Gino Aldi
I fondamenti della relazione Come conoscere e incontrare l’altro
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Questo libro è stampato su carta ecologica riciclata prodotta con il 100% di carta da macero e senza l’uso di cloro e imbiancanti ottici. Carta certificata Blue Angel ed Ecolabel in quanto creata con un basso consumo di energia.
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I FONDAMENTI DELLA RELAZIONE Come conoscere e incontrare l’altro
Gino Aldi
edizioni
Š Copyright 2013 Edizioni Enea - SI.RI.E. srl I edizione ottobre 2013 ISBN 978-88-6773-009-4 Edizioni Enea Sede Legale - Ripa di Porta Ticinese 79, 20143 Milano Sede Operativa/Magazzino - Piazza Nuova 7, 53024 Montalcino (SI) www.edizionienea.it - edizioni.enea@gmail.com Progetto grafico Lorenzo Locatelli Disegno in copertina Federica Aragone Stampato e rilegato da Graphicolor, Città di Castello I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, informatica, multimediale, riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresi microfilm e copie fotostatiche, sono riservati per tutti i Paesi.
Ad Antonio De Carlo, detto “Peppino”, uomo silenzioso ma di grandi virtù relazionali. A mia madre Rosa, la cui malattia spinge a nuovi modi di stare insieme. A Davide e Matteo, perché relazionandoci cresciamo insieme.
Indice
Prefazione di Catia Trevisani
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Capitolo 1 – Cos’è una relazione? La relazione oggi Modello dialogico e modello atomistico a confronto Conoscenza personale
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Capitolo 2 – Come si conosce una persona? L’uomo cartesiano e la ricerca di verità assolute Il post-moderno e la rinuncia a modelli esplicativi Necessità di modelli Affrontare la complessità Emergentismo Strutturalismo gerarchico Parte, tutto, formula strutturale Livelli logici
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Capitolo 3 – Com’è costituita una persona? Lo stadio pre-riflessivo Coscienza e autocoscienza Consapevolezza di sé e relazione Lo stadio riflessivo Simbolico-spontaneo
39 39 43 48 50 55
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26 28 30 31 32 33 34 35
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I fondamenti della relazione
Il senso della verità Libertà e responsabilità
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Capitolo 4 – Come si costruisce una relazione? Rispetto Conoscenza Dare forma ai vissuti Limiti Reciprocità Fiducia L’amore per l’altro e l’amore per sé
63 65 68 71 72 74 77 80
Capitolo 5 – Quali sono i linguaggi della relazione?
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Capitolo 6 – Primo linguaggio: il pensiero Verità I modi del pensiero Il pensiero nella relazione
89 94 101 106
Capitolo 7 – Secondo linguaggio: la fantasia La narrazione analogica L’immaginazione I modi dell’immaginazione Uso dell’immaginazione Limiti del linguaggio fantastico Il linguaggio fantastico nella relazione
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Capitolo 8 – Terzo linguaggio: le emozioni Le emozioni e la vita emotiva Paura Rabbia Tristezza Gioia I modi delle emozioni
131 137 140 143 146 149 152
Indice
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Capitolo 9 – Quarto linguaggio: il corpo I modi del corpo
163 166
Capitolo 10 – Relazionarsi Costruire relazioni Identità Comunicazione Equilibri Crisi Diversità Incontrarsi La relazione: tra visibile e invisibile
175 177 179 180 182 183 185 188 190
Bibliografia
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Prefazione
La relazione, tema fondante per ogni persona, è in questo libro oggetto di analisi e riflessione profonda. Oggigiorno, più che mai, siamo testimoni della crisi e del frequente fallimento delle relazioni, anche quelle più importanti per l’essere umano. Tra genitori e figli siamo passati dall’autoritarismo del passato al rapporto alla pari di oggi che distrugge ogni possibilità di educare; nelle coppie i conflitti, taciti o dichiarati, le separazioni in casa piuttosto che quelle legalizzate sono esperienza comune; sul luogo di lavoro spesso l’atmosfera è irrespirabile… non siamo più capaci di comunicare, di relazionarci, di scambiarci affetto, di tollerare le diversità dell’altro, di costruire relazioni profonde, solide e durature. La sensazione è che si sia spostata l’attenzione su altro: successo, carriera, buona immagine di sé, denaro, realizzazioni materiali, e si sia perso di vista il valore delle relazioni. Il benessere ha portato edonismo, egoismo, debolezza di carattere, ha fatto dimenticare i veri valori e così non ricordiamo più come ci si relaziona. Gli impegni incalzanti, la fretta, le mille cose da fare sottraggono tempo al dialogo, all’osservazione di sé e dell’altro, alla riflessione. Cosa ci si può aspettare da un ascolto stanco e disattento, da relazioni in cui offriamo solo le briciole di noi stessi perché la testa è altrove, il tutto condito da aspettative e richieste che l’altro corrisponda esattamente all’immagine
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che di lui ci siamo creati? Per poi dichiararci delusi e pieni di rammarico, traditi e amareggiati. Dov’eri mentre tuo marito, tuo figlio, tua moglie, il tuo alunno ti stava esprimendo il suo sentire? Ricordi il suo volto, i suo gesti? Li hai visti? Rammenti il tono della voce, le sfumature? Dov’eri mentre ti offriva il suo punto di vista, la sua esperienza, il suo cuore? Forse eri troppo concentrato a difendere la tua idea, la tua visione, il tuo credo… forse avevi il cuore troppo chiuso per cogliere le tue e le sue emozioni, forse eri impaurito di incontrare nelle sue parole una verità che ti fa male e ti mette in discussione. Eppure senza relazioni o con relazioni fallimentari la vita non può essere soddisfacente e piena, l’essere umano ha bisogno di relazionarsi per stare bene e ha bisogno di reimparare saggezze perdute. Ha bisogno di riscoprire, riconoscere, riflettere sui fondamenti della relazione, unico modo per divenire consapevoli di eventuali errori, punti deboli, mancanze che, una volta corrette, possono portare benessere e piacere di vivere. Gino Aldi, medico e psicoterapeuta, che ha fatto della relazione di aiuto la sua occupazione quotidiana, ci accompagna passo dopo passo, con perizia e abilità, a riscoprire e chiarire i fondamenti della relazione: come si conosce una persona, com’è costituita, quali sono i diversi linguaggi che consentono la relazione stessa: pensiero, fantasia, emozioni e corporeità. Linguaggi che in qualche modo abbiamo dimenticato, nonostante siano naturalmente parte integrante di ognuno di noi come esseri umani. Riportare l’attenzione su di essi consentirà alle parti sommerse, o trascurate di emergere e di rimodellare il nostro incontro con l’altro installando un circolo virtuoso che farà bene a noi e alle persone che ci circondano. Catia Trevisani
1. Cos’è una relazione?
La relazione oggi Facciamo quotidianamente esperienza di relazioni, per cui dovremmo essere sufficientemente informati sul significato che ha per noi il relazionarsi con il prossimo. Nonostante la nostra esistenza si basi sulla relazione, però, notiamo che spesso il contatto con gli altri non riesce a sollevare il nostro animo da un senso di solitudine profonda, la quale sembra venire fuori nei momenti di quiete, di ripiego in noi stessi, di bilancio. Le relazioni, inoltre, non sempre si sviluppano in modo sereno; talvolta si verificano delle situazioni in cui relazionarsi all’altro può causare inquietudine o dolore, come per l’individuo che vive momenti di sofferenza, sia essa fisica, psichica o sociale e manifesta un bisogno più vivo di contatto e nutrimento amorevole. In queste circostanze, davanti a persone che testimoniano il lato oscuro e vulnerabile dell’esistenza, siamo chiamati a svolgere un compito di sostegno e di aiuto, anche se spesso proprio in questi momenti ci sentiamo disarmati e incapaci di costruire ponti di dialogo. La relazione mostra, in sostanza, di fallire laddove essa è più necessaria, come nel caso della fragile realtà infantile o della malattia mentale. In queste situazioni i meccanismi messi in atto nelle nostre relazioni quotidiane possono rivelarsi insufficienti, e ci viene richiesta la capacità di avventurarci verso la comprensione di un modo di essere diverso dal nostro.
