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Prefazione

«A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici…». Così scrive san Paolo nella prima lettera ai Corinzi ( 1Cor 15,35) compendiando nel mistero pasquale tutto il contenuto del kèrigma cristiano. E giustamente, perché il vangelo non è che questo annuncio: la Passione, la morte, la resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Tutto ciò che gli evangelisti narrano della vita di Gesù ha valore solo in quanto è anticipazione, annuncio profetico del suo mistero pasquale. E ciò è vero in particolare per Matteo che pur essendo meno vivace nel narrare e più didattico degli altri nel voler impostare il vangelo intorno ai grandi discorsi di Gesù, è quanto mai attento nel riportare con grande accuratezza i fatti relativi alla passione, alla crocifissione e alla resurrezione di Gesù, perché è la Pasqua il termine di tutto, evento storico e metastorico insieme: la Pasqua che è Pasqua di morte e Pasqua di resurrezione. Quante volte nella sua lunga predicazione p. Barsotti ripeteva che Pasqua di morte e Pasqua di risurrezione sono l’unico atto in cui precipita la vita dell’uomo e la vita dell’universo. Un esempio valga per tutti. Così egli scrive nel libro Il mistero cristiano nell’anno liturgico: «La morte di Cristo riempie tutto: tutto il tempo, tutto l’universo visibile perché tutto Egli assume. Gesù continua la sua agonia fino alla fine del mondo, diceva Pascal. No, non continua: ma nell’atto presente di quella morte, si compie la fine di tutto, i tempi hanno fine, tutto il mondo precipita nell’eternità. Il mistero, nella sua inscindibile Unità, è insieme l’Atto della morte e l’Atto della

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resurrezione di Cristo, ma il mondo di oggi non vive, non può vivere che la sua morte. L’apostolo Paolo scrive con divina profondità: «Se uno è morto per tutti, tutti san morti» (2 Cor 5,14)»*. In quell’atto veramente per Barsotti la storia è finita perché non c’è altra meta se non in quel Cristo che con la sua morte di croce e la sua resurrezione ci ha salvati. Adoramus te Christe et benedicimus tibi quia per crucem tuam redemisti mundum siamo abituati a ripetere pregando con la Via crucis. Tutto in quell’atto si compie e non c’è altra salvezza se non in quell’atto. Abbiamo già detto che tutto ciò che precede è solo annuncio e profezia, persino la vita stessa di Cristo, la sua nascita, la sua predicazione, la sua attività taumaturgica appartengono ancora a un’economia profetica. Dio si è fatto uomo e perciò diciamo Verbum caro factum est – il Verbo si fece carne, ma in verità l’incarnazione si compie con il mistero pasquale perché è allora che davvero il Cristo assume l’umanità in tutto il suo dramma e il suo peccato. Ed è nell’atto della sua morte che tutto ciò che è profezia ha termine. Ancora una volta originalissimo don Barsotti si rivela nel suo commento. Proviamo a presentare alcune delle sue inusitate stimolanti riflessioni.

Un primo tratto di singolarità che non può passare certo inosservato è l’ardita comparazione tra il Cristo e altre grandi figure religiose dell’umanità, quali Socrate e Buddha, soprattutto quest’ultimo. Ed è proprio in questo originale raffronto che con grande efficacia si mostra l’abisso che vi è tra il cristianesimo e le altre religioni. Familiare alla teologia e alla spiritualità di Barsotti è il tema del rapporto con le altre religioni, al punto da concepire la storia della salvezza come un unico disegno, un unico processo di rivelazione che si invera e si compie nel cristianesimo, in cui confluiscono e la rivelazione cosmica e quella profetica. Ma – chiediamoci – si può veramente parlare di salvezza nelle altre religioni, specie quelle

* D. Barsotti, Il mistero cristiano nell’anno liturgico, Cinisello Balsamo, ed.

San Paolo, 2004, p. 142.

