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Passione, morte e resurrezione Il complotto contro Gesù

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Prefazione

Prefazione

Mt 26, 1-5 1Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: 2«Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso». 3Allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono nel palazzo del sommo sacerdote, che si chiamava Caifa, 4e tennero consiglio per catturare Gesù con un inganno e farlo morire. 5Dicevano però: «Non durante la festa, perché non avvenga una rivolta fra il popolo».

Un confronto tra Gesù, Socrate e Buddha

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Si inizia la passione del Signore. La Buona Novella in fondo non è altro che l’annuncio di questa morte: i discorsi di Gesù la preparavano, ne dicevano gli effetti, ne suggerivano il contenuto, il mistero. E non solo la storia di Israele, ma la vita di Gesù non era che una lunga preparazione a questo Atto in cui doveva riassumersi tutta la vita del mondo e dal quale tutta la creazione avrebbe ricevuto la salvezza e la vita, gli uomini che erano caduti in peccato e anche gli angeli. Così si spiega come intorno alla passione di Gesù, intorno a Gesù morente si agiti il mondo. Il mondo del male tutto si fa presente nella presenza dell’infinita misericordia di Dio che offre Sé stesso per la salvezza di tutti. Mai il male e il bene, mai il peccato e la santità si sono più uniti come in questo Atto: e naturalmente chi ha vinto non è stato che l’Amore, non è stato che Dio. Non la dissipazione dell’ignoranza poteva salvare, ma la

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lotta intrapresa da Cristo contro il Maligno – questa, poteva salvarci.

Di fronte a una salvezza che per i Greci e per gli Indù si ottiene soltanto con la conoscenza che dissipa la nebbia dell’ignoranza e dell’illusione, la lotta di Gesù contro il principe delle tenebre, il male, non è illusione: il male è una realtà con la quale Dio stesso ha dovuto lottare, con la quale Dio stesso ha dovuto scontrarsi nella sua agonia, nella sua morte. Così si spiega come la morte di Gesù, anche per chi non crede, o non voglia o non sappia riconoscere in Gesù Cristo il Figlio di Dio, sia immensamente più grande della morte di un Socrate o di un Buddha Gautama, anche se la morte dell’uno e dell’altro, considerati fra i più grandi uomini che l’umanità abbia posseduto, ha un valore di esemplarità e di grandezza indiscutibile. In queste due morti rimane qualche cosa che noi non possiamo accettare: come un voluto misconoscimento di quelle che sono le ragioni ultime della vita, di quelli che sono i valori supremi. Questo soprattutto è vero per Buddha anche più che per Socrate. La morte di Buddha ha una grandezza che ci sgomenta, superiore certo a quella di Socrate, perché Socrate in fondo credeva, aspirava all’immortalità, la vedeva vicina; mentre Buddha non insegna che la sua totale estinzione, non accettata, ma voluta. Come questa estinzione totale si possa conciliare, per lui – che insegnava non la beatitudine, perché è al di là della beatitudine come del bene del male il suo insegnamento – con una salvezza, come si possa conciliare con una liberazione, non si comprende. Che cosa salva il nulla? Da che cosa ci libera? «Dal male dell’esistenza», ci può dire Buddha. Ma se l’esistenza è soltanto un male, allora il bene in che consiste? Buddha non l’ha saputo dire. Di qui il carattere equivoco di un insegnamento, che può essere anche sublime, ma equivoco tuttavia, come equivoca è la morte di quest’uomo grande.

Qualche punto di somiglianza vi può essere fra l’uno e l’altro, fra la morte di Gesù e la morte di Buddha. Tanto in Gesù come in Buddha l’inizio della morte è l’incontro con

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una donna. Gesù si incontra con Maria di Betania (Mt 26, 6) e viene da lei come consacrato per l’atto che Egli deve compiere come Sacerdote unico ed eterno nell’offerta che Egli farà di Sé stesso al Padre per la redenzione del mondo. Buddha Gautama si incontra pure con una donna: l’etèra Ambapali, che lo invita a mangiare nella sua casa e offre poi il suo magnifico giardino di manghi per lui e per i suoi monaci.

