Parte I
Che cos’è l’energia quali sono le sue fonti
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Capitolo 1
Il concetto di energia e di fonte energetica E = mc2 Questa è la relazione di Einstein, che collega energia con materia. Entrambi i fattori sono "due facce della stessa medaglia" di un sistema fisico. Da questa semplice equazione si evince che la massa (m) può essere trasformata in energia (E) e viceversa. Nella formula, "c" rappresenta la velocità della luce nel vuoto, pari a 300.000 chilometri al secondo. A causa del suo elevato valore, si deduce che per ottenere quantità enormi di energia è sufficiente convertire quantità di materia minuscole. 3
L'energia è retta da due leggi fondamentali: la prima, chiamata "Legge della conservazione" (o Primo principio della termodinamica), afferma: «L'energia non può essere creata o distrutta, ma solo trasformata». Il Secondo principio afferma invece: «In ogni trasformazione energetica si passa da una energia superiore a una inferiore e quest'ultima è il calore». I due principi della termodinamica regolano il comportamento delle fonti energetiche, misurando le quali è possibile prevedere quanto lavoro un sistema è in grado di compiere. Soltanto una piccola parte dell'energia solare irraggiata arriva sulla Terra ma essa è stata più che sufficiente a dare vita e a mantenere in vita il nostro mondo. Da un punto di vista pratico si preferisce però considerare come "fonti di energia" quelle che possono generarla essendo direttamente e immediatamente 4
sfruttabili. Per questa ragione, vengono chiamate "fonti primarie" quelle reperibili direttamente in natura, mentre si parla di ÂŤfonti secondarie" per quelle trasformate dalle primarie per usi diffusi come l'elettricitĂ . Le fonti energetiche oggi conosciute e utilizzate vengono suddivise in due grandi famiglie: le energie rinnovabili e quelle non rinnovabili. Si parla molto delle prime (in termini quasi sempre entusiastici e positivi), anche se esse incidono ancora poco sui consumi attuali e sul futuro a noi vicino. Si parla meno delle seconde, e quasi sempre in termini accusatori e negativi, che invece oggi costituiscono circa il 90% dei consumi mondiali. Le energie rinnovabili sono almeno sei: quella di fonte idrica, quella di fonte eolica (il vento), l'energia derivante dal calore e/o dalla luce del Sole, l'energia da biomasse 5
(vegetali o animali), l'energia derivante dal trattamento dei rifiuti e la fonte geotermica. Una delle fonti energetiche rinnovabili piÚ antiche, anzi la piÚ antica e utilizzata in larga scala fino al Diciottesimo secolo, è stata il legno che, nel passato, costituiva una categoria a sÊ stante. Oggi il legno (che ancora si utilizza) si può far rientrare nella famiglia delle biomasse. Anche l'energia eolica era ben conosciuta dagli antichi. La vela nasce appunto per utilizzare la forza del vento e per traghettare da una sponda all'altra navi, battelli e barche. Pure i mulini a vento appartengono alla "famiglia eolica"; alcune vestigia di questi le possiamo ancora osservare in Olanda o in alcune isole greche, a dimostrazione del grande uso fatto di questa energia nei secoli passati. 6
Una fonte rinnovabile mai entrata nelle statistiche mondiali, eppure per alcuni Paesi importante, è lo sterco animale. Ancora oggi centinaia di migliaia di nomadi dell'Afghanistan, del Kazakistan, del Turkmenistan, dell'Iran orientale, del bacino del Tarim in Cina utilizzano lo sterco di cammello come unica fonte di calore. I territori nei quali vivono questi nomadi non hanno altra fonte di energia, neanche quella derivante dal legno. Il deserto non offre altre opportunità e così i Kouchi, una delle tribù più numerose del Nord dell' Afghanistan, non solo utilizzano ma commercializzano lo sterco seccato e ridotto a tavolette del peso di 200 grammi l'una. Di un'altra energia rinnovabile non si fa menzione nelle statistiche ufficiali pur essendo presente in ogni dove: l'energia umana. L'uomo è una fonte di energia notevole. Lo era molto di più in passato, quando non c’erano mezzi di trasporto, macchine di sollevamento, impianti di 7
trasformazione e robot. Tutto il lavoro prodotto derivava allora da energia umana. Purtroppo per ora nel panorama delle energie manca e mancherà ancora per molto tempo l'energia intellettuale, così come non è mai stata presa in debita considerazione l'energia animale ancora diffusamente usata nel mondo (si pensi ai dromedari che tirano l'aratro in Egitto e nel resto dell'Africa, degli elefanti che spostano tronchi nel continente indiano, i cani esquimesi che trainano le slitte in Groenlandia, i cammelli che attraversano in carovana il deserto del Tarim). Rimaniamo per ora alle classiche sei fonti citate. Le fonti energetiche primarie rinnovabili sono quelle per le quali non dovrebbe esistere la condizione di esaurimento. Mentre è certo che il petrolio sulla faccia della Terra esiste in quantità finita (con tutte le difficoltà e le incertezze per determinarla) e che, se si dovesse 8
continuare nel tempo a utilizzarla con l'intensità attuale, prima o poi si esaurirà (e lo stesso discorso vale per il gas naturale, per il carbone e per l'uranio), esistono invece fonti energetiche che si possono considerare rinnovabili perché ci sono condizioni grazie alle quali, una volta utilizzate, si rigenerano. Si pensi all'acqua e al suo ciclo. L'acqua cade dal cielo grazie alla condensazione dell'umidità presente nell'atmosfera e, attraverso fiumi e canali, raggiunge il mare e i laghi o viene assorbita dalle piante e da qui, per evaporazione, ritorna in atmosfera. Anche se viene consumata per uso alimentare, agricolo, domestico, industriale, l'acqua ritorna in circolo, a differenza del carbone che, una volta utilizzato (e cioè bruciato), oltre che calore ed energia, produce sostanze gassose (quasi tutte dannose alla salute) che non ricostituiscono la materia prima originaria e cioè il carbone stesso. 9
Le fonti energetiche rinnovabili, si è detto, sono sei (non tenendo conto dell'energia umana e di quella animale). Il mondo ha a disposizione pertanto molte alternative e non sarà necessario attendere la fine del petrolio o del gas naturale per ricorrervi. Il processo sostitutivo è già in atto.
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Capitolo 2
Panorama mondiale delle fonti energetiche Le fonti energetiche di cui l'umanitĂ dispone sono attualmente dieci. Esse, come giĂ detto, si suddividono in “non rinnovabili" e "rinnovabili". Le prime hanno dominato negli ultimi due secoli nei consumi (e nei fabbisogni) mondiali. La loro incidenza sul totale di produzione energetica mondiale è sempre stata al di sopra del 90% e tale sarĂ ancora nel corso del presente secolo. La caratteristica delle fonti non rinnovabili sta nel termine stesso utilizzato per classificarle. Esse non si rinnovano o si rigenerano in periodi epocali di tale portata da non essere sufficienti a coprirne il consumo 11
contingente. Le fonti non rinnovabili sono quattro e precisamente: il carbone, il petrolio, il gas naturale e il nucleare. In questo elenco esse sono state riportate secondo l'ordine temporale di utilizzo. Il carbone ha dominato per tutto il Diciannovesimo secolo fino alla metà del Ventesimo; il petrolio ha dominato nello scenario mondiale a partire dalla metà del secolo Ventesimo e continuerà il suo dominio fino alla metà circa del secolo Ventunesimo, per poi lasciare probabilmente lo scettro di prima fonte energetica al gas naturale. L'energia nucleare, che a metà del Novecento sembrava essere la futura fonte dominante, non è invece decollata. La sua presenza nel panorama delle fonti energetiche mondiali è sempre rimasta modesta e tale rimarrà nei decenni futuri (come nucleare da fissione, perché nei prossimi cinquant'anni il nucleare da fusione potrebbe essere la nuova fonte dominante). 12
Quando una fonte energetica domina sulle altre (in assoluto e in percentuale) essa determina un'era. C'è stata pertanto l'era del carbone, siamo nell'era del petrolio, ci stiamo avviando (probabilmente) verso l'era del gas naturale. Quanto all'era delle fonti rinnovabili (tanto attesa da molti e tanto citata dai media), si dovrà attendere il secolo Ventiduesimo. La Tabella 2 offre il panorama aggiornato al 2012 delle suddette fonti energetiche. I dati sono espressi in percentuale sul totale della produzione (e del consumo) energetica mondiale, per facilitare al lettore la comprensione del quadro di riferimento. Per calcolare l'incidenza percentuale sul totale della produzione e del consumo mondiale, che in prima approssimazione coincidono, si sono dovute omogeneizzare le quantità prodotte e consumate dalle singole fonti energetiche in un'unica unità di misura, attraverso coefficienti di conversione talvolta approssimativi (Tab. 1). Per esempio: 13
la produzione di petrolio viene misurata in barili/giorno; la produzione di gas naturale in metri cubi all'anno, l'energia nucleare in megawattora. L'unità di misura scelta, per convenzione, è la tonnellata equivalente di petrolio (Tep), tenendo conto che siamo nell'era del petrolio. Produzione e consumi energetici mondiali in % COEFFICIENTI DI CONVERSIONE ENERGETICA
TAB. 2 TAB. 1
1 barile = 159 litri circa 1 barile di petrolio = 0,137 tonnellate circa 1 barile/giorno = 50 tonnellate circa all'anno 1 Tep = 1.220 metri cubi circa di gas naturale 1 Tep =1,42 tonnellate di carbone circa 1 Tep = 4,4 megawattora (Mwh) 1 Mwh = 3.600.000 Kjoule 1 Kcaloria = 4,2 Kjoule K kilo = mille; M mega = milione; G giga = miliardo
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Fonte energetica Carbone PetroIio Gas naturale NucIeare Fonti non rinnov. Fonti rinnovabili Totale Tot (milioni di Tep)
Anno 2000 25,2 38,5 23,2 6,2 93,1 6,9 100 9.400
Anno 2012 28,6 33,6 24,8 5,2 91,2 8,8 100 12.100
Anno 2030 28 ± 2 27 ± 2 30 ± 2 4±I 89 ± 2 11 ± 2 100 16.000
• nell'anno 2012 il petrolio è ancora la fonte energetica dominante (33,6% sul totale mondiale), seguito dal carbone (28,6%) e dal gas naturale (24,8%); • rispetto al 2000 il petrolio ha ridotto la sua percentuale sul totale mondiale dal 38,5 al 33,6%. Nel 2030 la sua incidenza percentuale scenderà ulteriormente al 27% (con tolleranza ±2%); 15
• gas naturale e carbone hanno tassi di sviluppo notevoli ed è altamente probabile che nel 2030 supereranno in percentuale e in assoluto il petrolio; • le energie non rinnovabili nel 2012 incidono per oltre il 90% della produzione (e del consumo mondiale). Nel 2030 potrebbero andare, per la prima volta da due secoli, sotto tale valore ma per poco (89%); • le fonti rinnovabili hanno ancora una incidenza modesta sul totale del consumo mondiale energetico (6,9% nel 2000 e 8,8% nel 2012). Per esse è previsto un balzo considerevole nel 2030, ma rimarranno ancora marginali nella produzione. (e nei consumi) di energia, pur salendo all'11 % (con tolleranza ±2) del totale. L'era delle fonti rinnovabili è pertanto da rimandare, malgrado le aspettative, al Ventiduesimo secolo; • a fronte di un aumento del 29% di produzione (o consumo) in valore assoluto dai 9.400 milioni di Tep del 16
2000 ai 12.100 milioni di Tep nel 2012, è probabile un ulteriore aumento del 32% dal 2012 al 2030. A tale data la produzione (o il consumo) mondiale raggiungerà i 16 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio.
