e controllo di nuovi materiali. È autore di varie pubblicazioni e brevetti. È coautore dei Rapporti su “L’Italia nella Competizione Tecnologica Internazionale”. 103


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L’abbaglio dell’oro verde Margherita Fronte

«Non è molto distante il giorno in cui ogni barile di benzina sarà sostituito da un barile di alcol». Henry Ford, 1916

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l 9 aprile del 2007, un pinguino solitario su un blocco di ghiaccio era il protagonista della copertina del settimanale statunitense Time. Buona parte del giornale – un numero doppio speciale – era dedicata al riscaldamento globale, con un approccio che, oltre a presentare il problema, proponeva «51 azioni da mettere in pratica per fare la differenza». Nell’elenco delle soluzioni (che comprendeva l’impiego di lampadine a basso consumo, l’incremento del lavoro a distanza, l’uso dei mezzi pubblici eccetera) svettava su tutte quella di «trasformare il cibo in carburanti». 1 Il breve testo che illustrava la strategia spiegava che «il bioetanolo è l’alternativa ai carburanti che finalmente libererà gli Stati Uniti dalle sue dispendiose abitudini in fatto di petrolio e potrà prevenire l’emissione in atmosfera di milioni di tonnellate di anidride carbonica». E che «dal 2005 il Dipartimento dell’energia ha raddoppiato gli stanziamenti in favore dei biocarburanti». Il solo ostacolo all’affermazione di questa nuova fonte energetica pulita, spiegava Time, potrà venire dal dover convertire le reti di distribuzione, dato che le tubature esistenti sono inadatte a trasportare bioetanolo. Tuttavia – secondo Time – la soluzione ai problemi del pianeta passava necessariamente di lì: dai biocarburanti, appunto. Il 14 aprile del 2008, i biocarburanti tornavano protagonisti su Time, ma questa volta l’immagine di copertina era una pannocchia avvolta con alcune banconote statunitensi. Il titolo, in caratteri cubitali a fianco della pannocchia, non lasciava

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Ottenuti a partire da materiale organico (piante coltivate, ma anche rifiuti, scarti della lavorazione del legno e persino alghe), i biocarburanti comprendono i bioalcoli (bioetanolo, ma anche biometanolo, biobutanolo), il biodiesel, il biogas, alcuni oli vegetali, il syngas (una miscela gassosa ricca di idrogeno). Le tecniche di generazione sono: la fermentazione a partire da vegetali ricchi di zuccheri o amido (come il mais e la canna da zucchero per il bioetanolo), la transesterificazione a partire da oli vegetali (per esempio, l’olio di palma per produrre biodiesel), la pirolisi e la gassificazione (per il syngas). 105


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spazio a dubbi «Il mito dell’energia pulita». E il cambio di rotta era talmente chiaro da risultare persino sconcertante: «I politici e il “Big Business” – si legge nel sommario, strillato anch’esso in copertina – fanno pressioni affinché i biocarburanti, come l’etanolo ricavato dal mais, diventino un’alternativa al petrolio. Ma tutto ciò che stanno ottenendo è un aumento dei prezzi del cibo, la distruzione dell’Amazzonia e l’aumento del riscaldamento globale». Com’è possibile che in un solo anno i biocarburanti siano passati dall’essere «l’alternativa verde al petrolio» ad affamatori del mondo, distruttori di foreste e minaccia per il clima? Che cosa è successo, in 12 mesi soltanto? Eliminiamo subito un dubbio: il direttore di Time era Richard Stengel nel 2007, così come lo è nel 2008. E aggiungiamo un elemento chiave: sebbene per il magazine statunitense l’inversione di rotta sia stata plateale (e, tutto sommato, onesta), la schiera di chi ha cambiato idea è piuttosto nutrita, e comprende anche parte della comunità scientifica. Inoltre, stretti fra la necessità di dover criticare le strategie evidentemente incompatibili con l’ambiente e quella di dover proporre alternative credibili, molti gruppi ambientalisti (con alcune notevoli eccezioni) hanno sostenuto per anni i biocarburanti, lagnandosi – anche – del fatto che le lobby petrolifere ne ostacolavano lo sviluppo. La maggior parte di loro è oggi molto più cauta. Sebbene molti eventi significativi e determinanti per questo decisivo cambio di rotta siano avvenuti nell’ultimo anno, il sospetto che quella dei biocarburanti fosse una strategia poco conveniente era emerso anche in precedenza. Gli ambiziosi piani di sviluppo di Brasile, Stati Uniti e Unione Europea, infatti, erano già stati messi sotto accusa negli anni passati, dal mondo della scienza e anche da alcuni settori dell’ambientalismo. 2 2

L’International Energy Agency (IEA) stima che nel 2007, a livello mondiale, una quota compresa fra l’1 e il 2% dei carburanti destinati al trasporto su strada fosse costituita da biocarburanti. Secondo l’agenzia, la cifra salirà al 2,3-3,3% nel 2015 e al 3,2-5,9% nel 2030. I principali attori saranno Brasile, Stati Uniti, ed Europa. In Brasile il bioetanolo è ottenuto quasi esclusivamente a partire da canna da zucchero e, in un paese in cui il 90% delle auto ha motori che possono andare sia a benzina sia a bioetanolo, con il programma Proalcool (finanziato da privati), già oggi la produzione è in grado di soddisfare il fabbisogno interno. Il Brasile, che ha lanciato anche un programma per la produzione di bioediesel, ha recentemente annunciato che non userà coltivazioni atte alla produzione alimentare per produrre biocarburanti. Il programma Usa invece prevede la produzione di bioetanolo soprattutto a partire dal mais (e in piccola parte dal grano) e si propone di sostituire entro una decina di anni il 20% della benzina con il biocarburante. I biocarburanti derivati dalla canna da zucchero brasiliana e dal mais statunitense costituiscono l’80% della produzione mondiale di bioetanolo. Nell’Unione Europea, la direttiva 2003/30/EC pone l’obiettivo di sostituire il 5,75% della benzina con biocarburanti entro il 2010 e il 20% entro il 2020. L’Europa punta soprattutto sul biodiesel, prodotto a partire dalla barbabietola e dall’olio di palma. Già nel 2006, Greenpeace denunciava che in Indonesia vaste aree di foresta venivano distrutte per far spazio alle coltivazioni di palma da olio destinate alla produzione europea di biocarburanti.

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Fra gli interventi più significativi si segnala un resoconto pubblicato già nel 2003 sulla rivista Natural Resources Research da David Pimentel, della Cornell University. Lo studio calcolava che «nel sistema statunitense, l’energia che si spende per produrre bioetanolo (ottenuta anche da combustibili fossili) è più elevata di quella che si ricava dal prodotto finale». A conti fatti, il saldo risulta negativo per il 29%. Per alcuni anni, tuttavia, gli studi sulla resa dei biocarburanti hanno dato risultati contrastanti (la resa infatti dipende da numerose variabili, fra cui: la specie da cui si ricava il combustibile, i processi di produzione, le tecniche di coltivazione, il costo della manodopera, il clima, il prezzo del petrolio ecc). Finché, nel 2006, uno studio dell’Università della California di Berkeley, pubblicato su Science, faceva tirare a tutti un sospiro di sollievo, decretando che il saldo energetico dei biocarburanti era sostanzialmente positivo. Accade spesso che, su temi controversi, studi importanti ricevano critiche aspre. Così, a qualche mese di distanza, Science decise di pubblicarne alcune: le lettere che accusavano gli americani di aver sbagliato i conti e di aver usato un metodo non consono all’obiettivo prefissato coprivano più di 5 pagine della rivista. Gli autori erano costretti a modificare, seppure di poco, le loro stime, ampliando però a tal punto i margini di incertezza dei loro calcoli da svuotarli di significato. Intanto però, sul versante dell’ambientalismo, a galvanizzare gli entusiasmi aveva contribuito, alla fine del 2004, il rapporto Growing energy di Nathanael Greene, dell’organizzazione ambientalista Natural Resources Defense Council, che si schierava con decisione in favore dei carburanti “verdi”. E mentre la scienza dibatteva senza riuscire a guadagnare quell’attenzione che avrebbe imposto maggiori cautele, i governi interessati a svincolarsi dal petrolio investivano somme stratosferiche nella nuova strategia. Così, da fonte energetica di nicchia, i biocarburanti diventavano il motore dell’economia brasiliana e la risorsa su cui puntare per gli USA e, seppure in misura minore, anche per l’Europa. I maggiori disastri sono stati determinati proprio da questo cambiamento di scala. E sono emersi con forza crescente nel corso dell’ultimo anno. La prima secca denuncia è arrivata da Cuba dove, ancora convalescente per un intervento chirurgico, nel marzo del 2007 Fidel Castro si scagliava contro il presidente brasiliano Lula da Silva e contro Bush, che avevano appena siglato uno storico accordo di collaborazione per la produzione di bioetanolo. Sul quotidiano comunista cubano Granma, Castro definiva «diabolica» l’idea di «trasformare gli alimenti in combustibile» (si noti che questa è praticamente l’identica espressione usata dal Time il mese dopo). E arrivava a prevedere che il progetto avrebbe condannato alla fame 3 miliardi e mezzo di persone, senza peraltro risolvere i 107


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problemi dell’ambiente. In difesa dei biocarburanti, si disse allora che Castro agiva spinto da interessi personali, perché a Cuba sono stati scoperti da poco giacimenti di petrolio e perché il lìder maximo, alleato del presidente petroliere del Venezuela Hugo Chavez, dava così sostegno alla politica di quest’ultimo. Sorprendentemente, però, a riprendere nel merito e nei toni il discorso di Castro è stato, in ottobre, Jean Ziegler, relatore speciale dell’ONU sul diritto all’alimentazione. Che, presentando il suo Rapporto sul diritto all’alimentazione a Ginevra, ha tuonato: «La conversione massiccia delle terre destinate alla produzione di prodotti per l’alimentazione a piante per la produzione di biocarburanti creerà ecatombi». Ziegler ha poi chiesto una moratoria di 5 anni alla produzione di biocarburanti, auspicando al contempo maggiori investimenti per sviluppare tecnologie di seconda generazione (che usano come materiale di partenza legno e cellulosa, ottenuti da scarti della lavorazione del legno, rifiuti agricoli o colture non alimentari). L’intervento prendeva atto della crisi alimentare globale, dovuta al rialzo del prezzo dei cereali e di altri alimenti, e innescata anche (ma non solo) dai biocarburanti. 3 E il tema tornava protagonista al vertice della FAO di giugno. Il documento conclusivo dedicato ai biocombustibili elenca i nessi fra il loro sviluppo e la crisi alimentare globale, e auspica azioni internazionali e coordinate atte a rendere la strategia un’alternativa sostenibile al petrolio, soprattutto attraverso un cambio d’uso di biomasse diverse da quelle destinate all’alimentazione umana. «Il mercato energetico e quello agricolo sono strettamente legati. E poiché il primo è molto più vasto, i movimenti al suo interno hanno il potere di influire sui costi dell’agricoltura in modo molto più incisivo rispetto al processo contrario» si legge nel documento. Si è verificato, insomma, ciò che Lester Brown aveva previsto nel 2006: «Avevamo un’economia alimentare e un’economia energetica. Ora non possiamo più separarle». A dare il colpo di grazia all’innamoramento nei confronti dell’“alternativa verde al petrolio” sono stati, infine, gli effetti disastrosi sull’ambiente della politica del Brasile dove, per far posto alla canna da zucchero destinata alla produzione di bioetanolo, si stanno devastando vaste zone della foresta amazzonica, simbolo e frontiera dell’impegno in favore dell’ambiente (l’abbattimento della foresta implica l’immediata liberazione in atmosfera della CO2 sequestrata dagli alberi. 3

L’uso del mais e di altre colture destinate all’alimentazione per produrre biocarburanti ne ha fatto lievitare il prezzo, facendo balzare in alto anche quello delle altre derrate alimentari. Per questo motivo, la FAO ha chiesto che la produzione di biocarburanti avvenga a partire da piante che non hanno usi alimentari. Recentemente, il Brasile ha accolto l’invito. Sull’aumento del prezzo del cibo influisce invece in misura minore la destinazione delle colture, ma questo aspetto potrebbe diventare più importante nei prossimi anni, per via dell’incremento della domanda globale di cibo. 108


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In virtù di questo meccanismo, per via della deforestazione, il Brasile è oggi al quarto posto nella classifica dei paesi che emettono più CO2 in atmosfera). 4 E proprio su questo punto, si inserisce anche il dietro front della ricerca scientifica. A ospitare l’inversione di rotta è stata, nuovamente, la rivista Science, con uno studio pubblicato nel febbraio di quest’anno. I calcoli precedenti sul bilancio di CO2 dei biocarburanti sono stati completati con un nuovo elemento relativo alla riconversione del suolo. E il risultato è sempre negativo. Non solo quando per far spazio alle coltivazioni si rade al suolo la foresta, ma anche se si coltivano prati o terreni di altro tipo. Rinnegata dagli ambientalisti, messa sotto accusa dalle organizzazioni umanitarie, considerata inutile dalla scienza, la strategia dei biocarburanti sembra subire un rallentamento anche perché, eccetto che in Brasile, vive solo grazie ai sussidi statali, e per via di alcune previsioni economiche sfavorevoli. Ultima, in ordine di tempo, quella dell’economista Thomas Mielke, direttore di Oil World (specializzata nello studio del mercato degli oli vegetali), il quale prevede che la produzione mondiale di oli vegetali nei prossimi anni sarà del tutto inadeguata a far rispettare gli obiettivi di sviluppo dei biocarburanti. I paesi che hanno avviato piani ambiziosi per i biocarburanti non hanno fatto marcia indietro. Ma è un fatto che, secondo l’UNEP, gli investimenti in questo settore sono calati di un terzo già nel corso del 2007, a dispetto di un incremento del 60% riscontrato complessivamente nelle energie rinnovabili. Col tempo è possibile che i biocarburanti ritornino a essere ciò cui ambivano all’inizio: una delle numerose alternative al petrolio, e forse neppure una delle principali. Questo, del resto, è ciò che si auspica da più parti (con alcune importanti precisazioni: che le specie coltivate non siano le stesse destinate a usi alimentari, che si coltivi su terreni già usati in precedenza per altri scopi, e che si sviluppi la produzione di biocarburanti a partire dai rifiuti, dagli scarti di lavorazione del legname e dalla coltivazione delle alghe). In tutta questa vicenda, c’è però da riflettere sugli eccessivi entusiasmi iniziali e sugli errori di valutazione. L’incertezza che la scienza aveva in un primo tempo 4

La deforestazione avviene in parte per far posto alle coltivazioni destinate alla produzione di bioetanolo e in parte per una conseguenza indiretta della politica Usa in fatto di biocarburanti. Il fatto che il mais statunitense sia dirottato verso la produzione di etanolo ha infatti fatto crescere il prezzo del mais, rendendolo più appetibile per i coltivatori (che fra l’altro ricevono sussidi). Molti di loro, quindi, hanno abbandonato la coltivazione della soia e questo si è tradotto in un aumento della domanda non soddisfatta di soia a livello globale. Per questo motivo, gli agricoltori brasiliani hanno iniziato a coltivare anche soia in zone prima destinate al pascolo. Infine, per creare nuovi pascoli per il bestiame, si brucia la foresta. 109


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non può rappresentare un alibi, un po’ poiché di fronte a un problema nuovo la scienza ha sempre molte incertezze, e un po’ perché dei risultati non univoci prodotti dai ricercatori si sono voluti considerare di volta in volta quelli che facevano comodo, perché giustificavano le proprie posizioni. Inoltre, a ben vedere, l’errore fondamentale non è stato quello di non saper prevedere se, al netto dei processi produttivi, le coltivazioni destinate ai biocarburanti sarebbero state in attivo o in passivo. L’errore, piuttosto, è stato quello di non immaginare neppure lontanamente che cosa avrebbe rappresentato per i Paesi ansiosi di svincolarsi dal petrolio la disponibilità di un’alternativa apparentemente a buon mercato e capace anche di risolvere i problemi del clima. L’errore, insomma, è stato quello di non prevedere il cambiamento di scala e l’ingresso nel settore di quello che Time ha chiamato il “big business”. E, nell’ottica di rendere i biocarburanti una delle numerose alternative ai combustibili fossili, sarà invece necessario porsi per tempo un altro problema che riguarderà il prossimo futuro: per coinvolgere il “big business” (che sembra un attore fondamentale se si vuole che il sistema si concretizzi in tempi ragionevoli) bisognerà individuare altrettanto rapidamente le regole atte a far rispettare i limiti nella produzione imposti dal rispetto degli equilibri ambientali e globali. Bibliografia AA.VV, 51 things we can do, in “Time”, 9 aprile 2007, pp. 55-79. Alexander Farrell et al, Ethanol can contribute to energy and environmental goals, in “Science” 311:506-508 (2006). FAO, Bioenergy, food security and sustainability – towards an international framework. Documento ufficiale della conferneza sulla sicurezza alimentare. Roma, 3-5 giugno 2008. Greene Nathanael, Growing energy. Natural Resources Defense Council, dicembre 2004. Grunwald Michael, The clean energy scam, in “Time”, 14 aprile 2008, pp 29-32 Pimentel David,: Ethanol fuels: energy balance, economics, and environmental impacts are negative, in “Natural Resourches Research” 12:127-134 (2003). Timothy Searchinger et al., Use of U.S. croplands for biofuels increases greenhouse gases through emissions from land use change, in “Science”, pubblicato online il 7 febbraio 2008.