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La relazione tra persone può essere intesa dunque come una questione semplice o di estrema complessità: dipende dall’angolatura che desideriamo assumere. Essa è semplice se immaginiamo il relazionarsi come un insieme di atti guidati da norme – quelle della buona educazione, della moda, della prescrizione medica o della fredda valutazione dell’uomo di scienza. In tutte queste situazioni le persone tendono a trasporre tra sé e l’altro un insieme di leggi generali, un “si fa così”, che pone in secondo piano l’essenza della relazione profonda, caratterizzata dal doversi confrontare con le persone per come sono e non per come devono essere. Quando invece si vuole “andare oltre” la superficie della quotidianità e si scende in profondità, alla ricerca profonda dell’altro e di noi stessi, ecco che allora si apre l’opportunità, se non la necessità, di un viaggio di approfondimento che permette a ciascuno di essere colto nella sua unicità e di sperimentare la presenza effettiva del prossimo. Solo in questa accezione abbiamo il contatto reale tra esseri umani che si cercano e che sanno parlarsi. Solo in questo modo lo stare insieme non pone la persona sullo sfondo ma la riporta al centro della vicenda del relazionarsi, il cui scopo ultimo è quello di avvertire nello scambio sociale una fonte di nutrimento affettivo, una presenza viva capace di colmare i vuoti della solitudine e di placare, in parte o del tutto, le incertezze che si agitano in ciascuno di noi. In questo lavoro ci occuperemo del tema dell’incontro con l’altro, e cercheremo di riconoscere le modalità più efficaci per relazionarsi con il prossimo. Cercheremo di dimostrare, sfatando il luogo comune che intende la capacità relazionale come una dote innata, che la possibilità di incontrarsi e conoscersi profondamente è una pratica che può essere appresa. Imparare a stare con gli altri, comprenderli, accoglierli, ma anche fare esperienza di essere compresi e accolti sono abilità che possono migliorare attraverso l’acquisizione dei fondamenti della relazione.
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Le ragioni per cui si è a lungo trascurata la riflessione sulla natura delle relazioni interpersonali e sulla possibilità di insegnare un corretto approccio all’altro trovano radici antiche. Il prevalere di una concezione della scienza che, per capire i fenomeni, riduce la complessità, focalizzando solo gli elementi che è in grado di osservare con la lente di ingrandimento dell’esperimento scientifico, ha portato fuori dall’orizzonte di interesse un problema complesso e apparentemente inafferrabile come la persona umana e il suo modo di vivere con l’altro. Quando si è tentato di approfondire i modi di comunicare e gli scambi sociali del soggetto vivente lo si è fatto con i metodi della scienza empirica, isolando variabili, identificando correlazioni, cercando leggi esplicative di questo o quell’aspetto del modo di essere della persona. In questo modo il soggetto scompare nei mille rivoli nei quali viene frammentato dai vari strumenti di osservazione, e perdiamo di vista il modo personale e soggettivo in cui lui, proprio lui e nessun altro, vive la realtà. La conoscenza del funzionamento neuronale è di enorme utilità per comprendere i meccanismi del cervello umano, ma non aumenta il grado di conoscenza del perché una persona è capace di amare e un’altra sa solo odiare. Anche se si potessero identificare i neuroni che si attivano durante un atto di amore e quelli coinvolti nell’esercizio dell’odio non si scoprirebbe niente di rilevante del modo specifico e unico di amare o di odiare di quella persona. Esiste una componente soggettiva nell’essere umano che resiste ad ogni forma di riduzione. Proprio per salvaguardare questo specifico aspetto del soggetto è nata la psicologia umanistica, il cui paradigma era di opporsi alla frammentazione riduzionista della scienza biologica recuperando quello che di più specifico possiede l’essere umano. Il programma di ricerca avviato dai pensatori di quest’orientamento ha demonizzato e rifiutato ogni pratica classificatoria nel timore di incorrere negli stessi errori della scienza positiva e disumanizzare il rapporto di cura. Questo
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modo di procedere, rifiutando la costruzione di metodi, regole e tecniche, ha contribuito a lasciare la relazione interpersonale in una zona di mistero impedendo la costruzione di un procedere verificabile e scientifico. Sapersi relazionale era dunque questione di “cuore”, di “saper essere”, di capacità personali, e si sottraeva di fatto tale esperienza alla possibilità di essere appresa e, ancor più, verificata. Questa contrapposizione rigida e dogmatica ha ostacolato la costruzione di una scienza del relazionarsi in cui il metodo empirico e quello umanistico potessero confluire per indagare il tema della relazione nella sua totalità. In questo modo la relazione interpersonale ha continuato a nutrirsi di un’aura di mistero e di inafferrabilità, rimanendo confinata nelle pieghe di quelle attitudini in dote ad alcuni e misteriosamente assenti in altre. Non si è resa pensabile la possibilità di poter apprendere la relazione. Non si è nemmeno inserita questa competenza come un completamento necessario di quelle professioni che fanno del sostegno alla persona la loro principale ragion d’essere. Davvero si può insegnare senza costruire relazioni adeguate? Davvero si può curare una persona senza creare una sintonia profonda con la sua sofferenza? Davvero possiamo incontrare uno straniero, un diverso inteso come persona la cui esistenza si distanzia dal comune sentire, senza possedere nessuna attitudine ad andare incontro al suo modo peculiare di essere? Se il lettore dovesse rispondere in modo negativo a queste domande dovrebbe subito rammaricarsi del fatto che nessun insegnamento in questo senso è previsto nell’intero percorso di formazione alle diverse professioni di aiuto. È su questa grave carenza che si innesta il fallimento dei tanti buoni propositi di educatori, formatori, terapeuti, operatori sociali e volontari, i quali agiscono senza mai porre al centro del progetto la “persona” e senza raggiungerne la profondità esistenziale e l’unicità che la caratterizza. Una formazione organizzata per fornire “tecniche” di intervento, cioè modelli universali che pretendono di adattar-
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si a tutte le situazioni in maniera impersonale, non educa gli operatori a relazionarsi alla singolarità dei diversi individui. Sperimentiamo i limiti di questo modello formativo ogni volta che incontriamo “esperti” incapaci di sintonizzarsi con le nostre esigenze, di entrare in dialogo con noi, di trasmettere quel senso di accoglienza che di per sé sarebbe fonte di benessere e confermerebbe le ragioni per cui li abbiamo consultati. È importante notare anche come la piega tecnocratica che ha assunto la scuola italiana nell’ultimo decennio abbia contribuito a peggiorare notevolmente la qualità delle relazioni umane tra docenti e discenti e tra gli stessi docenti, trasformando un luogo di formazione in una fabbrica dal sapore vagamente tayloristico. Sono ormai acquisiti termini orribili quali produttività, efficienza, valutazione oggettiva e tanti altri che tutti insieme hanno contribuito a disumanizzare la scuola, privandola della sua principale ragione d’essere, cioè formare persone. E senza dubbio l’occhio attento del lettore potrà osservare che a dispetto di tanto ingegno tecnologico ci pare di interagire con una generazione di ragazzi sempre più smarrita, povera di prospettive, immatura, incapace di mettere a frutto ciò che apprende. Perché la nuova generazione, destinataria di una didattica moderna, di numerosi stimoli progettuali, di un’attenzione all’infanzia ben maggiore di quella dei tempi dei loro genitori e nonni, non sembra raggiungere il risultato sperato? Forse poiché nei luoghi dell’educazione è scomparsa proprio la dimensione della persona e della relazione educativa. Forse perché chi progetta la scuola crea le condizioni affinché maestri e docenti non abbiano quasi più nulla da dirsi se non una sterile e vuota povertà di riti quotidiani. Ma non si può fare niente di più in classi pollaio di trenta alunni: gli spazi di relazione si restringono e con essi evapora la possibilità di crescita umana, di sviluppo personale, di costruzione del sé. Se è vero che la modernità sta vivendo una profonda deriva meccanicistica che rende i rapporti umani sempre più poveri di qualità relazionale, risulta importante proporre una visione
