Marino Biondi
Letteratura giornalismo commenti Un diario di letture studi 32
studi 32
Marino Biondi
Letteratura giornalismo commenti Un diario di letture
SocietĂ
Editrice Fiorentina
Il volume è frutto di una ricerca svolta presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze e che beneficia per la pubblicazione di un contributo a carico dei fondi amministrati dallo stesso Dipartimento
© 2018 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-483-2 ebook isbn: 978-88-6032-489-4 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata
a Rosario Pintaudi
Indice
9 Premessa 11 temi e questioni di varia letteratura 13 Romanzi fiabe critica cronaca politica Si parva licet uno zibaldone 53 Commento a Gadda «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana» 117 Nota bibliografica 123 Adescati dai libri Giornate di lettura 165 167 173 179 193 199 207 215 219 225 237 247 253 259 263 275
Giornalismo e giornalismi Che ne è del grande mestiere? Appunti all’ombra delle ultime edicole In principio fu «Il Corriere» Trump e trumpismo Evoluzione involuzione New Journalism. Anatomia di un delitto New Journalism. The Family New Journalism. Biografie dei signori della rete New Journalism. Tom Wolfe e il rogo delle vanità New Journalism made in Italy La letteratura nel giornalismo L’avventura di «Repubblica» La Rai. Una storia d’amore La leggenda dell’Oriana Giornalismo a bassa risoluzione Notizie verità bufale Nota bibliografica. Emeroteca dei casi nazionali
305 311 315
Intorno a una biografia Walter Benjamin critica e destino Antologia benjaminiana Quanti tradimenti
Cose viste fra Italia e America Nelle città d’arte l’idolatria della bellezza America primo amore Bibliografia e altri appunti sugli Italiani in America
327 329 359 383
391 Dimensione scrittura 393 Italo Calvino Un profilo 417 Nota bibliografica Opere di Italo Calvino 419 Biografia e bibliografia della critica 423 Su Malaparte Il guerriero filosofo 430 Nota bibliografica 431 Una rassegna di studi sul Maledetto Toscano 436 Nota bibliografica 441 443 451
Firenze la città scritta Cronache e memorie fra Otto e Novecento Giulio Piccini in arte Jarro Memorabilità della vita La città di Vasco
455 457
Per un amico che non c’è più Maurizio e il suo amato Ottocento
465
Indice analitico
Premessa
Pubblico qui alcuni contributi che furono dedicati ad amici e colleghi nel momento in cui essi compivano l’anno fatidico in cui si lascia l’insegnamento universitario e il rito d’ambiente vuole che si venga omaggiati. Io ho sempre colto al volo queste opportunità. Per due ragioni. La prima è che sinceramente ho inteso dare in taluni casi il mio segnale di augurio e saluto alla persona che veniva festeggiata. Amici più che colleghi. La seconda è che mi è sempre piaciuto lavorare e imbastire scritture sulle occasioni che si presentano di volta in volta, perché danno libertà di azione e suggeriscono temi e pensieri in libertà. Come anche questa volta è accaduto. Qui in effetti si discorre un po’ di tutto, un giornale di bordo sulle realtà circostanti. Il giornalismo si mescola con la letteratura, anche perché sarebbe molto difficile separarli oggi, parti gemellari della specie che scrive. I nuclei portanti sono un dossier sul giornalismo contemporaneo, nato a margine di un interesse da sempre coltivato. Scrivendo un omaggio in un libro dedicato a Franco Contorbia (Università di Genova), c’era piena coerenza tematica con il lavoro e le competenze del destinatario. Nel giornalismo-giornalismi che gli abbiamo dedicato, il contributo più ampio del volume, non c’è solo il giornalismo italiano, su cui è stata fondamentale la sua ricerca e la sua lezione, e vorrei aggiungere la sua ostensione testuale, ma un ampio spazio è stato riservato a un altro tipo di scavo, indagine e racconto, su casi esemplari della cronaca, il giornalismo che è divenuto letteratura. Il New Journalism, tra America e Italia (Tom Wolfe, Meyer Levin, Ed Sanders, Andrew O’Hagan, Daniele Rielli). Ma anche una lunga nota informativa sull’emeroteca italiana odierna alle prese con problemi vecchi e nuovi, e con temi irrisolti legati ai momenti più tragici e cruenti della storia italiana. Un altro nucleo, se nucleo si può chiamare, tende alla divagazione dello Zibaldone, libro e genere che prediligo (il carnet d’atelier). Vi si trovano estratti di letture, senza un preciso vincolo di mandato: letteratura, storia, politica, attualità, paradossi, varie ed eventuali (e
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ancora giornalismo). Indirizzati all’amico Roberto Fedi (Università per Stranieri di Perugia). I pensieri delle nostre giornate di lettura sono fermati nelle pagine per Simona Costa, che tiene cattedra a Roma 3 ma presiede anche la modernità letteraria (Mod, associazione di Italianisti). Anche in questo caso non mi sembrava fuori luogo l’accostamento. Una passione letteraria, il Gadda del Pasticciaccio, è al centro di una analisi basata sul recente monumentale commento, ed è dedicato a Gino Tellini, storico eminente del romanzo italiano, e fino a ieri nostro decano a Firenze (Dilef ). Un viaggio americano di qualche anno fa è qui raccontato a Graziella Magherini, psicoanalista e grande esperta di letteratura odeporica, carissima amica. A Beppe Nicoletti, collega fiorentino fra i primi che conobbi e frequentai, è destinata una riflessione che ha, me ne rendo conto, qualche voltura o contorsione kafkiana, in cui si immaginano le sedi del nostro lavoro, tutt’altro che privo di asperità burocratiche e insondabili valutazioni, come un Castello misterioso e ostile. Ogni riferimento a persone e cose reali non è affatto puramente casuale. A Maurizio Bossi, direttore del Centro Romantico del Vieusseux, precocemente scomparso, ho dedicato un pensiero che ancora mi angustia, di non essergli stato più vicino di quanto avrei voluto. E infine, in Dimensione scrittura, e Firenze. La città scritta, autori di varia elezione e altrettanto diverso destino: un profilo di Italo Calvino, valore indiscusso ed esemplarmente canonizzato nelle lettere italiane della modernità. In antitesi, l’antagonista Curzio Malaparte, il grande e fiero reietto, il guerriero e filosofo delle Armate perdute, sondato in studi recenti che ne definiscono l’eccellenza (la straordinarietà), senza che mai questo autore sia riuscito a varcare il guado dell’accettabilità generale (sia entrato in un canone nazionale di letteratura, in un tema di maturità). A chiudere il libro un duplice cammeo dedicato alla città della vita, Firenze, che mi ospita da oltre mezzo secolo (4 novembre 1967), ma il pudore ha consigliato il discorso indiretto – ius soli giornalistico letterario e romanzesco – medium il cronista Giulio Piccini, in arte Jarro, e l’ultimo dei suoi scrittori, Vasco Pratolini. Un libro ispirato da amici non poteva che essere dedicato a un amico, Rosario Pintaudi, il primo compagno di studi a Firenze. Divenuto uno dei maggiori papirologi, è rimasto l’amico di sempre. M.B. Firenze 8 luglio 2018
temi e questioni di varia letteratura
Romanzi fiabe critica cronaca politica Si parva licet uno zibaldone1 per Roberto Fedi Una volta pronunciate, le parole diventano indistruttibili. Ad ogni istante, l’intero universo è sondato e manomesso, travagliato e scosso da parole. Words, words, words. Che altro volevi, principotto? (Giorgio Manganelli, Diciassette, in Discorso dell’ombra e dello stemma o del lettore e dello scrittore considerati come dementi)2 Una volta Paul Simon scrisse: «Com’è terribilmente strano avere 70 anni». Aveva ragione. (Stephen King, nato il 21 settembre 1947) Non mi ricordo più un belino. È ora di scrivere la mia autobiografia. (Altan, «L’Espresso», 18 febbraio 2018)
I personaggi dei romanzi e delle opere d’arte avanzano come avanza il destino. Il canto baleniero tra i Passi scelti che introducono al romanzo Moby-Dick è seguito subito dopo dall’apparizione di un giovane ciarliero Ishmael, il quale ci invita a chiamarlo con il suo nome (in ebraico significa Dio ascolta) e si presenta affabilmente: Qualche anno fa – non mette conto precisare quando – a corto o meglio a secco di quattrini e senza niente di speciale a trattenermi sulla terraferma, pensai di darmi per un po’ alla navigazione e di veder la parte acquorea del mondo.