Margherita Fronte, dopo la laurea in biologia e un breve periodo di lavoro in laboratorio ha iniziato a scrivere per varie testate articoli su scienza e medicina. Attualmente è giornalista presso il gruppo Focus e collabora con Radio24, il Corriere della Sera e altre testate. Insegna Comunicazione della medicina al Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste e partecipa a progetti di trasferimento tecnologico. Collabora alla stesura di voci enciclopediche con Garzanti, Treccani e Utet. Per Garzanti, ha coordinato l’aggiornamento della nuova edizione dell’Enciclopedia delle Scienze. È autrice di: Campi elettromagnetici, innocui o pericolosi? (Avverbi, 1997), Sport, la scienza e la tecnologia dei campioni (Cuen, 2000) e, con Pietro Greco, Figli del genoma (Avverbi, 2003), vincitore del premio letterario Serono 2004. 110


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Perché l’Iran fa così paura? Roberta Ballabio, Lucilla Tempesti

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l caso Iran oramai da tempo incarna il più stringente motivo di preoccupazione per la comunità internazionale, e la sua soluzione è percepita come dirimente per la sopravvivenza stessa del regime di non proliferazione, e per il Trattato di Non Proliferazione (TNP) che ne costituisce cardine primario. Diversi elementi hanno influito al consolidarsi di tali perplessità, fra cui:

1) Il timore di un Iran nucleare versus le legittime aspirazioni del Paese L’aspirazione iraniana ad acquisire un ruolo di potenza regionale, lungi dall’essere frutto esclusivo dell’arrivismo dell’attuale classe dirigente, affonda invece le proprie radici nella storia iraniana del secolo scorso; parimenti, fu per primo lo shah Mohammad Reza Pahlavi a volere per l’Iran un programma nucleare militare e una adeguata dotazione missilistica a lunga gittata. 1 Questa aspirazione viene perseguita in modo più stringente a partire dall’ascesa al potere del presidente Ahmadinejad nel giugno 2005: le sue posizioni provocatorie e anti-israeliane, così come la scelta di utilizzare la questione nucleare quale strumento di affermazione nel panorama internazionale, hanno contribuito non solo a inasprire le relazioni diplomatiche dell’Iran con l’Occidente e con diverse potenze regionali (si pensi in primo luogo a Israele, e in secondo luogo all’Arabia Saudita, al Kuwait, al Bahrein, alla Giordania), ma anche a guardare con maggiore preoccupazione all’ipotesi di un Iran nucleare, benché Tehran abbia sempre sostenuto di voler avvalersi della tecnologia nucleare esclusivamente a uso pacifico. A contribuire al clima di sfiducia verso la bontà delle intenzioni iraniane si aggiunge da un lato la scarsa convenienza economica di un ciclo del combustibile nazionale per un Paese che è fra i primi tre al mondo per riserve di petrolio e gas naturali, dall’altro la ricerca nella dotazione di missili a media e lunga gittata. Tali elementi fa1

U. Rubin, The Global Reach of Iran’s Ballistic Missiles, INSS, Memorandum, 86, novembre 2006. 111


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rebbero infatti pensare alla volontà da parte dell’Iran di dotarsi di una capacità nucleare militare, anche solo quale deterrente virtuale. Quale contraltare di tali timori vi è la rivendicazione iraniana dell’esercizio del suo diritto inalienabile, sancito dall’articolo IV del TNP cui l’Iran ha aderito nel 1970, di procedere nella ricerca, nella produzione e nell’utilizzo di energia nucleare purché esclusivamente per scopi pacifici. All’esercizio di tale diritto, al centro delle argomentazioni iraniane a giustificazione del proprio programma nucleare, si contrappone lo scomodo – benché unico – precedente della Corea del Nord, quest’ultima, nonostante la sua adesione al TNP e anzi proprio grazie alle forniture internazionali che il trattato consente ai Non Nuclear Weapons State, è stata in grado di perseguire e portare a termine un programma nucleare militare clandestino, per poi dichiararlo apertamente uscendo dal TNP nel 2003. Lo stesso scenario di break-out si teme per l’Iran, con conseguenze imprevedibili per la credibilità di un TNP che dimostrerebbe per la seconda volta di essere estremamente fallace nella sua efficacia. 2 2) La situazione interna: incertezze in politica interna e debolezze nel comparto economico La situazione interna è altrettanto complessa: le vulnerabilità che caratterizzano il Paese sono infatti di differente natura. Sono diverse le variabili che concorrono a determinare l’analisi dell’assetto politico in un Paese che si configura come il più democratico del Medio Oriente pur avendo vissuto e vivendo allo stesso tempo diverse contraddizioni e regressioni nel percorso verso una completa democratizzazione. I numerosi organi istituzionali ufficiali e gli influenti network non ufficiali disegnano una pluralità di centri decisionali con differenti interessi da coltivare, il che rende difficilmente intelligibile agli occhi degli osservatori occidentali se la politica estera del Paese sia in mano al leader supremo Khamanei o al presidente Ahmadinejad, e quali altri attori siano in grado di esercitare a riguardo la loro influenza. Inoltre occorre sottolineare il crescente malcontento interno espresso dagli elettori e dalle elettrici, che subiscono da un lato la stretta di un regime sempre più autoritario e dall’altro una leadership che sta pagando in termini di isolamento internazionale il raggiungimento dell’indipendenza quanto a know-how e materiale nucleare: difficilmente tuttavia questo scontento si trasformerà in una contestazione del regime pro2

Per un approfondimento: P. Fontana, M. Martellini, A. Plebani, Dal nucleare civile alla bomba il passo è breve, Limes, 1, 2007.

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prio in virtù della legittimazione democratica che ha portato al suo insediamento. Un altro nodo che accresce l’insofferenza interna è rappresentato dalle conseguenze economiche delle sanzioni imposte sulla base del deferimento al consiglio di sicurezza del file e delle risoluzioni che ne sono seguite: gli investimenti esteri sono infatti diminuiti drasticamente, la possibilità di accedere al credito internazionale si è quindi ridotta notevolmente e la disoccupazione è in crescita. Oltre a ciò si tenga conto che il consumo interno di petrolio è aumentato e, visti i mancati investimenti per migliorare la tecnologia estrattiva di petrolio e gas o la possibilità di nuove esplorazioni, la quantità destinata alle esportazioni si è ridotta causando un’inflessione significativa delle entrate di moneta forte. 3 3) La precarietà del contesto regionale Il Medio Oriente è da diversi decenni caratterizzato da una profonda frammentazione al proprio interno. A ciò si aggiunge la peculiare collocazione geografica dell’Iran, con la sua vicinanza a paesi instabili quali l’Afghanistan, l’Iraq e il Pakistan, e col suo affacciarsi su di un contesto regionale in continuo fermento quale quello in cui si inseriscono Israele, Libano e Palestina, che rende le scelte del Paese particolarmente significative agli occhi della comunità internazionale. Il timore che le aspirazioni iraniane inneschino una corsa agli armamenti nella regione mediorientale, e che una leadership iraniana in Medio Oriente costituisca un forte elemento destabilizzatore nell’area nonché un ostacolo per gli attuali e futuri interventismi occidentali, 4 hanno fatto maturare in Washington la convinzione che il caso Iran possa giungere a una proficua soluzione solo mediante un’azione combinata di impiego dell’uso della forza e alleanze strategiche. A preoccupare in particolar modo sono da un lato l’asse Iran-Siria-Hezbollah-Hamas, e l’influenza che da una quindicina d’anni tale “alleanza” esercita nella regione in senso opposto a quanto

3 Per un’analisi della situazione iraniana: K. Crane, R. Lal, J. Martini, Iran’s Political, Demographic, and Economic Vulnerabilities, RAND, 2008. http://www.rand.org/pubs/monographs/MG693/ e D. Ross, Statecraft in the Middle East, The Washington Quarterly, Estate 2008. http://www.twq.com/08summer/index.cfm?id=300. 4 Si ricorda come tali interventismi abbiano registrato un significativo incremento all’indomani della tragedia dell’11 settembre 2001; si fa in particolare riferimento agli attacchi statunitensi appoggiati dalla NATO in Afghanistan nel 2001 per colpire i taliban e Al-qaida, all’attacco preventivo angloamericano contro il regime di Saddam Hussain in Iraq nel marzo del 2004 e alla difficile situazione seguitane, oltre alle influenze politiche esercitate dagli Stati Uniti in Pakistan nel 2007 a seguito della contestazione interna del presidente Musharraf, l’assassinio di Benazir Bhutto e le nuove elezioni svoltesi nel paese’. Per un analisi più approfondita: R. Redaelli, Why Selective Engagement? Iranian and Western Interests Are Closer Than You Think, Policy Analysis Brief, the Stanley Foundation, giugno 2008.

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auspicato da diversi attori regionali e stranieri, 5 dall’altro l’eventualità che l’Iran e i suoi alleati di confessione sciita mirino a creare la supremazia di questa componente religiosa nella regione. 6 4) I media e le fughe di notizia L’utilizzo dei media da parte dei principali attori coinvolti è stato particolarmente significativo nel giustificare l’accrescere della tensione attorno al file Iran. Le continue dichiarazioni, dagli effetti in gran parte voluti e consapevoli, sono stati funzionali da un lato a fomentare un clima di tensione e ad alimentare la convinzione dell’inevitabilità di un esito militare dell’empasse, dall’altro a cavalcare la criticità rappresentata da Israele nell’area mediorientale e l’emotività condivisa sulla questione palestinese oltre a motivare gli attacchi all’Iran in quanto minaccia per gli interessi stranieri nella regione. Anche fughe di notizia non apertamente riconducibili ai diretti interessati hanno servito la causa della disinformazione. Ultimamente, grandissima eco nei media e nell’opinione pubblica ha avuto la rivelazione di un fatto risalente al 2006; si tratta del rinvenimento, all’interno di computer di alcuni uomini d’affari svizzeri, di disegni di testate nucleari compatte che sarebbero adattabili ai missili balistici in possesso dell’Iran. Tali disegni, dietro cui si sospetta vi sia la rete clandestina dell’ingegnere pachistano Abdul Qabeer Khan, potrebbero essere stati passati a Tehran, secondo quanto ipotizzato dalla fonte, benché non vi siano riscontri probatori in tal senso. Non altrettanta eco ha avuto la smentita dello stesso Khan. Un’ulteriore notizia è quella recentemente riportata da quotidiani italiani e statunitensi relativa alle operazioni segrete, numerose e di lunga data, almeno dal 2001, finalizzate a destabilizzare la leadership religiosa e a sovvertire il regime in Iran. 7 In particolare, le operazioni segrete poste in atto dagli Stati Uniti parrebbero essere, secondo il “NewYorker”, considerevolmente aumentate in termini di quantità, di fondi allocati e di obiettivi, mentre sarebbero altrettanto sensibilmente diminuite sotto il profilo della trasparenza.

5 E. Karmon, The Mideast Axis of Destabilization, in “Perspectives Papers”, 36, 26 dicembre 2007; http://www.biu.ac.il/SOC/besa/perspectives36.html. 6 V. Nasr, R. Takeyh, The Costs of Containing Iran, Foreign Affairs, gennaio-febbraio 2008. 7 C. Bonini, Un golpe in cambio di gas e petrolio, così il Sismi lavoro al ‘piano Iran’, in “La Repubblica”, 11 giugno 2008; S. M. Hersh, Preparing the battlefield, in “The New Yorker”, 1 luglio 2008.

