La Frutticoltura alpina valtellinese tra il non piĂš e il non ancora
giugno 2016
“Il cibo è metafora, la più bella, la più interessante e completa per osservare le cose del mondo. Perché mostra sì con estrema rapidità tutte le cose che stanno andando male, e le ragioni per cui vanno male, ma indica altrettante soluzioni perché possano andare meglio”. Testo tratto dall’introduzione dell’autore, Don Pasta, al libro “Kitchen Social Club”,
La valorizzazione delle produzioni agricole realizzate nelle aree alpine rappresenta una sfida fondamentale per il futuro di queste aree sotto diversi punti di vista: •
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economico ed occupazionale, nella prospettiva di accrescere l’occupazione qualificata, la nascita di un’agricoltura di montagna svincolata dai modelli convenzionali ed industriali ad elevati investimenti economici, energetici e chimici; ambientale, per consentire un’adeguata salvaguardia e un mantenimento del territorio montano, contrastando i fenomeni di incuria, di abbandono e di inquinamento; sociale al fine di mantenere una popolazione attiva, combattere i fenomeni di esclusione e disagio sociale legati all’isolamento di comunità con alte percentuali di popolazione non attiva.
Alcune realtà aziendali e alcuni sistemi agricoli territoriali sono già all’interno di questo passaggio e riescono a garantirsi prezzi di vendita migliori, riducendo i costi di gestione, anche grazie all’introduzione in azienda di tecniche sostenibili. Ad esempio la potatura meccanica, la pirosterilizzazione, il diserbo meccanico, l’introduzione di cultivar antiche più resistenti ai patogeni. Metodologie di produzione rispettose dell’ambiente, del reddito aziendale, della qualità finale dei frutti e dell’ambiente. Nuove tecniche che offrono l’opportunità di contenimento dei costi, riducendo anche l’impatto chimico sull’ambiente. Insomma, sostenibilità ambientale, economica, sociale e territoriale. Concetti sempre più strategici nel mondo contemporaneo.
Un esempio che va in questa direzione è rappresentato dall’allevamento dei frutteti in parete stretta che velocizza le operazioni colturali e di raccolta e apre la strada alla meccanizzazione di potatura, diradamento e diserbo meccanico, con riduzione dell’input chimico. E che dire delle applicazioni in frutticoltura della tecnologia dei microorganismi effettivi EM®?
In realtà l’aver ottenuto il marchio IGP Valtellina per 3 varietà di mele che si producono in tutto il mondo (Red Delicious, Gala Delicious e Golden Delicious – varietà che appartengono al paniere delle 8 varietà che da sole coprono circa l’80% della produzione mondiale)serve a ben poco visto che l’unico elemento distintivo su cui impostare le politiche commerciali è il territorio, la zona di produzione.
E lo spettacolo edificatorio generato da una scadente qualità progettuale, architettonica ed urbanistica che si presenta nel fondovalle della Valtellina e nelle zone vocate alla frutticoltura, non aiuta certo il marketing del prodotto e la sua comunicazione. Anche perché l’opinione pubblica ed i consumatori sono sempre più attenti sia alle caratteristiche della produzione ma anche (e soprattutto) ai fattori di contesto (ambientali, urbanistici, sociali, agronomici, territoriali).
Certamente l’aver scelto di comunicare attraverso eventi sportivi e sagre offre il vantaggio di mostrare ambienti che poco o nulla hanno a che fare con le zone di produzione delle mele stesse. Ma per questa “via” si indeboliscono (più che si rafforzano) gli aspetti di natura territoriale su cui fa perno il marchio IGP. Insomma, un corto circuito evidenziato dalle sempre maggiori difficoltà di collocare il prodotto a prezzi accettabili a favore delle aziende agricole specializzate. Ai deludenti risultati commerciali si affianca una frutticoltura valtellinese in difficoltà: impianti di mele sempre più vetusti, assenza di investimenti importanti, manutenzioni e innovazione dei sistemi di irrigazione sempre più difficili da realizzare con conseguente spreco della risorsa acqua, espianti di frutteti, problemi di reperibilità di manodopera specializzata, aumento dei costi gestionali, dismissione di aziende, diffusione di patologie.