Se vi è un inizio che sembra somigliante, ma che è invece infinitamente diverso, come diverso è il seguito! Nel bosco di manghi lo trova il suo discepolo preferito, Ananda, contento che il “Sublime” abbia vinto la morte; il mondo ha ancora bisogno della sua parola! Buddha non accetta le parole del discepolo: I discepoli hanno la sua dottrina, basta questo – lui deve morire, perché «tutto ciò che nasce deve morire». Egli allontana la tentazione.

Anche Gesù fu tentato nel Gethsemani: altra analogia. Buddha lascia il giardino dei manghi e va a predicare la sua dottrina fino all’ultimo giorno. A Vaishali, Kunda gli offre ospitalità e Buddha accetta un piatto di funghi, che però son velenosi. Se ne accorge, ma non può rifiutare quello che gli viene offerto: ne mangia, ma fa seppellire sottoterra quanto ne resta perché solo “il Sublime”, lui stesso, ne può mangiare, nessun altro, è lui che deve morire. Nonostante i terribili effetti del veleno Buddha continua il suo pellegrinaggio: stanco si stende ai piedi di un albero; ha sete e chiede da bere, dà ad Ananda la sua ciotola da mendicante, poi beve, si alza e va al fiume, si bagna e beve ancora. Si accorge che un eremita vuol vederlo: è morente, ma deve insegnare ancora. Non ha rimproveri per Kunda che l’ha fatto morire, anzi gli è grato perché proprio per lui il Buddha va nella “totale estinzione”. Riprende invece Ananda che piange: «Non è giusto per te, Ananda, piangere: tutto quello che nasce deve morire. Perché piangere dal momento che io vado verso la totale estinzione che vuol dire la totale liberazione, che non rinascerò mai più?». Rinascere, vivere, è pena, è l’inferno, per Buddha.

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Anche per l’Induismo è così, sembra. Queste dottrine, questi popoli, non sono mai giunti alla nozione della persona. Buddha dice queste ultime parole, prima di morire: «Monaci, vi esorto. Periscono tutte le cose: lottate senza tregua per liberarvi di tutti i legami con un mondo transeunte».

Non esiste un mondo permanente per il Buddhismo. L’anima stessa, l’uomo stesso, è un fascio di sensazioni. Non c’è nulla di permanente nell’uomo, nemmeno durante la sua vita. E allora? Se è “male” l’esistenza, che cosa è “bene”? Può essere un male relativo; ma di fronte all’esistenza che è “male”, che cosa è “bene”? La totale estinzione: questa è la salvezza. La salvezza è dunque il nulla. Per l’Induismo il “nirwana” non è il nulla: è una identificazione col “tutto”, piuttosto. Ma non così per Buddha. Per Buddha anche gli dèi sono il male, perché “esistono”; essi stessi debbono imparare da Buddha a liberarsi da un’esistenza che è cosa che passa anche se per loro sarà più lunga la vita. La morte per il nulla. Che cos’è questo nulla è difficile dirlo!

Ma lasciamo andare la dottrina di Buddha! La morte di Buddha nella perfetta calma, in una serenità luminosa, è di una grandezza reale. Egli sembra al di sopra della vita e della morte. Non conosce nessuno, non ha nessun legame – imperturbabile, incorruttibile, egli vive al di sopra, è intangibile al mondo. Non esistono più per lui né dèi né demoni, né uomini né cose; non esiste che questa calma imperturbabile, di cui non possiamo sapere il contenuto. È il possesso dello spirito, di uno spirito affrancato dai legami col mondo, di uno spirito umano che, di fatto, è immortale. Ma questa esperienza dello spirito umano rimasto nella sua solitudine senza comunione con nulla, con alcuno, non è dunque l’inferno?