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Le risposte della comunità internazionale alla percepita minaccia iraniana Dalla scoperta da parte dell’Agenzia Internazionale per L’Energia Atomica (AIEA), nell’agosto 2002, di un programma iraniano clandestino di arricchimento, le numerose richieste di chiarificazione da parte della comunità internazionale sul file iraniano non hanno ricevuto risposte con l’adeguato carattere di completezza, e le molte misure adottate descritte qui di seguito si sono rivelate insufficienti. Nonostante in questi anni la funzione di verifica dell’AIEA ha rappresentato uno strumento di trasparenza molto importante, gli ultimi due rapporti AIEA del 2008 sulla situazione iraniana hanno mostrato l’impossibilità dell’Agenzia di pronunciarsi in maniera definitiva sul caso iraniano, e nelle loro diversità hanno contribuito ad alimentare dubbi e incertezze: nel rapporto del 22 febbraio 2008 8 si sottolineava la collaborazione iraniana al lavoro di indagine svolto dall’Agenzia nonché la disponibilità a fornire dati relativi alle attività in corso (eccezion fatta per i cosiddetti “alleged studies”), benché tale collaborazione si esplicasse solo su richiesta ad hoc e non in modo continuativo e costante. Tale rapporto AIEA seguiva la pubblicazione, nel dicembre 2007, del National Intelligence Estimate (NIE) statunitense: 9 all’interno del documento tutte le agenzie di intelligence riferite al governo statunitense affermavano l’avvenuta sospensione del programma nucleare clandestino iraniano databile al 2003. L’impatto sull’opinione pubblica e sulla comunità internazionale fu significativo: la tensione percepita infatti si è diluita tanto da consentire il cambiamento del panorama politico; così, le pressioni francesi per l’approvazione di sanzioni più dure da parte dell’Unione Europea si sono allentate, e parallelamente all’interno del Consiglio di Sicurezza ONU le posizioni cinesi e russe sono nuovamente tornate a essere meno favorevoli alla pronuncia di una terza risoluzione ONU; le insistenze saudite affinché l’Iran accettasse la proposta di importare l’uranio arricchito prodotto da un consorzio internazionale anziché ottenerlo negli impianti di Natanz 10 si sono stemperate; e si è provveduto a stipulare contratti internazionali con l’Iran per la fornitura di gas e petrolio, tra cui figura anche quello con l’impresa italiana Edison. 11 Questo atteggiamento è stato letto dagli iraniani come un cambiamento nell’approccio alla questione nucleare, lettura che non ha trovato riscontro nei successivi atti e nel-

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http://www.iaea.org/Publications/Documents/Board/2008/gov2008-4.pdf. http://www.dni.gov/press_releases/20071203_release.pdf. 10 Sulla possibile esistenza di impianti nucleari clandestini: G.M. Mancini, M. Martellini, L. Tempesti, Tutto sulla Bomba, in “Iran: Guerra o Pace: Quaderno Speciale di Limes”, giugno 2007. 11 H. Parisa, Iran, Italy’s Edison sign $107 mln oil deal, January 9, 2008. http://www.reuters.com/article/rbssEnergyNews/idUSDAH93898020080109. 9

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le dichiarazioni del governo statunitense e di quello israeliano, che anzi hanno continuato a sostenere l’importanza di una azione urgente per contrastare la minaccia nucleare rappresentata dalla repubblica islamica. 12 Nel successivo rapporto AIEA del 26 maggio 2008 13 viene invece posto l’accento sulla non-compliance alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, soprattutto in relazione al fatto che l’Iran stia progredendo significativamente nello sviluppo e nella operatività delle centrifughe, e viene ribadita l’inadeguata cooperazione sulla questione degli “alleged studies”. Dal rapporto dello scorso maggio emerge inoltre che gli iraniani stanno testando centrifughe di tipo avanzato a Natanz, ma d’altro canto la condivisione di queste informazioni con l’AIEA non è richiesta dall’attuale regime di salvaguardie cui è sottoposto l’Iran. 14 Ulteriori motivi di seria preoccupazione sono l’aumentata capacità di produzione di uranio debolmente arricchito (Low Enriched Uranium – LEU) verificatasi negli ultimi mesi 15 nonché gli studi sulla tecnologia dei missili Shahab 3, culminati nei recentissimi test effettuati nell’estate 2008 in Iran. Questi missili di tipo re-entry vehicle infatti sarebbero in grado di contenere al loro interno una testata nucleare e avrebbero una gittata tale da poter colpire paesi come Israele raggiungendo anche l’Europa. Il rapporto di maggio segue l’approvazione, lo scorso 3 marzo, del terzo round di sanzioni economiche da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, motivato dal rifiuto iraniano di sospendere i programmi di arricchimento dell’uranio. Con la Risoluzione 1803 del marzo scorso, adottata

12 Per le reazioni contrastanti al NIE: T. Karon, Spinning the NIE Iran Report, in “Time”, 5 dicembre 2007, http://www.time.com/time/world/article/0,8599,1691249,00.html; D. Ross, Statecraft in the Middle East, op. cit. 13 http://www.iaea.org/Publications/Documents/Board/2008/gov2008-15.pdf. 14 Queste informazioni sarebbero state richieste se l’Iran avesse continuato ad aderire all’additional protocol, da cui si è però ritirato nell’ottobre del 2005. 15 Si ricorda che per la produzione di armi atomiche occorre avere uranio fortemente arricchito (High Enriched Uranium HEU): questo si ottiene dal LEU, necessario per lo sviluppo del nucleare civile, arricchito fino a una soglia del 5%. Il processo di arricchimento presenta difficoltà nelle prime fasi ma, una volta raggiunto questo 5%, giungere fino alle soglie di arricchimento necessarie per un uso militare (arricchimento al 90%) è progressivamente sempre più facile e rapido. I quantitativi di LEU prodotti sono passati dai 75 kg prodotti tra il febbraio e il dicembre 2007 ai circa 150 prodotti tra gennaio e maggio 2008, circa un chilo al giorno: a pieno regime, quindi, nei prossimi 3 mesi l’Iran potrebbe produrre altri 450 kg e raggiungere un totale di 600 kg, il che significherebbe superare la soglia di produzione consentita. Se questo materiale fosse arricchito fino a diventare HEU, l’Iran disporrebbe di un quantitativo di materiale sufficiente per produrre un ordigno nucleare. Per un’analisi dettagliata del report vedi ISIS report by D. Albright, J. Shire, P. Brannan, May 26, 2008 AIEA Safeguards Report on Iran: Centrifuge operation improving and cooperation lacking on weaponization issues, 29 maggio 2008, www.isis-online.org.

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con voto positivo di Cina, Russia e Sud Africa, si assiste a un inasprimento delle sanzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza ONU con le Risoluzioni 1737 del dicembre 2006 e 1747 del marzo 2007. 16 All’effetto, primariamente psicologico, 17 delle sanzioni ONU si è aggiunto negli anni il significativo impatto economico delle sanzioni finanziarie unilaterali statunitensi, la cui efficacia è correlata al ruolo leader degli Stati Uniti nel settore finanziario. 18 Queste sanzioni di diverse matrici non sono però sinora riuscite a distogliere l’Iran dall’intento di proseguire col suo programma di arricchimento.

Le soluzioni: un canale di dialogo sempre attivo e confidence building measures Il caso dell’ex Unione Sovietica dimostra agli Stati Uniti e all’intera comunità internazionale l’importanza di mantenere un canale di dialogo attivo per una soluzione pacifica in caso di stalli politici. L’opzione del dialogo tuttavia si manifesta nel dibattito interno agli Stati Uniti non quale ipotesi alternativa a un attacco, quanto piuttosto quale eventuale anticamera a un intervento militare che comunque avrebbe luogo in caso di fallimento delle trattative per lo smantellamento del programma nucleare iraniano. Washington parrebbe non tenere sufficientemente in conto né la necessità di perseguire la strada del continuo dialogo – come pure l’esperienza maturata durante la Guerra Fredda dovrebbe suggerire –, 19 né le perplessità sull’efficacia di un attacco preventivo; 20 elementi che invece risultano essenziali per la realizzazione di una politica estera statunitense che abbia l’ambizione di operare nel lungo termine anche e soprattutto per la normalizzazione della regione mediorientale.

16 La Risoluzione 1803 (2008) amplia l’elenco dei materiali e delle tecnologie soggetti al divieto di fornitura, vendita e trasferimento all’Iran, e gli individui per i quali vale l’interdizione dell’entrata e del transito nei territori degli Stati membri. Inoltre raccomanda agli Stati membri di ispezionare i carghi in qualche modo provenienti o diretti in Iran, e di usare cautela nel fornire garanzie e incentivi commerciali all’Iran. 17 M. Jacobson, Sanction against Iran: A promising Struggle, The Washington Quarterly, Estate 2008. http://www.twq.com/08summer/index.cfm?id=304. 18 Per un’analisi sull’effettività delle sanzioni, D. Shen, Can Sanctions Stop Proliferation?, The Washington Quarterly, Estate 2008. http://www.twq.com/08summer/index.cfm?id=305. 19 Vedi con particolare raffronto coi rapporti USA-Urss del periodo della Guerra Fredda, J.B. Alterman, Another way with Iran, CSIS – Middle East Program, giugno 2008. http://www.csis.org/index.php?option=com_csis_pubs&task=view&id=4522; J. Dobbins, The case for talking, in “International Herald Tribune”, 30 giugno 2008. 20 P. Clawson, M. Eisenstadt, The last Resort – Consequences of Preventive Military Action against Iran, The Washington Institute for Near East Policy, giugno 2008; http://www.washingtoninstitute.org/templateC04.php?CID=292.

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Il dialogo nel caso iraniano non può che essere facilitato nel suo sviluppo e nei suoi esiti da una serie di fattori: in primo luogo è necessario che l’Iran venga accreditato al tavolo negoziale quale interlocutore realmente paritario. In secondo luogo, è fondamentale la reciproca adozione di confidence building measures. Un perfetto esempio è rappresentato dalla proposta, avanzata da Solana lo scorso giugno per conto dei P5+1, di sospendere temporaneamente sia l’arricchimento e riprocessamento posto in atto dall’Iran che l’evoluzione del regime sanzionatorio imposto all’Iran, quale anticamera per una più distesa pre-negoziazione. In terzo luogo andrebbe interrotto il meccanismo di “deterrence for deterrence”, di cui esemplificazioni sono state le vaste operazioni militari israeliane del giugno 2008 cui sono seguiti i test missilistici iraniani del luglio 2008: non vi sono infatti le condizioni perché tale strategia possa limitarsi con buoni margini di sicurezza alla sola deterrenza. Ancora, un importante segno di distensione e di volontà collaborativa da parte iraniana sarebbe una nuova adesione agli Additional Protocol AIEA, e l’accettazione di un’auto moratoria sui test missilistici a media-lunga gittata. Si tratta evidentemente di fattori che implicano una reale volontà di negoziazione nonché la disponibilità a “congelare” gli errori e le conflittualità pregresse delle parti in gioco al fine di uscire dalla situazione di impasse in cui si è caduti e che si sta cronicizzando sempre più dove le uniche alternative sembrano essere l’escalation o la capitolazione. La prima con costi geopolitici, sociali ed economici altissimi, la seconda non realizzabile per motivi di prestigio internazionale. E, che l’escalation militare abbia o non abbia luogo, forse occorrerà comunque che la comunità internazionale inizi a pensare a come convivere con un Iran nucleare. Roberta Ballabio è Programme Officer per il Landau Network - Centro Volta e analista geopolitica, con particolare attenzione alle questioni di gestione delle risorse, sicurezza idrica ed energetica, cooperazione e sviluppo. Laureata in Scienze politiche all’Università di MilanoStatale, con una specializzazione in gestione di progetti di sviluppo, ha condotto programmi di ricerca in campo sociale ed economico con diverse università. Ha inoltre collaborato o coordinato programmi di cooperazione internazionale sul “capacity building” e il “local empowerment” in Bolivia, Ghana, Marocco, Capo Verde, Tailandia e Pakistan con ONG italiane. Lucilla Tempesti è ricercatrice per il Landau Network - Centro Volta e analista geopolitica, con particolare riferimento alla non proliferazione nucleare e al disarmo e agli strumenti e politiche per il rafforzamento della sicurezza. Laureata in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano - Statale, dal 2006 ha iniziato a collaborare con diverse riviste italiane di geopolitica, quali Limes e Aspenia. 118


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Analfabeti Tullio De Mauro intervistato da Enrica Battifoglia

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illusione, finora, era che esistesse in Italia un problema di analfabetismo scientifico. Molto, anche se pochissimo ascoltato, è stato detto sul fatto che la ricerca nel nostro paese ha finanziamenti sempre più ridotti, che non si basa sullo standard internazionale che affida i criteri di finanziamento al merito e alla valutazione fra pari, che è molto difficile che la scienza trovi spazio in giornali, tv e radio. Nemmeno l’ormai riconosciuto primato della società della conoscenza e il ruolo cruciale che sapere scientifico e competenze tecnologiche hanno nello sviluppo di un paese è riuscito a scuotere la situazione italiana dal torpore. Finora questa enorme distanza fra la società e la scienza si attribuiva a una generica scarsa attenzione alla ricerca, da parte del pubblico così come da parte della classe politica ed economica, e spesso le radici culturali di questa disattenzione si sono ricondotte all’impronta di filosofi come Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Si è puntato l’indice verso la scuola, dove la scienza viene insegnata poco e in modo troppo teorico perché diventi davvero interessante. Si è accusato il mondo dell’informazione di trascurare la scienza, esaltandone solo gli aspetti più legati all’emotività, come l’entusiasmo e la curiosità destati da alcune missioni spaziali particolarmente fortunate, o come le paure legate a nucleare, organismi geneticamente modificati e cambiamenti climatici, o ancora i timori scatenati dalle ricerche su clonazione o embrioni. Si sono messe in discussione le modalità di comunicazione tradizionali per trovare nuove modalità di comunicazione della scienza, dai festival sempre più numerosi alla multimedialità. Tutto questo è vero, ma non è abbastanza per capire fino in fondo la sordità della società italiana nei confronti della scienza. L’ipotesi è che l’analfabetismo scientifico sia la conseguenza di un problema molto più generale, drammatico e urgente: sembra anacronistico, difficile da credere e da accettare, ma l’indifferenza verso la scienza potrebbe essere un aspetto di un più diffuso analfabetismo. Ne parliamo con il linguista Tullio De Mauro, che da tempo è impegnato 119


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nello studio delle competenze culturali di base e che in passato ha affrontato il problema anche in veste di ministro della Pubblica Istruzione. In quale contesto si inserisce oggi il fenomeno dell’analfabetismo scientifico? Dagli anni Novanta la scuola è riuscita a portare oltre il 90% delle fasce giovani della popolazione alla licenza media dell’obbligo, ma non ha mai raggiunto il 100%. Almeno dai primi anni Novanta sappiamo che, del 92%-94% dei licenziati, il 20%-25% esce con gravi difficoltà di lettura e scrittura. Con gli anni 2000 la media superiore è riuscita a portare al diploma quasi tutti i licenziati della scuola media dell’obbligo, pari al 75% delle fasce giovanili. Ma dagli stessi anni Novanta sappiamo che, per tutti i tipi di scuola superiore, una buona metà dei diplomati, anche con voti alti, ha gravi deficit sia di cultura storico-umanistica sia scientifica. E sulla preparazione scientifica abbiamo purtroppo notizie drammaticamente chiare dal 1971, anno della prima indagine comparativa internazionale dell’International Education Achievement (IEA). Nella classifica che ne risultava, e che comprendeva anche i Paesi in via di sviluppo, l’Italia era al penultimo posto. Recentemente i risultati delle indagini dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) sulla preparazione scientifica hanno prodotto un po’ di agitazione, ma i dati accumulati in quasi 40 anni non hanno scosso granché l’opinione delle classi dirigenti. In realtà c’è una stratificazione delle capacità alfabetiche della popolazione adulta che nel confronto internazionale colloca l’Italia molto in basso. Alla scarsa preparazione dei giovani, si aggiungono quindi lacune nell’alfabetizzazione degli adulti. Quali sono le cifre del problema? Quale sia la condizione effettiva dell’alfabetizzazione degli adulti lo sappiamo da due indagini internazionali, realizzate in molti Paesi del mondo e promosse da Statistic Canada e dall’Ente federale di statistica degli Stati Uniti. La prima, International Adult Literacy Survey (IALS), è del 1999-2000 e la seconda, Adult Literacy and Lifeskills (ALL), è stata pubblicata nel 2006. Entrambe erano indagini osservative, basate su una serie di cinque questionari di complessità crescente somministrati alla popolazione di età compresa fra 16 e 65 anni; la prima indagine prevedeva anche la somministrazione di un questionario di accesso molto semplice, teso a verificare la capacità di lettura. Per l’Italia è emerso che il 5% della popolazione adulta non è in grado di decifrare uno scritto. Il 33% accede al primo questionario (un questionario molto semplice, con prove elementari di lettura, comprensione, scrittura e calcolo) e lì si fer120