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asiatiche? O meglio, il termine salvezza nelle altre religioni ha lo stesso significato che ha nel cristianesimo? Non c’è dubbio che in tutte le religioni vi è un desiderio e una speranza di salvezza in senso lato, come se l’uomo volesse uscire da un mondo di male, che lo tiene prigioniero, l’anelito dell’uomo verso l’infinito, verso un bene che va oltre quest’orizzonte terreno ecc., ma se si vuol parlare esplicitamente di salvezza in senso cristiano il discorso si fa equivoco. Salvezza per le religioni asiatiche equivale a gnosi intesa come conoscenza che dissipa le tenebre dell’ignoranza, che dissolve il velo di maya di questo mondo illusorio che avvolge l’esistenza dell’uomo. Così nel Buddhismo il più alto grado di conoscenza fa di ogni discepolo un “buddha”, un illuminato che è ormai pronto al distacco da questa vita contrassegnata dall’impermanenza, dalla sofferenza e dall’illusione, all’estinzione di sé nel nirvana. E non importa qui tanto il rapporto, il legame del discepolo col maestro in quanto tale, dal momento che esso è finalizzato unicamente all’acquisizione di quella conoscenza necessaria alla liberazione; dopodiché il rapporto non ha più ragion d’essere. Il discepolo non deve più ricercare il maestro e il maestro deve respingere il discepolo: così accade per Buddha e il discepolo Ananda. Quello che importa è l’insegnamento, l’iniziazione, la dottrina, non vi è spazio per un rapporto personale perché manca la nozione di persona, la persona è attraversata e superata, non conta nulla. Tutto rimane impersonale, non c’è pathos, non c’è dramma. Quanto siamo abissalmente lontani dal cristianesimo! Si possono cercare analogie, e Barsotti le evidenzia, tra la morte di Gesù e la morte di Buddha – l’incontro di Buddha con una donna prima della morte analogamente a Gesù che incontra Maria di Betania, la solitudine deI Buddha nel giardino dei manghi e la veglia di Gesù nell’orto degli ulivi, l’ultimo pasto di Buddha con l’avvelenamento, e l’ultima cena di Gesù col tradimento di Giuda – ma quale infinita distanza vi è tra Buddha e Gesù. Lì, nel Buddhismo vediamo inoltre che l’esistenza come tale è concepita come male, di conseguenza l’unica salvezza è la

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negazione assoluta di essa, l’estinzione di sé, l’annullamento dell’io quale radice di ogni male e dolore, ma ciò che colpisce di più è la conseguenza di tutto ciò, il fatto che sovrasta una pace che è un puro silenzio di morte, come se questo silenzio fosse già l’esperienza dell’inferno come vuoto, come nulla, dal momento che la cancellazione del dolore coincide con l’annientamento dell’uomo. In colui che ha raggiunto il risveglio non deve rimanere più alcuna traccia di umana pietà, si nega l’uomo nella sua interiorità più profonda, il suo spirito, la sua anima, le sue passioni, i suoi sentimenti ed emozioni, i suoi affetti più profondi, manca ogni indizio di pietà e di misericordia, non c’è amore non vi è spazio per la persona, non c’è spazio per lo struggimento del cuore, per i sentimenti di compassione, che anzi devono morire per sempre. Tutto ciò che è umano deve morire: è la legge di necessità ferrea che sancisce l’estinzione di tutto. Anche l’unica traccia di umana pietà – il pianto di Ananda per il suo maestro – deve scomparire. Inoltre ciò che contraddistingue l’epilogo della vicenda umana del Buddha e assurge a valore paradigmatico per ogni iniziato alla sua scuola è la dimensione individualistica della salvezza dove regna sovrano un egoismo assoluto per cui alla fine non vi è spazio alcuno per nessuno se non per se stesso una volta che il maestro ha compiuto la sua missione, egoismo radicale che tra l’altro mal si concilia con il fine che si vuole raggiungere, che è appunto la distruzione dell’io. Nel momento supremo Buddha vive infatti nella sua solitudine e pensa solo per sé. Anche qui Buddha non conosce l’amore. Forse si può parlare al massimo di benevolenza, ma quale amore vi può mai essere se la persona è negata e il rapporto non esiste più? Quale abisso col cristianesimo! In Gesù Cristo c’è tutto il fremito della sua umanità dentro la sua divinità, tutto il dramma della sofferenza umana fino alle soglie della disperazione Gesù assume su di sé proprio perché egli è venuto per salvare l’uomo caduto e perduto. Veramente Gesù è spogliato delle vesti, come ricordiamo nella via crucis perché veramente svuota se stesso come Dio, si spoglia di ogni prerogativa e attributo di-