1 Edito parzialmente nel vol. Avventure, itinerari e viaggi letterari. Studi per Roberto Fedi, a cura di G. Capecchi, T. Marino, F. Vitelli, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2018. All’amico Roberto Fedi, collega di rito fiorentino, dedico queste pagine di un diario, un po’ sconclusionate (ammissione patteggiata fin dal principio per godere eventualmente d’uno sconto di pena dall’Augusto Roberto e dall’intera redazione coordinata da Giovanni Capecchi), sperando che la duttile e nervosa intelligenza del festeggiato, Italianista autorevole ma anche riluttante, le accolga di buon grado. E di buon cuore. Anche per il Natale veniente. Per il Capodanno che nel frattempo è intervenuto, e la Befana, con i suoi nuovi possenti propositi. In caso contrario potranno dall’egemone essere cassate senza misericordia – basterà un suo cenno, un pollice verso. Oppure, se forzosamente compassionevolmente pubblicate, ignorate e segnalate a disdoro di quella che fu una nobile professione. 2 G. Manganelli, Diciassette, in Discorso dell’ombra e dello stemma o del lettore e dello scrittore considerati come dementi, a cura di S. S. Nigro, Milano, Adelphi, 2017, p. 93.
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L’acqua lo attira, ovunque un’onda si riversi su un lembo di terra, e di certo, argomentava, tutto ciò non era privo di significato. Ma quella medesima immagine noi stessi la scorgiamo in ogni fiume e in ogni oceano. È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita: e questa è la chiave di tutto3.
Abbiamo davanti ancora un’altra figura memorabile, Anna Karenina mentre scende dal treno a Mosca e dell’incontro con il conte Vronskij, che alla stazione attende sua madre, la quale viaggia su quello stesso treno (il destino appunto). Più della bellezza si direbbe che ad agire sia la stessa potenza del tempo umano, rapito all’esistenza e messo nel romanzo4. La critica le osserva queste figure agenti, questi personaggi fatali e segnati, portati sulle ali del tempo, li accompagna, li studia, li ama e li teme – alcuni di loro sono temibili e non è detto che ispirino simpatia – cerca di trarne segnali e insegnamenti non solo per la cultura letteraria ma per la vita. Sente che della vita esse sono un simbolo. Ha ragione Alessandro Piperno, che troppo si è insistito sul prestigio del dolore dell’artista, o della depressione saturnina come movente di letteratura. È la gioia, l’entusiasmo a generare le premesse per i grandi romanzi. Più che alle istorie, scrittori o aspiranti tali, vi esorto all’entusiasmo. Solo chi scrive sa quanto talvolta sia eccitante farlo. La depressione è sopravvalutata. Ammettiamolo, la solfa dell’artista pensoso gravato dal male di vivere ha goduto di una stampa fin troppo generosa. La verità è che i grandi romanzi sono figli di grandi entusiasmi5.
Entusiasmo, energia, potenza creatrice. Insomma il caos, o, come da apocalisse, un nuovo mondo. O quello che ne resta. Il Proust del Contre SainteBeuve sosteneva che i capolavori erano i relitti di grandi intelligenze. Fu Evelyn Waugh a dire che quando in una famiglia nasceva uno scrittore, quella famiglia era perduta. Perduto lui proprio, lo scrittore (l’idiota di casa), perduto il collettivo che gli ruoterà intorno anche nel dopo, fra conflitti e sacrifici umani (a parte il risarcimento previsto del copyright, quando l’idiozia si monetarizza). Don DeLillo ha aggiunto alle qualifiche che devono distinguere uno scrittore 3 H. Melville, Moby-Dick o la balena, trad. di O. Fatica, Torino, Einaudi, 2015, p. 21, p. 23 (Morgane). Romanzo enciclopedia delle balene, l’encicetaceo, con un valore di referto onomastico sulle potenze della creazione. 4 A. Piperno, Tolstoj o dell’arte di introdurre i personaggi, in Manifesto del libero lettore. Otto scrittori di cui non so fare a meno, Milano, Mondadori, 2017, p. 47: «Un incantevole aneddoto ritrae un vecchio Tolstoj che imbattendosi per caso in un romanzo, se ne lascia avvincere al punto da non riuscire a mollarlo. Una circostanza insolita, visto che da un pezzo ha ripudiato la narrativa bollandola come esercizio frivolo e peccaminoso. Finché l’occhio non gli cade sul frontespizio del volumone: si tratta di Anna Karenina. È una delle molte infondate storielle che hanno contribuito a cristallizzare il mito del massimo romanziere di ogni tempo». 5 Id., Cosa distingue i romanzi di Bellow dai suoi saggi? Nulla, in «La Lettura» «Il Corriere della Sera», 15 ottobre 2017, p. 17.
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anche quella di essere un cattivo cittadino («bad citizen»), e anche un bastardo («literary vandal»). La letteratura non può essere conforme, mentre tale è stata resa da un lungo processo di istituzionalizzazione. Nell’infanzia proustiana del Jean Santeuil, l’aurora di un genio, il padre faceva le veci di un carceriere che teneva d’occhio quella pericolosa cricca di furfanti che erano i poeti e i letterati, amici del figlio. Poi Marcel ebbe a scoprire che la letteratura era capace di operazioni di magia con la vita. Quello che nella vita andava male, poteva assestarsi benissimo in un romanzo. Il fallimento diventava il capolavoro6. Ma c’è anche di meglio. Qualcosa di buono. Scrivere un romanzo, ha detto Siri Hustvedt, è come ricordare qualcosa che non è mai accaduto. Facciamo con lo scrivere, e con il leggere, le prove generali, più magistrali, del nostro essere al mondo. Del nostro non esserci, anche. Ibridismo (di tempo, passato e presente, passato nel presente) e ironia (cervantiana) connotano il romanziere secondo lo spagnolo Cercas (Soldati di Salamina, Anatomia di un istante, L’impostore). Eppure sembra essere vero quello che notava un famoso scrittore russo, Viktor Erofeev (La bella di Mosca, 1982), che la letteratura oggi appare più debole, depressa, rispetto ad altre forme di espressione (comprese le serie televisive) – per non parlare del teatro semiestinto7 – e che molti scrittori, da lui incontrati in convegni internazionali (con l’eccezione di Houellebeck), gli sono sembrati fragili, stanchi, insicuri, esausti, «come spaghetti stracotti»8. Alto e basso, le graduatorie installate dalla cultura e dalle sue gerarchie, hanno qui un valore secondario. Uno scrittore norvegese Dag Solstad dubita fortemente che quando andiamo a teatro a vedere Ibsen o Sofocle non andiamo piuttosto alla recita della loro fama. Già Pirandello se la rideva della tragedia riflessa sul cielo di carta di un fondale scenografico. Non abbiamo neppure alcuna remora nel concedere buone ragioni al drammaturgo fiorentino, milanesizzatosi al “Piccolo”, Stefano Massini (Lehman Trilogy, 2016; L’interpretatore di sogni, 2017)9, allorché ha affermato 6 M. Proust, Lettere al duca di Valentinois, a cura e con note di J.-M. Quaranta, prefazione di J.-Y Tadié, trad. di F. Bergamasco, Milano, Archinto, 2018 (Paris, Gallimard, 2016), Tadié, prefazione, p. 7: «Quello che non funziona nella vita riesce nell’opera, che è anche una rivincita sulla vita». 4 lettere e un telegramma inediti (Archivio del Principato di Monaco), inviati nell’estate-autunno 1920 al giovane Pierre de Polignac, andato sposo alla principessa Charlotte de Monaco e divenuto pertanto Duca di Valentinois. Dava, Marcel, qualche consiglio sulla scrittura (richiestogli dal duca), ma bussava anche, felpato e tortuoso, a una sovvenzione per una edizione di lusso di All’ombra delle fanciulle in fiore (negatagli). 7 In realtà non mancano idee e fermenti. Vd. S. Minardi, Globe theatre, in «L’Espresso», n. 9, a. lxiv, 25 febbraio 2018, pp. 79-82. Il regista Giancarlo Cauteruccio: «A tutto ciò si offre il teatro di Koltès, che considero erede di Beckett e di Pinter per la capacità di affondare la lama nelle ferite del genere umano. Considerata la virtualizzazione nella quale siamo immersi, il teatro resta l’unica forma d’arte irriproducibile, che vive il qui e l’ora. E il pubblico lo sente: si identifica nel corpo dell’attore, ne coglie la fragilità» (ivi, pp. 81-82). 8 F. La Porta, Scritti dall’estetica «intermittente», a colloquio con Viktor Erofeev, in «Il Sole 24 Ore», 14 gennaio 2018. 9 Massini, drammaturgo di fama, ha pubblicato L’interpretatore dei sogni. Romanzo, Milano, Mondadori, 2017, una rielaborazione narrativa a frammenti della Traumdeutung, l’opera che ha inau-