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Capitolo 3
Energia e ambiente «È solo da poco tempo che l'uomo ha cominciato a occuparsi delle conseguenze che le proprie attività possono avere sull'ambiente.» Al momento di questa dichiarazione si era nel 1971, e chi lo affermava erano gli studiosi che avevano compilato il testo intitolato I limiti dello sviluppo, membri del System Dynamics Group del Massachusetts Institute. Il clima e l'ambiente non sono stati studiati scientificamente per secoli. Per contro c'è la tradizione orale e scritta che, con tutte le probabili deformazioni, ha lasciato traccia nella memoria umana soprattutto di eventi catastrofici che lo hanno localmente modificato, quali il Diluvio biblico (vedi Genesi 7, 11-12: «In quel 18
giorno tutte le fonti del grande abisso scoppiarono e le cateratte dal cielo si aprirono e piovve sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti»); la distruzione di Sodoma e Gomorra (vedi Genesi 19, 27-28: «Abramo guardò verso Sodoma e vide un fumo che si levava dalla terra come il fumo di una fornace»); le dieci piaghe d'Egitto (vedi Settima piaga, Esodo 9, 23-24: «E il fuoco cadde saettando sulla terra e ci fu grandine e fu così forte quale non ce n'era stata in tutto il paese d'Egitto»). Per un vero interesse scientifico bisogna aspettare il 1972. A Stoccolma, in quell'anno, si svolse la prima di una serie di conferenze internazionali sotto l'egida dell'Onu per definire obiettivi di tutela dell'ambiente e correttivi all'uso delle fonti energetiche. Nel 1992, vent'anni dopo, a Rio de Janeiro si svolse il vertice mondiale su "Ambiente, energia e sviluppo economico", improntato al concetto di "sviluppo sostenibile" descritto in un documento detto Agenda 21, votato e accettato da 19
188 governi nazionali (ma non dagli Stati Uniti, dalla Cina e dall'India). I maggiori obiettivi definiti riguardavano: il controllo delle emissioni di gas nocivi; la conservazione delle foreste; la lotta alla desertificazione; la salvaguardia della biodiversitĂ ; l'equa distribuzione delle risorse sul pianeta, cominciando dalle fonti energetiche. Nel 1997 il tema dell'Ambiente sostenibile fu l'argomento centrale della conferenza di Kyoto, in occasione della quale i Paesi industrializzati si impegnarono a ridurre del 5% (rispetto al 1990) le emissioni di gas serra entro il 2012. Nel frattempo, nel 1988 viene creato l'Ipcc (Intergovernmental Panel for Climate Change) per studiare la relazione antropica: Energia-Ambiente. Il problema del riscaldamento della Terra sembra legato a un certo numero di gas (chiamati "gas serra") e al 20
vapore acqueo (che contribuisce al 50% del fenomeno). I gas serra sono: • in misura preponderante il monossido di carbonio (CO) e il biossido di carbonio (CO2), detto anche anidride carbonica, prodotti soprattutto dall'uso dei combustibili (70%). • gli ossidi di azoto (N20; NO; NO2), prodotti principalmente dalla reazione ossigeno-azoto nei motori termici, ma anche dalle acque degli oceani e dai terreni lavorati per l'agricoltura; • il metano prodotto nelle paludi (20%), nelle discariche (10%), dagli animali (18%), dalle risaie (15%) e dall'uso dei combustibili fossili (35%); • il piombo delle benzine, altamente cancerogeno e dannoso al sistema nervoso;
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• gli ossidi di zolfo (SOx): a contatto con l'acqua essi formano l'acido solforico e/o solforoso, entrambi dannosi al corpo, perché irritanti, e alla natura, perché corrosivi (pioggie acide). Sono, quindi, il petrolio e i suoi derivati i principali colpevoli della formazione dei gas serra: una tonnellata di petrolio produce 0,4 tonnellate di CO2. Più corretto sarebbe affermare che la fonte dell'inquinamento atmosferico è costituita prevalentemente dalle fonti fossili, in quanto anche il gas naturale e il carbone contribuiscono alla produzione di gas serra. Parte di questa produzione di gas serra, e cioè il 50% circa, viene detta "antropica", cioè causata dall'uomo; ma è corretto ricordare che esiste anche l'inquinamento naturale dovuto ai vulcani (5%), all'agricoltura (13%) e agli animali (18%). 22
In attesa di stabilire con chiarezza le vere cause dell'emissione di gas serra, non tutte imputabili direttamente all'uomo, è stata invece dimostrata la correlazione fra l'aumento della quantità di gas serra e l'aumento della temperatura terrestre nella misura di 1 °C di aumento ogni 60-70 parti per milioni (ppm) di CO2. L'atmosfera terrestre oggi ha una concentrazione di anidride carbonica pari a 390 ppm. Se la concentrazione dovesse arrivare a 450 ppm, si avrebbe un aumento della temperatura di 1,5-2 °C. Se dovesse avverarsi uno dei quaranta scenari (il peggiore) simulati dall'Ipcc con 900 ppm, si avrebbe un aumento della temperatura di 36 °C. A causa di ciò si possono immaginare, più che prevedere: lo scioglimento di parte dei ghiacci polari (con il conseguente aumento del livello dei mari e l'inondazione di Paesi costieri); lo scioglimento di parte del permafrost siberiano e canadese (con la conseguente emissione in atmosfera di metano); la desertificazione di alcune terre 23
(con la conseguente riduzione della superficie agricola e l'aumento delle carestie); una diffusa siccitĂ (con il conseguente insorgere di malattie endemiche); l'estensione degli uragani e dei cicloni (con conseguente distruzione di paesi e cittĂ ) Il protocollo di Kyoto giĂ nel 1997 aveva affrontato il problema del riscaldamento globale terrestre. Il trattato prevedeva l'obbligo in capo ai Paesi industrializzati di operare una riduzione delle emissioni di elementi inquinanti antropici (biossido di carbonio e altri cinque gas serra, ovvero metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perifluorocarburi ed esafluoruro di zolfo), in una misura non inferiore al 5% rispetto alle emissioni registrate nel 1990 - considerato come anno base - nel periodo 2008-2012. Il mondo oggi immette 6 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente ogni anno: il dato si ottiene dando a ogni gas 24
un fattore di conversione per essere omogeneizzato agli effetti dell'anidride carbonica. Di questi 6 miliardi, circa 3 provengono dai Paesi industrializzati e altri 3, circa, da quelli in via di sviluppo. L'Italia, secondo il trattato di Kyoto, avrebbe dovuto ridurre del 6,5% le sue emissioni registrate nel 1990 (ma le ha già ridotte dalle 575 milioni di tonnellate del 2005 alle 480 nel 2010), la Gran Bretagna del 12%, la Germania del 21%. Solo la Francia era esente da forme di riduzione, perché il sistema di produzione di elettricità, sostanzialmente delegato alle centrali nucleari e non alle centrali termoelettriche a carbone, petrolio e gas naturale, non produce emissioni dannose. Il problema non esiste più: Kyoto è fallito. Tuttavia ciò non autorizza a non affrontare il tema della riduzione dei gas serra con urgenza. 25
Parte II
La fonte energetica pi첫 importante oggi nel mondo: il petrolio
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Capitolo 1
Dove e come nasce Il petrolio si è formato milioni e milioni di anni fa: da 50 a 400 milioni in epoche geologiche diverse, dal Paleozoico al Mesozoico. Oggi è la fonte energetica più importante a disposizione dei consumi globali, senza la quale il mondo si fermerebbe. Il petrolio è prodotto (secondo le teorie più accreditate) dai processi di trasformazione di materiale organico costituito da sedimenti di piante e di microrganismi animali. Alcuni scienziati propongono, invece, la tesi di origine inorganica e cioè la provenienza del petrolio dal gas metano inizialmente presente nel mantello terrestre come componente primordiale, trasformatosi nel tempo, 27
grazie a reazioni chimico-fisiche, in un liquido costituito da idrocarburi superiori. Ma il fatto che la totalità dei giacimenti finora individuati sia caratterizzata da rocce sedimentarie (cioè da terreni formatisi nel fondo di bacini acquosi per l'accumularsi progressivo di sedimenti provenienti dalle terre emerse e successivamente compattati) fa propendere per la prima tesi. La formazione del petrolio proveniente da questi sedimenti si chiama "naftogenesi", e in questa fase il liquido prodotto va a occupare gli interstizi di qualunque roccia, quegli interstizi che determinano la porosità della parte solida. La porosità è il rapporto fra i vuoti e il totale della roccia nella quale essi si trovano. I normali giacimenti di petrolio hanno una porosità che varia dal 6 al 12%; ciò significa che fatto 100 il volume totale della roccia il 6-12% è occupato dal liquido. Ma il petrolio che si 28
estrae portandolo in superficie dal giacimento in cui si trova non alloggia dove si è formato. Esso è in una roccia chiamata "serbatoio", lontana talvolta centinaia di chilometri dalla roccia dove è nato, denominata "madre". Il petrolio è leggero (il suo peso specifico normalmente è inferiore a quello dell'acqua) e, trovandosi in un ambiente la cui pressione è quella idrostatica, tende a migrare verso l'alto abbandonando la roccia madre, fino ad arrivare in superficie (ci sono, eccezionalmente, vere e proprie "sorgenti di petrolio") o fermandosi laddove la roccia è impermeabile e ne impedisce la migrazione. Per questa ragione il petrolio che ha abbandonato la roccia madre rimane intrappolato e bloccato nel suo movimento. Questa trappola costituisce il giacimento della roccia serbatoio dal quale il petrolio viene estratto. Un trattato di chimica del Diciannovesimo secolo così scrive alla voce Petrolio: «Chiamato altrimenti "olio di 29
sasso", "olio di pietra" o "lucilina", è un bitume costituito da una miscela di molti idrocarburi liquidi. E più leggero dell'acqua ed è facilmente infiammabile. Quando è liquido è di colore giallognolo e dicesi "nafta". Talora è allo stato solido e prende in tal caso il nome di "catrame". Si riscontra in forma di goccioline alla superficie di molte sorgenti d'acqua. Note da tempo antichissimo sono le sorgenti di nafta nei dintorni di Baku nel Mar Caspio e di Shiraz in Persia. Esistono sorgenti petrolifere a Sassuolo nel Modenese e presso Girgenti in Sicilia». Mentre il testo Gli idrocarburi, pubblicato per conto dell'Eni Corporate University nel 2002, così definisce il petrolio: «Con il termine petrolio si intende nel suo significato anglosassone (oil) una miscela naturale di idrocarburi in fase liquida, gassosa solida (bitumi e asfalti), mentre in italiano esso assume un significato più ristretto, indicando solo la sua con ponente liquida». 30
Altre sostanze possono ritrovarsi associate al petroli e più comunemente: l'azoto (N2); lo zolfo come con ponente dell'acido solfidrico (H2S); l'ossigeno con componente dell'anidride carbonica (CO2). La conoscenza e l'uso di petrolio data da millenni Negli scavi della città di Ur, in Mesopotamia (terzo mi lennio a.C.), sono stati ritrovati edifici per la cui costruzione fu impiegato come cemento l'asfalto, così con più tardi avvenne per la costruzione delle mura di Gerico e di Babilonia. Erodoto (484-425 a.C.) cita, nel relazione dei suoi viaggi, il cattivo odore del petrolio della Persia. Nel Primo secolo d.C., Plinio ne narra virtù terapeutiche contro la cataratta, il mal di denti, tosse e anche contro la pellagra. Zarathustra (o Zoroastro), vissuto fra il 1000 e il 600 a.C. in Persia e nelle regioni dell'attuale Azerbaigian fece diventare il petrolio e il gas naturale oggetto di 31
adorazione, grazie alle manifestazioni superficiali di queste sostanze e al fuoco ottenuto quando si incendiavano. Nel VII secolo d.C. l'imperatore bizantino Eraclio dovette combattere a Baku contro i cosiddetti "adoratori del fuoco", che erano soliti prostrarsi davanti alle bocche dove il petrolio bruciava da tempo immemorabile. Anche Marco Polo, nel suo viaggio verso la Cina (1271-1275), incontra e descrive le "fontane" di petrolio. Ne Il Milione testimonia: Sulle frontiere della Georgia c'è una sorgente che butta olio in tanta abbondanza che se ne possono caricare cento navi; olio non usabile come alimento ma buono per ardere o per ungere i cammelli contro la rogna e la forfora. All'epoca bizantina (XIII secolo d.C.) si usava il petrolio con una mistura di fango (oleum incendiarium) per azioni militari di assedio. L'uso del petrolio come arma 32
incendiaria non nacque comunque con i bizantini. Già ai tempi dell'Iliade e della guerra di Troia (XIII secolo a.C.) si narra del "fuoco" lanciato contro le navi greche. Scrive Omero: «I troiani gettarono sulla nave un fuoco perenne e immediatamente si alzò sopra di essa una fiamma inestinguibile». Nell'Europa del Medioevo il petrolio fu diffusamente impiegato come medicamento e questo fu il suo utilizzo dominante per secoli, seguito nel tempo da quello come illuminante. All'inizio del Diciannovesimo secolo un farmacista di Leopoli, in Galizia, inventò una lampada per bruciarlo sotto forma di cherosene e da usare nelle gallerie delle miniere. Ciò diede impulso all'industria del petrolio e anche alla sua raffinazione. Nel 1854 il cherosene era normalmente commercializzato a Vienna, in sostituzione del puzzolente e fumoso olio di 33
balena, per illuminare le abitazioni. Si valuta che nel 1859 la produzione europea di cherosene proveniente dalla Galizia e dalla Romania sia stata di 36.000 barili. Questa notizia, se vera, riduce molto l'enfasi pubblicitaria e l'atmosfera eroica creata dagli americani circa la "scoperta" del petrolio da parte del Colonnello Drake il 27 agosto del 1859 a Titusville, in Pennsylvania.