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vino per rivestire la nostra povera e disperata umanità. Niente è estraneo a Gesù di ciò che è umano, tutti i sentimenti e le emozioni umane egli non le attraversa, non le percorre sorvolandole come di sfuggita, non le vive in maniera accidentale ma le conosce e le esperimenta fino in fondo, si vede questo già nella sua vita ma soprattutto si vede nella sua passione e nella sua morte. Toccante quanto scrive Barsotti. «Non così muore Gesù. È più umana ed è più divina la sua morte. Più umana, perché effettivamente l’esistenza non è un male assoluto dal quale dobbiamo liberarci. Dobbiamo liberarci dai mali dell’esistenza, non dall’esistenza come tale. E per questo, siccome l’esistenza rimane un bene, Gesù soffre una morte, vive un’agonia nel Gethsemani – e questa rottura gli fa paura e lo fa gemere. L’uomo rimane uomo. Ma come è più divino! Perché? Perché Egli vive in una purezza assoluta, cioè in un’assoluta libertà da ogni egoismo. Nostro Signore lega a Sé tutte quante le cose, per tutte quante Egli soffre; Egli vive la passione di tutti gli uomini, il peccato di tutti. Invece di affrancarsi come Buddha, nella sua morte Egli si lega, si lega a tutte le cose. Egli ha assunto una natura umana nel seno della Vergine; Egli assume tutto il peccato del mondo nella sua morte di croce. La morte non scioglie Gesù da questo mondo: lo lega a tutti noi nel modo più intimo, nel modo più profondo. Proprio perché libero da ogni egoismo Egli può comunicare tutto Sé stesso a ciascuno, può ricevere in Sé ciascuno di noi totalmente – cosa che Buddha non fa, cosa che non fa nemmeno Socrate, ma tanto meno Buddha. Buddha non riceve nemmeno i suoi discepoli, egli non li ama, in fondo. Nulla lo tocca, né il bene né il male, né l’amore né l’odio. E Gesù invece è toccato e raggiunto fin nelle più intime fibre dell’essere suo dall’odio del mondo e dall’amore degli uomini. Egli chiede l’amore: che cosa meravigliosa! Un Dio che chiede l’amore! Un Dio che chiede consolazione agli uomini: a Pietro, a Giacomo, a Giovanni. Più uomo e più Dio, Gesù!». Una seconda novità concerne un tema messo in grande risalto e che rende veramente unica la passione e la morte