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che Shakespeare, Ariosto, Balzac e Victor Hugo, sono tutti sceneggiatori e soggettisti a libro paga di Netflix e della Hbo10. Stiamo parlando di archetipi. Una potenza di fuoco narrativa, quella sprigionata da alcune delle odierne serie televisive, da radunare in sé una ricezione complessiva pari alla somma di letteratura d’appendice, saghe letterarie, sceneggiati televisivi d’antan, cinema. Massima potenza di fuoco, e incidenza profonda sulle persone. Emulazione sollecitata, tanto intensa e ficcante quanto potenzialmente deviante e pericolosa11. Massini, presente, presentissimo sulla scena italiana, e non solo su quella teatrale, secondo un osservatore equanime come Franco Cordelli “ingombrante”, mostra la tendenza a reperire analogie di alto profilo fra le cose che accadono e la letteratura. Presenzia, molto e intensamente presenzia, ma con lo sguardo discosto, da lontano. Ha paragonato le recenti reiterate consultazioni quirinalesche per la formazione del nuovo governo all’apologo kafkiano del messaggio dell’imperatore, che nell’attraversamento di lande sempre più sterminate mai sarebbe arrivato a destinazione12. L’immagine era suggestiva, ma è tuttavia probabile che un governo si farà (no, forse l’operoso drammaturgo ha avuto ragione; e invece no, il governo alla fine si è fatto). Il bravo presentatore direbbe: ecco il bello della diretta. Dentro una nebbia vagamente junghiana di inconsci collettivi, si mischiavano realtà, localismi di un’America profonda, allucinazioni, natura e oltremondo. Chi ha ucciso Laura Palmer, studentessa diciassettenne del locale liceo, e ne ha fatto ritrovare il corpo sul greto del lago? Tutto ebbe inizio con i misteri che assediavano, come le sue foreste, una cittadina del nord-ovest degli gurato il Novecento, con la quale Freud intendeva sfidare l’Acheronte («Acheronta movebo»). Che la psicoanalisi oggi sia diventata letteratura, assai più che terapia, lo rivela questo romanzo, tipica storia di derivazione tematica da altro, in cui Massini indaga l’animo dell’indagatore: «Senza sogno non c’è l’uomo. Per statuto naturale, il sogno è un po’ come il respiro, costituisce una parte imprescindibile dell’umano essere» (Una genesi dei sogni, ivi, p. 14). Un episodio voglio ricordare, quello del chirurgo giovane e di fama, abituato a recidere e rimuovere il male (si gettano, non si conservano le parti asportate, cancri e cancrene sui tavoli operatori), il quale si rivolge a Freud e gli chiede di asportargli gli incubi come fossero tumori: «Gli incubi non si fanno smettere – risponde Freud – gli incubi si trasformano in discorsi» (Il mattatoio del dottor Gregor N., ivi, pp. 264-265). Gli incubi trasformati in discorsi, inguariti e inguaribili, ecco la psicoanalisi. Lo spettacolo, Freud ovvero l’interpretazione dei sogni, testo di Massini, preso in carico da altri, il regista Federico Tiezzi, è andato in scena tra febbraio e l’11 marzo 2018, al Piccolo Teatro Strehler di Milano, Gifuni nel ruolo di Freud, riscuotendo consensi qualificati ma anche perplessi o qualificatamente perplessi, sul senso compiuto dell’intera operazione. Un teatro, quello italiano, che va in cerca più che di testi (che non trova), di pretesti, e scopre Freud e l’inconscio. Non proprio l’ombrello ma quasi. Scrive M. Porro: «A scuola si diceva di venire accompagnati dai genitori, oggi in scena si raccomanda di arrivare con lo psicoanalista. Pronto soccorso freudiano, come nel bestseller sul dr. Sigmund del Piccolo Teatro di Milano. Lo studio dell’anima spira per natura dentro il teatro, che infatti si occupa di ciò che non funziona. Dalla facinorosa famiglia degli Atridi alle sudate ansie di Tennessee Williams» (Id., Pronto soccorso Freud. A teatro con l’analista, in «La Lettura» «Corriere della Sera» 17 giugno 2018, p. 36). 10 S. Massini, Leggere Ariosto e Shakespeare sul teleschermo, in «la Repubblica», «Robinson», 17 dicembre 2017, p. 18. 11 L. Mastrantonio, Emulazioni pericolose. L’influenza della finzione nella vita sociale, Torino, Einaudi, 2018, p. 116 (L’effetto della fiction sulla gente, Sete di finzione, fame di realtà: serialità bulimica). 12 Otto e mezzo, a cura di L. Gruber, la7, 24 aprile 2018.
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Stati Uniti, al confine del Canada, Twin Peaks (“Welcome to Twin Peaks. Population 51.201”), per la regia di David Lynch (esordio negli Usa l’8 aprile 1990, prima puntata in Italia su Canale 5 il 9 gennaio 1991, e la storia ora riparte 25 anni dopo). E alla fine tutto ci è stato rivelato («All will be revealed»)13. Ho assistito per un’intera estate del 2016 (ero a letto, malato) a House of Cards, e anch’io vi scorsi un condensato di Machiavelli e di Shakespeare. Il respiro di un narrare antico. Antichi veleni nelle coronarie delle storie. L’intrigo, il delitto, il potere. Il sesso con un ruolo laterale, mai come fine (Cummannari, etc.). Le serie televisive americane fanno tesoro della biblioteca dei classici. Cinicamente sapienti e spettacolari. Le serie italiane, con la scusa della prima serata, dei bambini, delle fanciulle da maritare, invece sono pie e patriottiche, ispirate a carabinieri decorati, a giudici massacrati dalla mafia e a santi patentati di miracolo. Maritatele, raccomandava più di un secolo fa Ferdinando Martini, maritatele al più presto queste benedette fanciulle. E lasciateci liberi. La letteratura italiana fin dall’Ottocento ebbe fama di essere noiosa (sussiegosa, secondo Carlo Tenca; impopolare tra gli italiani, secondo il famoso pamplhet di Ruggero Bonghi, Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia. Lettere critiche, in prima edizione milanese del 1856). Lavoratori indefessi al tornio dello stile, affetti dal morbo della perfezione, come Manzoni – «e nei nostri paesi corrono formidabili racconti di decine d’anni omericamente spese a fare un romanzo, od anche solo a premeditarne lo stile, anzi a crearlo» (Carlo Cattaneo) – trasmettevano l’idea di una letteratura di solitari e rari e titanici e totemici capolavori, i quali uscivano uno per epoca, e poi si rintanavano autodivorandosi (Manzoni Saturno, e poi verrà Gadda, e i suoi tour infernali nello stile, da scoraggiarne qualsiasi esordiente). Mentre in altre patrie letterarie si facevano e si scodellavano libri e romanzi, con qualche sciatteria e sprezzatura, ma con meno drammatica infrequenza. Sempre l’altar maggiore dell’Arte, mai un altarino in una navata laterale, o qualche cripta sfiziosa e segreta (sì, ci fu la Scapigliatura). Già Giovanni Rajberti, nel suo Viaggio di un ignorante (1857), affermava che nel paese delle Accademie e degli Atenei, gli scrittori «non si degnano che di far dormire». E allora quei prepotenti degli scrittori francesi avevano la meglio, tenendoci svegli con le loro storie. La letteraura italiana è disumana? Non sembri mal posta la domanda. Risponde non solo uno scrittore di talento (La scuola cattolica, Premio Strega 2016), ma un insegnante di provata e grande esperienza, nel carcere romano di Rebibbia: Negli anni ho avuto una interessante conferma di una sola cosa: la letteratura italiana è leggibile? Sì, lo è. Così alta, difficile, crudele, esasperante, perché Dante, Machiavelli, Leopardi sono autori estremi, quasi insostenibili nella loro radicalità: sono autori sempre 13 Vd. M. Frost, Le vite segrete di Twin Peaks, trad. di S. Massaron, Milano, Mondadori, 2017; J. Lynch, Il diario segreto di Laura Palmer, trad. di R. Rambelli, ivi, “Oscar”, 2017.