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Capitolo 2
Produzione e riserve: oggi e domani Per arrivare a produrre una goccia (un barile, una tonnellata) di petrolio da un giacimento sotterraneo sono necessarie le seguenti operazioni in sequenza temporale: 1) ricerca geologica di superficie suddivisa nelle quattro fasi della petrografia, della sedimentologia, della stratigrafia e della tettonica e cioè del riconoscimento delle rocce, della loro formazione nel tempo, dell'alternanza dei terreni in verticale e delle forze che hanno agito e agiscono sulle suddette rocce; 2) ricerca geofisica di superficie suddivisa nelle due fasi della gravimetria e della sismica, con l'obiettivo di conoscere di massima l'andamento, lo spessore degli strati, e cioè la conoscenza del terreno attraverso le 35
misurazioni della variazione dell'accelerazione di gravitĂ esistente fra due punti, variabile con la natura della roccia (gravimetria), della trasmissione di onde sonore e vibrazioni e del tempo di attraversamento dei vari terreni (sismica); 3) perforazione del primo pozzo esplorativo con una batteria di aste munita di scalpello, che con movimento circolare produce un foro verticale entro il terreno fino all'attraversamento dello strato produttivo; rilevamento di dati geofisici in pozzo mediante il prelievo di "carote" (campioni cilindrici di roccia), con la misura della resistivitĂ , del potenziale naturale, della radioattivitĂ , della porositĂ , della permeabilitĂ della roccia e prelievo di un campione di olio (nel caso di strato produttivo); 4) nel caso di individuazione di petrolio: estensione e moltiplicazione di pozzi (fino a 100-200 per giacimento) 36
per la delimitazione dei confini e dello spessore del giacimento; 5) elaborazione dei dati per il calcolo delle potenzialità del giacimento (calcolo delle riserve) e messa a regime della produzione. Nel mondo oggi ci sono oltre 4 milioni di pozzi in attività. Ogni anno ne vengono perforati da 30.000 a 50.000 e il 40-60% di essi è produttivo. La massima profondità nel terreno raggiunta da un pozzo è di circa 10.000 metri, che sia stato perforato a terra (onshore) o a mare (offshore). In quest'ultimo caso, alla profondità del terreno si devono aggiungere fino a 3.000 metri d'acqua di profondità marina. La produzione mondiale di petrolio è di 83 milioni di barili al giorno (un barile è uguale a 159 litri).
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La produzione mondiale di petrolio dall'inizio del secolo scorso è sempre andata aumentando. A partire dalla metà del XX secolo, il suo aumento percentuale anno su anno è andato però diminuendo. Ciò è avvenuto non per carenza di petrolio ma perché questa fonte di energia viene progressivamente sostituita da altre, cioè gas naturale ed energie rinnovabili. Infatti, fatto 100 la produzione e il consumo energetico mondiale, l'incidenza percentuale della fonte petrolifera è diminuita dal 46% nel 1970 al 35% nel 2010. I maggiori produttori petroliferi sono la Russia, l'Arabia Saudita, gli Stati Uniti, l'Iran e la Cina. Sulla base delle attuali conoscenze relative ai giacimenti esistenti, del grado di estrazione del petrolio (a massimo si può arrivare con le tecniche attuali al 60% del liquido in posto), delle tecniche produttive adottate, del prezzo di mercato e del consumo attuale si può anticipare che il 38
mondo dispone di petrolio per almeno 45 anni (tempo di vita della risorsa che è andato progressivamente aumentando nell'ultimo mezzo secolo). Poiché ancora vaste aree del globo terracqueo non sono state completamente esplorate (Polo Nord e grandi profondità marine), poiché le tecniche produttive hanno ancora spazi di recupero consistenti e poiché il consumo di petrolio verso la metà del XXI secolo tenderà a diminuire, si può affermare che a di spetto delle catastrofiche e delle errate previsioni spesso riportate dai media, la risorsa petrolio sarà a disposi zione del mondo per almeno altri cento anni. Le maggiori riserve petrolifere sono presenti: in Arabia Saudita (che ha il 18% delle riserve mondiali), in Venezuela (con il 14%), in Canada (11%), in Iran (9%) e in Iraq (8%). Fra i grandi produttori: la Russia possiede il 4%, gli Stati Uniti solo l'1,6%, la Cina l'1,3%, tutta 39
l'Europa messa insieme lo 0,8%, mentre l'Opec nel suo complesso ha un peso di oltre il 70% sul totale delle riserve mondiali. Intorno al 2030, l'incidenza della fonte energetica "petrolio" si ridurrĂ rispetto al 35% attuale, intorno a valori del 27%, e a metĂ del secolo in corso tale percentuale scenderĂ ulteriormente intorno a valori del 24%. In questo lasso di tempo (2030-2050) avverrĂ un fatto facilmente prevedibile: la fine dell'era del petrolio e la nascita di una nuova era energetica. Ma quale?
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Capitolo 3
Il prezzo e i consumatori di petrolio Un personaggio molto noto mondialmente è Jerem Rifkin. Ha scritto di tutto e su tutto, sa utilizzare molto bene la più grande banca dati del mondo, Internet, e sa tradurre il sapere ivi contenuto in tesi provocatorie utilizzando le conoscenze a disposizione ma solo quelle che possono avallare le sue teorie. Per questa ragion Rifkin può essere considerato un megafono stonato cioè un diffusore ad alto volume di notizie parziali ricevute da altri e non vissute in prima persona. Rifkin non è uno scienziato ma solo un portavoce. Rifkin ha scritto di sociologia (La fine del lavoro), di fisica e di ecologia (Entropia), di informatica (L'era dell'accesso), di biotecnologia (Il secolo biotech), di 41
tecnologia (Guerre del tempo). In tutti questi trattati Rifkin si atteggi a futurologo e, come tale, cerca di anticipare i tempi sbgliando frequentemente. In Economia all'idrogeno, pubblicato negli Usa e in Italia nel 2002, la sua tesi è i seguente: «Il nostro futuro è nell'idrogeno e poiché i costi di produzione di questo gas continueranno a diminuire fin quasi ad azzerarsi, trasformandolo in una risorsa pressoché gratuita, dobbiamo pensare seriamente, fin da ora al tipo di organizzazione istituzionale per utilizzarlo». Per dare corpo alla propria tesi sull'idrogeno, Rifkin preconizza la fine del petrolio o comunque la sua sostituzione con l'idrogeno in tempi brevi come fonte primaria e più importante di energia. Nel suo testo presentato in quarta di copertina con la minacciosa frase: «Questo è il libro per capire una imminente svolte epocale che ci mette di fronte ai terribili esiti della nostra dipendenza dal petrolio», tutto è drammatico e... poco 42
affidabile, se confrontato con i dati descritti nel capitolo precedente. Un'altra previsione recente e altrettanto fallita è quella di King Hubbert e, dei suoi seguaci. King Hubbert era un geologo che lavorava presso la Shell. Nel 1956 pubblicò un saggio in cui prevedeva per gli Stati Uniti un picco di produzione in un lasso di tempo compreso fra il 1966 e il 1971, dopo il quale sarebbe seguito un declino inesorabile. La previsione si dimostrò in parte corretta. Il picco avvenne nel 1971 con una produzione statunitense di 10,6 milioni di barili al giorno, ma la caduta di produzione non fu inesorabile, dato che la produzione statunitense si è attestata da quasi vent'anni sul valore di 7-8 milioni di barili al giorno, con previsioni di una prossima considerevole ripresa. Forte del successo del suo pronostico, King Hubbert si cimentò nella determinazione del picco mondiale e la sua 43
ricerca fu un disastro, anche se accolta con grande risalto dai media. Nel 1977 annunciò che il picco mondiale sarebbe avvenuto fra il 1990 e il 2000, molto probabilmente nel 1995. Nel 1990 e negli anni seguenti non si è mai avuto nessun picco e la produzione di petrolio ha continuato inesorabilmente ad aumentare. Ciò non ha mitigato l'ingenuo entusiasmo dei seguaci di Hubbert, che continuano ancora oggi a cimentarsi alla ricerca del picco. Ecco alcune previsioni relative all'anno del picco mondiale tragicamente, inesorabilmente e macroscopicamente sbagliate, precedute dal nome del loro autore. Un noto geologo della Università di Princeton è arrivato ad affermare che il picco sarebbe stato raggiunto in occasione del giorno del Ringraziamento, il 24 novembre 2005 (senza precisare l'ora). Non essendo ciò avvenuto, in 44
un'intervista pubblicata da Il Sole 24 Ore nel 2006 si corresse affermando: «Secondo i miei calcoli il picco è già avvenuto ed è già alle nostre spalle; esso è arrivato il 16 dicembre 2005». Contemporaneamente a queste deliranti affermazioni, all'inizio di questo millennio ha preso vita una corrente di pubblicazioni dal titolo catastrofico quali: La fine del petrolio, di Ugo Bardi, La festa è finita, di Richard Heinberg e Fine corsa, di Jeremy Leggett. Sia Hubbert sia i suoi seguaci avevano e hanno un'altra profonda convinzione, riconducibile alla seguente affermazione: «Quando la produzione petrolifera raggiungerà il suo picco, i prezzi del petrolio incominceranno a crescere in maniera inarrestabile, fino a raggiungere valori inaccettabili per l'economia». In un convegno dei seguaci del picco di Hubbert tenutosi a Lisbona nel 2005, la banca canadese Cibc mandò un 45
relatore ad affermare: «Quando il petrolio salirà a 100 dollari al barile più nessuno userà le propria autovettura e presto avremo un miliardo di macchine ferme nei parcheggi; forse già nel 2008, di sicuro nel 2010». Il prezzo del petrolio ha superato da tempo i 100 dollari al barile e centinaia di milioni di macchine continuano a girare indifferentemente per le strade del mondo. Il prezzo corrente del petrolio continuerà certamente ad aumentare (negli anni Sessanta del secolo scorso era pari a 4 dollari al barile), ma non per scarsezza progressiva e permanente del bene, bensì per altre cause. Eccone alcune: • guerre che toccano direttamente i Paesi produttori di petrolio e determinano gravi carenze logistiche e di fornitura (come la crisi del Canale di Suez del 1956, la Guerra dei sei giorni fra il mondo arabo e Israele nel 1967, la guerra del Kippur del 1973; la guerra Iran-Iraq del 1979; l'occupazione del Kuwait da parte dell'Iraq nel 46
1990 e la conseguente Guerra del Golfo; il conflitto interno iracheno iniziato nel 2003 con la caduta di Saddam; la rivoluzione libica per il defenestramento di Gheddafi nel 2011); • scellerate politiche di prezzo definite dall'Opec (come nel 1973 e nel 1979), che portarono l'economia mondiale in balia di disequilibri pagati con alti tassi di inflazione (in Italia, fino al 25% negli anni Ottanta del secolo scorso); • forte azione speculativa governata dagli operatori che si muovono sul mercato dei futures, grazie anche alla temporanea debolezza del dollaro sulle altre monete; • interesse delle compagnie petrolifere private (le ex Sette Sorelle e altre) a tenere il prezzo elevato per rendere economiche le riserve fino a ieri non ritenute tali (come gli oli pesanti e le sabbie bituminose) o per ripagare ricerche molto costose in acque profonde; 47
• vari incidenti caratterizzati dalle dimensione e portate più diverse (che vanno dall'attacco alle Torri Gemelle a New York nel settembre del 2001 alla chiusura temporanea per manutenzione di un oleodotto in Alaska nell'agosto del 2006 da parte di BP all'incidente del giacimento Macondo nel Golfo del Messico nel marzo 2010).