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di Gesù: il dramma di una lotta: non solo la salvezza portata da Gesù non è la pace che è annullamento di tutto, negazione di questo mondo apparente e impermanente, cancellazione di ogni persona e individualità, azzeramento di ogni differenza, assenza anzi morte di tutto ciò che è umano, ma l’esperienza della lotta fino all’ultimo sangue contro il male, contro l’impero delle tenebre, e non solo, perché il male non è un male metafisico e impersonale, la lotta infatti tra un mysterium salutis e un mysterium iniquitatis diviene in Gesù una lotta contro il principe di questo mondo, Satana. E veramente la redenzione è il riscatto che è costato il sangue di un Dio, un Dio che è divenuto l’uomo Gesù. Barsotti ben lo evidenzia in due questi termini: «Il mondo del male tutto si fa presente nella presenza dell’infinita misericordia di Dio che offre Sé stesso per la salvezza di tutti. Mai il male e il bene, mai il peccato e la santità si sono più uniti come in questo Atto: e naturalmente chi ha vinto non è stato che l’Amore, non è stato che Dio. Non la dissipazione dell’ignoranza poteva salvare, ma la lotta intrapresa da Cristo contro il Maligno – questa, poteva salvarci. Di fronte a una salvezza che per i Greci e per gli Indù si ottiene soltanto con la conoscenza che dissipa la nebbia dell’ignoranza e dell’illusione, la lotta di Gesù contro il principe delle tenebre, il male, non è illusione: il male è una realtà con la quale Dio stesso ha dovuto lottare, con la quale Dio stesso ha dovuto scontrarsi nella sua agonia, nella sua morte. Così si spiega come la morte di Gesù, anche per chi non crede, o non voglia o non sappia riconoscere in Gesù Cristo il Figlio di Dio, sia immensamente più grande della morte di un Socrate o di un Buddha Gautama, anche se la morte dell’uno e dell’altro, considerati fra i più grandi uomini che l’umanità abbia posseduto, ha un valore di esemplarità e di grandezza indiscutibile». A questo punto possiamo affermare che avendo dovuto Gesù combattere contro lo spirito del male ha dovuto subire e vincere tutte le tentazioni che Satana ha sferrato contro la sua umanità.

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Così il discorso sul combattimento di Gesù ci porta quasi naturalmente al terzo elemento di novità di queste meditazioni di Barsotti: le analogie tra la passione e le tentazioni nel deserto. È ora che davvero le tentazioni si fanno presenti in tutta la loro violenza fisica e psicologica e Gesù le vince una volta per sempre. Gesù è sottratto sì al peccato, ma non si è sottratto a quella prova per la quale, come insegna la lettera agli Ebrei, «imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» ( Eb 5,8-9). Nella natura umana assunta egli non ha voluto sottrarsi alla violenza di quelle passioni e di quegli istinti che nel peccato d’origine hanno la loro radice per strappare l’uomo a se stesso, alla legge dell’egoismo e ordinarlo a Dio. Barsotti così spiega: «Le tre tentazioni si fanno presenti come pena. Gesù non vive il peccato in quanto lo commette, ma lo vive in quanto ne soffre tutta la pena. E alla tentazione della carne risponde ora la passione della sua carne; e alla tentazione dell’orgoglio risponde ora la passione della umiliazione, dell’avvilimento, dell’abiezione più fonda, dell’abbandono totale; e alla tentazione di volersi servire di Dio per difendere Sé, per affermare Sé, risponde ora questa assoluta impotenza, questo sentimento anche dell’abbandono divino».

Altra novità riguarda la concezione del nostro rapporto con Cristo. Molto spesso anche le tante forme di devozioni popolare pur rappresentando un mezzo apprezzabile e validissimo per incrementare in noi l’amore per Cristo, per penetrare nella sua umanità, per aiutarci a crescere e vivere la nostra unione con Cristo, a sentire viva la sua presenza, a fare nostri i suoi sentimenti, possono anche tuttavia rivelarsi un’ostacolo al nostro cammino spirituale nella misura in cui ci si ferma a considerare la persona del Cristo come fosse il termine ultimo, come se tutto terminasse nella nostra identificazione con lui, mentre il termine della vita cristiana non è Cristo ma il Padre. Cristo è via oltre che essere verità e vita e rimane per sempre la via, la via che conduce al Padre. Egli è