Non così muore Gesù. È più umana ed è più divina la sua morte. Più umana, perché effettivamente l’esistenza non è un male assoluto dal quale dobbiamo liberarci. Dobbiamo liberarci dai mali dell’esistenza, non dall’esistenza come tale. E per questo, siccome l’esistenza rimane un bene, Gesù soffre una morte, vive un’agonia nel Gethsemani – e questa rottura

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gli fa paura e lo fa gemere. L’uomo rimane uomo. Ma come è più divino! Perché? Perché Egli vive in una purezza assoluta, cioè in un’assoluta libertà da ogni egoismo. Nostro Signore lega a Sé tutte quante le cose, per tutte quante Egli soffre; Egli vive la passione di tutti gli uomini, il peccato di tutti. Invece di affrancarsi come Buddha, nella sua morte Egli si lega, si lega a tutte le cose. Egli ha assunto una natura umana nel seno della Vergine; Egli assume tutto il peccato del mondo nella sua morte di croce. La morte non scioglie Gesù da questo mondo: lo lega a tutti noi nel modo più intimo, nel modo più profondo. Proprio perché libero da ogni egoismo Egli può comunicare tutto Sé stesso a ciascuno, può ricevere in Sé ciascuno di noi totalmente – cosa che Buddha non fa, cosa che non fa nemmeno Socrate, ma tanto meno Buddha. Buddha non riceve nemmeno i suoi discepoli, egli non li ama, in fondo. Nulla lo tocca, né il bene né il male, né l’amore né l’odio. E Gesù invece è toccato e raggiunto fin nelle più intime fibre dell’essere suo dall’odio del mondo e dall’amore degli uomini. Egli chiede l’amore: che cosa meravigliosa! Un Dio che chiede l’amore! Un Dio che chiede consolazione agli uomini: a Pietro, a Giacomo, a Giovanni. Più uomo e più Dio, Gesù! Nella purezza totale da ogni egoismo Egli vive la comunione più intima, più profonda con tutti, tanto che in Lui, nell’atto della sua morte, tutta la creazione veramente vien rinnovata. «Un fremito passa – dicono i testi canonici del Buddhismo – un fremito passa su tutto l’universo alla morte di Buddha». Ma non è nulla, questo fremito, in paragone di quello che avviene all’atto della morte del Cristo: non un fremito ma una redenzione, una rinnovazione dell’universo si compie, una nuova creazione di tutto, perché tutto in quell’istante è assunto da Dio e offerto al Padre. In quell’istante viene redento non un uomo – Buddha è lui solo che è redento nella sua morte, lui solo che è liberato e “compiuto” – non l’umanità soltanto di Gesù è salvata e redenta, ma tutti gli uomini di tutti quanti i secoli, di tutte le generazioni, di tutti i popoli della terra; tutta quanta la creazione è redenta, tutta nell’atto

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di questa morte. Tutta Egli la porta con Sé, tutta l’assume, tutta la stringe al suo cuore, tutta la lega a Sé stesso per farsi solidale con tutto. Invece di sciogliersi, si lega: ecco l’amore.

Di qui il carattere totalmente diverso della morte di Gesù dalla morte di Buddha e anche di Socrate. Questi uomini, quanto più sono grandi tanto più si separano, tanto più si liberano da ogni legame con gli altri uomini; quanto più sono grandi tanto più si distaccano, sono solitari. Gesù dice invece: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19). Egli vuole che gli uomini lo ricordino, chiede di esser presente nel cuore di coloro che Egli ama. Buddha deve totalmente estinguersi. «Che cosa vi importa di me?» –non capisce nemmeno le lacrime. Un unico punto di pathos vi è in tutti i libri canonici del Buddhismo, che sono settecentocinquanta: il pianto di Ananda, a cui però non risponde una parola di comprensione, di commiserazione. A Buddha non importa che gli altri pensino a lui: quel che conta è la sua dottrina. «Solo quando il Sublime, avendo tolto dalla mente tutte le rappresentazioni, essendo liberato da ogni sensazione, ha raggiunto il raccoglimento dell’anima senza rappresentazioni, solo allora, Ananda, il corpo del Sublime si sente bene. Perciò, Ananda, siate luce a voi stessi, siate rifugio a voi stessi senza altro rifugio».

No! Il mio rifugio è Cristo! Io non posso salvarmi da me, io non voglio salvarmi da me. «La dottrina sia luce, la dottrina sia rifugio senza altro rifugio» – non vi è dottrina nel cristianesimo e nemmeno nell’ebraismo: tutto è una storia. Chi conta son le persone: sono Mosè ed Abramo, Elia, Isaia e Geremia – è Gesù. Le dottrine contano soltanto perché ci fanno penetrare in loro, avvicinare a loro, far nostra la loro esperienza, il loro stesso mistero.