Gennaio 2016 Nota del professore Oggi si sta combattendo una feroce guerra commerciale sul prezzo del petrolio: i grandi produttori arabi (Arabia Saudita soprattutto) che estraggono dal deserto con costi molto bassi, hanno fatto crollare il prezzo per mettere in difficoltà gli Stati Uniti, tornati recentemente grandi produttori con la nuova tecniche estrattiva del fracking. Questa tecnica di frantumazione sotterranea delle rocce libera nuovo petrolio che prima non riusciva a salire in superficie: tuttavia è molto più costosa dell’estrazione tradizionale. I produttori arabi tenendo alta la produzione hanno fatto crollare il prezzo fin sotto i 30 $/barile.
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Parte III
La fonte energetica pi첫 importante di domani: il gas naturale
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Capitolo 1
Dall’era del petrolio all’era del gas naturale I consumi energetici mondiali per tutto il XXI secolo e per buona parte del XXII saranno dominati dagli idrocarburi. Piaccia o non piaccia agli ambientalisti, per ancora cento anni almeno le fonti energetiche dominanti saranno quelle non rinnovabili. Fino a metà del XX secolo l'energia prevalente è venuta dal carbone (48% della produzione totale mondiale di energia); a partire dal 1960 inizia l'era del petrolio (che vige tuttora), con un 39% sul totale mondiale di produzione, che raggiunge il suo apice intorno agli anni Settanta del secolo scorso, con un 46%. Da quella data il consumo mondiale petrolifero comincia declinare (non in assoluto, ma in percentuale sul totale). 50
Tale declino è in corso, e continuerà inesorabilmente ma non traumaticamente nei decenni futuri. Il gas naturale, che ancora a metà del XX scorso incideva per una parte minima sul totale della produzione energetica mondiale è andato progressivamente aumentando, fino ad arrivare al 23% all'inizio dell'attuali millennio e a raggiungere il livello del 25% nel 2012. Le previsioni dei consumi mondiali nei prossimi decenni mostrano una forte capacità di resistenza (e di durata nel tempo) dell'era petrolifera. Il trend al 2030 della produzione e del consumo di petrolio evidenzia ancor un 27% come quota sul totale mondiale della produzione energetica. Ma a quella data, la fonte con un'incidenza maggiore sul totale mondiale non sarà più i petrolio, ma il gas naturale (e non le energie alternative). Si presume che il sorpasso del gas sul petrolio avverrà nel decennio 2030-2040. Il mondo entrerà così in una nuova 51
era: quella del gas naturale. Un'era energetica si caratterizza quando una delle tante energie di cui dispone l'umanità prevale sulle altre. Fino al 1700 la fonte energetica dominante nel mondo era il legno. Per tutto il 1800 e per metà del 1900 il mondo ha vissuto invece nell'era del carbone. Nel 1961-1962 l'incidenza dell'energia prodotta dal carbone sul totale del consumo mondiale e l'incidenza dell'energia prodotta dal petrolio erano pari, ognuna al 40% (il resto, il 20% era dato da altre fonti energetiche). A partire da quella data la percentuale di utilizzo della fonte energetica "petrolio" è andata aumentando, fino a raggiungere il 46% nel 1970 (con il carbone al 28%). Si era entrati cosÏ nell'era del petrolio. Da allora, continuando a dominare nel mondo energetico, il consumo di petrolio è andato ancora aumentando in valore assoluto (fino a 84 milioni di barili/giorno), ma la sua incidenza percentuale sul totale del consumo 52
energetico mondiale è andata calando. Oggi è del 34% (contro il 29% del carbone). L'umanità è, pertanto, ancora nell'era del petrolio. Come è finita l'era del legno (ma non è finito il legno e la sua utilizzazione); come è finita l'era del carbone (ma non è finito il carbone e la sua utilizzazione), c'è da chiedersi: quando finirà l'era del petrolio e che cosa succederà dopo? Esiste una diffusa opinione, avallata con insistenza dai media, che dopo l'era del petrolio (considerata una energia non rinnovabile) si aprirà l'era delle cosiddette "energie rinnovabili" e cioè: energia eolica, solare, idraulica, geotermica, da biomassa, da rifiuti. Qualche illuso si aspetta che la prossima era sia quella dell'idrogeno (il più abbondante degli elementi chimici dell'Universo), dimenticando le ragioni che renderanno ciò non praticabile per molte decine d'anni ancora: l'idrogeno in natura non esiste se non associato ad altri componenti e oggi è estremamente costoso il dissociarlo. 53
Escluso per ora, e ancora per molti anni, l'arrivo dell'idrogeno sulla scena delle fonti energetiche, rimane la domanda: che cosa ci sarà dopo l'era del petrolio? Dopo quella del petrolio, nascerà una nuova era che potrà durare 60-70 anni prima di cedere passo a una (ma quale?) delle energie rinnovabili citate: sarà l'era del gas naturale. Nel 1982, sul bollettino n. 2/XIX dell'Associazione mineraria subalpina del Politecnico di Torino, malgrado scetticismo imperante, scrivevo: «Il gas naturale sarà la risorsa naturale dominante del panorama energetico mondiale dei prossimi cento anni». A distanza di trent'anni non ho ragione di modificare quanto allora avevo affermato. Riconfermo oggi che il gas naturale sarà per molti decenni l'energia predominante. Cinquant'anni fa, tranne che negli Stati Uniti in Italia, il gas naturale era considerato una fonte energetica di serie 54
B. Quando la si trovava e se era possibile collegarla facilmente con i centri di consumo, la si utilizzava, altrimenti la si ignorava. Quando la si incontrava come gas associato al petrolio e non la si poteva utilizzare, la si bruciava (gas flaring). Ancora negli anni Settanta del secolo scorso, sorvolando di notte i deserti della penisola arabica, era facile individuare dove si trovavano i giacimenti petroliferi grazie alla presenza di gigantesche fiaccole che bruciavano il gas associato. A quell'epoca la cittĂ di Kuwait era in parte illuminata da queste fiaccole. In Nigeria purtroppo il gas associa viene tuttora bruciato. Si presume che il sorpasso del gas sul petrolio avverrĂ nel decennio 2030-2040. Il mondo entrerĂ cosĂŹ in una nuova era: quella del gas naturale.