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ma. Al secondo questionario accede il 62% ma, di nuovo, un altro 33% non riesce ad andare oltre. Al terzo, quarto e quinto arriva solo il 29% degli adulti italiani. La soglia che pone al riparo dal rischio di analfabetismo funzionale si colloca fra il secondo e il terzo questionario e questo significa che solo il 29% della popolazione adulta italiana supera questa soglia. La seconda indagine, più stringente e sofisticata, testava le capacità di problem solving. Mentre nel 2000 il Ministero della Pubblica Istruzione aveva finanziato l’indagine, nel 2005 ha rifiutato di partecipare. L’indagine venne comunque affidata al Cede, che allora si chiamava già Invalsi, e realizzata grazie al supporto finanziario della Provincia autonoma di Trento e dalle Regioni Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Campania. La conclusione di questa indagine è ancora più grave perché, secondo la valutazione internazionale dei dati italiani, solo il 20% della popolazione adulta italiana ha le capacità minime indispensabili per orientarsi nell’informazione e nella vita di una società moderna. Come si spiega una situazione così grave? Non c’è paese europeo con una situazione analoga a quella italiana. Nell’istogramma che risulta dalle indagini citate l’Italia sprofonda al di sotto della soglia minima, mentre gli altri paesi sono più o meno accentuatamente al di sopra. Questi deficit della popolazione adulta si trovano anche ad alti livelli di scolarità formate. Nell’indagine ALL del 2006 viene fuori, ad esempio, che il 12% delle persone con laurea non supera il secondo livello, cioè resta sotto la soglia minima delle capacità alfabetiche e numeriche. Una parte di queste incapacità è legata al fatto che, anche con titoli formali di studio medi o medio-alti, escono dalla scuola persone con scarsa capacità alfabetica. E sono in gioco anche i titoli universitari. Una spiegazione è nel fatto che, anche avendo acquisito nel percorso scolastico e universitario delle buone competenze, le persone in età adulta non hanno più occasioni e luoghi per esercitarle una volta uscite dai canali formativi. L’Italia è quindi un caso eccezionale in Europa? Una situazione analoga a quella italiana si ritrova in qualche misura, molto più modesta, in altri paesi dell’Unione Europea. Ma certamente in questi paesi, dopo l’uscita dal canale scolastico, esiste un sistema di educazione permanente degli adulti, con corsi di formazione sia di taglio più strettamente professionale sia di taglio culturale generale di qualsiasi ambito. Uno dei dati più significativi è che mediamente nei paesi europei dal 70% all’85% degli adulti annualmente rientra in un ciclo più o meno lungo in uno di questi corsi. Per l’Italia abbiamo a disposizione solo l’ultima indagine multiscopo dell’Istat, basata su dichiarazioni 121


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soggettive, da cui emerge che non più del 20% degli adulti dichiara di avere frequentato un corso di formazione. Un lavoro sistematico in questa direzione era stato avviato con i ministri della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer e De Mauro, quando nella legge del ’99 sul sistema di istruzione venne introdotto un articolo sull’organizzazione dei corsi per adulti, per la prima volta considerati parte del complessivo sistema formativo: era una novità assoluta. Il lavoro era stato avviato nel 2000 e nel 2001, con qualche successo e d’accordo con enti locali, associazioni e sindacati. In seguito è stato complessivamente dismesso dal ministero. Restano qua e là alcune iniziative promosse dai Comuni e poi un punto interrogativo. Di fatto, rispetto agli altri paesi europei, in Italia non abbiamo un sistema nazionale di formazione e istruzione permanente degli adulti. Analfabeti di ritorno esistono in tutti i paesi industrializzati, ma trovano in funzione potenti anticorpi. In Italia non c’è niente. Un deficit, a quanto pare, tanto esteso quanto ignorato… Sono dati molto poco noti. Ne ho parlato in un lavoro analitico sui dislivelli nelle competenze linguistiche e culturali uscito all’inizio di quest’anno negli Atti dell’Associazione di Linguistica Applicata e ne ho parlato a Trento, al Festival dell’Economia, soprattutto censendo una serie di indagini disperse, fatte da vari enti e i cui risultati destano sempre sorpresa. Ad esempio, da un’indagine promossa dal garante della privacy è emerso che fra il 75% e l’80% la popolazione è molto gelosa della propria vita privata, ma quando si chiede alle persone se sanno che esistono un’autorità e una legge che tutelano questi diritti, il 30%-32% resta in silenzio. Allora ci si stupisce. Ci si meraviglia anche quando l’Associazione Bancaria Italiana, volendo conoscere il livello di competenze finanziarie della popolazione che ha un conto in banca, scopre che il 71% degli intervistati ammette di non capirne nulla e il 29% di capirne poco. Anche in questo caso si assiste a un dislivello enorme rispetto agli altri paesi e a un grande stupore di chi promuove in Italia le indagini. In altre nazioni, come Regno Unito e Germania, esistono campagne nazionali di promozione dell’educazione finanziaria, in Italia no. Di questi stupori ce ne sono tanti e al lungo elenco degli stupiti appartengono anche molti preoccupati della scarsa cultura scientifica. Tra le rare eccezioni c’è l’osservatorio Observa di Torino, tra i pochi a sapere che l’analfabetismo scientifico è parte di una più generale condizione di ignoranza. Il punto è che dati come questi non dovrebbero essere pubblicati da riviste specializzate, ma dovrebbero essere oggetto di presentazione sulle prime pagine dei grandi quotidiani per cercare di scuotere il torpore. 122


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Una situazione davvero difficile da accettare e da comprendere. Volendo risalire alle cause che l’hanno determinata, da dove comincerebbe? Il torpore riguarda più cose e certamente riguarda anche la qualità della scuola ordinaria. Ce lo dicono indagini come Progress in International Reading (PISA). Fatta eccezione per le scuole elementari, che finora hanno retto molto bene a tutti i confronti internazionali, certamente ci sono cose che non funzionano nella scuola ordinaria. Ma c’è un vero e proprio buco nero ed è la mancanza di un sistema nazionale di educazione degli adulti. Un secondo aspetto importante è che l’inerzia di fronte a queste deficienze, o la connivenza con queste deficienze, coinvolge tutta la classe dirigente, non solo quella politica. Rispetto agli altri paesi industrializzati, l’Italia ha una bassissima quota di laureati che lavora nelle imprese e, cosa ancora più grave, nelle imprese italiane c’è una disaffezione strutturale a ciò che è cultura e ricerca. Nel resto del mondo, tranne che in Italia e in Grecia, la ricerca fondamentale è allocata per l’80%-90% nelle imprese. In Italia quel po’ che c’è è allocata essenzialmente in università ed enti pubblici di ricerca, con un rovesciamento completo rispetto a tutti gli altri paesi, dalla Francia al Gabon, dalla Germania al Canada, agli Stati Uniti. Non c’è dubbio che la scuola dovrebbe funzionare meglio, ma dovrebbe funzionare meglio anche l’atteggiamento non solo dei politici che governano la scuola, ma della classe imprenditoriale che governa imprese ed economia. Che cosa si può fare, allora, per uscire dal torpore? Bisognerebbe scuotere queste disattenzioni, che sono strutturali. Alcuni bravi economisti, come Tito Boeri, Luigi Spaventa, Attilio Stajano, spiegano che la stagnazione del sistema economico e produttivo italiano, che dura dagli anni Novanta, è una stagnazione di lungo periodo che affonda le radici in un deficit di formazione e di capacità culturale di base di tutta la popolazione. Cercano di farsi ascoltare, ma non sono ascoltati. Eppure dovrebbe essere intuitivo capire che un migliore livello di alfabetizzazione generale e di conoscenza scientifica è un fattore di sviluppo. Perché è così difficile da comprendere? Perché probabilmente abbiamo vissuto una stagione felice tra gli anni Cinquanta e Ottanta, in cui i bassi costi della manodopera e le condizioni non ancora ipertecnologizzate della produzione consentivano di cavarsela in qualche modo. Nel momento in cui la manodopera italiana ha voluto partecipare ai profitti e la tecnologia è diventata più complessa, i conti non sono più tornati. Pe123


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rò anche la struttura familistica dell’impresa italiana ha favorito solo la memoria che nonno e papà ce l’avevano fatta. Tuttavia a partire dagli anni Cinquanta le cose in altri paesi sono cambiate. Perché in Italia no? Perché abbiamo scelto di vivere alla giornata. Perché i progetti di riorganizzazione del paese, che pure erano stati elaborati fra gli ultimi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, sono stati abbandonati. Siamo vissuti sull’inflazione, campando senza nessun progetto, né conservatore né progressista e, abbandonata l’idea che si potesse programmare, siamo vissuti alla giornata. L’analfabetismo con cui abbiamo a che fare oggi e che apre un’incognita sul futuro è una grande debolezza nazionale. Nell’ultima campagna elettorale c’è stato un silenzio totale sui temi della formazione, dell’università e della ricerca. Solo negli ultimi mesi il mondo economico sta cominciando a parlare di scuola, ma senza un’analisi della situazione. Il nodo da risolvere, a mio avviso, è l’istruzione degli adulti. Tuttavia questo problema non viene affatto considerato. Non ve ne è traccia, ad esempio, nel libro bianco sulle linee di sviluppo dell’istruzione in Italia nei prossimi dieci anni redatto dal gruppo di lavoro misto fra i ministeri dell’Istruzione e dell’Economia e diretto dall’economista Fabrizio Barca. A questo punto viene da chiedersi se l’analfabetismo scientifico sia una logica e inevitabile conseguenza di questa generale e profonda lacuna dell’istruzione italiana, oppure se sia comunque un fenomeno caratterizzato da connotati particolari. Probabilmente ci sono connotati speciali della sordità scientifica e matematica anche nel 20% della popolazione che possiede le competenze minime per orientarsi in una società moderna, sordità che riguardano soprattutto le scienze naturali ed esatte. È probabile che questa sordità sia maggiore di quella riscontrabile per altri campi del sapere e dell’attività intellettuale, dall’arte alla storia. L’impressione, tutta da verificare, è che la circolazione delle informazioni sulle scienze naturali ed esatte sia più sacrificata della circolazione dell’informazione umanistica e artistica. Ma poiché non è chiaro il quadro generale, troppo spesso si scarica sull’analfabetismo scientifico quello che in realtà è un analfabetismo generale, che investe anche la cultura storica o geografica. D’altro canto non si spiegherebbe altrimenti il successo che stanno riscuotendo negli ultimi anni iniziative come i festival della scienza. Questo è un aspetto interessante: purché non si debba leggere, la gente va 124


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volentieri a sentir parlare di scienza. Ma, ancora una volta, sappiamo ben poco di accertato. Probabilmente è giusta l’impressione che, tra le sordità, ci sia una particolare sordità nei riguardi delle scienze esatte anche in quella parte della popolazione che ha un discreto livello di alfabetizzazione. Ma è anche vero che ci sono altri deficit, altrettanto gravi, anche in ambito umanistico, artistico e storico.

Tullio De Mauro è uno dei maggiori studiosi di linguistica italiani. Insegna Linguistica generale e ha diretto il Dipartimento di Scienze del Linguaggio all’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato numerose opere di linguistica e semiologia, tra cui la “Storia linguistica dell’Italia unita” e “L’introduzione alla semantica” e saggi orientati verso i problemi dell’educazione linguistica. Attentissimo ai problemi della scuola è stato Ministro della Pubblica Istruzione nel secondo governo Amato, dal 25 aprile 2000 all’11 giugno 2001. Enrica Battifoglia è giornalista scientifico. Lavora per l’Agenzia Ansa, dove si occupa di salute e scienza. In precedenza, ha collaborato alle pagine scientifiche di quotidiani e settimanali italiani e ad alcuni dei maggiori periodici divulgativi. Ha pubblicato libri divulgativi per bambini. Per l’Ansa ha pubblicato uno speciale sulla spedizione italiana in Antartide 20052006. 125


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Ambienti immersivi Pietro Pantano, Francesca Bertacchini ESG - Gruppo sui Sistemi Evolutivi, Università della Calabria

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e Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione hanno cambiato profondamente il modo di produrre e di fruire l’arte. Gli artisti usano insieme con i modelli forniti dalla Scienza Contemporanea strumenti come schermi stereoscopici per ambienti immersivi; le tecnologie del mobile; ambienti con suoni tridimensionali; algoritmi generativi ed evolutivi che forniscono una quantità infinita di artefatti da manipolare e/o modificare. Si mescolano così conoscenze tradizionali e innovazione tecnologica. Il modo di creare oggetti artistici sta cambiando con l’introduzione di nuove forme d’arte: ad esempio i remix, le cover musicali, ecc., tutti fenomeni che creano inoltre scompiglio/agitazione/inquietudine/malessere in materia di copyright. Questo processo di innovazione coinvolge anche la figura dell’artista, che nelle sue creazioni utilizza materiali grezzi forniti dagli algoritmi e li modifica/assembla in modo non convenzionale, creando nuovi oggetti d’arte infinitamente differenti eppure con qualità comuni alle opere cui si è ispirato. Anche la fruizione cambia col cambiare del media: l’opera d’arte circonda l’utente, a volte in modo radicale, come nelle installazioni che coinvolgono completamente tutti i sensi attraverso sistemi immersivi. I nuovi sistemi di Edutainment (i videogiochi educativi tra tutti) consentono nuove forme di intrattenimento didattico, miscelando le emozioni tipiche suscitate dalle creazioni artistiche con quelle prodotte dal gioco e consentendo l’emergere di nuove forme di apprendimento. La tecnologia potenzia l’arte regalandole quel quid digitale che altro non è che la nuova frontiera della fruizione e della produzione della stessa nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Un design innovativo, varie innovazioni tecnologiche, nuove politiche dell’industria musicale e dei media hanno consentito l’emergere di nuove modalità di fruizione dell’arte: tra tutti l’iPod è certamente il fenomeno planetario di maggior impatto. È sotto gli occhi di tutti il suo straordinario successo, che ha consentito la fruizione della musica prima e dei video poi, in 127


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qualunque luogo e in qualunque momento, cambiando le abitudini di miliardi di persone e rendendo l’iPod uno degli oggetti cult della società contemporanea. Di seguito analizzeremo questi aspetti soffermando la nostra attenzione sull’arte generativa ed evolutiva, sui nuovi metodi e strumenti dell’artista digitale, sulla nuova figura del produttore/consumatore, sulle nuove modalità di fruizione dell’arte, sulle tecnologie immersive e gli ambienti di edutainment.

Scienza e Arte generativa/evolutiva Il concetto di arte generativa è relativamente recente. Possiamo farlo risalire alla fine degli anni Settanta del secolo scorso con la scoperta dei frattali. Questi sono oggetti matematici, che richiamano molte forme naturali, con la proprietà di essere invarianti rispetto alla scala. Il più noto tra questi è l’insieme di Mandelbrot, prodotto da un algoritmo matematico molto elementare. Al di là della semplicità con la quale l’insieme di Mandelbrot può essere generato, le forme a esso associate sono di grande bellezza e hanno colpito l’immaginario collettivo non solo dei matematici ma di chiunque ha avuto modo di osservarle. Questa esperienza è tanto più significativa se si utilizza uno strumento interattivo che consente il cambiamento di scala. Oggi l’insieme di Mandelbrot è considerato il più complesso singolo oggetto matematico. Esso racchiude in sé tutte le caratteristiche dell’arte generativa: un algoritmo di produzione legato alla Scienza Contemporanea; uno strumento di codifica di sequenze numeriche in immagini e/o suoni; una produzione pressoché infinita di artefatti. La Teoria del Caos, uno dei paradigmi della Scienza moderna, fornisce molti algoritmi generativi di questo tipo; in particolare la possibilità di produrre forme tridimensionali a partire da attrattori strani, di cui la farfalla di Lorenz, scoperta all’inizio degli anni Sessanta del XX secolo, è certamente la più nota. Nel sito http://galileo.cincom.unical.it/ creato dagli autori, esiste una grande collezione di forme, musica e suoni prodotti da un sistema caotico noto come il circuito di Chua. L’arte evolutiva pur essendo strettamente legata all’arte generativa, si differenzia da questa per la natura degli algoritmi che vengono utilizzati, noti come algoritmi genetici. Questi, introdotti per la prima volta negli anni Sessanta del secolo scorso da John Holland, riprendono molti aspetti dell’evoluzione naturale. Partendo da una popolazione iniziale, attraverso gli operatori genetici di cross-over e mutazione, nuove popolazioni vengono generate al tempo successivo. Una funzione di fitness seleziona gli individui migliori di 128


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ogni generazione e l’uso reiterato degli operatori genetici consente di avvicinarsi all’obiettivo prefissato. Nell’arte evolutiva, un processo di codifica può trasformare i vari individui in immagini e musica e le funzioni di fitness possono essere legate alle qualità artistiche dell’artefatto digitale. Anche in questo caso la produzione risulta essere infinita.