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il Figlio di Dio divenuto uomo e nella sua umanità rimane il mediatore tra noi e Dio Padre. Egli è venuto nel mondo proprio per questo, per rivelarci il volto del Padre perché possiamo dire Abbà, Padre. Gesù non cerca e non vuole nulla per sé, è sempre e unicamente rivolto verso il Padre. Potremmo dire parafrasando un po’ il prologo del vangelo di Giovanni che come il Verbo eterno è sempre rivolto verso il Padre così anche l’umanità di Gesù è rivolta verso il Padre, nulla volendo per sé e nulla facendo servire a sé stesso. E Gesù tutto assume nella sua umanità per presentarlo e portarlo al Padre. Ecco per esempio quanto scrive Barsotti a proposito dell’abbandono che vive Gesù sulla croce. «Egli ti assume; tu, indubbiamente, devi amare Gesù, ma questo amore non ha termine nel Cristo: ha termine in una tua identificazione con Lui perché poi, tu insieme a Lui, fatto una sola cosa con Lui, nell’amore, possa vivere nel seno del Padre, possa ordinarti totalmente al Padre, immergerti nella sua luce infinita, perderti in Lui eternamente. L’amore per Cristo, insomma, è sempre una via, non è il termine della vita cristiana. Di qui la relatività di ogni spiritualità cristiana che termini nell’amore per Nostro Signore Gesù. Nostro Signore è mediatore, nostro Signore è tuo fratello, nostro Signore è Colui che assumendoti come membro del suo Corpo, ti fa vivere questa relazione totale di amore per il Padre celeste. Non in Lui dunque deve terminare il nostro amore. Si vede bene che nella morte nulla Egli chiede per Sé, e nulla riceve per Sé, né dagli uomini né del cielo – gli uomini tutto gli rifiutano».

Infine, un’altra bellissima originale riflessione riguarda le apparizioni Gesù risorto in rapporto con le manifestazioni angeliche. Non è infrequente nella predicazione di don Divo il tema del nostro rapporto con gli angeli, ma il soffermavisi qui nel contesto delle apparizioni del Risorto assume un significato speciale. Egli nota come la prima esperienza che le donne vivono non è direttamente quella dell’incontro con il Risorto ma quella della presenza degli angeli, ed è qualcosa che ci ricorda e ravviva la coscienza della bellezza e della

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grandezza del nostro essere cristiani. Noi siamo testimoni del Risorto e a noi oggi come un tempo alle donne gli angeli rivolgono l’invito gioioso a vedere, ad andare ad annunciare che egli è davvero risorto e non è più nella tomba. Con la resurrezione del Signore noi siamo entrati nel mondo di Dio, nella nuova creazione. Il primo effetto è questa comunione con il mondo soprannaturale, la famigliarità con gli spiriti celesti. Il cerchio così si chiude. Noi celebriamo infatti il mistero del Natale con la presenza degli angeli che ci invitano a Betlem mentre essi cantano la gloria di Dio nell’alto dei cieli e la sua pace discesa sulla terra. Allo stesso modo, essi che sono i primi testimoni della resurrezione rivolgono a noi lo stesso invito il giorno di Pasqua: venite, vedete dove era deposto. Ecco quanto scrive don Divo: «Se siamo cristiani, che cosa siamo se non i testimoni della resurrezione di Gesù? Altrimenti non siamo nemmeno cristiani. Siamo cristiani nella misura che siamo testimoni di questa resurrezione. È chiaro. E dunque, la nostra esperienza è l’esperienza degli angeli, è l’esperienza della loro parola, del loro invito, del loro richiamo. “Venite e vedete”: anche noi siamo invitati a vedere che il sepolcro è vuoto, che il Cristo è risorto. Anche noi. Tutta qui è la nostra esperienza: un lasciare di notte – come nelle notti di san Giovanni della croce – la nostra casa, per andare da Lui; un incontrarci con gli angeli, un essere invitati da loro ad entrare là dove Gesù riposava, per poi, disposti da questo ministero angelico, da questa comunione di vita con loro, incontrarci nella strada, quando meno lo pensiamo, con Lui stesso che viene (Lc 24, 13 ss.)».

Padre Martino Massa CFD

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