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di umanità che sappia dialogare. Ripetere pedissequamente a insegnanti, psicologi, sociologi e volontari che non sanno relazionarsi, senza indicare prospettive di crescita, non è stato di grande aiuto, così come non lo è stato proporre corsi centrati solo sulla crescita personale senza spiegarne il fondamento e gli obiettivi. Questo libro intende analizzare i fondamenti della relazione che, come vedremo meglio nelle prossime pagine, può diventare uno strumento prezioso, dal momento che l’incontro con il prossimo è sempre e comunque una possibilità di incontrare parti di se stessi. Questa potenzialità, inizialmente temuta, si rivela la principale risorsa per diventare capaci di una vera accoglienza. Modello dialogico e modello atomistico a confronto Il filosofo, teologo e pedagogista Martin Buber, nella sua opera più celebre, Il principio dialogico, ha scritto: “Quando si dice tu, si dice l’insieme della coppia io-tu”. Le ragioni essenziali della relazione stanno in queste parole. Non possiamo pensare al tu senza pensare che vi sia un io che si sta relazionando a esso. Non esiste prima l’io che in un secondo momento entra nel mondo relazionale, ma fin dall’inizio la relazione costitutiva di ciascun essere umano si fonda all’interno di un rapporto dialogico. Lo psicoterapeuta Giovanni Ariano parla di consustanzialità dell’io-tu per intendere la natura dialogica dell’essere umano. La portata di questo assunto è rilevante se si pensa che gran parte delle scienze umane affrontano il problema della relazione come conseguenza dell’esistenza delle singole identità. Freud ipotizzò l’esistenza di una fase “autistica” che verrebbe superata dalla necessità di interagire con il mondo esterno per soddisfare la pulsione: prima l’io, dunque, e solo in seguito il suo rapporto con il mondo. È il punto di vista di tutti i model-
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li atomistici: ci sono prima i singoli elementi, gli individui, che vengono a tessere vincoli con altre identità entrando in relazione con esse. Seguendo questo modo di intendere la natura della relazione, ciascun individuo è fatto in un certo modo e quel suo modo di essere condiziona ciò che accade quando entra in contatto con altri individui. Si può dire allora, ad esempio, che un bambino ha la caratteristica di essere “testardo”, “disubbidiente”, “altruista” o “egoista”, come se ciascuna di queste sue caratteristiche facesse parte del suo corredo personale. Nella concezione dialogica, invece, l’identità nasce all’interno delle relazioni e il modo di essere di ciascuno è determinato dalle relazioni interpersonali di cui farà esperienza. Secondo questo modo di impostare la questione si è “testardi”, “disubbidienti”, “altruisti” in conseguenza delle esperienze relazionali che contribuiscono a plasmare il nostro modo di essere. Con ciò non si vuole togliere valore al contributo del corredo genetico nella determinazione di ciò che saremo, né tantomeno disconoscere l’esistenza di tratti specifici e caratteristici evidenziati da ciascun individuo, ma solo rimarcare che il corredo biologico che possediamo è un substrato necessario ma non sufficiente per diventare persone. Esso fornisce l’intelligenza e le funzioni fondamentali per interagire con il mondo, ma non è ciò che ci rende una persona compiuta, né più e né meno di quanto il software di un robot perfettamente assemblato possa dotare quella macchina di personalità. Diventiamo persone perché siamo inseriti in contesti umani capaci di dare valore al nostro modo di essere. Per diventare uomini dobbiamo esprimere quel che di caratteristico possiede l’essere umano, e cioè la capacità di realizzare attraverso un libero esercizio della volontà se stessi e determinare la direzione del proprio progetto di vita – un attributo che mai e poi mai potremmo riconoscere a una macchina. Delle infinite potenzialità che possediamo nel momento in cui veniamo al mondo solo alcune prenderanno forma e diventeranno ciò che specificamente saremo. Sarà la nostra
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storia personale a determinare le sorti di quel corredo iniziale che ci caratterizza, e in questa vicenda storica giocheranno un ruolo essenziale le esperienze umane che avremo modo di fare. Diventiamo persone, infatti, all’interno di relazioni fondanti e significative, attraverso esperienze che contribuiscono alla costituzione del nostro modo di essere. Ma cosa vuol specificamente dire essere in relazione? E quali sono le caratteristiche peculiari della relazione tra esseri umani? Per comprendere il modo in cui le persone entrano in contatto e si influenzano reciprocamente non possiamo che osservare le caratteristiche della persona in quanto elemento primo della relazione interpersonale; in questo senso, però, tornare alla persona non significa abbracciare l’ottica atomistica ma, al contrario, dimostrare, attraverso esempi e riflessioni, come i tratti che caratterizzano ciascuno di noi affondino la loro radice nel mondo delle relazioni interpersonali e nei contesti di riferimento. Conoscenza personale Il problema della conoscenza della persona è stato affrontato in diversi modi. Il modo più fuorviante, e tuttavia il più diffuso nella società occidentale, è quello di pensare all’altro utilizzando le stesse modalità che si utilizzano per conoscere un qualsiasi oggetto del mondo. Le persone, secondo questo modo di intendere, si conoscono allo stesso modo con cui si conoscono i sassi, le piante, gli animali, gli astri e ogni altro oggetto della realtà. Allora potremo individuare alcune funzioni elementari: percezione, memoria, capacità logica, ecc. e decidere che esse sono i mattoni su cui si fonda l’intero edificio della mente; scendendo verso il basso della scala della complessità, poi, ci occuperemo della fisiologia del cervello, della biochimica dei neurotrasmettitori, del funzionamento dei neuroni cercando