18 temi e questioni di varia letteratura sul punto di far crollar tutto, tutti i valori, tutte le cose in cui uno crede. Per esempio, il radicale materialismo leopardiano già è complicato a farlo passare a un ragazzino di sedici anni, figurarsi a un uomo di quaranta o di cinquanta che lì in galera si attacca alla fede, alla famiglia, a qualche valore residuo, be’, arriva Leopardi, e gli stronca pure quello. Infatti, alcuni miei studenti, onestamente, mi hanno confessato: «Guarda, preferisco la menzogna, preferisco l’illusione, preferisco ingannarmi, avrà forse ragione lui, non lo nego, però io devo appigliarmi a qualcosa per vivere»14.
Il fatto è – e bisogna avere il coraggio di dirlo – che visto da un carcere, letto da una cella, dove l’unico sogno di un essere umano è il cielo che si vede dalla ferita a bocca di lupo, il leopardismo diviene anch’esso maniera, un mortifero intellettualismo, intendo la sua filosofia, non la sua poesia. La felicità si sa cosa sia da chi vede quel cielo, da chi sogna una donna che non può avere, da chi ha fame e saprebbe bene di cosa saziarsi, e non c’è speculazione negativa che tenga. Il pensiero negativo, sia pure come verità, non ha mai giovato a nessuno. E a proposito di segni e di tracce. Uno scrittore pakistano e americano, Mohsin Hamid, che è anche un critico della letteratura nell’era della globalità, ha osservato che «il protagonista di Lolita di Nabokov non è certo simpatico. Ma che voce! Ah. Quella voce ha acceso “il fuoco dei miei lombi”»15. Oggi basterebbe una campagna giornalistica per annientare Humbert Humbert, l’Orco di Nabokov, lui e le sue nefande azioni di seduzione su minorenni voluttuose. Fiorirebbero ovunque Lolite accusatrici. Lo stesso fuoco dei lombi, nudo e crudo, è scorrettissimo. Ma che voce che si leva da quella road trip. Almeno voce si potrà dire. Che altro è la letteratura (di Nabokov) se non quella voce. Allo stesso modo la contessa Karenina ti trasmette il fuoco della passione, anche quella passione che fa morire sotto un treno. La letteratura non è un giardino d’infanzia e oggi uscirebbe molto penalizzata dai codici etici che alcune tricoteuses stanno apprestando a furor di media16. Uno dei maestri del moderno, James Joyce, in una lettera a Miss Weaver (1876-1961), direttrice della «Rivista individualista» The Egoist e sua fervida ammiratrice, scriveva, nel mezzo della composizione di Ulisse, a proposito di letteratura, metodo e follia nel metodo: Anche Brock mi ha scritto implorandomi di spiegargli il metodo (o i metodi) della mia follia ma questi metodi sono tanto complessi, dato che variano da un’ora all’altra della giornata, da un organo del corpo all’altro, da episodio a episodio, che, per quanto 14 E. Albinati, Ma la cultura ci rende migliori?, in «Robinson», «la Repubblica», 11 febbraio 2018, p. 17. 15 M. Hamid, Ci preoccupiamo troppo che i personaggi siano «simpatici»? (2015-2016). 16 P. Battista, Il nuovo perbenismo oscurantista. Un’ondata censoria contro le opere di autori come Polanski, Balthus, Céline, Woody Allen, in «Corriere della Sera», 21 gennaio 2018: «Nel North Carolina è partito l’appello per togliere dalle librerie ogni traccia di Lolita di Nabokov, a tutela dei minori naturalmente. E le case editrici si sono affrettate a depurare i testi di Mark Twain perché contenevano la parola “negro”».
Romanzi fiabe critica cronaca politica 19 apprezzi la sua pazienza critica non ho potuto cercar di rispondere…. Se le «Sirene» sono risultate tanto insoddisfacenti ho poca speranza che il «Ciclope» o più avanti l’episodio di «Circe» saranno approvati: e inoltre mi è impossibile scrivere questi episodi rapidamente. Gli elementi necessari si fondono soltanto dopo una prolungata coesistenza. Riconosco che è un libro estremamente stancante ma è l’unico libro che sono in grado di scrivere attualmente…17
Jorge Luis Borges, sempre più presente nella letteratura moderna, un suo simbolo, una sua effigie vivente, diceva che non sapeva raccontare («io non so raccontare»), riteneva che non fosse neppure possibile raccontare dall’interno la vita di un uomo, e se mai fosse possibile immaginarsela quella vita da segni, tracce, indizi, apparenze, sciogliendo e interpretando enigmi (vediamo, secondo il detto di San Paolo, dentro uno specchio e per enigmi; Videmus in aenigmate era un titolo del filosofo platonico Francesco Acri). Borges è più che mai un protagonista della scena letteraria del mondo. Modernità e postmodernità, ma anche antichità, sono in lui, nella sua enciclopedia mentale, nel suo inarrivabile stile. Ho ascoltato a Firenze, nel cenacolo di Santa Croce, il 15 giugno 2017, una lectio magistralis borgesiana di Dany Laferrière, nell’ambito del Premio Gregor von Rezzori, dedicato quest’anno ai Luoghi della letteratura. Ne riporto qui un passo. Il bibliotecario non vedente di Buenos Aires è colui che vede meglio nel nostro presente. Ha letto tutte le letterature. È stato lui stesso la letteratura. Per questo uno scrittore siffatto non può che abitare la mente dei lettori, ogni mente virtualmente letteraria, per disposizione, per inclinazione, è il nido di quell’aquila cieca. Tengo sempre un libro di Borges sul comodino. Quando sento di averlo letto a sufficienza, lo sostituisco con un altro, ma sempre di Borges. Certo, leggo anche altri autori (Baldwin, Bulgakov, Tanizaki, Bashõ o Diderot), ma poi torno sempre a Borges. Perché secondo me è l’essere più intelligente e l’uomo più cortese che io abbia mai conosciuto. Rimango incantato di fronte alla sua curiosità, così insaziabile da sfiorare quasi l’ingenuità. A chi gli chiede: «Ma lei è Jorge Luis Borges?», lui risponde: «Cosa vuole che ne sappia? Io non so niente di me. Non so nemmeno quando morirò». È raro che la morte costituisca oggetto di curiosità. Per Borges non è solo una bella parola, come anche per Villon, che non esita ad avvertirci della gravità della cosa («Hommes, ici n’a point de moquerie», «Uomini, qui non c’è da scherzare»). Eppure non fatico a immaginare il vecchio poeta argentino mentre aspetta serenamente la sua ultima ora con il bastone tra le gambe. Non è un caso che quest’uomo abiti la mia mente da più di trentadue anni. E non solo: questo vecchio cieco si muove da una cultura all’altra neanche fosse nella sua camera di Buenos Aires. È a casa sua nella letteratura islandese come nel teatro shakespeariano, nei romanzi di Stevenson come nella poesia di Lugones; è a suo agio più nell’Antichità greca che nel Ven17 A Harriet Shaw Weaver, Universitätsstrasse 29, Zurigo 20 luglio 1919, in Joyce, Lettere e saggi, a cura di E. Terrinoni, traduzioni di G. Melchiori, G. Melchiori, R. Oliva, e di S. Sullam, Milano, il Saggiatore, 2016, p. 354. Si legge nel vol. la lettera a Carlo Linati, scritta in italiano, con lo schema dell’Ulisse, il «mio maledettissimo romanzaccione» (Rue de l’Assomption 5, Parigi, xvi, 21 settembre 1920). Lo schema allegato è riprodotto alle pp. 400-403.
20 temi e questioni di varia letteratura tesimo secolo, dove sembra essere capitato per sbaglio. Ma il motivo che mi spinge a continuare a leggerlo con tanta assiduità è che, nonostante la sua incredibile erudizione, Borges rimane un bambino che ha paura del buio.