Il vero asset per uscire dal cortocircuito delle 3 mele IGP, a nostro avviso, non sta nell’acquistare e nel coltivare varietà sotto royalty o l’aderire a dei club globali (che di fatto trasformano il frutticoltore in un operatore di macchine agricole totalmente espropriato da saperi e competenze), ma nell’incorporare funzioni e servizi aggiuntivi nel prodotto – processo per generare imprese ad elevato contenuto di competenze immateriali così da generare valore lungo la filiera (e non solo incorporandolo nel prodotto). Riportiamo alcuni esempi a cui rifarsi.
Ad esempio il packaging monouso pensato per la presentazione/distribuzione del singolo prodotto (mela) in occasione di eventi, fiere, ma soprattutto come nuovo modello di consumo personale. Nella Fotografia “A designer a day” lanciato dal Consorzio la Trentina, con Poli.Design e DesignHub per la progettazione di prodotti innovativi inerenti il tema “La filiera della mela: dall’albero al consumo“. Quindi un collegamento con designer e creativi, e sviluppo di modelli di packaging di culto eco-sostenibili.
Altro esempio, è la valorizzazione delle varietà pomologiche come nel caso del progetto Pomosano, avviato nel corso del 2013 e finanziato dal Fondo europeo per lo sviluppo regionale, che sostiene la qualità nella coltivazione della mela in Alto Adige, individuandone le varietà specifiche per ogni zona pedoclimatica più adatte alla produzione di succhi. Delle oltre 300 tipologie di mela coltivate al centro Laimburg, 65 fanno parte del programma di ricerca e i succhi prodotti sono analizzati e degustati nei laboratori dell’istituto di ricerca altoatesino. E’ anche in programma uno studio sui benefici del consumo di mela nell’alimentazione quotidiana.
Varietà e biodiversità saranno le parole chiave dei progetti di ricerca in frutticoltura che il centro Laimburg ha in programma nei prossimi anni. Sono state individuate sette tipologie di melo resistenti a malattie fungine, che dal 2014 sono sottoposte a test agronomici. Quindi nutraceutica, agrobiodiversità, varietà antiche, e trasformazione cioè incorporazione di valore tecnologico e scientifico.
Altro esempio, è il passaggio definitivo all’Agricoltura Biologica, per un motivo molto semplice da capire: si può facilmente comunicare – a differenza della lotta integrata che è per i consumatori un oggetto sconosciuto – ma soprattutto è immediatamente identificata come salubre, buona e sana. Il caso di Malles (il primo comune libero da pesticidi) è lì a dimostrare, casomai ve ne fosse ancora bisogno, che si è rotto quel patto su cui ha vissuto e prosperato la frutticoltura, e più in generale l’agricoltura convenzionale, e cioè reddito in cambio di una sottrazione di salute pubblica e di beni comuni. Vi sono oggi varietà di mele adatte alla produzione biologica… piantiamole. “Una delle più rilevanti innovazioni ottenute negli ultimi cinquant’anni dalla ricerca mondiale in campo frutticolo sono le cultivar di melo resistenti alle malattie e in particolare alla ticchiolatura. Il «valore aggiunto» che le cultivar resistenti presentano, si traduce in un abbattimento delle spese per la difesa fitosanitaria, dato che non necessitano di alcun trattamento fitoiatrico per le avversità cui sono resistenti: Tuttavia queste varietà di mele sono oscurate al consumatore che non le conosce, non è in grado di premiarle e continua a dare la preferenza alle varietà di mele tradizionali oppure a quelle a marchio registrato. L’impiego di questa varietà in frutticoltura apporta benefici collaterali, consistenti nella riduzione dell’impatto sull’ambiente per la minor immissione di prodotti (di sintesi o «naturali» poco importa), nella riqualificazione e valorizzazione territoriale delle zone turistiche e agrituristiche e nella tutela della salute degli operatori agricoli”. Quindi innalzamento degli standard di qualità ambientale e riduzione dell’uso di agrofarmaci, diversificazione varietale e comunicazione trasparente.