Nel cristianesimo quel che conta è Cristo, non la dottrina. E si può anche dire che tutto quello che dice il Vangelo come dottrina si ritrova nel Talmud, si ritrova nei libri nemmeno canonici nell’ebraismo. Non c’è una frase di Nostro Signore che non si ritrovi più o meno nei testi dell’ebraismo contemporaneo del Cristo. Quello che non si trova nell’ebraismo è

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Gesù, il mistero di una incarnazione divina. Lui non si trova, ed è Lui che il cristiano vuole, a Lui il cristiano si attacca, è in Lui, non nella sua dottrina, che il cristiano si rifugia, è a Lui che il cristiano chiede salvezza. Che cos’è la dottrina? Che me ne faccio se non è la traduzione concettuale di un rapporto di amore, di una esperienza di vita?

Ma ora dobbiamo commentare brevemente il passo evangelico. Noi dobbiamo considerare questi versetti precisamente come introduzione alla passione di Gesù. Già questi versetti ci dicono come in tutt’altra atmosfera si svolge la morte di Gesù: un’atmosfera di odio. In Buddha, tutto calma, tutto serenità e pace. Anche la morte di vari santi cristiani può assomigliare alla morte di Buddha: intorno a Francesco che muore tutto è pace e serenità; Perugia ed Assisi si contendono il corpo del santo – a Buddha i discepoli domandano che fare del suo corpo, come sistemarlo, e lui dice come deve esser trattato: come un figlio di re. Anche per Francesco tanta devozione – non c’è odio intorno a lui. Ma la passione di Gesù si inizia ed è determinata dall’odio degli uomini.

Ma non è questo che interessa. La morte negli evangelisti è considerata come un mistero, anzi come un atto cultuale. Ecco perché all’inizio stesso della passione si parla di sacerdoti di Israele. Anche nella vita di Buddha i sacerdoti brahamani sono contro l’insegnamento di lui, ma tuttavia non hanno mai scatenato contro Buddha quelle violente tempeste che l’odio dei sacerdoti giudaici invece ha scatenato contro Gesù.

Anche in san Giovanni, in san Matteo, in tutti gli evangelisti sembra si voglia sottolineare il fatto che la passione di Gesù ha inizio nella casa del Sommo Sacerdote Caifa. San Giovanni sottolinea la profezia della morte di Gesù: «È necessario che uno muoia per il popolo», dice Caifa (Gv 18, 14) e nella sua casa si complotta sulla morte che deve avvenire. Lo stesso in san Matteo. Perché? La morte di Gesù non è un fatto naturale come in Buddha: Gesù muore perché ucciso, immolato, in un giorno di festa, nel giorno della Pasqua dei Giudei, come l’agnello – e lo sottolineerà il Quarto Vangelo

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– come l’agnello immolato nella festa degli azzimi il cui sangue doveva salvare il popolo ebraico dall’angelo sterminatore; così muore Gesù.

La sua morte dunque è un mistero sacro, è un atto sacrificale. È giusto, dunque, che fin dall’inizio sia il Sacerdote a compiere l’atto, a introdurci in questo mistero, in questo dramma. Gesù da Sé stesso si offrirà alla morte – «Oblatus est quia ipse voluit» (Is 53, 7) ma sono i sacerdoti giudaici che gli danno la morte. E Gesù proprio nella sua passione noterà che Egli legittimamente è Sacerdote. Egli stesso, a chi gli rimprovera di aver risposto male al sacerdote, non nega di essere, Lui, Sommo Sacerdote e che al Sommo Sacerdote si debba rispetto. Nella morte di Gesù i sacerdoti hanno un loro compito preciso, un compito fondamentale: quello di dargli la morte. Egli stesso si offre alla morte come Sommo Sacerdote, ma è legittimo anche il sacerdozio giudaico ed è il sacerdozio giudaico che lo immola.