Metodi e strumenti dell’artista digitale Ovviamente a fronte di una produzione infinita di immagini e suoni, non c’è una corrispondente qualità artistica degli oggetti automaticamente prodotti. Molto spesso questi rappresentano materiale grezzo sul quale l’artista multimediale interviene per produrre oggetti d’arte. È importante notare che egli non crea l’oggetto dall’inizio alla fine, ma modifica e assembla gli oggetti o parti di esso che l’infinita produzione algoritmica gli ha fornito. In realtà esiste un’altra funzione fondamentale che l’artista compie ed è connessa alla guida/controllo del processo automatico. Nell’arte generativa, in particolare quella legata alla Teoria del Caos, quasi sempre all’algoritmo può essere associato un genoma (in questo caso rappresentato da una sequenza numerica): l’artista multimediale può intervenire sul genoma, analogamente a come opera un esperto di ingegneria genetica, per guidare la crescita del fenotipo (in questo caso la forma o i suoni) nella direzione voluta. Nell’arte evolutiva a volte l’artista ha lo stesso ruolo della funzione di fitness, con il compito di selezionare gli individui migliori per la prossima generazione.

Remix e Prosumer La produzione infinita legata all’arte generativa ed evolutiva, la riproducibilità tecnica dei prodotti artistici a costi irrisori, la possibilità di modificare gli stessi oggetti con vari e semplici strumenti, sta cambiando profondamente il modo col quale i fruitori d’arte si rapportano con gli artefatti. Una nuova generazione di consumatori/produttori, i prosumer (parola nata dalla fusione delle due parole inglesi producer e consumer), ha fatto prepotentemente la sua comparsa. I prosumer non sono semplici consumatori di prodotti artistici (particolarmente significativo il loro impatto sulla produzione musicale), ma diventano essi stessi produttori di nuovi prodotti che risultano dalla modifica o da una miscela creativa di prodotti precedenti. In questo caso l’industria proprietaria dell’oggetto artistico e gli stessi diritti a protezione dell’autore vengono messi in crisi. Infatti l’opera d’arte è intangibile; ma se essa viene modificata da qualche altro il diritto originale dell’autore viene messo in crisi, ed, in base al vecchio diritto, il nuovo autore non solo non può pro129


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teggere la sua creazione (alcune volte migliore dell’originale), ma addirittura dovrebbe nasconderne l’esistenza. Il comportamento collettivo di centinaia di milioni di consumatori/produttori ha posto in forma drammatica il problema, la cui soluzione inciderà profondamente sulle nuove forme d’arte e sul modo in cui saranno create/fruite.

Tecnologie per la fruizione dell’arte digitale I modi in cui un’opera d’arte può essere fruita sono cambiati profondamente e stanno ulteriormente cambiando. Noi stiamo assistendo a due fenomeni concomitanti: da una parte vengono create copie digitali delle vecchie espressioni artistiche (qua si fa principalmente riferimento a immagini e musica, anche se nel futuro assisteremo anche alla riproducibilità fisica di alcuni oggetti), dall’altra una quantità sempre maggiore di arte viene creata già in formato digitale (si pensi alle immagini, ai film, alla musica, ecc.). Le copie digitali dei quadri consentono molto spesso una migliore fruizione della stessa espressione artistica: tramite lo strumento zoom di alcuni software è possibile analizzare dettagli che in opere dal vivo, protette da particolari sistemi di sicurezza, è impossibile osservare; il restauro digitale, meno costoso e meno invasivo di un restauro reale, permette interventi significativi sulla stessa opera. I dispositivi mobili, di cui il già citato iPod rappresenta uno degli esempi più significativi, consentono la fruizione dell’opera d’arte indipendentemente dal luogo e dal tempo, avvicinando miliardi di persone all’arte, rendendola disponibile per la prima volta a tutta l’umanità. In questo senso è interessante il circuito virtuoso che si sta creando: crescita degli utenti, aumento della domanda, aumento della produzione, nuove espressioni artistiche e ulteriore crescita degli utenti. Uno sguardo all’economia di questo processo evidenzia come l’industria culturale sia destinata a essere l’industria dominante nella nuova società globale della conoscenza.

Ambienti Immersivi Di Realtà Virtuale si parla ormai da almeno 50 anni, ma solo negli ultimi tempi le tecnologie hanno reso questi ambienti disponibili a un grande pubblico a costi accettabili. Questo fenomeno è legato ad alcune innovazioni tecnologiche di particolare efficacia. Senza pretendere di essere esaustivi citiamo: la disponibilità di ambienti stereoscopici a basso prezzo e alta resa; schede grafiche di grande efficacia che consentono immagini fotorealistiche in tempo reale; i Micro-Electrical Mechanical System (MEMS), sistemi di interfacce fisiche utilizzati nelle nuove consolle della Nintendo; l’abbattimento dei costi le130


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gati ai sensori e alla capacità di elaborazione dei dati. Queste tecnologie consentono oggi esperienze immersive particolarmente efficaci. L’arte può quindi essere fruita in modi differenti rispetto al passato. Ad esempio possiamo passeggiare all’interno di una riproduzione digitale, per mezzo di un avatar, o interagire con l’opera d’arte senza paura di danneggiarla. Le tecnologie di realtà aumentata consentono di vedere il reperto ambientato nel suo periodo storico e la sua modifica nel corso del tempo, solo per citare alcuni aspetti legati alla fruizione del cultural heritage. La nuova arte digitale amplia ulteriormente gli orizzonti creando mondi virtuali e di fantasia nei quali tutti i sensi possono essere coinvolti. Nuove espressioni artistiche si sviluppano prevedendo un aumentato coinvolgimento del fruitore, che da semplice spettatore, interagisce con l’opera d’arte e sviluppa autonomi percorsi. È ovvio che siamo appena all’inizio di un nuovo e imprevedibile sviluppo. Concludiamo questa breve panoramica facendo riferimento a questi ambienti come forma di intrattenimento sociale dove uno schermo stereoscopico fornisce al pubblico un’esperienza condivisa, mentre un dispositivo mobile – il terzo occhio – consente punti di vista personali e forme di comunicazione interpersonale, miscelando differenti modalità di fruizione/interazione.

Edutainment La parola Edutainment risulta dalla fusione di due termini inglesi – Educational educativo ed Entertainment intrattenimento – e individua una nuova categoria di ambienti nei quali la formazione si miscela all’intrattenimento. I serious games appartengono a questa categoria e rappresentano una nuova frontiera dell’Industria Culturale. Stiamo assistendo alla convergenza della formazione con il gioco. Questo settore dovrebbe favorire l’avvicinamento di mondi che stentano a mettersi in contatto, la scuola e le nuove tecnologie. La disponibilità di nuovi linguaggi, mediati da nuovi strumenti tecnologici, rendono questo orizzonte sempre più vicino, mentre le industrie si apprestano a fare investimenti sempre maggiori. In questo rinnovato scenario l’arte, linguaggio universale di formazione, intrattenimento e comunicazione può giocare un ruolo chiave.

Conclusioni Scienza, Arte e Tecnologie tendono a intrecciarsi sempre di più nella società contemporanea. Come in un processo inconscio di produzione del pensiero umano, i media, le conoscenze e le tecnologie si rimescolano creando dei ri131


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sultati sorprendenti. Proprio quando l’arte sembrava essere in crisi, proprio quando sembra scomparire sotto il peso della tradizione, sotto il suo stesso peso, la troviamo come rinata in prodotti culturali non convenzionali. Un mondo di prodotti e di opere d’arte cresce, con nuovi mezzi e attraverso nuovi e rinnovati linguaggi.

Pietro Pantano è professore di Modelli e Simulazioni presso la facoltà di Ingegneria dell’Università della Calabria dove coordina un gruppo di ricerca sulla Matematica Industriale. È autore di oltre 200 lavori scientifici e di vari libri. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla modellizzazione matematica, alla teoria della complessità, alla vita artificiale, alla visualizzazione scientifica, fino alla musica generativa ed evolutiva. È direttore dell’Evolutionary System Group (ESG) – http://galileo.cincom.unical.it/ – presso l’Università della Calabria, gruppo che sviluppa ricerche teoriche, applicate e industriali. Dirige numerosi progetti di ricerca nazionali e internazionali. Francesca Bertacchini ha conseguito la laurea di primo livello in Lettere Moderne, discutendo una tesi dal titolo “Sistemi Avanzati di Intrattenimento Educativo”. Ha lavorato come progettista di ambienti di edutainment presso un’azienda produttrice di software sviluppando idee, progetti e prototipi di giochi che possono essere usati anche su tecnologia mobile. Ha pubblicato alcuni lavori scientifici sulla divulgazione della teoria del caos e della complessità con strumenti multimediali interattivi e tecniche di realtà virtuale. Ha svolto un periodo di studio presso l’Università di Berkeley, nell’ambito di un progetto di Internazionalizzazione del sistema universitario. Al momento sta completando il suo lavoro di tesi di secondo livello sulla comunicazione della scienza della complessità, usando in modo integrato i nuovi media. 132


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Donne e scienza: si può chiudere il gap? Sveva Avveduto L’annuale Rapporto del World Economic Forum dedicato all’analisi della condizione della disparità di genere (WEF Gender Gap Report, 2007) prende in esame quattro aree critiche di squilibrio e disuguaglianza tra la condizione maschile e quella femminile: 1. l’area prettamente economica che comprende partecipazione e opportunità, livelli salariali ed accesso alle occupazioni high skilled; 2. i livelli educativi raggiunti e l’accesso all’istruzione da quella di base a quella di livello più elevato; 3. l’empowerment politico, la rappresentatività quindi e la presenza nelle strutture decisionali; 4. l’area della salute, a partire dalle aspettative di vita. In base ai dati e alle analisi viene elaborato un indice (Gender Gap Index) che rileva la capacità di un paese di suddividere equamente risorse e opportunità in due generi, a prescindere dall’entità di tali risorse. Il quadro fornito consente quindi valutazioni e comparazioni e può servire da catalizzatore per sollecitare l’attenzione e, si presume, l’azione degli addetti ai lavori. Più elevato è l’indice, migliore risulta la performance in termini di capacità di assicurare una maggiore chiusura del gap di genere. Le prime dieci nazioni che compongono il quadro stilato in base al suddetto indice, sono in ordine decrescente: Svezia, Norvegia, Finlandia, Islanda, Nuova Zelanda, Filippine, Germania, Danimarca, Irlanda e Spagna. Per trovare l’Italia dobbiamo scendere fino all’ottantaquattresimo posto, delle 128 nazioni considerate, e non ci consola nemmeno il confronto con la rilevazione dell’anno precedente, rispetto alla quale abbiamo perso ulteriore punteggio: nel 2006 risultavamo infatti al, pur non molto onorevole, settantasettesimo posto. In questo quadro generale si inserisce qualche ‘fatto stilizzato’ a contorno del ragionamento su donne e scienza. 1. In Italia le spese pubbliche per l’istruzione post secondaria costituiscono lo 133


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0,78% del Pil a fronte di una media UE dell’1,14%, che parte da Danimarca, Finlandia e Svezia, che superano il 2%, per giungere ai paesi che non toccano lo 0,8%, tra i quali si trova l’Italia in compagnia di Bulgaria, Lettonia e Romania (Fonte Eurostat). 2. La partecipazione delle donne all’istruzione post secondaria è notevole. Il sorpasso delle laureate sui laureati in Italia è avvenuto da oltre quindici anni e la percentuale di laureate in discipline scientifiche sale costantemente. I dati internazionalmente comparabili, pubblicati dalla UE si riferiscono al 2004 e, in questo caso, ci vedono sopravanzare la media UE per quel che riguarda le laureate in scienze (53,7% in Italia contro la media UE del 40,3%) ed in ingegneria (28,7% Italia, 24,3% UE). 3. Nel complesso delle forze lavoro, in età quindi compresa tra i 15 ed i 64 anni, l’incidenza della presenza femminile si è innalzata, nella media dei Paesi dell’Ocse, dal 56,6% del 1990 al 60,1% del 2004. Ma qual è la situazione nelle professioni di ricerca? Quale il quadro attuale e le prospettive? Il novero delle ricercatrici nei settori pubblico e privato e delle docenti universitarie ai vari livelli si è accresciuto e, nella media dei paesi Ocse, raggiunge valori che vanno dal 25% al 45% del totale dei lavoratori del settore, pur con significative eccezioni, quali la Corea e il Giappone, dove tale valore scende notevolmente e si attesta all’11%. La crescita è lenta ma costante ed anche in Italia i numeri ci presentano un quadro di complessivo aumento. I settori che impegnano maggiormente le donne nelle carriere scientifiche variano: negli Stati Uniti circa i due terzi della forza lavoro femminile nella ricerca è impiegata nel settore delle imprese, mentre nell’Unione Europea e in Giappone tale valore assomma rispettivamente il 17,5% e il 6%: le donne sono maggiormente presenti quindi nelle aree della ricerca pubblica e universitaria. Anche in Italia è il settore pubblico quello che maggiormente impiega le donne ricercatrici. Il grafico 1 presenta la situazione di impiego delle ricercatrici nei settori pubblico e delle imprese in alcuni paesi dell’Ocse. Si rileva come la presenza femminile nel campo della ricerca sia prettamente tipica del settore pubblico ed anche nei paesi che dispongono di una quota maggiore di ricercatrici industriali, questa raramente supera il 10% del totale dei ricercatori.

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Grafico 1 - Ricercatrici per settore di impiego

Fonte: Oecd 2005 Dal punto di vista del settore scientifico di attività, la componente femminile raggiunge il 30% dei laureati in scienze e ingegneria nella media dei paesi Ocse. La maggior percentuale di donne attive nella ricerca si riscontra nelle aree della biologia e della salute (oltre il 60%), dell’agraria e della farmaceutica (oltre il 50%); inferiore invece la presenza femminile in fisica (40%) e in informatica (30%). La situazione, pur in via di miglioramento, presenta tuttora forti squilibri. Gli ostacoli e le difficoltà all’accesso agli studi, ma soprattutto al top della carriera in campo scientifico, sono tipicamente raffigurati secondo due tipologie di esclusione: la 135


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cosiddetta ‘segregazione orizzontale’ e quella ‘verticale’. La prima attiene ai minori livelli di accesso agli studi scientifici contro una maggiore propensione all’accesso a quelli umanistici, tuttavia in via di riequilibrio almeno per certe facoltà come precedentemente detto. 1 Si noti infatti (tabella 1) come le immatricolate ai corsi scientifici siano complessivamente cresciute nel corso degli ultimi quattro anni passando dal 30,6% del 2003-04 al 34,9% del 2007-08; l’accresciuta partecipazione femminile ha inoltre consentito di mantenere immutati livelli totali di immatricolazione ai corsi scientifici. Tabella 1 - Immatricolati al 1° anno per la 1° volta (*) in scienze ed ingegneria, per genere, 2004-2008 2004-05 Totale Femm. Cod. MIUR Area scientifica 1 Biotecnologia 8 Ingegneria civile 9 Ingegneria dell’informazione 10 Ingegneria industriale 12 Scienze biologiche 16 Scienze della terra 21 Chimica 25 Fisica 26 Informatica e computer science 27 Scienze naturali e ambientali 32 Matematica Sub Totale Totale immatricolati

2005-06 Totale Femm.