Teniamolo per detto: un bambino che ha paura del buio. Torneremo sul buio e sul bambino al buio dell’infanzia. Ci sono stanze della nostra mente in cui non entriamo volentieri, vi abbiamo posto i sigilli, sono quelle della paura dell’infanzia, che a me è rimasta, perfezionata da quella dell’età adulta, che quotidianamente persiste e si è andata rafforzando. Philip Roth scriveva in Portnoy’s Complaint (1969): «Dottore, non resisto più a farmi spaventare così per niente!» Lì, nel romanzo più onanistico della letteratura a noi nota, più corporale (la stipsi del padre), si faceva satira sul retaggio di terrori ebraici, una paura senza fine, che solo il riso avrebbe potuto in qualche modo rimuovere. La comunità ebraica non volle comprendere e accusò l’ebreo Roth di antisemitismo18. «Come molti bambini, ho dormito in una camera da letto infestata dai demoni», ha scritto Michael Cunningham, anche se una storia di paura è sempre una storia di coraggio, il coraggio di vivere. Il bambino infatti si deve organizzare per vivere: C’erano diversi metodi per evitare di essere catturati dai demoni. Dovevo zompare a letto da circa un metro di distanza, in modo che il demone sotto il letto non potesse agguantarmi il piede e trascinarmi laggiù. La porta del ripostiglio doveva restare sempre chiusa affinché il demone restasse lì dentro. Bastava che si vedesse uno spiraglio, e bisognava chiamare mia madre o mio padre per chiudere la porta – io non potevo rischiare di avvicinarmi tanto.
L’ingegno, e il metodo dei bambini, si manifestano fin da subito, se si vuole sopravvivere alla notte (le notti difficili, diceva Buzzati che le conosceva bene, da bambino e da adulto). Sì, ci vuole coraggio, anche solo per vivere. E quel coraggio accoglie da un certo punto in poi anche la paura di morire, quand’essa da idea astratta, lontana, di pertinenza altrui, da leggenda della morte, diventa circostanza della vita, si solidifica, si presentifica. Essa viene così descritta dallo scrittore americano: «Quella creatura mordace raggomitolata lì nell’angolo a ringhiare con quello sguardo minaccioso… Non farci caso. È la mia condizione di mortale»19. Anche nei miei ricordi il bambino viveva al buio per molti e molti anni prima di scorgere un barlume di coscienza. La mia infanzia è stata buia, almeno così me la ricordo (anche se calda per l’amore di mia madre, e anch’io quante volte l’avrò chiamata nel buio). Il genio (e Borges lo conferma, e anche Lo scrittore è scomparso a New York il 22 maggio 2018. Testo letto alla Milanesiana, a cura di E. Sgarbi, xviii edizione, Milano, 29 giugno 2017.
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Cunningham) è il bambino superstite che non abbandona il corpo mentre quello cresce, e tutto l’apparato mentale si evolve. Ma senza quella parte bambina, la crescita sarebbe ed è solo una perdita secca. Bambini che crescono. Altro che, se crescono. Recentemente abbiamo conosciuto sotto una nuova veste, veste di cronache politiche, la funzione dei romanzi nella formazione di un capo, di un leader. Un capo che si è raccontato in una specie di romanzo, in cui molto c’era di elettorale, ma una frase, forse una sola, ci ha ripagato della del resto lieve fatica della lettura. Ed è quella che riportiamo per il nostro lettore: A sedici anni ho lasciato la mia provincia per Parigi. È un tipo di viaggio che fanno molti giovani francesi. E per me è stata la più bella delle avventure. Fino ad allora avevo abitato luoghi che esistevano solo nei romanzi, avevo battuto le strade dei personaggi di Flaubert, Hugo. Mi sentivo divorato dall’ambizione come i giovani lupi di Balzac20.
Chi è mai costui? Questo lupo della provincia francese? Il giovane lupo che adesso ha azzannato la Francia. Emmanuel Macron, nato ad Amiens il 21 dicembre 1977, non ancora candidato presidente della Repubblica francese quando scrisse il libro Rivoluzione – presidente di quella grande Repubblica e monarca repubblicano dal 7 maggio 2017. La Francia è dunque ancora balzachiana: a Parigi, a Parigi, come il Lucien de Rubempré nelle Illusioni perdute. Julien Sorel invece non ce la fece e finì sul patibolo prima del gran salto. Macron è stato più abile, e fortunato. Non si è trovato fra i piedi una Madame de Renal. Balzac continua a essere il ventre della Francia, un ventre che si rivela anche attraverso i suoi carteggi, l’edizione dei quali (Correspondance 18421850), la «Bibliothèque de la Plèiade» di Gallimard ha portato a termine in questi giorni (dicembre 2017). Anche se Macron, enarca, enfant prodige del potere, banchiere Rothschild, appare in verità poco balzachiano, se non per la divorante ambizione di lupo, e, nella sua attitudine regale (il Parlamento convocato a Versailles, la sua prima apparizione come presidente-sovrano nella spianata del Louvre), già si profila più come una creatura inaccessibile e segreta, degna delle memorie di un Saint-Simon. Lo abbiamo detto, caro Roberto, che il nostro è uno zibaldone. E non staremo a ripetere la solfa modesta del “si parva”, ognuno scrive il suo. E poi quattromila cartelle e passa, Giovanni, più lucido e pragmatico di Antonio Ranieri, non me le passerebbe, neppure in tuo onore. Letture, quelle sì tante, con una larga escursione termica (e quel Macron balzachiano), cioè con una assai diversa gradazione di identità e di valore, volutamente squilibrate tra i massimi sistemi e alcuni pochi scrittori correnti ai nostri giorni, che non sono dei giganti ma sono degli scrittori. La letteratura circostante (così l’ha chiama20 E. Macron, Rivoluzione, trad. di S. Arecco, Milano, La nave di Teseo, 2017, ma l’edizione originale è uscita nel 2016. Citiamo dal Cap. i. Ciò che sono.
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ta Gianluigi Simonetti, in una sua inchiesta sul Domenicale del «Sole 24 Ore»)21. Poi c’è stata una scrittura circostante di appena ieri, gli anni Novanta, che appare già dimenticata (Marco Drago, Giulio Mozzi, Dario Voltolini). E varrebbe la pena chiedersi le ragioni di tanto rapida obsolescenza (la forma, la ricerca linguistica, quando prevalgano sulla storia e sulla trama, questa la diagnosi condivisibile di Demetrio Paolin, su I dimenticati degli anni 90). E tanto ci basta. Letture e qualche considerazione in margine. Non solo. Ci saranno anche brevi frammenti di quelle che nei processi, prima dell’emissione della sentenza, si consentono agli imputati che ne facciano richiesta alla corte: una dichiarazione spontanea (ricordi, impressioni dal libro della mia memoria). Ma la lettura è il nostro canto libero22. E in quel libero canto ci sta anche la lettura della critica, che pure sembrerebbe, per chi non la conoscesse e non la praticasse, una forma di lettura solo succedanea e penitenziale (quaresimale). Tutt’altro. La critica può toccare vertici assoluti, ed è un’arte anch’essa, anche se al servizio dell’arte. La critica è un’arte che si nutre di altre arti (rubata la definizione, riferita al cinema, a Vittorio Storaro, il mago delle luci, che è stato proclamato, il 26 luglio 2017 a Fiesole, maestro in quell’arte). La critica avrà pure la sua musa ermeneutica. In questo libro Per gli amici ci sarà posto per la musa di Walter Benjamin. Molti libri, e i meno calcolabili, vale a dire i meno prevedibili nelle mie precedenti abitudini di lettura, mi hanno fatto compagnia nell’ultimo anno, nel corso del quale ho conosciuto da vicino il mondo della medicina. Ospedali e camici bianchi. Chi non ne conosce l’onnipotenza in certi momenti della vita? Dino Buzzati ai tempi del suo racconto Sette piani (1937), ci aveva dato i brividi, facendo scendere il suo personaggio Giuseppe Corte inesorabilmente, piano dopo piano, della famosa casa di cura, verso il reparto fatale della fine. Kafka con la malattia e con i medici ebbe un kafkiano contenzioso infinito. I medici 21 Un paesaggio letterario esplorato in 10 puntate, dal 30 luglio al 1 ottobre 2017 su «Il Sole 24 Ore». Un libro, a titolo La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, edito da il Mulino (Bologna, 2018), ha completato e sistematizzato la ricca esplorazione. Vd. anche C. Tirinanzi De Medici, Il romanzo italiano contemporaneo. Dalla fine degli anni Settanta a oggi, Roma, Carocci, 2018. 22 Non condiviso da gran parte dei nostri connazionali. Vd. P. Di Stefano, Si legge poco, ma nessuno ne parla, in «Corriere della Sera», 2 gennaio 2018; A. Codacci-Pisanelli, Il librario va alla guerra, in «L’Espresso», n. 2, a. lxiv, 7 gennaio 2018, p. 86: «Aumentano i libri ma diminuiscono i lettori: rispetto all’anno precedente sono calati dal 42 al 40,5 per cento: 23 milioni di italiani sono “non lettori”. “E anche se l’Istat ha un’accezione di ‘lettore’ molto restrittiva, anche allargando il campo non si migliora di molto. Considerando anche i ‘lettori inconsapevoli’, quelli che usano guide turistiche o manuali di cucina, si arriva al 68 per cento: resta sempre quindi un terzo di italiani che è completamente tagliato fuori dal mondo dei libri”. L’aumento dell’offerta di fronte a un calo di domanda non è un controsenso?» (le dichiarazioni e i dati sono forniti da U. Mauri, titolare della Scuola per librai U. ed E. Mauri, Venezia, 23-26 gennaio 2018). Di lettura e lettori si è discusso a margine di una trasmissione sull’Università e sulle tasse universitarie: «Se le donne dovessero smettere di leggere, il romanzo cesserebbe di esistere» (L. Donnini, amministratrice delegata di HarperCollins Italia, in Otto e mezzo, a cura di L. Gruber, 13 gennaio 2018). Grandissimo lettore, il libraio newyorkese Burt Britton, è scomparso nell’agosto 2018.