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di spiegare, attraverso le scoperte e le osservazioni svolte, la complessità della mente umana. Ma possiamo dire di conoscere una persona dopo aver descritto dettagliatamente il modo in cui funziona ciascuno di questi elementi? Certamente conosceremo alcuni suoi comportamenti e funzionamenti, ma non sapremo niente del suo modo di essere e di orientarsi nel mondo. Comprendere come funziona la memoria di una persona, la sua intelligenza, la sua reattività emozionale non dice nulla del modo in cui ama, spera, soffre, gioisce, in sostanza del modo in cui vive e fa esperienza della vita. La conoscenza di questi aspetti implica un processo di osservazione partecipante nel corso del quale avvengono numerose reciproche interazioni, poiché per conoscere una persona nella sua totalità dobbiamo essere disposti al dialogo e all’ascolto. La persona può essere conosciuta solo attraverso un’esperienza di reciprocità, di mutuo scambio. In altre parole è possibile conoscere una persona frequentandola, così come un libro lo si conosce leggendolo e non osservando la copertina o studiando la composizione chimica dell’inchiostro con cui è stato stampato. Quando facciamo esperienza degli oggetti della natura ci capita anche di sperimentare uno scambio che a volte raggiunge intensità notevoli. Quel fiore che osserviamo in tutta la sua esplosione di colori e di odori colpisce la nostra mente e il nostro cuore e ci porta ad afferrarlo attraverso i versi della poesia piuttosto che attraverso la fredda descrizione del botanico; il fiore non ci parla di sé se non per quello che è, ovvero un ente privo di coscienza e di personalità. Il fiore non può raccontarsi a noi, ma può solo essere catturato e vivificato dal nostro sguardo. Le persone hanno un altro destino. Possono essere conosciute per la storia che raccontano, per il modo in cui si rapportano al mondo e alla vita, per i significati che esprimono anche con i gesti più elementari. Guardando la fotografia di una persona riceviamo alcune impressioni, ma mai e poi mai diremo di averla conosciuta. Per conoscere un essere umano dobbiamo comunicare, farne esperienza, viverlo come presenza.
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Eppure facciamo esperienza quotidiana di individui che vivono insieme senza aver imparato a conoscersi. Quante coppie dopo anni di matrimonio si ritrovano a essere stranieri sotto lo stesso tetto. Non hanno forse dedicato tempo a comunicare? Non hanno passato tempo a discutere, sognare, costruire? Non tentano, attraverso i litigi, di ricostituire un filo di intesa che è andato perduto? Il problema è tanto evidente quanto grave: si può comunicare senza incontrarsi e conoscersi e anzi, attraverso il dialogo, possiamo occultare il nostro essere. Per conoscere l’altro lo dobbiamo prima di tutto intendere come una struttura pluristratificata, complessa, composta da una varietà di sfaccettature e soprattutto dotato di profondità, di una ulteriorità che colorisce i singoli atti individuali. In ragione di questa ulteriorità possiamo comprendere bene come il dialogo possa essere uno strumento importante per capire una persona, ma anche il modo per distanziarsene e rendere sterile ogni possibilità di incontro, come ogni volta che si parla per non dire di sé e si ascolta senza prendere in considerazione l’altro per quello che è. Perché vi sia dialogo occorre la disponibilità a guardare chi è di fronte a noi per quello che è, anche quando il suo modo di essere ci inquieta e ci pone davanti ai limiti da cui siamo soliti fuggire. Dobbiamo notare anche che il livello di conoscenza dell’altro varia a seconda della natura della relazione in cui siamo coinvolti. A seconda del tipo di legame racconteremo cose diverse a chi ci sta di fronte. Il nostro atteggiamento sarà sicuramente diverso se ci troviamo a parlare con un inquisitore sospettoso, un superiore antipatico, una moglie noiosa o una splendida amante. In ciascuno di questi specifici modi di essere offriremo parti diverse di noi stessi o le occulteremo. La conoscenza di una persona, quindi, risente profondamente del clima relazionale entro cui essa si dispiega. Le caratteristiche di un soggetto affiorano sulla base delle potenziali possibilità che l’interlocutore manifesta in termini di capacità di acco-
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glienza. Non parlerò della mia paura a chi manifesta repulsione per le persone fragili, non racconterò dei miei pensieri perversi a chi può giudicarli severamente, non manifesterò il mio sgomento a chi mi vuole vedere sempre sereno e sicuro. Ciascuno sviluppa un modo unico e personale di orientarsi nel mondo caratterizzato da risorse, competenze, ma anche limiti e meccanismi di difesa che concorrono a determinare la maniera in cui sappiamo parlare di noi stessi e ascoltare il prossimo. L’incontro di due mondi è l’incontro di due storie, di due modi di essere che renderanno possibili alcuni tipi di comprensione a scapito di altre. Pensiamo al dialogo tra una persona trincerata nella rigidità delle catogorie della logica e incapace di esperienza emotiva e una soverchiata dalla propria emotività dirompente e poco capace di mettere ordine in essa; senza un allineamento dei due diversi linguaggi la comprensione diventerà ben presto molto difficile. Chi vive di sola razionalità non sa comprendere le ragioni del cuore, e chi è dominato da emozioni incontrollate non ha la forza e la capacità di spiegarsi. È possibile però che una persona sufficientemente capace di armonizzare cuore e ragione possa capire il senso di certe azioni che sfuggono a chi sta tentando di parlare di sé, permettendo in questo caso lo sviluppo di una relazione basata sull’accoglienza e la comprensione. Affioreranno, in questo modo, parti dell’interlocutore che solitamente sono tenute ben lontane dalla superficie e dalla consapevolezza, e il dialogo diventerà conoscenza profonda. Chi ci comprende in profondità diventa non solo lettore della nostra trama esistenziale, ma anche autore di possibilità di esitere che, senza il sostegno amorevole di un interlocutore, fineremmo per continuare a negare a noi stessi. In questo senso la comprensione è un processo autoriale durante il quale gli attori coinvolti rendono vive delle caratteristiche che senza il confronto reciproco resterebbero sepolte nel buio dell’inconscio. Per questo motivo relazioni diverse creano possibilità diverse e persone diverse: possiamo scegliere di non avere a che
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fare con parti altrui che ci turbano, lasciando così inesplorate determinate possibilità. Pensiamo ad esempio a un bambino spaventato che non trova voce per le sue paure e che vive tra adulti che non sanno riconoscere questo sentimento. Si immagini quanta esperienza vitale dovrà essere nascosta, soppressa, autogestita e quanta sofferenza può comportare il fatto di non aver incontrato qualcuno che possa aiutare a dare senso alle proprie angosce interiori. Si immagini lo stesso bambino in un contesto in cui le sue paure sono accolte e possono trovare una forma gestibile. Non è difficile comprendere che il suo destino avrà ben altri auspici. Conoscersi reciprocamente è un’opera di costruzione infinita, inesauribile, nella quale ciascuno fa i conti con parti di sé. Accettare questo punto di vista significa fare propria l’idea che la conoscenza di una persona non è un fatto che sancisce in modo netto la distinzione tra oggetto conosciuto e soggetto conoscente. La relazione è un processo circolare. Occorre però prendere in considerazione anche la possibilità che l’incontro fallisca perché le richieste sono troppo onerose, troppo assordanti i gemiti che richiamano la nostra partecipazione, troppo impetuoso il vortice nel quale ci si chiede di coinvolgerci. Leggere l’altro può essere un’esperienza dolorosa e terribile al punto da indurre alla fuga e al ritiro dalla relazione stessa. La conoscenza di una persona è un atto che trasforma e rende i soggetti coinvolti nel rapporto diversi da come erano. È questo il punto che rende affascinante e inesauribile il processo di scambio tra esseri umani. Al contrario della routine in cui si cade per paura di affrontare il viaggio verso la conoscenza dell’altro, la capacità di costruire rapporti profondi diventa un’inesauribile fonte di vitalità perché permette a ciascuno di sperimentare un perenne e costruttivo cambiamento. La relazione di cura e la relazione educativa sono esempi di modi di essere insieme centrati sulla capacità di attuare trasformazioni positive e costruttive per la persona.