2006-07 Totale Femm.

2007-08 Totale Femm.

4.213

2.715

4.380

2.765

4.217

2.650

5.100

3.238

6.685

1.613

6.284

1.554

6.607

1.762

6.969

1.922

14.091

2.026

12.569

1.840

11.719

1.847

11.456

1.895

14.212

2.425

13.776

2.560

15.161

2.662

15.609

2.959

9.692

6.588

10.165

6.999

10.444

7.186

9.828

6.915

1.449

429

1.351

455

1.229

406

1.138

354

2.366

962

3.211

1.496

3.639

1.774

3.333

1.535

2.257

681

2.301

740

2.709

888

2.590

816

7.481

903

6.419

807

5.753

762

5.506

782

2.787

1.222

2.640

1.239

2.582

1.268

2.638

1.245

1.912 961 2.094 1.115 2.461 1.280 3.121 1.799 67.145 20.525 65.190 21.570 66.521 22.485 67.288 23.460 347.700 190.848 331.940 185.260 325.676 182.023 325.348 183.969

*Dati al 31 gennaio

Fonte: Ministero dell’Università e della Ricerca, Ufficio di statistica, 2008 dati al 31/01/08 - (*) non vengono conteggiati nelle lauree specialistiche biennali

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Analogamente si accresce il numero delle laureate che in particolare sale nelle aree dell’ingegneria mantenendosi invece relativamente stabile in quelle delle scienze. Per quel che riguarda il dottorato l’andamento delle iscrizioni di donne nelle aree scientifiche (grafico 2) presenta un incremento piuttosto modesto, poco più di un punto percentuale dal 2003 al 2007, analoga situazione si riscontra per l’acquisizione del titolo di dottore di ricerca, in un quadro complessivo comunque connotato da pochi mutamenti (grafico 3). Grafico 2 - Iscritti a dottorati in discipline scientifico-tecniche in Italia valori percentuali - a.a. 20037o4 - 2006/07

Discipline scientifico-tecniche: Ingegneria civile e Architettura, Informatica (il gruppo comprende ingegneria dell’informazione e scienze informatiche), Ingegneria industriale, Agraria, Biologia, Chimica, Scienze della terra, Fisica, Matematica Fonte: MIUR, Ufficio di Statistica La seconda tipologia, la cosiddetta ‘segregazione verticale’, attiene al limitato o addirittura mancato accesso ai vertici delle carriere nelle istituzioni scientifiche, ma anche alla presenza stessa di donne nei board che dirigono, scelgono, finanziano le attività di ricerca. Alla rilevante presenza nei livelli formativi non corrisponde una adeguata rappresentanza nelle professioni di ricerca; se infatti le donne rappresentano il 35-45% dei ricercatori dei paesi Ocse, la loro presenza risulta squilibrata sia per rappresentatività nelle varie aree disciplinari, sia per presenza nei livelli più elevati delle carriere. 1

Per un’ampia e interessante analisi della situazione italiana di oltre un secolo vedi: P. Govoni, Donne e scienza nelle università italiane 1877-2005 in P. Govoni (a cura di) Storia, Scienza e società. Ricerche sulla scienza italiana in età moderna, Bologna Studies in History of Science, 11, Università di Bologna CIS, Bologna 2006, pp. 239-288. 137


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Grafico 3 Titoli di dottorato in discipline scientifico-tecniche ottenuti in Italia valori percentuali - anni 2003-2006

Discipline scientifico-tecniche: Ingegneria civile e Architettura, Informatica (il gruppo comprende ingegneria dell’informazione e scienze informatiche), Ingegneria industriale, Agraria, Biologia, Chimica, Scienze della terra, Fisica, Matematica Fonte: MIUR, Ufficio di Statistica Se guardiamo ai livelli di docenza universitaria la segregazione verticale è evidente (grafico 4). Grafico 4 Professori ordinari per genere - valori assoluti - anni 2000-2007

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Professori associati per genere - valori assoluti - anni 2000-2007

Ricercatori per genere - valori assoluti - anni 2000-2007

Fonte: MIUR, Ufficio di Statistica Il mancato equilibrio tra ordinari donne e uomini parla da sé. Si può obiettare che il trend si presenta in crescita a vantaggio delle donne e si potrebbe quindi supporre che basti aspettare che il tempo passi; ma è stato calcolato che, ai tassi di crescita attuali, ci vorrebbero in Italia 179 anni per raggiungere l’equilibrio fra i sessi nel ruolo di professore ordinario (Palomba, 2003). Se saliamo ai livelli superiori, l’elezione di un rettore donna fa ancora notizia e l’accesso alla presidenza di un ente pubblico di ricerca è del tutto di là da venire. Che fare? Molti paesi hanno intrapreso iniziative dirette al riequilibrio di gene139


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re per favorire l’ingresso delle donne nelle carriere scientifiche, non tanto e non solo per questioni di pari opportunità, ma proprio per venire incontro all’esigenza di disporre di tutto il pool di personale qualificato, dei talenti come si preferisce chiamarli oggi, di un paese. Pochi paesi hanno scelto un approccio coordinato a livello nazionale (Oecd 2006), ma molti presentano diverse iniziative che vanno dai programmi specifici per promuovere l’iscrizione all’università delle ragazze in materie scientifiche (in Austria per esempio un programma di genere questo tipo è attivo con successo dal 1991) alle forme di mentoring fornite alle giovani ricercatrici e di facilitazione di inserimento per le neolaureate nella transizione università-lavoro, o di placement attraverso strumenti definiti (nel Regno Unito per esempio è attivo un Centro risorse per donne in Science Engineering and Technology finanziato dal Department of Trade and Industry che fornisce una ampia serie di sostegni). Molti i progetti decentrati, a livello di singola istituzione, che prevedono un supporto finanziario diretto alle università per l’assunzione di professori donne, quali cattedre dedicate (per esempio in Canada con il programma Chairs for Women in Science and Engineering attivo dal 1996), sponsorizzazioni offerte da imprese per sostegno alla ricerca al femminile (per esempio l’Oreal-Unesco) e così via. Dall’approfondito esame condotto dallo SFRI nei Paesi membri dell’OCSE (Oecd 2006) è emerso comunque che nonostante molto sia stato fatto, il gap di genere sussiste ancora anche in ambito scientifico. L’insieme di queste iniziative tuttavia fa ben sperare, se non altro per una diffusione della consapevolezza di quanto potenziale scientifico inutilizzato, o sottoutilizzato, esista e possa essere invece valorizzato per produrre capitale intellettuale, buona ricerca e di conseguenza postivi investimenti sociali ed economici. La domanda giusta da porsi è quindi: si vuol chiudere il gap?

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Bibliografia S. Avveduto, Women in Science: What about Italy?, in “Oecd Women in Scientific Careers”, Parigi 2006. European Commission, She Figures 2006, Women and Science, Statistics and Indicators, Bruxelles 2006. Eurostat Statistics in focus, Women Employed in Science And Technology, European Commission, Bruxelles 2008. P. Govoni, Donne e scienza nelle università italiane 1877-2005 in P. Govoni (a cura di) Storia, scienza e società. Ricerche sulla scienza italiana in età moderna, Bologna Studies in History of Science, 11, Università di Bologna CIS, Bologna 2006, pp. 239-288. National Science Foundation, Division of Science Resources Statistics, Gender Differences in the Careers of Academic Scientists and Engineers: A Literature Review, NSF 03322, Project Director, Alan I. Rapoport, Arlington, VA, Virginia 2003. Women in Scientific Careers: Unleashing the Potential, OECD, Parigi 2006. R. Palomba, Dossier III Women in Science: what do indicators reveal?, in “REIST- Third European Report on Science & Technology”, EU DG Research, Brussels 2003, pp. 257-271. World Report on Science, Technology and Gender, Unesco, Parigi 2005. World Economic Forum, Measuring the Global Gender Gap, Ginevra 2008.

Sveva Avveduto è dirigente di ricerca presso il CNR-IRPPS. Si occupa di studi sulla politica scientifica e l’istruzione universitaria, in particolare sulle risorse umane per la ricerca, la formazione avanzata e il mercato del lavoro scientifico. Delegata italiana all’Oecd Parigi, è responsabile di numerosi progetti europei. È docente alla SSPA e alla Scuola di Dottorato in Ricerca applicata alle Scienze sociali dell’Università la Sapienza di Roma. 141


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Recensioni Alessandra Drioli, Donato Ramani Vietato non toccare Springer Italia, Milano 2008, pp. 180, 16,00 euro Arte e scienza nei science centre. Due mondi considerati lontani tra loro s’incontrano in uno spazio espositivo, iniziano a muovere insieme dei passi accomunati dalla esigenza di comunicare con il pubblico, e danno vita a un fenomeno nuovo. Nuovo come il luogo che li accoglie. Vietato non toccare racconta la storia di questo incontro, indica “le istanze comuni che hanno favorito il naturale incontro tra realtà apparentemente così distanti”, indaga i rapporti tra arte e scienza nell’ambito della comunicazione scientifica ed esamina le conseguenze della collaborazione della scienza con l’arte. Tutto ha inizio negli anni Sessanta in California con l’apertura al San Francisco Palace of Fine Arts dell’Exploratorium. Il primo science centre del mondo è un luogo in cui convivono exhibit appositamente progettati per far luce su un fenomeno naturale e opere d’arte, in cui “scienza e arte servono a comprendere la natura coinvolgendo le persone e, mescolandosi, entrano a far parte del processo pedagogico”. Questa istituzione nasce da un’idea del fisico americano Frank Oppenheimer, fisico e fratello del più celebre Robert (che diresse il progetto americano di costruzione della prima bomba atomica), in un momento in cui scienza e tecnica, da sempre considerate al servizio dell’uomo, avevano iniziato a mostrare il loro lato oscuro. L’obiettivo del science centre è proprio riavvicinare le persone alla scienza e alla tecnica, costruire un ponte tra scienza e società, rendere partecipe il pubblico di quanto avviene nel mondo della scienza. In questo museo gli oggetti esposti, risultato della collaborazione di scienziati, artisti e artigiani, sono pensati per stimolare nel pubblico domande e metterlo nella condizione ideale di mettersi in gioco, di essere protagonista attivo dell’esperienza scientifica. La scienza, grazie a Oppenheimer, scende dal suo piedistallo, viene demistificata, e si avvicina ai non esperti. Nel science centre di San Francisco apparecchi appositamente costruiti per essere toccati e manipolati rendono la scienza accessibile anche a chi la scienza non la fa. “Vietato non toccare” è il motto che campeggia nelle sale di questo museo, un invito che si contrappone alla richiesta, 142


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esplicitata o meno, che viene fatta quando si entra nelle sale dei musei “tradizionali”. In questo museo dalla collezione di oggetti si passa alla collezione di idee e la visita diventa esperienza, partecipazione, interazione, coinvolgimento. Allo stesso risultato, con tempi e modalità diversi, era giunta anche la sperimentazione artistica. A rompere con la tradizione, a far scendere l’arte dal suo piedistallo è stato Marcel Duchamp con i suoi ready made. Con una prosa degna di un romanzo, gli autori, Alessandra Drioli e Donato Ramani, comunicatori della scienza di formazione umanistica la prima e scientifica il secondo, accompagnano il lettore in un viaggio indietro nel tempo nel mondo della ricerca artistica contemporanea e costruiscono in suo onore un museo virtuale in cui sono esposte quelle opere d’arte che hanno fatto della partecipazione e dell’interazione la loro peculiarità. Nella prima sala di questo museo sono esposte le opere dei dadaisti, artisti che, con fare dissacratorio, hanno trascinato nei luoghi dell’arte oggetti di uso quotidiano e gli hanno conferito dignità di oggetti d’arte. Nella seconda fa bella mostra di sé Etant donnès 1° la chute d’eau, 2° le gaz d’eclairage, una delle ultime opere di Duchamp, un’opera che per essere apprezzata richiede che il visitatore compia un’azione, quest’opera “prende vita solo grazie al movimento attivo di chi la guarda, a una concreta azione dello spettatore”. La visita prosegue, passando dal teatro futurista all’action painting di Pollock, dalla Pop Art di Wharol e Lichtenstein alle provocatorie opere di Piero Manzoni, alla New Corrispondence school of Art di Ray Johnson, ad Ambiente a shock luminosi, progetto del gruppo T in cui l’interazione del pubblico è talmente importante che sull’opera troviamo un cartellino con una scritta “Si prega di toccare”, la stessa che Oppenheimer aveva posto a fianco degli exhibit nell’Exploratorium. Arte hands-on. La visita continua in un mondo dell’arte che, sedotto dalle moderne tecnologie, le utilizza sempre più. Gli artisti, da sempre interpreti della società in cui vivono, sono però fruitori critici e “accanto alla sperimentazione tecnica, a una ricerca estetica e formale”, indagano anche “le mutazioni prodotte dalle tecnologie nelle nostre vite e le trasformazioni sociali in atto”. Le mutazioni prodotte dalle tecnologie e dalla scienza. Interpreti delle inquietudini e delle paure, ma anche delle speranze e delle aspettative che la scienza e le sue applicazioni portano con sé, gli artisti rompono i confini tra arte e scienza e raccontano, spesso con gli strumenti propri degli scienziati, ciò che accade nei laboratori di ricerca. Creano, ed è qui che volevano condurre il lettore i due autori, “una forma di comunicazione, alternativa a quelle tradizionali, che va quasi a colmare un vuoto nel dialogo tra scienza e società”. Ripercorso il tragitto che ha portato arte e scienza a incontrarsi, sottolineate le istanze comuni tra questi due mondi, il lettore è pronto per esplorare il mondo 143


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dei science centre e osservare quali risultati sono sortiti dalla loro collaborazione, dal loro confronto, in diversi luoghi della comunicazione della scienza sparsi per il mondo, dall’Exploratorium alla Cité de la Science et de l’Industrie di Parigi, al Science Museum di Londra e al Ars Electronica Centre di Linz, dal Cosmo Caixa di Barcellona a Città della Scienza di Napoli, al Festival della Scienza di Genova, al futuro Science Centre di Amburgo. Il lettore molto probabilmente incuriosito seguirà il consiglio con cui si congedano gli autori di Vietato non toccare, e andrà in giro, fisicamente o virtualmente, in giro per science centre per vedere quanto è stato fatto finora, ma soprattutto per osservare con i propri occhi quale sarà l’evoluzione di questa realtà plastica, che sono i science centre. Barbara Raucci

Pierre Lévy Cyberdemocrazia. Saggio di filosofia politica Mimesis, Milano 2008, pp. 211, 17,00 euro Carlo Formenti Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media Raffaello Cortina, Milano 2008, pp. 279, 23,00 euro Tra spauracchi di recessione, terrorismo e rischi di una nuova guerra fredda non possono che sorprendere le parole con cui Pierre Lévy disegna il nostro futuro: “La rete telefonica mondiale, la televisione satellitare, la moltiplicazione dei canali televisivi e, di recente, l’interconnessione mondiale dei computer, che ha integrato i campi di tutti i media precedenti, hanno fatto nascere un nuovo spazio pubblico. Quest’ultimo ridefinisce radicalmente le condizioni di governo e genera probabilmente nuove forme politiche ancora sconosciute”. Secondo il celebre teorico dell’“intelligenza collettiva” quel che ora chiamiamo democrazia lascerà il posto a una più evoluta cyberdemocrazia, dove “la politica non sarà altro che l’arte della rete”. Di recente tradotta in italiano, per i tipi di Mimesis, Cyberdemocrazia è una delle sue opere più visionarie e, forse proprio per questo, interessanti. Si tratta di un Saggio di filosofia politica, e, ovviamente, la politica in questione è quella dell’avvenire. Schierandosi apertamente dalla parte dei tecnoeuforici, Lévy concepisce In144