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avrebbero dovuto imparare dai pazienti, scolaretti al capezzale dei malati. E invece, quanti medici indegni, risoluti negli affari e incapaci di curare (Diario, 5 marzo 1912). C’erano anche eccezioni, il suo amico Robert Klopstock e il medico di famiglia Heinrich Kral. Quanto alle malattie, ne esisteva una soltanto, non di più, che la medicina inseguiva “come un animale attraverso foreste infinite” (Lettera a Max Brod, fine aprile 1921). Fortunatamente in questo campo le nostre letture sono state forse meno letterarie ma più costruttive. Non siamo discesi, almeno per ora, fino al primo piano (contiguo alla stanza del commiato). La lettura si è mossa in direzione della malattia e della medicina, su titoli che sono stati: Siddhartha Mukherjee, L’imperatore del male. Una biografia del cancro (2010; Milano, Mondadori Oscar, 2016) e Claudio Rugarli, Medici a metà. Quel che manca nella relazione di cura (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017). Da ultimo, bello e forte e forse il più toccante e difficile di tutti, il memoir sulla malattia e la terapia di Severino Cesari (1951-25 ottobre 2017)23. Mircea Eliade teorizzava certi esercizi di anamnesi, rievocando il dolore che era stato. Questo per dire che il canto libero della lettura si orienta di volta in volta secondo la forma e la configurazione che la singola vita viene ad assumere. Ma soccorre, soccorre sempre. Negli ultimi tempi, meno affannosi, sono tornato alle origini, alla poesia. E non solo per l’amico Roberto, petrarchista eminente, ma a fronte della pletora dei sedicenti poeti e poetini italici di questo estremo lembo dell’era cristiana – evo Ikea della letteratura fai-da-te, della poesia come genere di conforto, poesia del genere “caro diario”, strumento ingenuo, ma anche supponente, dell’auto-bio-testimonianza di esistenza – mi sono messo a rileggere Petrarca, di cui De Sanctis impenitente moralista diceva che aveva tutte le cattive qualità delle personalità deboli. In ambito petrarchesco, mi sono imbattuto in 23 Con molta cura. La vita, l’amore e la chemioterapia a km zero. Un diario 2015-2017, postfazione di M. Rossi, Milano, Rizzoli, 2017: «Questo diario esiste come una sfida, prendere il male e renderlo Cura, prendere la paura più grande e renderla luce, un modo generoso, esposto, disponibile a tutti e allo stesso tempo privatissimo. Intimo» (Rossi, Nota, p. 431). Una lettura importante e preziosa è anche quella del romanzo Nell’ora violetta di Sergio del Molino (trad. di M. Nicola, Palermo, Sellerio, 2017): «Il nemico è la stessa medicina, la chemio. Qui ci troviamo di fronte a un attacco contro noi stessi. Tutta la nostra forza distruttiva lanciata contro i nostri stessi soldati, nella speranza che, una volta morti tutti o quasi tutti, muoia anche quella quinta colonna che dilania la retroguardia». La malattia, propria o della persona cara, e quella malattia che è il cancro, con le sue dinamiche, i suoi tempi, le apparizioni improvvise, le remissioni, i (terrificanti) ritorni, il valore dei marcatori cancerogeni, numeri cui si sente appeso il destino, lo sfinimento della chemio, o gli esperimenti come la Pet (tomografia a emissione di positroni), le speranze, la disperazione, la serenità che ti prende quando, davanti al male che cresce e si diffonde, si tirano i remi in barca e si decide di non lottare più, tutto ciò configura storie, e una vera epica personale: «Le dico anche che ho scritto un libro su quella storia, sono anni che l’ho terminato, ma continuo a riscriverlo, aggiungendo e togliendo brani con una ossessione maniacale, perché quella è la vera epica della mia vita e non riesco a staccarmene» (A. Ferracuti, Le ultime parole che ci siamo detti, in «La Lettura» «Corriere della Sera», 11 febbraio 2018, p. 2). Nella storia che racconta Ferracuti, c’è qualcosa di più, il viaggio in Svizzera: la moglie (Alessandra) che ha accompagnato il marito (Fabrizio) a morire senza più troppo dolore, il 15 luglio 2015, nella «casetta azzurra» della Dignitas, periferia di Zurigo. Una pozione di pentobarbital.
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uno splendido e piccolo libro del filologo e storico della letteratura spagnola Francisco Rico, editore del Lazarillo de Tormes (2011) e del Don Quijote de la Mancha di Cervantes (2015), un breviario su Francesco Petrarca e il suo rapporto con il tempo, con le date, con le scansioni del tempo, con i suoi venerdì. Le date sono una modalità pressoché onomastica per battezzare il tempo, portarlo dalla nostra parte, ché altrimenti il tempo di noi non si curerebbe. Lo datiamo, e un po’ lo facciamo nostro. L’unico modo per ricordare quel vettore infinito che ci precede e che ci seguirà. S’intitola I venerdì del Petrarca, seguito da «Profilo biografico del Petrarca»24. Quello che Rico scrive sembra dettato per questa nostra matassa di appunti: Per fortuna, o purtroppo, ho diversi amici che scrivono romanzi di taglio piuttosto tradizionale. Un po’ per provocarli, un po’ per difendermi dalle punzecchiature che di solito non risparmiano a quelli del mio mestiere, mi è capitato spesso di concionare in difesa dell’attività dello storico e del filologo, che non è meno difficile di quella del romanziere (e non è detto che sia di minore qualità letteraria). «Tu» argomento in queste occasioni «costruisci una narrazione immaginando dei personaggi immersi in un intreccio, con un suo svolgimento. Poiché inventi tutto di sana pianta, per te è quanto di più semplice dargli una coerenza, e rendere significative azioni e omissioni, parole e silenzi. A me, invece, tocca fornire un senso a dei dati che le fonti accessibili mi presentano sconnessi e a degli effetti la cui causa in principio ignoro. Certo, potrei limitarmi a riportare quei dati, senza andare oltre la lettera del documento, senza indagare sui nessi e sulle contraddizioni. Ma così non mi comporterei diversamente da un copista analfabeta, come ce ne furono nel Medioevo, e non assolverei al compito dello storico e del filologo, che ha l’obbligo di comprendere e illuminare i chiaroscuri della materia bruta che si trova fra le mani». (Premessa, p. 11)
Comprendere e illuminare i chiaroscuri della materia bruta. Lume tra le grandi ombre del passato, nell’oscurità dei capolavori, nelle effigi che il tempo che passa non fa che nascondere, giorno dopo giorno. Una guerra contro il tempo, la filologia, la storia, la critica. E chi sa raccontare quel dramma della conoscenza, scrive grandi libri che nulla hanno da invidiare alle invenzioni dei creatori (alcuni, nel gergo un po’ irrisorio della pubblicità, ahimè sono solo dei creativi). Rico ci ha fatto capire che la creazione, se non sufficientemente sorvegliata e responsabile, potrebbe essere addirittura fuorviante (facile aggiustarla ad libitum). Inoltre sbaglieremmo se pensassimo che un filologo petrarchista come Rico non ci possa dar lumi sull’onda di romanzi di cui discorriamo. E sul concetto estetico della originalità, della imitazione, e del plagio. Ogni individuo, sentenziò Ortega y Gasset, è «romanziere di se stesso, originale o plagiario». E nel comporre la sua esistenza, Petrarca ricorre spesso e volentieri al plagio, sia negli avvenimenti maggiori, pubblici, sia negli episodi minimi, privati. Un esempio dei primi? Da anni sognava di farsi cingere d’alloro in Campidoglio, aveva prima immaginato e poi imposto i dettagli della cerimonia, e infine nel viverla era ben conscio di copiare un In collaborazione con L. Morozzi, Milano, Adelphi, 2016.