Atto sacrificale, mistero sacro. Le profezie della passione non sono come in Buddha il riconoscimento di una necessità che dobbiamo accettare serenamente: nella profezia di Gesù è già il fremito e lo sgomento di un uomo che si vede deriso, schiaffeggiato e crocifisso. Fremito e sgomento: questo mi sembra di poter rilevare dall’insistenza che ha Gesù nell’annunciare proprio quegli elementi di avvilimento, di mortificazione, di tormento che accompagneranno la sua morte. Egli non annuncia soltanto la sua morte, annuncia la crocifissione perché gli fa spavento, annuncia di essere sputacchiato e deriso perché sente già fin da ora come costerà tutto questo a Lui, uomo che ama.

«Allora i principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo si adunarono nell’atrio del principe dei sacerdoti che si chiamava Caifa». Tutti si riuniscono, ma è Caifa che determina tutto. La passione di Gesù si inizia con le sue parole, si inizia col suo proposito, colla sua volontà. In Giovanni è detto: «È necessario che uno muoia per il popolo»; qua in san Matteo: «deliberarono sul modo di catturare Gesù con l’inganno per

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farlo morire». Deliberarono: chi poteva deliberare se non tutti insieme al Sommo Pontefice, se non il Sommo Pontefice con tutti? Praticamente è lui che guida la discussione, è la sua volontà che dà un valore alla deliberazione di tutto il Sinedrio di far morire Gesù.

Fin dall’inizio, dunque, è la morte che conta. Si imbastirà un processo, ma soltanto per gettare della polvere negli occhi; già si sa fin dall’inizio che cosa si deve compiere, che cosa si deve realizzare: la sua crocifissione, la sua immolazione. Non conta che Egli sia riconosciuto colpevole, non conta che Egli sia fatto tacere; quel che conta è che Egli muoia. «È bene che uno muoia per il popolo». Fin dall’inizio sempre la morte veduta e voluta.

«Ma dicevano: non in giorno di festa perché non avvenga tumulto nel popolo». Si poteva temere infatti dei Galilei, che nei giorni di festa erano tutti a Gerusalemme. Si pensa che a Gerusalemme ci fossero in quei giorni due milioni e mezzo di persone, o almeno, se non proprio in un giorno, si avvicendassero nei sette giorni della solennità. Due milioni e mezzo di persone in una piccola città! Il fatto che Gesù muoia durante questa solennità dà un carattere di pubblicità a questa morte, carattere che né la morte di Francesco, né la morte di Socrate chiuso nel carcere, né la morte di Buddha all’aperto insieme ai discepoli ma lontano dalla folla, hanno avuto. Gesù è in mezzo a una folla distratta, a una moltitudine incomposta, furente, più o meno inconsapevole di quello che avviene, ma tuttavia in mezzo a una moltitudine immensa.

«Non in giorno di festa perché non avvenga tumulto nel popolo». Invece sarà proprio in un giorno di festa che Gesù morrà. Dio in qualche modo farà tacere tutti coloro che lo amano, farà soltanto parlare invece coloro che lo odiano. Si scarica su Gesù non l’amore dei discepoli ma l’odio degli scribi, dei farisei, dei sommi sacerdoti, dei sadducei, lo scherno di Erode, l’incuranza di Pilato – si scarica su di Lui tutto il male del mondo. Egli sembra frenare, chiudere, tutte le porte alla pietà per Sé. Di fatto, quando poche donne, sulla via del

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Calvario, hanno qualche parola di commiserazione per Lui, Egli le fa tacere. Egli che ha avuto pietà per tutti, ora, nella sua morte, non riceve lenimento.

Gesù può salvare veramente tutto il mondo perché tutto Egli lo porta sopra di Sé; di tutto il peso Egli si grava di un odio feroce, di una ingratitudine, di un tradimento, di un abbandono… e rimane un uomo che soffre, ma che nella sua sofferenza non si chiude, come coloro che soffrono, in Sé stesso, per commiserarsi, per difendersi contro questo odio. Si offre senza difesa a tutto questo male perché Egli ama; e ama fino all’ultimo istante, e ama con tutto Sé stesso, e si fa vulnerabile di fronte a ciascuno. Tutti possono ferirlo, perché da nessuno Egli si separa; tutti possono colpirlo, perché nelle mani di tutti Egli si mette, perché tutti Egli veramente ama fino all’estremo.

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