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ternet come una nuova tappa del progresso della libertà umana, un autentico “strumento di emancipazione in tempo reale”. Più comunicazione implica più libertà, questa la sua fede. Secondo il mediologo francese i più significativi passi in avanti compiuti dall’umanità si sono sempre accompagnati a delle innovazioni degli strumenti di comunicazione, cioè a quelle che lui chiama delle “mutazioni nel processo dell’intelligenza collettiva”. Pensiamo alla scrittura, la quale ha dato “memoria” al linguaggio, e poi all’alfabeto, che ha reso la scrittura accessibile a tutti, quindi alla stampa, che con la riproduzione automatica del sapere ha di fatto determinato un’“immensa apertura dello spirito”. Ora, con la messa in rete di tutti i “cervelli” digitali (si calcola che entro la fine di quest’anno saranno più di un miliardo i personal computer in uso nel mondo), siamo già nel pieno di una nuova rivoluzione: stiamo facendo ingresso nel “grande corpo virtuale del cyberspazio”. E se è vero, come ritiene Lévy, che ogni forma di comunicazione è condizione necessaria, sebbene non sufficiente, di una certa forma politica, come non aspettarsi, nel tempo del cyberspazio, l’avvento della cyberpolitica? Tuttavia resta da capire cosa garantisca questa cyberpolitica dal pericolo di degenerare, per esempio, in qualche forma di cybertotalitarismo. Per Lévy la ragione sta nella natura stessa della rete: Internet è di per sé incontrollabile, è il luogo della trasparenza e, soprattutto, è un’enorme impresa di costruzione collettiva del sapere, impresa assolutamente libera perché strutturalmente priva di qualsiasi centro. Ma c’è davvero di che essere così ottimisti? Il cyberspazio è davvero la Nuova Frontiera dell’autogoverno comunitario? Davvero le gerarchie e le asimmetrie del mondo reale si tramuteranno, nell’incipiente cyberdemocrazia, in simmetrie e rapporti di reciprocità? Un attento studioso dei nuovi media come Carlo Formenti ci invita a essere scettici. In Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, uscito per Raffaello Cortina, l’indice è puntato proprio su alcune “mitologie” che aleggiano intorno alle potenzialità della società dell’informazione e dell’“era dell’accesso”. Consideriamone un paio. “La rete non può essere controllata”, ripetono i suoi apologeti, perché essa reagirebbe ai tentativi di censura come a una disfunzione tecnica. Falso! Basta guardare alla blindatura del confine telematico cinese per rendersene conto; blindatura, ricorda Formenti, realizzata dalle stesse corporation che proclamano di vendere “tecnologie della libertà”. L’altro mito è quello per cui “lo sciame è sempre intelligente”. In realtà si tratta della riedizione in salsa cyber della teoria della mano invisibile di Smith: al posto della spontanea autoregolamentazione dei mercati, i tecnoeuforici alla Lévy credono in una mano “virtuale” che condurrebbe alla spontanea autoregolamentazione della re145


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te. E invece il rischio è che il cyberspazio continui a riprodurre le stesse posizioni di dominio del mondo reale, con l’aggravante della gioiosa complicità degli internauti. Pensiamo ad Amazon o a YouTube. Nel primo caso milioni di lettori vengono sollecitati a diventare recensori, col risultato di metter su un potentissimo strumento di “profilazione” dei gusti degli utenti. Nel secondo, grazie alle pubblicazioni video degli utenti, l’industria culturale finisce per trovarsi in mano, a costo zero, un formidabile strumento per monitorare gusti e tendenze o per selezionare nuovi talenti. Guadagni colossali in cambio di un po’ di gratificazione narcisistica. Insomma, avverte Formenti, il rischio è che, incantati dalle seduzioni del cyberspazio e della cyberdemocrazia, veri e propri “miti scientifici postmoderni”, finiamo di non vedere come le nuove tecnologie possano trasformarsi in una “formidabile macchina di appropriazione capitalistica dell’intelligenza collettiva”. Certo, a volte l’analisi di Formenti può apparire spietata, ai limiti del catastrofismo; tuttavia, considerando che anche lo stesso Formenti fino a qualche tempo fa aveva fatto proprie alcune delle ottimistiche profezie di Lévy (in specie in Mercanti di futuro) questa spietatezza finisce per diventare un ulteriore, e importante, elemento di riflessione. Cristian Fuschetto

Jonah Lehrer Proust era un neuroscienziato Codice Edizioni, Torino 2008, pp. 224, 22,00 euro Proust era un neuroscienziato fornisce una dimostrazione pratica di come la scienza sia cultura attraverso un elogio di Walt Whitman, George Eliot, Auguste Escoffier, Marcel Proust, Paul Cézanne, Igor Stravinsky, Gertrude Stein e Virginia Woolf, le cui intuizioni anticiparono molte importanti tematiche neuroscientifiche. Ventiseienne laureato in neuroscienze alla Columbia University e giornalista scientifico di testate come «Nature» e «Science», l’esordiente Jonah Leher tiene anche un blog di successo sulle neuroscienze, Frontal Cortex, e sta già lavorando alla stesura del suo prossimo libro, “Chopin era un topologo”. Proust era un neuroscienziato parla di scrittori, pittori e compositori che anticiparono nei loro lavori le scoperte dei neuroscienziati, intuendo verità sul146


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la mente umana che la scienza solo oggi sta riscoprendo. Gli artisti scelti da Lehrer vissero in un’epoca segnata dall’ansia. Fra la metà del XIX secolo e l’inizio del XX, la tecnologia spodestò il romanticismo e l’essenza della natura umana fu messa in discussione. In seguito alle angoscianti scoperte scientifiche, l’anima immortale morì: l’uomo era improvvisamente una scimmia, e non più un angelo caduto. Nell’affannosa ricerca di inediti generi espressivi, gli artisti trovarono un nuovo procedimento: si guardarono allo specchio. Questo viaggio interiore creò un’arte squisitamente autocosciente, il cui soggetto era la nostra psicologia. La nascita dell’arte moderna scatenò il caos. Il pubblico non era abituato ai versi liberi né ai dipinti astratti o ai romanzi senza trama. I modernisti tentarono di creare opere di fantasia che raccontassero la verità, che nelle forme e nelle fratture delle loro opere mostrassero l’uomo stesso. L’originalità di questi artisti fu però influenzata dalla scienza. Molto prima che, nel 1959, Charles Snow lamentasse la triste separazione (“per reciproche incomprensioni”) tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, Whitman studiava manuali di anatomia cerebrale e assisteva a interventi chirurgici raccapriccianti, George Eliot leggeva Darwin e Maxwell, la Stein conduceva esperimenti psicologici nel laboratorio di Williams James e la Woolf si documentava sulla biologia della malattia mentale. Questi otto artisti non furono certo gli unici a cercare di capire la mente: l’autore li ha scelti perché la loro arte si è dimostrata la più precisa, anticipando in modo particolarmente esplicito la nostra scienza. Proust, a cui è dedicato il titolo e il capitolo centrale, ‘scoprì’ nel 1913 che gusto e olfatto sono sensi potentemente in grado di evocare memorie, fatto comprovato solo nel 2002 dagli studi di Rachel Herz, psicologa della Brown University. Inoltre, nella sua descrizione dell’errore di memoria contenuta ne “Alla ricerca del tempo perduto”, Proust anticipava quello che la moderna neuroscienza avrebbe poi scoperto – con una recente ricerca della New York University – a riguardo del modo in cui ricordiamo i fatti. Ipotesi peraltro già presente in altre opere di molto antecedenti come, ad esempio, il Tristram Shandy di Laurence Sterne oppure gli scritti del saggista francese del sedicesimo secolo Michel de Montaigne in cui si discuteva del modo in cui la memoria è contornata sia dalla dimenticanza che dall’invenzione. Il capitolo su Virginia Woolf è una lucida analisi del tentativo operato dalla scrittrice di rendere artisticamente l’esperienza in lampi di coscienza. L’autore esplora da un doppio punto di vista, metafisico e neuroscientifico, il concetto del sé attraverso i lavori della Woolf. Nel capitolo dedicato a Gertrude Stein si scopre come questa abbia 147


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anticipato le rivelazioni sulle strutture grammaticali di Noam Chomsky. Il capitolo su Cezanne esplora la visione e l’autore sostiene che il modo in cui vediamo è strettamente connesso al mondo in cui percepiamo la verità. La pura visione è molto distante dal rendere esattamente ciò che ci circonda. Come spiega Lehrer: “Il fatto sorprendente è che la vista è come l’arte. Ciò che vediamo non è reale. È stato deformato per adeguarsi alla nostra tela, che è il cervello. Quando apriamo gli occhi, entriamo in un modo illusorio, una scena frammentata dalla retina e ricreata dalla corteccia. Esattamente come un pittore che interpreta un quadro, noi interpretiamo le nostre sensazioni”. Ma, nonostante questo, ciò che vediamo sembra la verità. Il linguaggio di Lehrer è sorprendente. Le sue descrizione di alcuni degli aspetti più complessi della fisiologia e della funzionalità del cervello sono chiare, vivide e prive di esempi eccessivi e analogie fuorvianti. A tratti, però, il libro suscita qualche perplessità quando tenta di stabilire il contesto culturale dei giganti da lui descritti. Le ipotesi di Lehrer, in quei casi, non sono del tutto verificate e molte di esse sono discutibili, a dispetto del suo approccio enciclopedico: come quando nel capitolo su Walt Whitman descrive il pragmatismo come una “filosofia esclusivamente americana”. Il capitolo su Stravinsky è quello che narrativamente convince di meno. Nonostante il suo grande talento – Lehrer generalmente propone concetti scientifici in una prosa lucida e talvolta addirittura esaltante – quando scrive di musica è meno originale. Ma ciò non limita l’apprezzamento del libro nel complesso e, tra l’altro, Lehrer opera una splendida connessione tra le capacità di automodifica del sistema uditivo e la musica di Bach. L’ultimo capitolo è un elogio di Sabato di Ian McEwan, attraverso un appello all’incontro tra menti scientifiche e artistiche affinché scienza e arte comprendano di avere in comune qualcosa, ossia la possibilità di farci comprendere il mondo e il modo in cui lo percepiamo. Lehrer termina il suo libro svelando il suo scopo ultimo in modo diretto e appassionato, esprimendo la speranza che il suo libro abbia mostrato come “l’arte e la scienza possano integrarsi in una vasta sfera critica. Entrambe possono essere utili ed entrambe possono aver ragione. In questo nostro tempo, l’arte è il necessario contrappeso alle glorie e agli eccessi del riduzionismo scientifico, soprattutto quando vengono applicati all’esperienza umana. Questo è lo scopo dell’arte: mantenere viva l’attenzione sulla nostra realtà, con tutte le sue fragilità e i suoi punti interrogativi. Il mondo è grande, come disse Whitman. Contiene moltitudini”. Stefano Pisani 148


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Federica: la piattaforma per l’e-learning open access dell’Università degli Studi di Napoli Federico II Innalzare a livello mondiale la qualità dell’istruzione in Europa. Questo è uno dei primi obiettivi strategici dell’Unione Europea per lo sviluppo di una Comunità basata sulla conoscenza. Per farlo si punta all’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Su questa linea e dalla continua attenzione posta alle Open Educational Resources, nel panorama universitario italiano nasce Federica, http://www.federica.unina.it, l’e-learning dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. In rete già da un anno, Federica prende vita come progetto sperimentale, finanziato con i Fondi Sociali Europei, ad opera di un gruppo di giovani professionisti, coordinati dal responsabile scientifico Mauro Calise e dal direttore tecnico Rosanna De Rosa. L’iniziale offerta didattica di 52 insegnamenti relativi a 7 Facoltà dell’Ateneo, quest’anno si arricchisce grazie al coinvolgimento di tutte le 13 Facoltà dell’Ateneo: più di 100 corsi saranno liberamente e gratuitamente disponibili a tutti, all’insegna dell’open access e con licenza Creative Commons, per un supporto alla didattica tradizionale. I corsi offrono sintesi delle lezioni, testi, immagini, materiali di approfondimento, risorse multimediali, audio e video e con la versione Friendly di Federica è possibile fruire dei contenuti anche con differenti dispositivi digitali. Molti corsi sono disponibili anche in podcast enhanced. Questo formato è un’unione di testo, audio e video che può essere letto da un lettore multimediale come l’iPod dell’Apple, così da poter portare con sé i materiali di studio e consultare le lezioni in qualunque momento e luogo. Con il prossimo anno accademico Federica inaugura anche l’e-Science Portal. Una sezione della piattaforma dedicata alla raccolta di centinaia di risorse web di interesse multidisciplinare, tutte recensite e catalogate, suddivise per Facoltà, con informazioni sui contenuti, sull’accesso e sull’usabilità, con un’anteprima dell’interfaccia grafica del sito Web. Si tratta di una guida strutturata delle risorse già disponibili in Rete: portali tematici, d’informazione, biblioteche digitali, open archives, banche dati, cataloghi, siti di Università, musei, Istituti di ricerca ed Enti nazionali e internazionali. Uno strumento di orientamento a disposizione di tutti gli utenti-studenti nello spirito open access dell’offerta didattica di Federica per conoscere documenti e strumenti indispensabili per lo studio e la ricerca: testi, immagini, video, riviste scientifiche, articoli, alla scoperta di quelli liberamente consultabili e magari disponibili anche in full-text, come ad esempio per l’ambito medico sul canale PubMed, www.pubmed.com (banca dati realizzata dalla U.S. National Library of Medicine e dal National Institut of 149


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Health), oppure sul sito della rivista scientifica British Medical Journal. In linea con la rivoluzione in atto nel mondo scientifico e accademico nell’ambito delle biblioteche digitali, con l’offerta di enormi patrimoni bibliografici e archivistici in rete, troviamo le indicazioni di numerosi portali e cataloghi, da quelli specificamente universitari, a quelli generali come www.bibliotecadigitaleitaliana.it, utile per accedere a gran parte delle risorse bibliotecarie italiane. «È una novità nel panorama universitario italiano» spiegano Mauro Calise e Rosanna De Rosa. «Tutti, non solo gli studenti della Federico II, possono seguire liberamente i corsi di Federica e giungere a fonti scientificamente accreditate, navigando agevolmente grazie a una semplice interfaccia. Semplice perché rispetta un unico formato per tutti i corsi, per garantire uniformità ai contenuti e semplice perché si adatta alle esigenze didattiche dei docenti, per agevolarli nella realizzazione dei materiali, con una metodologia modulare che coniuga flessibilità e alta qualità tecnologica. In più, un ambiente 3D accompagna gli studenti all’interno delle proprie Facoltà, dove reale e virtuale si uniscono nell’agorà telematica per un campus in cui soprattutto chi non può frequentare riuscirà a orientarsi facilmente». Un e-learning, quindi, all’insegna dell’accesso libero alla rete dei saperi accademici, con l’offerta gratuita dei materiali didattici dei singoli corsi e una guida all’enorme patrimonio informativo già disponibile in rete. Parola di Federica. Ilaria Merciai