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Capitolo 2
Gas convenzionale e non convenzionale Negli anni Cinquanta il gas naturale incideva sul totale del consumo energetico mondiale soltanto per il 10-12% e a quell'epoca pochi pensavano e credevano che sarebbe stata l'energia sostitutiva del petrolio. In Italia la messa in produzione del grande giacimento di gas a Caviaga nel Lodigiano, nel marzo del 1946, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non ebbe particolare riscontro nei media nazionali. Quando nel 1949 fu scoperto, per merito di Agip Mineraria, il giacimento di petrolio di Cortemaggiore, vicino a Piacenza, l'evento fu reclamizzato in maniera cosÏ esagerata da far sorridere a distanza di quasi sessant'anni. La messa in produzione del pozzo n° 2 del 56
campo di Cortemaggiore fu ritardata affinchÊ avvenisse sotto gli occhi di un ministro del Governo italiano: Vanoni. Mai fu detto che in realtà il giacimento era prevalentemente gassifero. Alla fine della sua vita, quando si decise di chiuderlo negli anni Novanta del secolo scorso, aveva prodotto circa 8 milioni di tonnellate di petrolio, ma contemporaneamente anche 14 miliardi di metri cubi di gas naturale, pari a 12 milioni di tonnellate di petrolio equivalente. In Europa, a quell'epoca, soltanto l'Italia credette al gas naturale (volgarmente chiamato metano) e ciò per merito di Enrico Mattei, ma anche grazie agli italiani che durante la guerra erano riusciti a far muovere gli autocarri con motori che andavano a carbonella e le automobili con gas metano raccolto nei piccoli campi del delta padano e della regione lombardo-emiliana, compresso entro bombole pesantissime e voluminose posizionate al di sopra del tetto della vettura. 57
Mattei, l'Eni e gli italiani cominciarono da allora credere al gas naturale. Sorsero i primi distributori, soprattutto nell'area lombarda, e si incominciò a costruire la fitta rete di gasdotti (la piÚ estesa in Europa) per fornire le industrie del Nord Italia. Nel 1960 l'incidenza del gas naturale sul totale della produzione e dei consumi mondiali era del 14%. Ciò era dovuto all'interesse mostrato verso questa risorsa principalmente dagli Su Uniti, anche per la loro lunga tradizione all'uso del gas naturale che già nel 1800 aveva portato ad avere la città di Fredonia illuminata dal gas naturale di un vicino giacimento. Rispetto alla produzione mondiale, gli Stati Un con il Canada incidevano per due terzi, esattamente per il 61%. Il secondo produttore era l'Urss, con un'incidenza del 18% sul totale prodotto a livello mondiale. Quinta fra i maggiori Stati produttori (a dimostrazione della sua antesignana vocazione al gas naturale) e l'Italia, che con i 58
suoi 7 miliardi di metri cubi si pone in classifica dopo la Romania e il Messico. Gli anni che vanno dal 1960 al 1970 segnano il decollo del gas naturale nel mondo. Nel 1970 incideva già per il 17% sui totale della produzione energetica globale; in questi dieci anni la sua produzione, e quindi il suo consumo, aumenta dell'80%. Nei decenni a seguire l'aumento di produzione e consumo continua, anche se con ritmi più contenuti . Oggi, il gas naturale incide per il 25% sul consumo mondiale di energia (in Italia pesa per il 36%) con il contributo per circa due terzi di dieci Stati . Il gas, comunque, procederà inesorabilmente la sua avanzata vincente, anche perché da alcuni anni c'è una grande novità. Nel passato e nel presente il gas naturale prodotto aveva e ha una doppia origine. Proveniva e proviene dagli stessi giacimenti dove si trova il petrolio, 59
entro i quali è allo stato liquido alla temperatura e alla pressione di strato. Risalendo dalla profondità del giacimento lungo i tubi del pozzo, la pressione diminuisce il gas associato al petrolio si trasforma nello stato gassoso. Poiché a "testa pozzo" si presenta un fluido bifasico (il petrolio è liquido; il gas è gassoso), il gas vien separato. Nel passato il gas separato veniva bruciato in loco, con grave danno economico, poiché non si sapeva come utilizzarlo. Oggi il gas flaring è ancora presente i molti giacimenti petroliferi (Nigeria, Gabon, Siberia Kuwait, Iran, Iraq) ma, laddove non viene bruciato viene immesso in condotte per il suo consumo o viene reintrodotto in giacimento in pressione. Una seconda origine tradizionale sono i campi interamente a gas, denominati "campi a gas non associato”. La maggior parte dei giacimenti della Pianura Padana sono di questo tipo. 60
Ma la novità ultima è il gas "non convenzionale", cioè quel gas naturale che è rimasto intrappolato nelle formazioni rocciose di scisti argillosi (lo shale gas). Gli scisti argillosi sono rocce metamorfiche sedimentarie, facilmente sfaldabili, con una porosità sufficiente a contenere fluidi allo stato gassoso che, se raggiunti da pozzi verticali, risalgono in superficie. Le maggiori presenze di shale gas sono per ora individuate in Stati Unit Canada, Cina, Australia, Medio Oriente, Nord Africa ma anche in Europa, e il loro potenziale è pari a quattro volte le attuali riserve conosciute di gas naturale. Se - secondo le conoscenze e con i consumi attuali - c'è gas naturale per almeno 65 anni, con l'aggiunta shale gas si suppone di poter arrivare fino a 95 anni. L'era del gas, in questo caso, non è solo garantita: il mondo avrà idrocarburi a disposizione per un altro secolo. 61
Capitolo 3
Trasporto e consumo di gas naturale L'importazione (o l'esportazione) di petrolio sulle grandi distanze si fa in due modi: via mare, mediante petroliere, o via terra, mediante oleodotti. Oggi il traffico internazionale di petrolio è per il 70% via mare e per il 30% via terra. Il primo trasporto di petrolio avvenne via mare. Era il 1892 e la nave Murex si mosse da Batum nel Mar Nero - dove aveva caricato il primo carico di liquido - con destinazione Bangkok. La Murex, il nome di una conchiglia, era di proprietà di Marcus Samuel, un importatore di cineserie e di conchiglie che operava a Londra. Il primo trasporto via mare fu anche la prima operazione di quella società che divenne la Shell (conchiglia). Sui mari del globo oggi operano circa 10.000 62
petroliere (per un totale di 400 milioni di tonnellate di stazza) delle quali almeno 1.000 con stazza superiore a 150.000 tonnellate. Il primo oleodotto fu posato invece nel 1863 in Pennsylvania. Collegava Oil City con Corryville, fino a Williamsport, dove il petrolio veniva caricato nei barili e trasportato per ferrovia a Philadelphia, laddove era raffinato. Inizialmente alcune tratte dell'oleodotto erano costruite con tronchi scavati all'interno. Il piÚ lungo oleodotto del mondo fu invece posato negli anni Quaranta del Novecento. Si chiamava Tapline e collegava i campi petroliferi dell'Arabia Saudita con il Mediterraneo, per una lunghezza di 1.200 chilometri circa. Univa il Golfo Persico con il Mediterraneo e precisamente il giacimento petrolifero di Ghawar con il porto libanese di Sidone e con quello israeliano di Haifa. Oggi l'oleodotto esiste ancora ma non è piÚ attivo, in 63
quanto fu fatto saltare dai palestinesi in rivolta contro il mondo occidentale che sosteneva Israele nella seconda guerra arabo-israeliana del 1967. L'oleodotto era stato pensato per sostituire il trasporto via nave, che comportava un viaggio di circa venti giorni, per una lunghezza di 6.500 chilometri. La sua portata era tale da sostituire il viaggio di sessanta petroliere ogni anno. Anche il gas una volta veniva trasportato soltanto attraverso condotte. Una condotta per il trasporto del gas oggi ha normalmente un diametro compreso fra i 30 e i 60 pollici (tra settanta centimetri e il metro e mezzo). Al suo interno il gas si trova in pressione a valori compresi fra 60 e 120 bar (1 bar = circa 1 atmosfera). PoichĂŠ nello scorrimento lungo i tubi si ha una caduta di pressione dovuta all'attrito, lungo la condotta si trovano vari impianti di compressione per garantire il flusso del gas.
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Fra i gasdotti più lunghi al mondo sono da ricordare quelli russi. Oggi la Russia è il più grande fornitore internazionale di gas naturale e rifornisce mediante gasdotti tutta l'Europa, e in particolare Germania con il 24% del suo totale di esportazione, Italia con il 15% e Turchia (13%). Seguono Austria, Francia, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia, tutte con almeno il 4% circa del totale esportato. Fra i più importanti gasdotti russi vi è quello proveniente dalla regione siberiana di Orenburg, posato alla fine degli anni Settanta. Ha un diametro di 56 pollici e una lunghezza di 2.750 chilometri. Lungo il gasdotto sono installate 22 stazioni di pompaggio, con una distanza media tra una stazione e l'altra di 120 chilometri. In questi ultimi anni, a nord di Murmansk, nel mare di Barents, la Russia ha scoperto quello che sarà il più grande giacimento europeo di gas naturale, il giacimento di Shtokman, con i suoi 3.700 miliardi di metri cubi di gas - 2% delle riserve mondiali - e con una 65
probabile produzione a regime di 40 miliardi di metri cubi all'anno (il 50% circa dei consumi dell'Italia nello stesso periodo). Il trasporto attraverso tubazioni non è sempre conveniente o possibile; talvolta viene impedito dall'attraversamento di zone geografiche insicure, dove sarebbe probabile o facile un attacco distruttivo alle condotte. In alternativa, allora, c'è il trasporto via mare con navi erroneamente ma diffusamente chiamate "metaniere", che diventa piÚ economico di quello via terra quando la distanza fra produttore e consumatore supera i 3.000 chilometri. Queste navi immagazzinano il gas allo stato liquido, denominato per questa ragione Lng (Liquefied natural gas). L'Lng si ottiene portando il gas a bassa temperatura (-163 °C) e a pressione quasi atmosferica (1,2 bar) e quindi riducendo fortemente il suo volume (in rapporto da 1 a 600). In un metro cubo di Lng normalmente si trova: metano (in una percentuale 66
compresa fra l'89 e il 97%); etano (in una percentuale compresa fra l'1,5 e l'8%); il resto è costituito da idrocarburi superiori (propano e butano). Negli anni Sessanta del Novecento le metaniere non esistevano ancora. Oggi si stima che ne esistano oltre 200, alcune delle quali trasportano fino a 130.000 metri cubi di gas, e la costruzione di nuove unità non accenna a diminuire, poiché la quota di Lng sul totale del gas trasportato tenderà ad aumentare ulteriormente. L'Agenzia internazionale per l'energia ha rilevato un utilizzo di Lng nel 2010 di 300 miliardi di metri cubi, contro 1200 attuali. Fatta 100 la quantità di gas naturale trasportata nel mondo nel 2010, il 22% era allo stato liquido - ed era quindi trasportato via mare - e il restante 78% era trasferito mediante condotte. Negli anni Sessanta del secolo scorso, come si è detto, l'Italia era il quinto produttore mondiale di gas. Da allora 67
è andata perdendo posizioni in classifica. Nel 1990 era ancora decima, ma nel 2000 era scesa al Ventesimo posto. Nel 2010 era trentaduesima. Questo arretramento è dovuto a tre ragioni: la prima, e più determinante per il declassamento, è data dalla riduzione progressiva della sua produzione. L'Italia è quasi completamente esplorata. Sicuramente si troveranno ancora piccole formazioni con la presenza di gas naturale, ma non in tale quantità da sostituire le riserve prodotte dai 102 attuali campi, 35 dei quali ubicati nell'offshore. La seconda ragione dell'arretramento dell'Italia nella classifica dei grandi produttori si può individuare nell'accorta politica governativa di non esaurire troppo rapidamente le riserve italiane (come diversamente hanno fatto gli inglesi per i loro giacimenti), per avere un minimo di scorta strategica in caso di improvvise difficoltà (come la drastica riduzione delle consegne di gas naturale all'Italia da parte della Russia nell'inverno 2005-2006). La terza 68
ragione è dovuta all'entrata in classifica di produttori totalmente assenti negli anni precedenti come: Danimarca, Norvegia, Egitto, Nigeria, India, Australia e infine Qatar. L'Italia, con i suoi 83 miliardi di metri cubi (pari al 3,1% del consumo totale mondiale) è invece un grande consumatore di gas naturale, il sesto nel mondo dopo Stati Uniti (22% del consumo totale), Russia (con il 15%); Gran Bretagna (3,8%), Germania (3,5%) e Canada (3,4%). Per consumare tale quantità, le sue riserve e la sua produzione non sono più sufficienti e deve ricorrere alle importazioni per una quantità di 75 miliardi di metri cubi all'anno da Algeria (51% del totale importato), Russia (21%), Libia (14%), Olanda (5%), Norvegia (4%), Qatar (4%) e Croazia (1%).
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Parte IV
La fonte energetica pi첫 inquinante: il carbone
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Capitolo 1
Il “re” carbone La notizia che sembra falsa è che il carbone è la fonte energetica più utilizzata al mondo. E invece lo dicono i numeri. Nel 2010 la produzione mondiale (e quindi il consumo) del carbone è stata di 5,3 miliardi di tonnellate contro i 4,2 miliardi di tonnellate di produzione (e quindi di consumo) di petrolio. Perché allora si afferma che l'umanità dipende sostanzialmente dal petrolio, che siamo nell'era del petrolio e che il petrolio è la fonte energetica più importante e più utilizzata al mondo? Perché, giustamente, gli esperti e gli studiosi di energia da tempo omogeneizzano le fonti energetiche sulla base del loro potere calorifico e, dato che una tonnellata di petrolio equivale a 1,42 tonnellate di carbone (come produzione di energia), omogeneizzando le produzioni in Tep (Tonnellate equivalenti di petrolio), i numeri suddetti 71
diventano: 4,2 miliardi di tonnellate per il petrolio e 3,7 miliardi di tonnellate equivalenti per il carbone. Omogeneizzando i dati in Tep è possibile fare un confronto con le due fonti energetiche di maggior utilizzo al mondo. Dalla Tabella 7 si evince che il carbone incide per il 28% (contro il 37% del petrolio) quando nel 1960 la sua incidenza era del 40% (contro il 39% del petrolio) e che diversamente da quanto avviene per il petrolio, la sua incidenza percentuale sul totale mondiale di consumo energetico, invece di diminuire, aumenta da un decennio in maniera significativa.