Dagli scarti della lavorazione industriale delle mele nascono Cartamela per fazzolettini e rotoli da cucina e Pellemela per calzature e rivestimenti di divani. Quegli scarti che fino a pochi anni fa venivano smaltiti o, al più, utilizzati per alimentare gli impianti a biogas (peraltro oggetto di contestazioni da parte di comitati di cittadini), cosa che avviene tuttora, oggi subiscono un processo che li riutilizza completamente. Nella lavorazione della Cartamela gli scarti di mela vengono sottoposti a un trattamento di disidratazione, raffreddamento e macinazione che ne blocca decadimento e fermentazione e lascia inalterato il loro contenuto di zuccheri e di cellulosa, indispensabile per la produzione di carta. Da questo processo si ottiene una farina bianca, che contiene il 65 per cento di cellulosa e che si presta alla produzione di qualsiasi tipo di articolo cartaceo. Un metodo non solo eco-friendly, ma che ha anche il merito di contribuire ad abbattere i costi di gestione dei rifiuti: gli scarti di mela, di cui fanno parte i residui della produzione industriale di succhi di frutta, vengono infatti considerati “rifiuto speciale”, categoria per il cui smaltimento è necessario un iter molto costoso. La “Pellemela” è una pelle vegetale molto versatile, che può avere gli stessi impieghi della vera pelle, dall’arredamento alla moda, dalle scarpe alle borse; da queste soluzioni a base di farina di mele, che già molte aziende altoatesine hanno sviluppato, possono scaturire vari effetti positivi. Oltre a tutelare l’ambiente, infatti, la crescita e il potenziamento di una vera e propria industria basata sul riciclo, garantisce uno sviluppo sostenibile e armonico del territorio altoatesino e può anche avere importantissime ricadute in termini occupazionali. Nel 2009, a Bolzano, Hannes Parth ha fondato la Frumat, un laboratorio di analisi chimiche che ha iniziato ad effettuare dei test per stabilire se, dagli scarti della lavorazione industriale delle mele era possibile ricavare delle materie prime da impiegare per realizzare prodotti eco – compatibili. Quindi bioplastiche, valorizzazione dei giovani laureati, e nuove imprese.
L’idea è stata quella di attaccare sulla superficie di un centinaio di mele in fase di maturazione un adesivo con il loro logo ed il messaggio “idee“. La genialità dell’operazione – una campagna di autopromozione via gadget di un’agenzia di Comunicazione spagnola – non sta nell’aver dato a dei potenziali clienti un prodotto con una particolare utilità materiale, ma nell’aver trasmesso loro, attraverso la semplice trasformazione di un banalissimo oggetto, la qualità del loro lavoro e delle loro competenze. Quindi imprese agricole collegate a imprese di servizi – agriterziario.
Chi ha detto che i vassoi per la frutta devono essere sempre rettangolari, quadrati o ovali? Il progetto del giovane designer belga Michael Bihain si allontana dai tradizionali schemi concettuali e progettuali dei vassoi per creare un oggetto semplice, dematerializzato, in movimento, realizzato in materiale naturale (il compensato) ma estremamente funzionale e ironico. Quindi sistema frutta e non solo succhi e polpa di mele.
Altro esempio è il rapporto tra produzione agricola ed Arte come nel caso della Land Art. Ma per fare Land Art bisogna avere i frutteti accessibili e fruibili dai visitatori – turisti, bisogna cioè garantire la qualità dell’aria, del suolo e del materiale vegetale presente che si traduce nel non utilizzo di sostanze chimiche dannose alla salute come dissecanti ed erbicidi, insetticidi e concimi chimici. Ambienti sani per un territorio vivibile. Quindi produzione agricola qualificata, turismo sostenibile, economia della cultura, arte, eventi identitari di qualità.
Per questa via si aprono ulteriori strade legate alla cosmetica, alla nutraceutica… insomma pensare unicamente al prodotto come fossimo ancora nel ‘900, e non guardare alle componenti im-materiali del servizio e del territorio può rappresentare un rischio elevato per la frutticoltura alpina… sempre secondo noi di Punto.ponte.
“Se qualcuno pensa di approcciare il sistema agricolo montano con l’impostazione degli ultimi 30 anni, non c’è prospettiva. Bisogna capire che in questa parte d’Europa lo scenario è cambiato: l’agricoltura di montagna non è più solo produttore di materie prime che
diventano commodities, ma, al contrario, offre servizi, distintività, ma, soprattutto, trasformano materia prima, organizzano eventi, ospitalità. Se la multifunzione viene intercettata in modo positivo, ci sono fondi e risorse per dar spazio alla propria imprenditorialità. Diversamente, di occasioni non ce ne sono”. Gianni Fava – Assessore regionale all’Agricoltura