Valeria Arzenton, Iulia Nechifor e Giuseppe Pellegrini (a cura di) Donne e Scienza 2008. L’Italia e il contesto internazionale Observa – Science in Society, Ergon Edizioni, Vicenza 2008, pp. 144, disponibile gratuitamente (observa@observanet.it) Il sorpasso delle laureate sui laureati in scienze è avvenuto un po’ dappertutto in Europa, ma non si tratta di una conquista sufficiente ad assicurare alle donne un percorso di carriera sicuro. In Italia, le laureate disoccupate sono quasi il doppio dei laureati e in tutta Europa nei circoli ristretti in cui si indirizza e gestisce la ricerca le donne sono presenti in misura minima. Naturalmente la questione del genere non si esaurisce nei numeri. «Un mancato o scarso coinvolgimento delle donne nella ricerca scientifica comporta anche gravi perdite in termini di competenze e talenti, con pesanti conseguenze per l’intero settore 150


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scientifico-tecnologico in termini di competitività e produttività. Valorizzare i talenti femminili significa valorizzare le diversità e il contributo specifico che le donne possono apportare alla ricerca in virtù di caratteristiche peculiari in termini di sensibilità, intuito, motivazioni e approccio al lavoro», così scrivono Valeria Arzenton, Massimiano Bucchi, Elisabetta Giuffra e Simona Palemo in Donne e Scienza 2008. L’Italia e il contesto internazionale. Il volume, curato da Valeria Arzenton, Giulia Nechifor e Giuseppe Pellegrini, raccoglie dati provenienti da fonti diverse e mette a disposizione strumenti utili alle donne interessate a fare scienza, come informazioni su borse di studio e bandi per progetti di ricerca. Il repertorio si propone inoltre di sollecitare la politica a prendere coscienza dell’importanza di un maggior equilibrio di genere in campo scientifico. Ma in Italia ci sono difficoltà perfino ad affrontare il dramma di un paese spezzato in due a livello di formazione scolastica, con il solo Nord capace di portare gli studenti – maschi e femmine – a una formazione sufficiente in scienze e matematica. Da risolvere sembra anche un apparente minor interesse delle donne al dibattito scientifico sui media, anche se il gap sfuma in occasioni di confronto come i festival della scienza. I problemi creati alle donne dall’imbuto che si trovano a dover affrontare a un certo punto della loro carriera hanno però ridato spazio alla discussione, dopo che per vent’anni questa era rimasta nelle retrovie del privato, come d’altra parte altre questioni sollevate dal movimento femminista degli anni Settanta. Problemi che erano considerati risolti dalle donne che si erano affacciate al mondo della ricerca negli anni Novanta, con giovani perfino offese perché l’università americana che le aveva ammesse a un programma di Ph.D. applicava politiche di genere mirate a riportare equilibrio tra donne e uomini. Molte di quelle donne sono in seguito andate a sbattere contro il cosiddetto soffitto di cristallo nel momento in cui la loro carriera era giunta al punto di estendersi alla gestione del potere. Forse anche in coincidenza di quell’impatto, la discussione si è riaperta. Ecco cosa raccontano i numeri delle trasformazioni in atto in questi ultimi anni presentati in Donne e Scienza 2008: nel 2004 in Italia le laureate in matematica, fisica e scienze naturali erano il 52,1%, contro il 55,5% del 1999. Nel 2005 le donne laureate o con dottorati di ricerca, erano il 55,5% del totale nelle diverse discipline scientifiche. Vi è una relativa crescita dell’occupazione delle donne laureate, che in Italia fra il 1998 e il 2004 è stata del 7%. Ma in quello stesso periodo la Spagna, che si preparava a eleggere J.L. Zapatero, optava per politiche così innovative per la promozione della presenza delle donne in ogni settore della società, da portare a una crescita del 10,3%. Nel complesso, la percentuale di ricercatrici in Italia è del 29,9%, un dato peggiore di quello della Tur151


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chia (36,4%), alla quale tuttavia paesi europei ancora più indietro nella classifica (come la Francia, con il 27,8% di ricercatrici) si sono sentiti in dovere di contestare il tentativo di cancellare il bando che vieta alle donne di indossare il velo negli atenei turchi. Per non dire dei comitati scientifici dove si seleziona e indirizza la ricerca: in quei comitati in Italia le donne sono il 12,8%. Un altro dato conferma le difficoltà delle italiane: in Italia solo il 22,4% dei finanziamenti è richiesto da ricercatrici, contro il 55,2% dell’Irlanda, dove, forse non a caso, le laureate disoccupate sono solo lo 0,1% in più degli uomini. Simona Poidomani

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I Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano a ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti. Le razze umane non esistono. L’esistenza delle razze umane è un’astrazione derivante da una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone, percepite dai nostri sensi, erroneamente associate a differenze “psicologiche” e interpretate sulla base di pregiudizi secolari. Queste astratte suddivisioni, basate sull’idea che gli umani formino gruppi biologicamente ed ereditariamente ben distinti, sono pure invenzioni da sempre utilizzate per classificare arbitrariamente uomini e donne in “migliori” e “peggiori” e quindi discriminare questi ultimi (sempre i più deboli), dopo averli additati come la chiave di tutti i mali nei momenti di crisi. II Esistono grandi razze e piccole razze. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente. L’umanità, non è fatta di grandi e piccole razze. È invece, prima di tutto, una rete di persone collegate. È vero che gli esseri umani si aggregano in gruppi di individui, comunità locali, etnie, nazioni, civiltà; ma questo non avviene in quanto hanno gli stessi geni ma perché condividono storie di vita, ideali e religioni, costumi e comportamenti, arti e stili di vita, ovvero culture. Le aggregazioni non sono mai rese stabili da DNA identici; al contrario, sono soggette a profondi mutamenti storici: si formano, si trasformano, si mescolano, si frammentano e dissolvono con una rapidità incompatibile con i tempi richiesti da processi di selezione genetica. 154


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III Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze. Nella specie umana il concetto di razza non ha significato biologico. L’analisi dei DNA umani ha dimostrato che la variabilità genetica nelle nostra specie, oltre che minore di quella dei nostri “cugini” scimpanzé, gorilla e orangutan, è rappresentata soprattutto da differenze fra persone della stessa popolazione, mentre le differenze fra popolazioni e fra continenti diversi sono piccole. I geni di due individui della stessa popolazione sono in media solo leggermente più simili fra loro di quelli di persone che vivono in continenti diversi. Proprio a causa di queste differenze ridotte fra popolazioni, neanche gli scienziati razzisti sono mai riusciti a definire di quante razze sia costituita la nostra specie, e hanno prodotto stime oscillanti fra le due e le duecento razze. IV La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa. È ormai più che assodato il carattere falso, costruito e pernicioso del mito nazista della identificazione con la “razza ariana”, coincidente con l’immagine di un popolo bellicoso, vincitore, “puro” e “nobile”, con buona parte dell’Europa, dell’India e dell’Asia centrale come patria, e una lingua in teoria alla base delle lingue indo-europee. Sotto il profilo storico risulta estrema155


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mente difficile identificare gli Arii o Ariani come un popolo, e la nozione di famiglia linguistica indo-europea deriva da una classificazione convenzionale. I dati archeologici moderni indicano, al contrario, che l’Europa è stata popolata nel Paleolitico da una popolazione di origine africana da cui tutti discendiamo, a cui nel Neolitico si sono sovrapposti altri immigranti provenienti dal Vicino oriente. L’origine degli Italiani attuali risale agli stessi immigrati africani e mediorientali che costituiscono tuttora il tessuto perennemente vivo dell’Europa. È solo la subalternità dell’Italia fascista nei confronti dell’alleato nazista che ha portato anche il nostro popolo alla stessa identificazione con gli “ariani”. V È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l’Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio. È una leggenda che i sessanta milioni di italiani di oggi discendano da famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio. Gli stessi Romani hanno costruito il loro impero inglobando persone di diverse provenienze e dando loro lo status di cives romani. I fenomeni di meticciamento culturale e sociale, che hanno caratterizzato l’intera storia della penisola, e a cui hanno partecipato non solo le popolazioni locali, ma anche greci, fenici, ebrei, africani, ispanici, oltre ai cosiddetti “barbari”, hanno prodotto l’ibrido che chiamiamo cultura italiana. Per secoli gli italiani, anche se dispersi nel mondo e divisi in Italia in piccoli Stati, hanno continuato a identificarsi e a essere identificati con questa cultura complessa e variegata, umanistica e scientifica. VI Esiste ormai una pura “razza italiana”. Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana. 156


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Non esiste una razza italiana ma esiste un popolo italiano. L’Italia come Nazione si è unificata solo nel 1860 e ancora adesso diversi milioni di italiani, in passato emigrati e spesso concentrati in città e quartieri stranieri, si dicono e sono tali. Una delle nostre maggiori ricchezze, è proprio quella di avere mescolato tanti popoli e avere scambiato con loro culture proprio “incrociandoci” fisicamente e culturalmente. Attribuire a una inesistente “purezza del sangue” la “nobiltà” della “Nazione” significa ridurre alla omogeneità di una supposta componente biologica e agli abitanti dell’attuale territorio italiano un patrimonio millenario ed esteso di culture. VII È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo arianonordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l’italiano a un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità. Il razzismo è contemporaneamente omicida e sucida. Gli Imperi, da quello di Alessandro Magno a quello Romano, a quello attuale degli Stati Uniti, sono diventati tali grazie alla convivenza di etnie e culture diverse, ma sono improvvisamente collassati quando si sono frammentati. Così è avvenuto e avviene nelle Nazioni con le guerre civili e quando, per arginare crisi le minoranze sono state prese come capri espiatori. Il razzismo è suicida perché non colpisce solo gli appartenenti a popoli diversi ma gli stessi che lo praticano. La tendenza all’odio indiscriminato che lo alimenta non è limitato alle etnie ma si estende per contagio ideale a ogni alterità esterna o estranea rispetto a una definizione sempre più ristretta della “normalità”. Colpisce quelli che stanno “fuori dalle righe”, i “folli”, i “poveri di spirito”, i gay e le lesbiche, i poeti, gli artisti, gli scrittori alternativi, tutti coloro che non sono omologabili a tipologie umane standard e che o in realtà permettono all’umanità di cam157


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biare continuamente e quindi di vivere. Qualsiasi sistema vivente resta tale infatti solo se è capace di cambiarsi e noi esseri umani cambiamo sempre meno con i geni e sempre più con le invenzioni dei nostri “benevolmente disordinati” cervelli. VIII È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili. Il razzismo discrimina, nega i collegamenti, intravede minacce nei pensieri e nei comportamenti diversi. Per i difensori della razza italiana l’Africa appare come una paurosa minaccia e il Mediterraneo è il mare che nello stesso tempo separa e unisce. Per questo i razzisti sostengono che non esiste una “comune razza mediterranea”. Per spingere più indietro l’Africa gli scienziati razzisti erigono una barriera contro “semiti” e “camiti”, con cui più facilmente si può entrare in contatto. La scienza ha chiarito che non esiste una chiara distinzione genetica fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono state assolutamente dimostrate, dal punto di vista paleontologico e da quello genetico, le teorie che sostengono l’origine africana dei popoli della terra e li comprendono tutti in un’unica razza. IX Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani. Gli ebrei italiani sono contemporaneamente ebrei e italiani. Gli ebrei, come tutti i popoli migranti (nessuno è migrante per libera scelta ma molti lo sono 158


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per necessità) si sono sparsi per il Mondo e hanno fatto parte di diverse culture pur mantenendo contemporaneamente una loro identità di popolo e di religione. Così è successo ad esempio con gli Armeni, con gli stessi italiani emigranti e così sta succedendo con i migranti di ora africani, filippini, cinesi, arabi dei diversi Paesi, popoli appartenenti all’Est europeo o a Sud America ecc. Tutti questi popoli hanno avuto la dolorosa necessità di dover migrare ma anche la fortuna, nei casi migliori, di arricchirsi unendo la loro cultura a quella degli ospitanti senza annullare, quando è stato possibile né l’una né l’altra. X I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono a un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani. L’ideologia razzista è basata sul timore della “alterazione” della propria razza eppure essere “bastardi” fa bene. È quindi del tutto cieca rispetto al fatto che molte società riconoscono che sposarsi fuori, perfino con i propri nemici, è bene, perché sanno che le alleanze sono molto più preziose delle barriere. Del resto negli umani i caratteri fisici alterano più per effetto delle condizioni di vita che per selezione e i caratteri psicologici degli individui e dei popoli non stanno scritti nei loro geni. Il “meticciamento” culturale è la base fondante della speranza di progresso che deriva dalla costituzione della Unione Europea. Un’Italia razzista che si frammentasse in “etnie”, separate come la ex-Jugoslavia sarebbe devastata e devastante ora e per il futuro. Le conseguenze del razzismo sono infatti epocali: significano perdita di cultura e di plasticità, omicidio e suicidio, frammentazione e implosione non controllabili perché originate dalla ripulsa indiscriminata per chiunque consideriamo “altro da noi”.

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Direzione Pietro Greco Comitato Scientifico Agnes Allansdottir Enrico Alleva Margherita Fronte Paola Govoni Pietro Greco Angelo Guerraggio Redazione Cristian Fuschetto Romualdo Gianoli Ilaria Merciai Vincenzo Napolano Stefano Pisani Barbara Raucci a cura di CodiCS – Cooperativa di Comunicazione Scientifica, Napoli. Per sottoscrivere l’abbonamento alla rivista, si può consultare il sito http://matematica.unibocconi.it, cliccando sulla voce Le nostre pubblicazioni, e quindi scaricare il modulo di abbonamento. Per ulteriori informazioni, mettersi in contatto con il Centro PRISTEM scrivendo a: pristem@unibocconi.it Quest’opera è protetta da diritto d’autore. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla ristampa, all’uso di figure e tabelle, alla citazione orale, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla riproduzione su microfilm, alla diversa riproduzione in qualsiasi altro modo e alla memorizzazione su impianti di elaborazione dati rimangono riservati anche nel caso di utilizzo parziale. Una riproduzione di quest’opera, oppure di parte di questa, è anche nel caso specifico solo ammessa nei limiti stabiliti dalla legge sul diritto d’autore, ed è soggetta all’autorizzazione del Centro Eleusi Pristem dell’Università Bocconi di Milano. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. La riproduzione di denominazioni generiche, di denominazioni registrate, marchi registrati ecc. in quest’opera, anche in assenza di particolare indicazione, non consente di considerare tali denominazioni o marchi liberamente utilizzabili da chiunque ai sensi della legge sul marchio. In copertina: Edoardo Amaldi alla scuola estiva di Varenna, 1954 Si ringrazia l’Archivio Amaldi del Dipartimento di Fisica dell’Università “La Sapienza”, che ha fornito tutte le immagini e i documenti originali, riprodotti nel dossier. ISBN-13: XXX ISBN-10: 88-901775-9-4 Stampato in Italia: Mediaprint - Milano


Le mura di quella torre d’avorio che separava la scienza dal resto della società umana sono crollate. Tra scienza e società, i rapporti sono diventati

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semplicemente necessari. Necessari per gli scienziati. Una parte crescente delle decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza viene ormai presa in compartecipazione tra le comunità scientifiche e un’intera costellazione di gruppi di non esperti. Necessari per la società. Nel medesimo tempo, la scienza entra sempre più nella vita quotidiana dei cittadini. È parte sempre più rilevante e ineludibile non solo della cultura dell’uomo, ma anche dell’economia, della politica, dell’etica. Scienza e democrazia sono due dimensioni che in parte si sovrappongono. Dalla qualità della loro intersezione dipende la qualità della società umana. Se la scienza diventa fonte di nuove diseguaglianze, allora l’intersezione con la democrazia diminuisce e la qualità della società umana si affievolisce. Se la scienza conferma l’ideale baconiano e contribuisce al benessere dell’intera umanità, allora l’intersezione con la democrazia si estende e si estende anche la qualità della vita sociale dell’uomo.

Pietro Greco

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