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A complicare la lettura dei dati, è necessario ricordare che ci sono tipi diversi di carbone, ognuno dei quali ha potere calorifico diverso. C'è la torba, sostanza formatasi nell'era quaternaria in seguito alla decomposizione in aree palustri di materiale vegetale, con potere calorifico molto basso e pari a 3.0003.500 chilocalorie per chilogrammo. C'è la lignite, di 73
epoca più antica, che contiene il 69% di carbonio (contro il 59% della torba) e ha un potere calorifico di 4.000-5000 kcal/kg. C'è il litantrace, con una presenza di carbonio pari all'82% del peso totale che sviluppa bruciando 6.0007.000 kcal/kg. C'è l'antracite (il carbone per eccellenza), con il 95% di carbonio e 7.000-8.500 kcal/kg. I depositi di litantrace e di antracite risalgono alle ere geologiche del Mesozoico e del Paleozoico e cioè trecentoquattrocento milioni di anni fa. Quando si parla di carbone si dovrebbe pertanto precisare a quale tipo si fa riferimento. Normalmente le statistiche includono in una unica cifra la produzione (e il consumo) di torba, lignite, litantrace e antracite, anche se il litantrace pesa per circa l'80% sul totale di questi dati. Storici produttori di carbone hanno abbandonato da tempo la sua estrazione. Il Belgio ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso era un grande produttore. Poi 74
venne la strage di Marcinelle: decine di italiani persero la vita in un incidente di miniera e il Belgio incominciò a chiudere tutte le miniere. Lo stesso fece la Germania nel suo bacino carbonifero della Saar. Più tardi, negli anni Ottanta, fu la Gran Bretagna a chiudere le sue miniere della Scozia e del Galles, togliendo il lavoro a oltre ventimila minatori. L'Italia aveva una grande miniera, quella del Sulcis, che il fascismo valorizzò creando dal nulla nel 1935 una città residenziale per i minatori: Carbonia (che arrivò ad avere fino a sessantamila abitanti). Negli anni Settanta del secolo scorso, dopo aver dato da vivere a migliaia di minatori, venne chiusa perché il prodotto non era competitivo (oltre a essere fortemente inquinante). Dal 2004 la miniera è stata riaperta e, grazie alle enormi riserve esistenti in loco (300 milioni di tonnellate) e l'arrivo del cosiddetto "carbone pulito", avrebbe potuto 75
tornare ai fasti di una volta, ma ora pare che l'orientamento governativo sia quello di chiuderla. Chi dei fasti di una volta non ne parla piÚ è la Russia. All'epoca di Stalin, proprio un minatore venne scelto dal Partito Comunista come il piÚ brillante esempio di lavoratore. Si chiamava Aleksej Stachanov e lavorava nelle miniere di carbone del Don. Era picconiere di prima categoria; il suo rendimento sul lavoro era sempre stato eccellente, ma la notte del 31 agosto 1935 raggiunse un risultato incredibile: in un turno di 6 ore estrasse 102 tonnellate di carbone, superando di 14 volte la norma. Per questo Stalin lo scelse come figura esemplare e lo propose ai lavoratori sovietici, creando il movimento "stachanovista", che per oltre cinquanta anni dominò la scena del mondo del lavoro comunista.
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A rovinare la festa fu Gorbaciov, allora primo ministro dell'Urss, che nel 1987 affermò che Stachanov era stato bugiardo e che, per di più, era un ubriacone. Malgrado l'incidente stachanovista la Russia è tuttora uno dei maggiori Paesi produttori di carbone. Oggi è il sesto al mondo, dopo Cina, Stati Uniti, Australia, India e Indonesia (Tab. 8). Ai tempi dell'Unione Sovietica, quando insieme alla Russia c'erano il Kazakistan e l'Ucraina, l'Urss ha lottato per anni per occupare il Primo posto in classifica. Negli anni Quaranta del secolo scorso era terza dopo gli Stati Uniti e l'Inghilterra, per diventare seconda dopo gli Stati Uniti negli anni Sessanta. Quando negli anni Ottanta sembrava essere pronta al grande balzo per vincere il podio più alto, sopravvenne la Cina (e il crollo dell'Urss stessa). Da allora la Cina ha dominato il mondo carbonifero, sia come produttore sia come consumatore (e come inquinatore). 78
Capitolo 2
La fonte inquinante per eccellenza Il carbone, per il suo alto tenore di carbonio, è il maggiore accusato per quanto riguarda l'inquinamento atmosferico e la produzione di gas serra (primo fra tutti: l'anidride carbonica o CO2), che dovrebbe essere la causa scatenante del riscaldamento sulla Terra (ma non tutti gli scienziati sono d'accordo con questa correlazione). Gli abitanti più anziani delle città industriali hanno ancora memoria del termine "smog" (ormai desueto): fino agli anni Sessanta del secolo scorso, l'umidità atmosferica combinata con il fumo emesso dalle fabbriche e dagli impianti di produzione del "gas di città" creava una nebbia densa e nerastra che invadeva le strade. Cronache del Diciannovesimo secolo parlano di una Londra 79
soffocata dallo smog, colpevole di migliaia di morti all'anno. Questo fenomeno atmosferico era conseguente al fatto che fabbriche e impianti di produzione del gas di città bruciavano carbone. Oggi il carbone non viene più impiegato nelle fabbriche, ma lo è ancora in molti impianti termoelettrici produttori di elettricità. L'Italia, in questi ultimi decenni, ha convertito molte centrali a carbone in impianti che bruciano petrolio o gas naturale, meno inquinanti del carbone. Infatti un'unità di elettricità generata da una centrale elettrica a carbone crea un quantitativo quasi doppio di CO2 rispetto a una ricavata dal gas naturale. Ma non è così nel resto del mondo. In Polonia il 95% dell'elettricità viene dal carbone. In Gran Bretagna il contributo del carbone all'elettricità è del 30% rispetto ad altri combustibili. Ma Polonia e Gran Bretagna incidono sul consumo mondiale di carbone rispettivamente 80
soltanto per l'1,5% e lo 0,9%. Il più grande consumatore di carbone del mondo è invece la Cina (con il 48% sul totale), seguita dagli Stati Uniti (15% circa) e dall'India (8% circa). Ne deriva che la Cina, oltre a essere il più grande consumatore al mondo di carbone (ed è anche il più grande produttore), è anche il più grande inquinatore atmosferico al mondo. Il governo cinese ne è cosciente, e pur non avendo firmato insieme agli Usa il protocollo di Kyoto stilato nel 1997 (documento che impegnava i firmatari a una drastica emissione dei gas serra), sta lavorando seriamente per ridurre le emissioni di CO2, copiando da quanto stanno facendo l'Occidente e gli Stati industriali più sensibili alla difesa dell'ambiente. È già iniziata, infatti, l'era del carbone pulito, una tecnologia che può ridurre del 90% le emissioni di CO2 nelle centrali elettriche a carbone, attraverso un percorso 81
di cattura dei gas inquinanti e di stoccaggio della CO2 filtrata, nota con il termine Ccs. Negli Usa una centrale a carbone pulito è già in azione. La Gran Bretagna prevede di sviluppare quattro impianti Ccs su scala commerciale. La Cina ha annunciato un impianto commerciale Ccs entro otto anni. La Norvegia non intende costruire nessun impianto, ma i suoi giacimenti petroliferi esausti del Mare del Nord, utilizzabili come bacini di stoccaggio della CO2, verranno messi a disposizione dei produttori di elettricità mediante il carbone pulito (Gran Bretagna, Germania). Anche l'Italia ha aderito a questo spirito di collaborazione. Sebbene il consumo nazionale di carbone si sia attestato soltanto intorno al 9% del totale del consumo energetico, abbiamo anche noi una centrale a carbone (quasi) pulito: quella da 2.000 megawatt di Torrevaldaliga, vicino a Civitavecchia. Se l'iter delle autorizzazioni procederà più speditamente che nel 82
passato, fra poco l'Italia avrà la seconda centrale a carbone pulito, anch'essa di 2.000 megawatt, a Porto Tolle, in provincia di Rovigo. Una lunga storia questa, di sette anni, per convertire una centrale termoelettrica già esistente e molto inquinante. L'iter inizia nel maggio del 2005 con la richiesta da parte dell'Enel. Dopo quattro anni il ministero dell'Ambiente dà il suo ok, con il decreto di Valutazione di impatto ambientale (Via). Subito scattano i ricorsi delle organizzazioni ambientaliste (Wwf, Greenpeace, Italia Nostra). Dopo un anno il Tar respinge il ricorso e conferma il decreto Via. Le organizzazioni ambientaliste fanno allora ricorso al Consiglio di Stato e dopo un anno, con la sentenza dello stesso organismo, si è dato inizio alla riconversione. Alle centrali elettriche a carbone viene solitamente addebitato tutto il danno atmosferico e l'inquinamento ambientale, con conseguente riscaldamento della superficie terrestre; ma il giudizio è errato. 83
Oggi, fatto 100 la quantità di CO2 prodotta, le emissioni di gas serra (che producono l'effetto del riscaldamento) - e cioè di anidride carbonica, di monossido di carbonio, di metano, di monossido e biossido di azoto (ricondotti e omogeneizzati in ppm di CO2) - dipendono per il 24% dalla produzione di energia elettrica da fonti fossili (carbone, ma anche petrolio e gas naturale), per il 18% dagli allevamenti, per il 15% dalle attività industriali e dalle fabbriche, per il 14% dai trasporti (motociclette, automobili, veicoli pesanti, aerei, navi), per il 13% dall'agricoltura, per l'8% dal riscaldamento degli edifici e per il resto da rifiuti e cause marginali. L'indicatore scelto per misurare il fenomeno è identificato con la sigla ppm, che significa "parte (volume di CO2) per milione" (volume di atmosfera). Nel 1980 il valore di ppm di CO2 presenti nell'atmosfera terrestre era pari a 335; nel 1990 era di 355, nel 2000 è stato pari a 370 e nel 2010 ha raggiunto il valore di 390. 84
Grazie ai carotaggi nei ghiacci antartici e siberiani, si sa che ottomila anni fa era pari a 260 e che da allora fino al Diciannovesimo secolo quel valore è aumentato soltanto di 25 punti. A partire dalla metà dell'Ottocento l'aumento del ppm è stato invece molto più vigoroso, pari inizialmente a 5-7 punti ogni dieci anni, per arrivare all'attuale ritmo di 20 punti circa ogni dieci anni. Da qui la giusta preoccupazione degli scienziati sulle conseguenze che questo andamento potrebbe avere sul clima del globo terrestre. E’ acclarato, infatti, senza ombra di dubbio, che le attuali emissioni di CO2 e la loro dispersione nello spazio provocano un riscaldamento dell'atmosfera pari a 0,2 - 0,3 °C ogni dieci anni e che, se si dovesse viaggiare al ritmo di 20 punti di ppm ogni dieci anni, fra un secolo la Terra avrà una atmosfera ricca di 500-600 parti per milione e una probabile temperatura di 2-3 °C superiore a 85
quella attuale, con gravi conseguenze dell'equilibrio climatico. Ma non tutto ciò è dovuto al carbone.