2. Come si conosce una persona?
La conoscenza porta luce nell’oscurità in cui siamo immersi. La gioia di poter spiegare il mondo che ci circonda sta tutta nella piacevole sensazione di riuscire a fare chiarezza dove c’erano incertezza e confusione. Conoscere è ordinare, sistemare, creare legami e relazioni tra parti che sembravano procedere ciascuna per proprio conto. È in questo modo che si procede dal mistero e dall’ignoto alla comprensione del reale. Ed è forse per questa ragione che siamo affamati di certezze e ci piace apprendere metodi, tecniche, procedimenti che offrono la sensazione di dominare un fenomeno e di afferrarne le radici profonde; per la stessa ragione ci scopriamo smarriti ogni volta che le conoscenze che possediamo non consentono di raggiungere i fini che ci eravamo prefissi e l’oggetto di osservazione sfugge alla nostra volontà ordinatrice. Ecco spiegata la difficoltà in cui ci imbattiamo quando dobbiamo affrontare la dimensione relazionale, che sembra impossibile imbrigliare negli schemi del tecnicismo poiché ha più la forma evanescente di una nuvola che quella di un tranquillizzante orologio svizzero. L’altro, dunque, sfugge al nostro desiderio di precisione, resta una fonte inesauribile di novità anche quando pensiamo di conoscerlo profondamente, è sempre avvolto da un fondo di materia oscura che non ci sarà mai permesso di penetrare fino in fondo. Eppure abbiamo bisogno di conoscere le persone che ci stanno intorno perché solo così possiamo incontrarle
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e uscire da quel guscio di solitudine nel quale siamo confinati se nessuno ci affianca nel cammino della vita. Siamo costretti a misurarci con l’incontro e con le sue insidie, con il desiderio di cercare leggi generali che permettano di fare esperienza chiara e distinta dell’altro ma condannati allo stesso tempo a sperimentare delusione e fallimento, con la costante preoccupazione di non aver compreso nulla del nostro compagno di viaggio, della persona amata, perfino di noi stessi. Ecco perché è utile studiare le modalità con cui cerchiamo di comprendere noi stessi e il prossimo e gli strumenti che possono aiutarci a comprendere ogni essere umano nella sua specificità: imparando a navigare in questo mare possiamo difenderci dalle insidie che conducono all’errore. E d’altra parte la consapevolezza che l’errore è sempre in agguato non deve condurci alla rassegnazione, alla rinuncia della ricerca di un metodo, non deve farci arrendere alla tentazione di affidare l’esperienza della relazione a un cieco spontaneismo acritico. Inizieremo il nostro viaggio con un’analisi del modo in cui cerchiamo di spiegare i fenomeni della persona. L’uomo cartesiano e la ricerca di verità assolute Ciascuno di noi ha ereditato in modo acritico, come patrimonio culturale condiviso, le modalità del proprio conoscere e pensare. Il metodo dominante negli ultimi secoli, generatore della modernità, è stato quello cartesiano, che identifica il soggetto pensante come colui capace di costruire idee chiare e distinte. Il metodo cartesiano cerca di spiegare ciò che è complesso attraverso l’analisi delle sue componenti elementari, seguendo una procedura che educa il nostro pensiero a separare, semplificare, ridimensionare; questa operazione ha permesso lo sviluppo della scienza, ha reso possibile il dominio della natura e ha avuto un enorme impatto in termini di sviluppo tecnologico e scientifico.
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Molti approcci alla persona umana, forti dei brillanti risultati ottenuti in altre branche del sapere, cercano di riprodurre la medesima metodologia per conoscere l’uomo, ma ciò che è specifico dell’essere umano resiste a questo processo di riduzione e semplificazione. La conoscenza perfetta della biochimica dei neurotrasmettitori implicati in un cervello innamorato non può dirci nulla del perché e del come quella specifica persona ama. E anche se volessimo utilizzare e generalizzare il paradigma psicoanalitico ponendo al centro della costellazione familiare la vicenda edipica, intesa come vicenda universale dello sviluppo psicologico del bambino, non potremmo sottrarci alla necessità di osservare che la vita di ogni singola famiglia e di ogni bambino è unica e irripetibile. Quando creiamo leggi generali costruiamo modelli di funzionamento assoluti e astratti, confinati fuori dalla storia e dalle vicende umane. Questi modelli, utili per comprendere in astratto il funzionamento dell’uomo, rischiano di rivelarsi inutili quando dobbiamo concretamente interagire con una persona che porta con sé la propria singolarità e la propria unicità. Consapevoli di tutto ciò, possiamo affrontare la sfida della comprensione dell’uomo rifugiandoci sotto le rassicuranti indicazioni scaturite da regole e leggi date per universali e assolute? Non sempre funziona. I nostri schemi esplicativi rivelano la propria debolezza quando vogliamo sapere cosa accade a “quella” specifica persona e cosa sia più utile fare per lei. Conosciamo in modo approfondito il funzionamento del cervello, i dettami della neuropsicologia, le scoperte della psicologia infantile, eppure quel bambino che piange sfugge al nostro sforzo di comprenderlo. Possediamo una perfetta conoscenza delle dinamiche psichiche ma non riusciamo a evitare la dolorosa esperienza dell’incomprensione e del silenzio che cala tra noi e i nostri cari. In tutti questi casi affiorano i limiti evidenti dei nostri strumenti e ci scopriamo smarriti.