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Romanzi fiabe critica cronaca politica 25 prototipo antico (con ritocchi medioevali): «frontibus atque loco simul et cognomine claro / heroum veterum tantos imitatus honores… (Africa, IX, 407-408). E fra gli episodi minimi? Petrarca strombazzava ai quattro venti, fino a renderlo leggendario, il suo gusto per la lontananza dal mondo e le sue rêveries di camminatore solitario. Come in questi versi particolarmente fortunati: «Solo e pensoso i più diversi campi / vo mesurando a passi tardi e lenti, / e gli occhi porto per fuggire intenti / ove vestigio human l’arena stampi» (Canzoniere, xxxv, 1-4). Ebbene, è risaputo che la quartina riprende lo scorcio del Bellorofonte omerico che compare nelle Tusculanae (III, xxvi, 63): «qui miser in campis maerens errabat [alienis], / ipse suum cor edens, hominum vestigia vitans». Ma possiamo dubitare che, nel descrivere la parte della sua vita «celata altrui» (v. 11), cioè i suoi regolari vagabondaggi per «deserti campi» o per «monti e piagge e fiumi e selve» (vv. 9-10), Francesco si stesse di nuovo identificando con Bellorofonte? Che fosse consapevole di incarnarlo, di impersonarlo? Non ce ne sarebbe stato neanche bisogno, ma lo confermò lui stesso in prosa: «alterum pene Bellerophontem iam me videas… errantem in campis…» (Seniles, xi, v. 8) E non diversamente avviene con gli altri, numerosi protagonisti degli exempla che egli adduce dovunque a proposito delle sue «experiences in life». (Premessa, pp. 13-15)
Un altro esempio di critica, questa volta, presa da un documento privato, di Samuel Beckett, in cui lo scrittore e critico diceva la sua in uno spazio ristretto e confidenziale sulla poesia, o generi di poesia, su un suo gusto, o piuttosto un suo disgusto e idiosincrasia. Scriveva a Thomas Mcgreevy il 18 ottobre 1932 (Cooldrinagh, Foxrock, Contea di Dublino): C’è un tipo di scrittura che corrisponde agli atti di frode e di dissolutezza da parte di chi scrive. Il gemito che sempre più devo unire al mio sta lì; è quasi perbene, in terrain, faute d’orifice, calore d’attrito e non la combustione spontanea dello spirito a compensare il pus e il dolore che ne minacciano l’economia, le manovre fraudolente per ottenere che la carie faccia quel che non può fare – il lavoro dell’ascesso. Non so perché la poesia gesuitica che è fine a se stessa e giustifica ogni mezzo mi disgusti tanto, ma mi disgusta – ancora – sempre più. L’altro giorno stavo ritentando di farmi piacere Mallarmé e non ci riuscivo perché è poesia gesuitica, anche il Cigno e Erodiade. Sarà che sono uno sporco Protestante di Chiesa bassa anche in poesia, preoccupato dell’integrità in cotta. Sono in lutto per l’integrità dell’emissione di seme di un pendu, quella che trovo in Omero e Dante e Racine e talvolta Rimbaud, l’integrità delle palpebre che si abbassano prima che il cervello si accorga del pulviscolo nel vento. Perdonare tutto questo? Perché lo spirito è così a prova di pus e il vento così avido di pulviscolo?25
Ecco perché gli ermetici ci sono sempre sembrati adepti (per finta) di una Compagnia di Gesù. La grande critica, e quella di Rico e di Beckett ne fanno parte, esplora i segreti, e svela l’imitazione. Ma pone anche dubbi, getta zizza25 S. Beckett, Lettere 1929-1940, vol. i: 1929-1940, a cura di G. Craig, M. Dow Fehsenfeld, D. Gunn e L. More Overbeck, Edizione italiana a cura di F. Cavagnoli, trad. di M. Bocchiola e L. M. Pignataro, ivi, 2017, pp. 97-98 (edizione originale, 2009).
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nia. Quella della imitazione (in altra accezione dalla mimesi aristotelica) è un grande tema, anche oggi, in cui molti immaginano, soprattutto i dilettanti, presa la penna in mano, di essere originali. Forse l’originalità non esiste. L’originalità è un intreccio di richiami, assonanze, un mondo di echi («Tutte le mattine felici si assomigliano, esattamente come tutte le mattine infelici». Tolstoj? No, un suo lettore, divenuto scrittore, Jonathan Safran Foer, Eccomi, 2016). L’originalità, o il grado possibile di originalità, consiste, allorché consista, nella migliore deduzione formale possibile dai modelli precedenti (la tradizione e il tramando, in una parola la civiltà delle lettere). L’imitazione è un fenomeno noto, e forse riguarda, in qualche misura, ciascuno di noi: ma non nel grado supremo di Petrarca, né con la sua intenzionalità, né con i modelli che privilegia. E da ultimo, si deve tener conto che dell’«autobiografia» petrarchesca facciano parte non poche pagine che il poeta non scrisse affatto, ma che piuttosto visse come se ne stesse scrivendo, oppure come se ne stesse ricalcando ciò che effettivamente aveva o avrebbe scritto. (Premessa, p. 15)
Non si scinde, quella critica, dal paesaggio umano e dal destino di questi esemplari di umanità. Rico indaga un giorno speciale nella poesia e nell’autobiografia, ma anche nella vita («experiences in life»), quella non scritta, del Petrarca: Il venerdì è, nell’opera di Petrarca, innanzitutto il giorno dell’apparizione e della morte dell’amata, e quindi pietra di confronto per rivisitare tutto il mito di Laura; ma nella sua vita non scritta il venerdì è anche il giorno deputato a determinati comportamenti di particolare rilevanza o portata simbolica, o al quale attribuisce, senza mai dichiararlo, Erlebnisse straordinariamente significativi, come la presunta ascesa al Mont Ventoux che ispira la più bella delle sue pagine. (Premessa, p. 15)
Ci sono oceani testuali come Shakespeare (come Melville), in costante tempesta di sensi, mai esauriti (Amleto, Re Lear, Macbeth). Il grande poeta che fa sentire grande ogni uomo (Chesterton). La critica è un universo, al tempo stesso parallelo e connesso. Come la storia. Oggi che tutti scrivono romanzi, il romanzo è forse diventato cattiva moneta, inflazionata? Lo vedremo. Intanto direi che il romanzo nasce dall’esperienza, dalla sua estensione e sviluppo (recente il caso di una analista della Cia, dal referto segreto al romanzo: Karen Cleveland, Solo la verità, 2018). Anche l’ex presidente Clinton si è misurato con il romanzo26. Diamo un’occhiata alla società letteraria, alle sue sinergie, alla rete di comunicazioni che la espande e la alimenta, così come compendiate in un colpo solo da un maremmano arrabbiato. E si noti su tutti quell’Arnoldo stampatutto. B. Clinton, J. Patterson, The President is missing, trad. italiana, Milano, Longanesi, 2018.
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Romanzi fiabe critica cronaca politica 27 Giorgio, il poeta, scrive versi. Manlio, il critico, ne parla sulla stampa. Ettore farà una storia della letteratura, e ci metterà Giorgio e Manlio. Arnoldo pubblica tutto: i versi, le critiche, le storie. Li vedete ogni sera insieme al caffè. Parlano di donne, bevendo orzata27.