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Capitolo 3
Una fonte energetica dal lungo futuro C'è un indicatore che, con tutti i suoi limiti, serve ad avere un'idea di quanto tempo può durare una fonte energetica. L'indicatore è chiamato R/P e rappresenta il rapporto fra le riserve conosciute, accertate ed economicamente producibili a un dato momento e la produzione e tecnologia costante di quella fonte energetica. Tale indicatore si misura in anni. La quantità di carbone esistente al mondo è conosciuta solo in parte. Delle riserve note, solo una parte si considerano estraibili, mentre le restanti devono rimanere in loco per difficoltà di estrazione o perché i costi di estrazione non sono compensati dal prezzo di vendita. Quelle che si denunciano ufficialmente sono 87
pertanto solo una parte delle esistenze di carbone al mondo. Se i criteri di indagine si perfezionassero, se la tecnologia di estrazione si modificasse in meglio, se il prezzo di vendita del carbone aumentasse, le riserve accertate potrebbero aumentare notevolmente. Oggi, con questi criteri, possiamo valutare che ci sia carbone per almeno 120 anni. Questo dato sdrammatizza ogni fosca previsione relativa all'esaurimento delle fonti energetiche a breve termine. Se anche il petrolio dovesse declinare, se anche il gas naturale dovesse diminuire, la terza fonte energetica, soprattutto se pulita, potrĂ sopperire a tale mancanza, in attesa che le energie rinnovabili si diffondano sulla faccia della Terra. Il secolo (e oltre) di garanzia data dal carbone si confronta con i 65 anni di R/P del gas naturale e con i 45 anni del petrolio. A questo riguardo la storia del fattore R/P del petrolio dovrebbe insegnare come leggerlo e come utilizzano. 88
Già nel documento intitolato I limiti dello sviluppo del Massachusetts Institute of Technology compariva il rapporto fra riserve petrolifere e produzione petrolifera. Era definito come «il numero di anni di durata delle riserve note al momento della ricerca» e veniva calcolato dividendo il valore delle riserve conosciute al momento del calcolo per il totale del consumo annuo mondiale. L'industria petrolifera lo usa da almeno cinquant'anni. Esso dà una indicazione di massima e molto approssimata di quanto l'industria ha davanti a sé prima di trovarsi a secco, per decidere se e quando fare investimenti di sviluppo nel settore. Negli anni Cinquanta del secolo passato tale rapporto era, per il petrolio, uguale a trent'anni circa. Curiosamente l'ordine di grandezza di questo rapporto (e cioè circa trent'anni) non è andato a diminuire nel tempo, anzi è aumentato. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso ciò è stato possibile grazie a effettivi 89
ritrovamenti di nuovi giacimenti e, quindi, al reale aumento delle riserve accertate con nuove entità e nuovi giacimenti. Negli ultimi vent'anni, oltre a nuove scoperte che hanno contribuito all'aumento del numeratore, le riserve note si sono incrementate soprattutto grazie alle nuove tecniche di sfruttamento e alla rivalutazione di riserve fino a poco tempo prima giudicate non economiche, diventate interessanti grazie all'alto livello raggiunto dai prezzi del petrolio. Nel prossimo futuro i cosiddetti "catastrofisti" dovranno affezionarsi, malgrado le loro convinzioni, a una ulteriore, grandiosa revisione del numeratore del rapporto R/P. Ciò avverrà quando verrà incorporata nel computo totale delle riserve la quantità del petrolio cosiddetto non convenzionale. Per il carbone il rapporto R/P ha avuto una storia diversa. Nel secolo scorso esso aveva raggiunto la cifra di 90
300 anni circa, perchÊ il numeratore (e cioè R) era aumentato a causa delle scoperte di nuovi giacimenti in Cina, in India, in Australia e in Africa e il denominatore (P) aumentava ma in maniera meno che proporzionale rispetto alle riserve. Dall'inizio dell'ultimo secolo, stante l'enormità delle scoperte, le ricerche di nuovi giacimenti si sono temporaneamente arrestate a fronte di una vigorosa ripresa dei consumi e quindi della produzione, che ha portato l'incidenza della fonte energetica carbone dal 25% dell'anno 2000 al 28% attuale, sul totale del consumo energetico mondiale (con previsioni al 2030 di arrivare al 29%). Il maggior consumatore al mondo (ma anche il maggior produttore) è la Cina, con i suoi 2,55 miliardi di tonnellate all'anno (pari al 48% circa del consumo mondiale). Ancora dieci anni fa, all'inizio del Ventunesimo secolo, il consumo cinese era di 1,05 miliardi di tonnellate, nemmeno la metà . Secondi nella 91
classifica dei consumatori gli Stati Uniti, con 740 milioni di tonnellate all'anno (pari al 15% del consumo mondiale), e terza l'India, con 400 milioni di tonnellate all'anno (pari all'8% del consumo mondiale). Il 70% circa del consumo mondiale di carbone è legato a questi tre Paesi (che sono anche i tre più grandi inquinatori dell'atmosfera). Seguono, fortemente distanziati nella classifica dei consumatori: Giappone (3,5%), Russia (2,6%), Sudafrica (2,5%) e Germania (2,1%). L'Italia, che da anni ormai non produce più carbone nobile e riesce a ottenere solo poche tonnellate di carbone/lignite, si trova, con i suoi 20 milioni di tonnellate, al diciassettesimo posto fra i consumatori. Alla fine dell'Ottocento l'Italia produceva soprattutto lignite, per una quantità pari a 390.000 tonnellate. E’ dagli anni Venti del secolo scorso che nelle statistiche nazionali 92
compare la produzione di carbone Sulcis e di antracite. Il massimo di produzione nazionale si è avuto nel 1938 con 2,4 milioni di tonnellate, di cui i milione di tonnellate di pregiata e ricca antracite, 0,9 milioni di tonnellate di lignite e 0,5 milioni di tonnellate di carbone Sulcis. Con questa quantità oggi l'Italia farebbe parte dei primi trenta Stati produttori mondiali. Ancora nel 1970 la produzione nazionale di carbone fossile era superiore ai 2 milioni di tonnellate; da allora il declino è stato rapido, quasi fino all'azzeramento. Oggi la produzione di carbone non compare più nelle statistiche nazionali. L'Italia ha buone riserve, ma tutte le miniere sono chiuse (tranne quella del Sulcis, riaperta nel 2004). Ciò non impedisce all'Italia di essere un buon consumatore, con una partecipazione al consumo mondiale pari allo 0,4% del totale (meno della Gran Bretagna e più della Francia). Per l'Italia le previsioni sono di un aumento futuro del suo utilizzo, soprattutto nelle sue centrali termoelettriche 93
a carbone pulito (ne è un esempio la centrale di Civitavecchia).
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Parte V
La fonte energetica pi첫 pericolosa: il nucleare
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Capitolo 1
Le grandi catastrofi nucleari La catastrofe nucleare più grave nel mondo è stata quella di Chernobyl in Ucraina, ma la più recente - che è nella memoria anche dei più giovani e che è avvenuta l'11 marzo 2011 - è quella di Fukushima in Giappone. Mentre la prima ha fatto subito qualche decina di morti e qualche migliaio negli anni a seguire, la seconda non ha procurato (per ora) nessuna vittima. La sua notorietà e il suo impatto sull'opinione pubblica e sulle scelte energetiche nazionali sono stati però molto più forti di Chernobyl, perché l'evento era abbinato a uno tsunami, il maremoto. La grande ondata di 14 metri di altezza ha sepolto oltre 20.000 giapponesi del Kansai, la regione dove erano stati costruiti gli impianti nucleari della Tepco e dove funzionavano i tre reattori, solo parzialmente offesi nel 96
disastro ma responsabili dell'inquinamento atmosferico e marino dell'area circostante (una zona di esclusione totale ampia una ventina di chilometri), che ha comportato all'evacuazione di 185.000 persone. Tuttavia, è bene precisare che la quantità totale di radioattività diffusa nell'atmosfera è stata pari a un decimo circa di quella rilasciata durante il disastro di Chernobyl. Sotto l'effetto emotivo del disastro, il Governo giapponese dichiarò subito l'arresto totale di tutti gli altri impianti sparsi nel Paese (in totale 55), con la promessa di uscire dal comparto nucleare. Quando, però, venne fatto un calcolo sui costi da sopportare per essere nuclearfree (una riduzione del 5% del Pil in quindici anni e un aumento delle tariffe elettriche di almeno il 10%), il Governo nipponico ci ripensò e a distanza di un anno dall'incidente decise la progressiva riaccensione di tutti gli impianti nucleari del 97
Paese, salvo promettere il loro spegnimento entro il 2040 - e la conseguente conversione della produzione di energia elettrica da nucleare a centrali a carbone, a petrolio e a gas naturale - e l'aumento dell'uso di fonti energetiche rinnovabili fino al 30% dei consumi totali nazionali. Sempre dopo l'incidente di Chernobyl, avvenuto il 26 aprile 1986, alcuni Stati annunciarono l'intenzione di uscire dal nucleare e fra questi la Svezia, la Germania e l'Italia. Ma quest'ultima fece di piĂš: decise di proporre agli italiani un referendum per uscire dal nucleare. Questo fu realizzato nel novembre 1987, quando la memoria del disastro ucraino era ben presente nei votanti. Il risultato (scontato) fu dell'87,4% dei voti per il "SĂŹ" (uscire dal nucleare) e soltanto il 12,6% per il "No". Dopo il referendum non fu formalizzato alcun abbandono ufficiale del nucleare, ma fu adottata semplicemente una moratoria di cinque anni, con il fermo delle centrali attive 98
e il blocco delle costruzioni nuove. I quesiti del referendum non si riferivano a un "No" secco al nucleare, ma riguardavano semplicemente l'abolizione di norme che consentivano la localizzazione delle centrali o che permettevano di partecipare ad accordi internazionali. Pur non avendo assunto nessun obbligo circa l'eliminazione fisica dei nostri impianti, in conseguenza della vittoria antinucleare del referendum, il Governo italiano varò nel 1999 un piano di smantellamento delle centrali. Furono così chiuse la centrale del Garigliano, costruita nel 1964, quella di Trino Vercellese, costruita nel 1965, e quella di Caorso (questa, la più potente e l'ultima a essere costruita in Italia, iniziò la sua vita operativa e commerciale il 31 dicembre del 1977, con una potenza erogatrice di 830 megawatt; il reattore fu fermato il 25 ottobre del 1986, dopo aver prodotto 29 milioni di megawattora), essendo già ferma quella di Latina (la 99
prima in Italia a essere costruita nel 1963). In tal modo l'Italia, unica in Europa, è uscita dalla sfida del nucleare, decisione confermata dopo il disastro di Fukushima. Per comprendere le ragioni del "No" del referendum del 1987 è d'obbligo partire dall'evento di Chernobyl e dalla sua storia. Con l'incidente venne liberata in atmosfera una radioattività dieci volte superiore alla bomba di Hiroshima. Fra i soccorritori (pompieri, elicotteristi, operai) ci furono subito 58 morti. Non ci sono dubbi che gli incidenti nucleari fino ad allora accaduti siano stati legati a criteri costruttivi non più praticati nelle nuove progettazioni, ma che erano invece applicati in impianti di trenta - quarant'anni anni fa (e cioè il 24% delle centrali ancora in attività), quando l'attenzione ai problemi della sicurezza era molto ridotta (in particolare nell'Unione Sovietica) e i progettisti erano privi di esperienza nella previsione e gestione delle catastrofi. Negli Stati ex sovietici entrati recentemente nell'Unione 100
Europea, ben sette reattori sono da considerarsi tuttora a rischio, in quanto realizzati con tecnologie obsolete (reattori di tipo Rbmk e Vver 230), e precisamente quattro in Bulgaria (Kozloduy), due in Slovacchia (Bohunice) e il reattore numero 2 di Ignalina in Lituania. Non ci sono dubbi, inoltre, che sulla base dei criteri di approccio alla sicurezza poco incisivi e distratti seguiti dai militari (americani e russi) e vigenti nella Seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente seguenti la sua fine, i tecnici civili del dopoguerra abbiano sottovalutato alcuni aspetti ingegneristici relativi alla tenuta nel tempo degli impianti. Ancora oggi si ignora l'entità di incidenti nel campo militare che sicuramente sono avvenuti o dei quali si hanno solo informazioni molto vaghe e incerte, come per quanto è accaduto a Kyshtym in Unione Sovietica nel 1957 quando, per l'incendio di un fusto di rifiuti 101
radioattivi, 270.000 persone furono esposte a contaminazione (e qui si ferma l'informazione...); o per quanto detto dell'incidente di Sellafield in Gran Bretagna, anch'esso nel 1957, che sembra abbia causato non meno di 300 morti.