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Il post-moderno e la rinuncia a modelli esplicativi L’esperienza del limite dei modelli universali ha dato vita, nell’ultimo secolo, a un movimento di pensiero che ha affidato la comprensione dell’altro alla capacità soggettiva di entrare in sintonia con il prossimo. Secondo questa concezione la possibilità di capire il nostro interlocutore non si sviluppa attraverso i processi analitici del pensiero, ma attraverso l’intuizione immediata e spontanea dell’empatia, che ci permette di calarci nei panni dell’altro e “vivere” il suo punto di vista. Avere posto l’accento sul valore dell’empatia è stato un passo significativo per la psicologia perché ha individuato la necessità di concentrarci sul modo in cui una persona vive i fatti della vita, se desideriamo conoscerla, anziché fossilizzarci sulla spiegazione dei processi che caratterizzano il suo funzionamento mentale. Si tratta di riportare, finalmente, la persona nella sua interezza al centro della vicenda relazionale. Possiamo afferrare meglio il senso di questa importante conquista se pensiamo a un esempio concreto quale può essere quello di una visita medica. L’atteggiamento del dottore nei confronti del paziente influenza l’esito della cura, ed è certo che questa sarà più efficace se il medico riuscirà a dimostrare partecipazione emotiva per la condizione di chi soffre interessandosi al suo dolore, andando oltre la semplice richiesta di notizie sul proprio stato di salute. Quanto vorremmo che i nostri medici, ma anche i nostri insegnanti fossero in grado di stabilire un legame empatico con noi? I medici e gli insegnanti “umani” sono quelli che hanno conservato una capacità di vivere il proprio mestiere prestando attenzione ai vissuti delle persone di cui si occupano. Questa è una dote, anzi la dote, che rende la relazione capace di fornire sostegno e aiuto. Forti di queste riflessioni i professionisti delle scienze umane – perlomeno alcuni di loro – hanno iniziato a interrogarsi sul proprio modo di approcciare l’altro, e a rendersi conto che il successo o l’insuccesso del loro lavoro non è solo affare di
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maggiore o minore capacità tecnico-professionale ma anche, e soprattutto, di maggiore o minore capacità di relazionarsi. L’enfasi data al valore della comprensione profonda è una conquista ineliminabile che merita di trovare più spazio di quello che attualmente ha in campo educativo e sociale. La nostra epoca è ancora intrisa di meccanicismo, predilige l’applicazione arida e impersonale di metodi e tecniche per trattare le vicende umane piuttosto che incamminarsi sulla strada della conoscenza dell’altro. Le scuole, luoghi di educazione e di crescita umana, sono diventate spazi alienanti e impersonali. Nelle loro mura convivono alunni e professori ormai del tutto incapaci di scambiarsi vissuti e di costruire relazioni. Del resto mi chiedo: come può un docente porsi seriamente il problema di conoscere i suoi trenta alunni a classe – alunni che, se vive una condizione di precariato, è costretto a cambiare ogni anno? Il risultato di questa scellerata situazione è che la scuola è divenuta un luogo in cui si trasmettono notizie, alla stregua di un telegiornale, senza preoccupazione per il cuore dei ragazzi, per l’amore, per la bellezza delle materie che si insegnano. Eppure, nonostante la grande importanza che ha nella relazione, l’empatia può produrre alcune pericolose deviazioni. La principale è la convinzione che per capire una persona sia necessario rigettare e diffidare di ogni forma di analisi e catalogazione del prossimo; se la scienza meccanicista esalta la misurazione dell’uomo uccidendone l’umanità, un certo modo di intendere l’approccio umanistico esalta l’intuizione emotiva dell’altro eliminando dal proprio orizzonte ogni elemento di riflessione e di valutazione. Capire corrisponde a “sentire”, a “emozionarsi insieme”, e la comprensione dell’altro diventa una competenza “spontanea”, una virtù dell’essere piuttosto che un processo gestibile e verificabile. Ci si inoltra così in una sorta di romanticismo ascientifico che esalta gli atti immediati a discapito della riflessione e del ragionamento scientifico.
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Eliminare il pensiero razionale, che costituisce il momento critico nel corso del quale valutiamo la liceità o l’inconcludenza dei nostri atti, porta dritto verso l’idea che tutto ciò che è spontaneo è sano, dimenticando che molte azioni spontanee sono a loro volta frutto di processi di apprendimento che si sono automatizzati e non hanno quindi il dono di essere positivi di per sé. Si può reagire spontaneamente con virtù, ma altrettanto spontaneamente con cattiveria e irresponsabilità. Cadere in questa grave degenerazione concettuale porta all’errore di considerare superfluo lo studio e il confronto e, ancor più grave, porta alla convinzione che la propria capacità di “sentire” sia portatrice di verità assolute. Dimentichiamo così che ciò che “sentiamo” può essere sbagliato, se non addirittura folle. Necessità di modelli Abbiamo la necessità di una visione della persona che non ne mortifichi la specificità: che sappia occuparsi della soggettività senza cadere in una visione romantica. Abbiamo bisogno di un modello che ci permetta di leggere le persone rispettandone la singolarità e nello stesso tempo renda possibile il confronto tra diversi osservatori. Un modello che, pur occupandosi di un ambito incerto come è appunto la relazione, possa essere comunque rigoroso nel metodo e capace di abbracciare tutta la complessità dell’oggetto di cui si occupa. Un modello che sappia cogliere l’essenza dei problemi di cui intende occuparsi e al tempo stesso fornire strumenti operativi per affrontare situazioni concrete. Accettare l’idea che sia necessario procedere per modelli è fondamentale per rendere scientifico il nostro lavoro. Significa comprendere che è impossibile procedere verso la conoscenza senza conservare e utilizzare quell’intrinseca capacità di riflettere e catalogare i fatti della vita tessendo trame esplicative che si rivelano utili e funzionali.
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Affrontare la complessità Quali saranno quindi i presupposti per la costruzione del nostro modello? Innanzitutto nasceranno dallo sforzo di individuare gli elementi che contribuiscono alla costruzione della persona umana e del suo modo di relazionarsi. Prima di addentrarci in questa avventura occorre adottare un nuovo modo di affrontare il problema, un modo che ci permetterà di sviluppare una forma mentis capace di confrontarsi con la complessità. Si deve a Edgar Morin la grande intuizione di proporre un modo di pensare non più centrato sulla parcellizzazione e sulla semplificazione ma organizzato per creare connessioni; il concetto di complessità si afferma in un’epoca storica che vede cadere il sogno di una scienza assoluta, precisa e deterministica, e assiste al sorgere delle nozioni di indeterminatezza, disordine, circolarità, mutua dipendenza tra osservatore e osservato. Ci siamo accorti, a un certo punto della nostra corsa verso la conquista della conoscenza, che per risolvere i problemi della termodinamica, della fisica quantistica, della biologia e delle scienze umane non potevamo più ricorrere a un pensiero lineare, basato su connessioni elementari di causa ed effetto, ma dovevamo portare il nostro modo di riflettere su un nuovo piano, quello delle connessioni complementari. Capire, in sostanza, che ogni nostro pensiero emerge in relazione a un altro pensiero che gli è indispensabile per diversificarsi e comporsi, e a sua volta rimanda ad altri ordini di pensiero, costituendo una rete complessa di interazioni che tutta contribuisce allo sviluppo delle nostre idee. Pensare in termini di complessità significa allenarsi a tenere vive le diverse connessioni che una “parte” ha con il “tutto” da cui affiora, e far propria la consapevolezza che il diverso modo in cui orientiamo lo sguardo per analizzare il nostro oggetto di osservazione ci darà risposte differenti, sebbene tutte costituiscano aspetti specifici di quell’oggetto. Ad esempio,
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l’essere umano è nello stesso tempo un agglomerato di cellule, un insieme di organi, un organismo biologico che lotta per la sopravvivenza, una persona dotata d’identità personale, un essere sociale, un ente capace di cultura e spiritualità. Ognuna di queste caratteristiche è oggetto di scienze particolari: biologia, fisiologia, etologia, psicologia, sociologia, scienze umane. I diversi aspetti coesistono nello stesso ente e ogni frammentazione della complessità risulta incapace di abbracciare quell’ente per quello che esso realmente è. Dobbiamo essere consapevoli, dunque, che quando parliamo della neurochimica di un’emozione non ci riferiamo a come quell’emozione viene vissuta, ma affrontiamo una medesima esperienza da una delle tante angolature possibili, e che quell’angolatura non potrà mai spiegarci come la specifica sequenza di fatti neurochimici siano in grado di produrre la gioia di osservare un paesaggio o la persona amata. Se desideriamo capire queste vicende dovremo allontanarci dall’ambito della neurochimica e parlare al nostro interlocutore per afferrare il suo modo di essere, di emozionarsi, di amare. Emergentismo Ci troviamo ad affrontare due diversi piani di un’identica realtà: non c’è dubbio che se scompare il cervello nessuna esperienza amorosa diventa possibile, ma è altrettanto vero che non basta un cervello, anche dotato di grande intelligenza, per avere garanzia che la persona sarà in grado di amare il prossimo e perfino se stessa. Per amare occorre un codice simbolico che può emergere solo dalla propria storia personale, dall’avere sperimentato il sentimento dell’amore e dall’avere imparato a padroneggiare le sue regole e le sue leggi. Per amare non basta un cervello, ma occorre una mente capace di amore. La mente umana è una proprietà emergente della materia, pur essendo da questa determinata. La teoria dell’emergenti-
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smo ci ricorda che dall’assemblaggio di elementi primi emergono proprietà nuove e impreviste che non appartengono a nessuno dei costituenti di base. Non c’è nessuna evidenza che ci faccia pensare che la struttura delle molecole costituenti gli acidi nucleici avrebbe dato vita a una molecola informazionale capace di riprodursi e dare luogo alla meraviglia della vita, anzi la combinazione miracolosa appare altamente improbabile. Non c’è nessuna evidenza che dalla materia biologica possa nascere la mente, ma è un fatto che a un certo punto l’uomo è riuscito a sviluppare il pensiero riflesso, ovvero la capacità di pensare se stesso e le proprie azioni, dando vita al prodigioso mondo della scienza, della tecnica e della cultura. Sulla base di queste riflessioni adotterò in questo lavoro un’ottica emergentistica, che permetterà di osservare i diversi aspetti della relazione umana in base al piano di analisi che vogliamo utilizzare. Strutturalismo gerarchico Per pensare la persona attraverso un modello che metta al centro la relazione ci troviamo quindi ad adottare un’ottica nuova e originale, che sappia essere atomista e olistica allo stesso tempo. Non possiamo rinunciare a nessuna delle due componenti senza ricadere nuovamente nel riduzionismo o in un fumoso romanticismo irrazionale. Se è vero che servono un’ottica circolare e un pensiero della complessità, è vero anche che non possiamo sottrarci alla necessità di utilizzare i principi della logica e della causalità per creare quelle connessioni che ci occorrono per spiegare i fenomeni. Dobbiamo ricorrere a semplificazioni e distinzioni per poter comprendere ciò che osserviamo, perché quando tutto è indistinto sperimentiamo un senso di caos e di confusione. Allo stesso tempo dobbiamo tenere costantemente presente che le parti che abbiamo isolato dal tutto da cui emergono sono parti di quel tutto e di
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una catena di totalità sempre più complesse. Integrare causalità lineare e causalità circolare potrebbe apparire un’operazione bizzarra, ma dimostreremo che non solo la cosa è possibile, ma diventa feconda per la comprensione dei fenomeni umani. Occorre però fare una premessa importante che spieghi il modo in cui creiamo connessioni per spiegare il mondo. Parte, tutto, formula strutturale Ogni parola, ogni concetto, ogni configurazione del mondo sono frutto di un’attività organizzatrice che mette insieme le parti di un sistema. Ogni singolo elemento si trova a essere nello stesso tempo la parte di un tutto e il tutto di una parte. Prendiamo, ad esempio, la diade padre-figlio: osserviamo che essa è composta da due singole parti, il padre e il figlio, che entrano in relazione tra di loro, ma anche che questa diade è parte di un tutto più ampio che è rappresentato dal triangolo genitoriale (madre-padre-figlio) che a sua volta è inserito in un’unità familiare (famiglia) a sua volta parte di un contesto socio-culturale (quartiere, paese, nazione). È evidente, quindi, che possiamo analizzare il rapporto padre-figlio su più livelli. Immaginiamo allora una situazione in cui un padre nega alla figlia il permesso di andare in pizzeria con gli amici; il rifiuto può essere spiegato come: • una convinzione del padre che considera sbagliata tale richiesta (è il padre a essere osservato); • la conseguenza di una richiesta della figlia che non tiene conto della realtà familiare in cui vive – pensiamo ad esempio alla famiglia che non ha la possibilità economica per esaudire questo desiderio (è la figlia a essere osservata); • una reazione di rabbia e incomprensione in conseguenza della natura del rapporto conflittuale padre-figlia – la comunicazione è strutturata in maniera tale che ad ogni richiesta corrisponde un no (è la diade padre-figlia a essere osservata);