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Capitolo 2
Una fonte energetica che non decolla Nel 1942 un gruppo di scienziati impegnati nel progetto Manhattan, tra cui l'italiano Enrico Fermi, realizzò la prima reazione a catena controllata. Il progetto aveva scopi militari e diede vita alle prime bombe atomiche sganciate in Giappone nel 1945 sulle città di Hiroshima e Nagasaki. Nel 1951 venne costruito in un laboratorio degli Stati Uniti un primo reattore nucleare, mentre nel 1954 venne realizzata la prima centrale nucleare sperimentale, la Borax III, in grado di fornire energia elettrica a una piccola città dello Stato dell'Idaho. La prima centrale commerciale fu invece quella di Shippingport, in Pennsylvania, inaugurata alla presenza 103
del presidente degli Stati Uniti, Eisenhower, il 26 maggio 1958. Seguirono negli anni Sessanta altre centrali sparse nel mondo. Dopo gli Stati Uniti venne la volta della Gran Bretagna e dell'Urss (1959). Poi la Francia (1960) diede inizio a un massiccio investimento per la costruzione di centrali nucleari, che l'ha portata a essere oggi una nazione la cui produzione di elettricità dipende sostanzialmente dalla fonte nucleare. La Cina è entrata nel gruppo delle nazioni nuclearizzate soltanto nel 1993. Ma da allora ha già costruito 15 centrali, ne ha 26 in costruzione e ben 51 in fase di progettazione. Quando e se questo programma andrà a conclusione, la Cina sarà seconda al mondo dopo gli Stati Uniti come potenza nucleare a scopo civile. Oggi gli Usa posseggono 104 reattori in servizio, hanno un impianto in costruzione e 11 in progettazione a conferma che, malgrado i limiti denunciati dalla fonte energetica nucleare e a dispetto degli incidenti di percorso successi 104
finora, il mondo occidentale e quello orientale credono e vogliono investire ancora in futuro nel nucleare e si guarda bene dal procedere a opere di denuclearizzazione, cosĂŹ come vorrebbero alcune frange minoritarie del mondo politico internazionale. Oggi l'energia nucleare incide per circa il 5% sul totale della produzione energetica mondiale (Tab. 9) e le
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previsioni alla metà del secolo Ventunesimo affermano che tale incidenza potrebbe rimanere costante. Poiché il consumo energetico totale aumenterà ancora, il fatto di conservare la stessa incidenza percentuale significa che la produzione da fonte nucleare aumenterà anch'essa progressivamente nel tempo. Oggi i Paesi produttori di energia nucleare sono trenta (Tab. 10), ma gli Stati Uniti incidono sul totale per circa il 30%, seguiti dalla Francia (15,5%) e dal Giappone (10,6%). Fatto 100 il totale del consumo e della produzione di energia da fonte nucleare, i suddetti Stati costituiscono oltre il 50% del complesso; seguono Russia (6,1%), Corea del Sud (5,3%), Germania (5,1%), Canada (3,2%), Ucraina (3,1%) e Cina (2,7%). Quest'ultima ancora dieci anni fa produceva meno dell'1 % del totale mondiale dell'energia nucleare. 106
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I reattori in servizio nel 2010 erano 433. Tale valore è costante negli ultimi dieci anni perché, a fronte di 125 reattori chiusi in quanto considerati obsoleti o pericolosi, se ne sono costruiti altrettanti. Il periodo di maggiore costruzione di reattori è stato il decennio 1965-1975, durante il quale sono stati avviati nel mondo circa 200 reattori, mentre il periodo più "magro" è stato il decennio 1990-2000, nel quale, come conseguenza del disastro di Chernobyl, sono entrati in produzione soltanto 35 impianti. Nel decennio 2000-2010 si è assistito a un notevole risveglio nell'avvio di centrali nucleari, pari a 62 unità. L'incidente di Fukushima rallenterà, ma non impedirà, lo sviluppo futuro di nuove centrali. La nazione che ha chiuso più reattori è la Germania, che è passata negli ultimi dieci anni da 17 a 9, mentre Stati Uniti e Francia hanno mantenuto invariato il loro parco di reattori, 108
avendo voluto lasciare costante la loro capacità di produzione di energia elettrica. Il caso della Francia è unico al mondo. Per una decisione presa negli anni Sessanta del secolo scorso, questo Stato ha deciso di riconvertire tutti gli impianti termoelettrici (allora a carbone) in impianti nucleari. Oggi il 77% dell'energia elettrica viene da fonte nucleare e la produzione è così abbondante che una parte di essa viene venduta ai Paesi limitrofi, tra cui l'Italia. Gli Stati Uniti, con i loro 104 impianti, producono una quantità di energia elettrica che copre il 20% del fabbisogno nazionale, ma prima di loro, anche se con produzioni minori, si trovano: la Slovacchia con il 54% del fabbisogno elettrico, la Repubblica Ceca (50%), l'Ungheria (43%), la Slovenia (42%), la Svizzera (39%), la Corea del Sud (35%) e la Finlandia (32%). Il mondo intero produce 109
energia elettrica dal nucleare pari al 14% del consumo totale.
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Capitolo 3
Paura e conforto Per comprendere la rischiosità del nucleare è necessario partire dal processo di produzione di energia dall'atomo. Si può produrre energia mediante fissione del nucleo o mediante fusione del nucleo. Il nucleo di un atomo è costituito da protoni e neutroni. Sono particelle che hanno approssimativamente la stessa massa; si differenziano invece le loro proprietà elettriche: i neutroni sono, come dice il termine, elettricamente neutri, mentre i protoni hanno una carica elettrica positiva uguale e contraria a quella degli elettroni. Questi ultimi sono particelle che ruotano intorno al nucleo dell'atomo. Poiché i neutroni sono particelle instabili, in grado di muoversi liberamente nella materia senza 111
risentire gli effetti di attrazione o di repulsione da parte dei campi elettrici e magnetici generati dai protoni, essi possono entrare in collisione come proiettili con altri nuclei, scindendoli (questo è il fenomeno detto "fissione"), creando nuovi neutroni e liberando energia, con una reazione a catena che si può ripetere all'infinito. Un reattore nucleare è l'impianto che permette l'attuazione del processo di fissione. Un impianto, o reattore, nucleare è costituito da un "nocciolo" dove avviene la reazione, coperto da un guscio di cemento o di acciaio che contiene il nocciolo insieme allo scambiatore di calore che genera vapore. All'uscita del guscio si trovano le turbine che producono, tramite un trasformatore, energia elettrica da mandare in rete. Il nocciolo è la parte del reattore dove avvengono le reazioni e che contiene il combustibile: pastiglie di ossido di uranio impilate entro barre. Nel processo di fissione si 112
generano energia cinetica ed energia elettromagnetica e quest'ultima è associata alle radiazioni. Il movimento delle particelle e le radiazioni crescono nel tempo, determinando un aumento della temperatura dell'ambiente nel quale operano. L'energia di fissione si trasforma pertanto in calore. Quest'ultimo, per essere utilizzato, deve essere trasferito all'esterno del reattore. Analogamente a quanto avviene in una normale caldaia, il calore della reazione nucleare riscalda un fluido detto "fluido termovettore", al quale viene ceduta l'energia termica generata. Fluidi termovettori sono: l'acqua naturale, l'acqua pesante, il sodio, il biossido di carbonio o l'elio. Il fluido termovettore, direttamente o tramite lo scambio con un altro fluido detto "fluido motore" (di solito acqua allo stato di vapore), genera energia meccanica facendo ruotare una turbina, grazie alla quale si produce energia elettrica. 113
La fissione dell'uranio provoca "ceneri nucleari", cioè diversi elementi chimici, molti dei quali radioattivi, che emettono radiazioni "beta" e "gamma" e particelle "alfa". Queste ceneri nucleari radioattive sono contenute nelle barre di combustibile consumate in cui la fissione ha ridotto il contenuto di uranio, e si dividono in scorie con un livello di attività bassa, intermedia e alta. Queste ultime sono appena il 3% delle scorie prodotte, ma generano il 95% delle radiazioni e rimangono attive per migliaia di anni. Nell'immaginario popolare e nelle manifestazioni degli antinuclearisti il problema delle scorie nucleari (12.000 tonnellate all'anno nel mondo) segue subito dopo quello della sicurezza delle centrali. Non a caso, uno degli sforzi maggiori dei progettisti dei reattori è quello della riduzione, se non dell'azzeramento, della produzione di scorie radioattive. Il materiale radioattivo sottoposto a un'operazione di fissione nucleare, si esaurisce nel tempo, 114
ma non completamente. Dopo tre-quattro anni di irraggiamento nel reattore, esso contiene ancora una parte di materiale fissile. Le scorie nucleari si distinguono in base alla loro radioattività residua e al tempo di decadenza. Quelle di terzo grado hanno un tempo di vita di circa centomila anni; quelle di primo e secondo grado decadono in duecento-mille anni. Il tema del trattamento delle scorie è cosÏ diventato, insieme a quello della sicurezza, la ragione maggiore dell'opposizione di una parte dell'opinione pubblica nei confronti del nucleare. Per quanto riguarda la sicurezza sono stati fatti enormi passi avanti rispetto ai primi reattori costruiti a scopo militare (quelli chiamati "di prima generazione"). Oggi siamo alla terza generazione. La prima fu abbandonata per il rischio di pericolose forme di corrosione durante l'esercizio e la seconda perchÊ non sicura a garantire lo 115
spegnimento del reattore in caso di incidente. La terza generazione di reattori porta la sigla Epr (European Pressurized Reactor). Questi impianti consumano meno, producono meno scorie, hanno tempi di spegnimento ridotti e annullano ogni rischio di attentati esterni grazie alla loro capacità di spegnimento automatico. Mano a mano che le centrali di prima e seconda generazione (la maggior parte delle quali sono come il reattore di Chernobyl e si trovano in territori ex sovietici) termineranno il loro ciclo di vita (da trenta a cinquant'anni dalla costruzione), esse verranno sostituite dalle centrali di terza generazione, in attesa della quarta generazione (già in fase di studio), ancora più sicura ed economica o... della fusione nucleare. La fusione nucleare è una reazione per la quale due nuclei leggeri (per esempio idrogeno o suoi isotopi), al l'interno di un gas completamente ionizzato (cioè entro un plasma), entrano in collisione e danno luogo a una 116
ristrutturazione della materia. Nuclei atomici leggeri si fondono tra loro per formarne di più pesanti, esattamente l'opposto di quanto succede in un processo di fissione, dove un atomo pesante bombardato da un neutrone si divide in due atomi leggeri. Nel processo di fusione, inoltre, a differenza di quanto avviene nel processo di fissione, non si creano scorie radioattive, eliminando così il più grave problema attuale nella produzione di energia nucleare. La reazione avviene con grande sviluppo di energia (seicento volte maggiore del processo di fissione), ma richiede la presenza di altissime temperature, superiori ai 100 milioni di gradi centigradi. La fusione nucleare è quella che avviene nel Sole e nelle stelle ed è quanto si prefigge il progetto Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), che la comunità scientifica internazionale sta 117
sviluppando dal 2005 a Cadarache, nel cuore della Provenza (Francia). Si ritiene che l'impianto potrĂ produrre energia in quantitĂ almeno dieci volte superiore a quella necessaria per innescare e sostenere il processo di fusione. Ma, a detta degli scienziati che lavorano al progetto, la produzione commerciale di energia elettrica da fusione nucleare non potrĂ avvenire prima del 2050.
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