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• un’accondiscendenza alla volontà della moglie che non ha piacere che la figlia esca – è il caso del padre che non riesce a contestare la volontà della moglie (è la triade a essere osservata); • l’adesione a una regola familiare per la quale i figli non sono mai usciti la sera – a nessun membro della famiglia è mai saltato in testa di andare in pizzeria (è la famiglia a essere osservata); • l’adesione a uno schema culturale che ritiene disdicevole che le ragazzine escano la sera (è il contesto socio-culturale a essere osservato). Quali di queste spiegazioni è quella giusta? Tutte lo sono allo stesso modo. Le diverse spiegazioni derivano dal diverso modo in cui abbiamo organizzato gli elementi e il loro rapporto con la totalità considerata. Livelli logici Pensare che un oggetto del mondo possa essere osservato e compreso in modo differente in base all’angolatura adottata può suonare strano, ma in realtà molte nostre conoscenze procedono e si sviluppano proprio in questo modo. Pensiamo ai colori che, analizzati nel dettaglio, diventano un’amorfa e scolorita sequenza di onde di diversa frequenza; non possiamo negare l’esistenza dei diversi colori, così come non possiamo fare a meno di prendere atto che essi scompaiono dal nostro orizzonte non appena ne indaghiamo la struttura profonda e scopriamo che essi sono solo frequenze differenti di onde luminose. Ciò che vediamo dipenderà dal livello logico entro cui scegliamo di sviluppare la nostra osservazione. Prendere in considerazione le classi logiche significa comprendere che man mano che procediamo verso la complessità incontriamo un livello di organizzazione sempre più complesso che inglo-
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ba i livelli precedenti trasformandoli in parti che, nel nuovo livello di organizzazione, possono assumere una funzione e un significato diverso da quelli espressi allo stadio precedente. Anche in campo psicologico possiamo guardare l’oggetto della nostra attenzione, la persona, partendo da diversi livelli logici; utilizzare i livelli logici nell’approccio alla persona significa definire di volta in volta da quale angolatura stiamo osservando un fenomeno: all’interno di quello specifico punto di vista dobbiamo restare ancorati alle regole del principio di non contraddizione e causalità lineare, ma dobbiamo essere pronti a modificare il nostro livello di comprensione se passiamo a un diverso livello di realtà. Fare ricorso al concetto di livelli logici è dunque di grande utilità per poter comprendere i fenomeni complessi, che non saranno più divisi e segmentati in frammenti elementari, ma potranno essere indagati secondo una modalità che divide e unisce allo stesso tempo. In questo modo è possibile studiare i neurotrasmettitori implicati nella relazione amorosa senza confondere questo livello di realtà con il fenomeno dell’amore. Ci poniamo quindi in una posizione antiriduzionista che non rinuncia a focalizzare l’attenzione sui singoli aspetti della realtà: se è vero, infatti, che esiste una totalità che dà senso alla parte, è anche vero che non possiamo comprendere il tutto senza fare i conti con le singole parti che lo compongono. Parte e tutto sono aspetti inscindibili della realtà, e la difficoltà di concettualizzare la compresenza di questi due aspetti ha portato la scienza a imboccare un direzione di semplificazione procedurale che si è rivelata feconda per la comprensione dei fenomeni meccanici ma infruttuosa per la comprensione dei fenomeni complessi. Un esempio ci può aiutare: una donna maltrattata colpisce sempre le nostre coscienze perché ci mette di fronte all’abbrutimento e alla perdita di dignità umana cui si può incorrere se si incontra un uomo violento nella propria vita. Questa realtà di fatto può risultare di ostacolo al processo di sostegno psi-
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cologico che occorre rivolgere a persone che vivono questa triste condizione. Il pregiudizio che porta a parteggiare per chi vive il ruolo di vittima ci impedisce di comprendere che essere vittima è, in talune circostanze, un ruolo che si sceglie in ragione di dinamiche psico-patologiche inconsce. Se osserviamo la dinamica di coppia, spostando quindi il nostro fuoco sulla diade marito-moglie, potremmo allora scoprire che la violenza subita viene in realtà alimentata da comportamenti che la stessa vittima utilizza per attivare l’ira del compagno. Questa osservazione ci potrà essere di grande utilità per comprendere le ragioni per cui la donna che vorremmo pietosamente aiutare resiste a ogni nostra sollecitazione tesa a preservarla dall’aggressività dell’uomo. In casi estremi potremmo perfino scoprire che la violenza subita è l’atto estremo di una sequenza di angherie psicologiche poste in essere dalla donna stessa. Tutto questo, ovviamente, non dovrà portare a giustificare le azioni violente del marito, ma a comprendere il fenomeno in una dimensione più complessa di come appare a un primo livello. Se facciamo riferimento al livello logico individuale la donna ci appare vittima di un uomo brutale; se invece facciamo riferimento a un livello logico diadico essa ci appare vittima di se stessa e dei meccanismi psico-patologici della coppia. Quale dei due livelli è quello vero? Entrambe le osservazioni sono vere e fondate, ma la seconda ci fornisce più elementi operativi per decidere come aiutarla. Sappiamo adesso che non basterà un lavoro di sostegno emozionale, come capita in tante altre situazioni simili, per ottenere il risultato di un affrancamento dalla condizione di violenza subita. Occorrerà un lavoro più complesso, che porti la donna a prendere atto dei meccanismi che pone in essere per diventare vittima, incorrendo magari nelle sue ire per la resistenza ad accettare un simile punto di vista. Affrontare una realtà in cui coesistono più verità fa sperimentare un senso di smarrimento dal quale vorremmo rapidamente fuggire. È forse per questo che generalmente tendiamo
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a ridurre e semplificare. Possiamo però superare lo smarrimento iniziale costruendo un modello operativo che sappia navigare in questa pluralità di verità scegliendo di volta in volta l’angolatura che è più utile allo sviluppo e alla crescita della persona e trovando connessioni inusitate tra approcci apparentemente distanti. È questo lo sforzo che dobbiamo compiere andando avanti.
3. Com’è costituita una persona?
Elemento primo di una relazione è la persona. Parlare di persona e non di individuo vuol dire salvaguardare le peculiarità dell’essere umano in quanto sostanza capace di agire secondo libertà e responsabilità, di relazionarsi con se stesso e con il mondo. Superando il concetto di individuo salviamo il valore della relazione con gli altri: si diventa persona se si è riconosciuti e trattati come tali, insomma. E allora, nell’incamminarci nel processo di descrizione e di analisi della persona, non possiamo dimenticare che tutto ciò che descriviamo ha origine, si sviluppa e opera sempre all’interno, anzi proprio in virtù delle relazioni. Parlare di persona significa anche parlare di un soggetto pluristratificato nel quale coesistono diversi livelli (biologico, psicologico, sociologico, ecc.) che insieme concorrono alla costituzione della sua identità e del suo modo peculiare e personale di relazionarsi ed essere nel mondo. Consapevoli di ciò analizziamo in che modo questi diversi elementi concorrono a costituire quella fonte di meraviglia rappresentata dall’uomo pensante e consapevole. Lo stadio pre-riflessivo La persona agisce spesso sulla scorta di automatismi. Questi sono frutto sia del substrato biologico dell’individuo che della sua storia personale. È ben noto che, fin dai primi giorni
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Solo la comprensione di ciò che è stato e di ciò che è ci permetterà di costruire ciò che sarà; con questa convinzione la collana “Olos” ci conduce attraverso le molteplici possibilità di un futuro migliore, con occhio sempre attento a cogliere il tutto, l’integrazione e la connessione tra le parti, per guardare il mondo in modo sistemico e globale. In una parola, olistico.
Sapersi relazionare non è una dote innata. Imparare a stare con gli altri, comprenderli, accoglierli, ma anche fare esperienza di essere compresi e accolti sono abilità che possono essere apprese e migliorate attraverso l’acquisizione dei fondamenti della relazione. Questo lavoro indaga il tema dell’incontro con l’altro, illustrando le modalità più efficaci per conoscersi profondamente.
Gino Aldi, Medico-Chirurgo, si laurea presso l’Università degli studi di Napoli Federico II nel 1990. Si specializza in psicoterapia presso la SIPI (Società Italiana di Psicoterapia Integrata). Dal 1991 svolge l’attività di psicoterapeuta dell’individuo, della coppia e della famiglia. Ha fondato Zetesis, una cooperativa sociale che promuove la ricerca e interventi in ambito educativo e di prevenzione del disagio psicologico. Da dieci anni svolge attività di formazione per insegnanti e genitori. Ha scritto Riscoprire l’autorità (Edizioni Enea).
ISBN 978-88-6773-009-4 EDIZIONI
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www.edizionienea.it