Uno dei grandi romanzieri contemporanei, il portoghese António Lobo Antunes, autore del Trattato delle passioni dell’anima (1998) e La morte di Carlos Gardel (2002), affabula di una entità che gli dètta i romanzi, teoria di una scrittura che consiste nel non tradire la musica di quella voce. E la creatività – sostantivo di recente adozione, forse di matrice romantica – si è forse rifugiata tutta nella critica, nel saggio, nell’intelligenza che scrive e non pretende di narrarsi (che cosa e a chi e a che pro?). Aveva ragione Oscar Wilde, quando affermava, e in tempi ancora non sospetti – ché dirlo ora sarebbe facile – che la fantasia imita ed è lo spirito critico che crea? «Un’opera d’arte è già di per sé un saggio di critica»28. Molte le domande da porsi nella fenomenologia del contemporaneo. Si sa, come aveva visto Gottfried Benn, che in ogni epoca c’è una letteratura di superficie e una letteratura di fondo, una letteratura relativa e una letteratura assoluta. Al presente la superficie la fa da padrona29. Nel nostro presente tutto è narrazione. E la storia, che è sì una narrazione, ma vincolata al documento, vistosamente ne soffre. Il vulnus recato agli studi storici mi pare evidente in questa fase mediatico-mediologica del sapere e dell’intendere. In questo così è se vi pare, per quanto riguarda le interpretazioni dei fatti, una lettura pirandelliana di Andrea Camilleri può essere fortemente connotativa anche del momento che stiamo vivendo. Il tema è Pirandello, la sua morte, le sue ultime volontà, le sue ceneri e le avventure “ideologiche” di quelle ceneri. La citazione è lunga ma vale la spesa per un bel racconto – Le ceneri di Pirandello – a cui sembrano aver messo mano, oltre all’autore, anche lo stesso Pirandello, con la complicità di Vitaliano Brancati, e, a certi effetti speciali, anche Fellini. Piccola premessa necessaria. Quando nel dicembre del 1936 Luigi Pirandello morì nella sua casa romana, i familiari rinvennero in un cassetto un foglio con poche righe autografe: erano le sue ultime volontà. Pirandello desiderava che il suo corpo venisse cremato e che le sue ceneri fossero portate ad Agrigento, in contrada Caos. Qui egli possedeva un piccolo appezzamento dove sorgeva la sua casa natale vicino a un grande pino su una collina a strapiombo sul mare. Voleva che le sue ceneri fossero sepolte tra le radici del pino o, 27 L. Bianciardi, Punte di spillo [1958], Le muse, nel vol. Il cattivo profeta. Romanzi, racconti, saggi e diari, a cura di Luciana Bianciardi, prefazione di M. Marchesini, Milano, il Saggiatore, 2018, p. 1181. 28 Vd. A. O. Scott, Elogio della critica. Imparare a comprendere l’arte, riconoscere la bellezza e sopravvivere al mondo contemporaneo (2016), trad. di M. Matteri, ivi, 2017, p. 28 (Il critico come artista e viceversa). 29 G. Benn, La nuova stagione letteraria, a cura di A. Valtolina, ivi, 2017, p. 13 (ediz. originale, 1928-1931).
28 temi e questioni di varia letteratura se non fosse stato possibile, disperse nel “gran mare africano”. Nel caso non potesse essere cremato (a quei tempi la Chiesa era fortemente ostile a tale pratica) chiedeva che il funerale avvenisse con una carrozza di terza classe, che nessuno, se non i familiari, seguisse il feretro e che infine fosse inumato avvolto in un lenzuolo direttamente nella terra nuda. Quando un alto gerarca fascista lesse quel foglietto illividì. Era l’epoca nella quale moltissimi intellettuali chiedevano di essere sepolti indossando la camicia nera fascista. «Se ne è andato sbattendoci la porta in faccia» mormorò il gerarca. Aveva torto e ragione nello stesso tempo. Pirandello se ne era andato sbattendo la porta in faccia non al fascismo, bensì alla Vita stessa. Superate infinite difficoltà i figli ottennero la cremazione, le ceneri furono messe dentro una preziosa anfora greca che da tempo immemorabile si trovava in casa Pirandello e che poi venne depositata presso il cimitero del Verano. Fine della premessa. Nel 1942 cinque liceali agrigentini, Gaspare, Luigi, Carmelo, Mimmo ed io, chiedemmo udienza al Federale fascista di allora, un uomo rude e sbrigativo. Ci presentammo indossando la divisa, facemmo il saluto romano e restammo davanti alla sua scrivania impalati sull’attenti. Il Federale rispose sbrigativamente con la mano sinistra al nostro saluto perché nella destra teneva un foglio che leggeva con estrema attenzione. Continuò a leggere per un bel po’ poi depose il foglio, ci guardò e ci chiese: «Che cosa volete?». Per tutti parlò Gaspare. «Camerata Federale, siamo venuti a chiedere che le ceneri di Pirandello, attualmente a Roma, siano trasportate, come da sua volontà, ad Agrigento qui da noi. Noi vogliamo che Pirandello…» Il Federale l’interruppe dando una gran manata sul tavolo e si alzò in piedi. «Non venitemi a parlare di Pirandello, stronzi! Pirandello era un lurido antifascista! E voi levatevi dai coglioni!» Eseguimmo un perfetto saluto romano, girammo sui tacchi e uscimmo scornati e avviliti. Nel 1945 l’Italia venne liberata dal fascismo, gli stessi cinque, ormai studenti universitari, ci presentammo, questa volta in borghese, al Prefetto di Agrigento che ci accolse benevolmente. «Cosa posso fare per voi, cari ragazzi?» Fu sempre Gaspare a parlare. «Signor Prefetto, noi vorremmo che le ceneri di Pirandello, attualmente a Roma, fossero trasportate ad Agrigento per…» «Eh no» l’interruppe il Prefetto, «non se ne parla neppure!» «Perché?» osai chiedere io. «Perché, mio caro ragazzo, Pirandello è stato un convinto fascista, non se ne parla neppure». Strinse la mano a tutti e ci congedò. Il bello è che avevano ragione tanto il Federale quanto il Prefetto, infatti i rapporti di Pirandello col fascismo erano stati almeno altalenanti30.
Tessera fascista richiesta da Pirandello il 19 settembre 1924, con una lettera inviata a «L’Impero», quindi dopo il delitto Matteotti (il bastian contrario, mentre tutti i topi scendevano dalla nave, lui ci si issava a bordo, anche come firmatario del Manifesto Gentile nel 1925). Passati quattro anni, quella tessera fu strappata dopo una violenta discussione con il Segretario Nazionale del partito, e anche il distintivo fu gettato a terra e calpestato. Accademico d’Italia (con Di Giacomo, Beltramelli, Formichi, Marinetti, Panzini, Romagnoli, Trombetti), tuttavia, ma in cattivi rapporti con Mussolini, da lui definito «un uomo volgare», corrisposto dal duce che non si fece vivo quando ricevette nel 1934 il premio Nobel. La storia delle ceneri continuò, con un’altra opposizione, quella del Vescovo agrigentino, Giovanni Battista Peruzzo, fino al ritorno propiziato dal Padre Costituente Gaspare Ambrosini in contrada Caos, ma abbiamo riportato quanto bastava al nostro discorso. 30 A. Camilleri, Esercizi di memoria, con illustrazioni di A. Gottardo, Gipi, L. Mattotti, G. Scarabottolo e O. Zagnoli, Milano, Rizzoli, 2017, pp. 11-14.
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Letteratura di superficie? Quella di prima sarà forse letteratura di superficie che affonda però nel passato. Siamo in attesa del romanzo-documentario (come genere, così come si dice film-documentario) di Antonio Scurati sul Fascismo, il cui primo tomo (M il figlio del secolo) sta per uscire per Bompiani. Una biblioteca, questa l’anticipazione di Scurati, che è docente universitario allo Iulm di Milano, si riverserà nella narrazione. Il romanzo storico non è certo una novità, ma potrebbe esserlo, con un tema come il fascismo e le tante figure umane che lo popolano, le commedie e le tragedie che lo innervano, i sentimenti e le emozioni che ancora suscita, se lo scrittore ogni volta saprà garantire il nesso con la storicità del fatto, della singola biografia, se il contesto verrà posseduto e agito, plasmato, sulla base di una bibliografia tanto varia quanto difforme. Un nostromo che monitora ogni giorno la letteratura di superficie, memore dell’altra, è Franco Cordelli. Una volta, temendo certi spettacoli annunciati nel teatro italiano, Cordelli scrisse che non vedeva l’ora di non vederli (il Macbettu in sardo, per la precisione). Karl Kraus nei Detti e contraddetti si domandò dove avrebbe trovato il tempo per non leggere tutti i libri che non voleva leggere. Non c’è snobismo alcuno, ma anch’io non vedo l’ora di non assistere al Macbettu, in sardo, in milanese o magari in romagnolo. Ma proviamo a metterci nei panni di un recensore, come un fante sul Carso, senza riparo ai colpi (Corrado Augias ha scelto per sé il ruolo del “segnalatore”, è lui che si sceglie i colpi e la trincea). A ben guardare le famigerate o celebrate fake news altro non sono che una derivata di un quadro, immane e incongruo, quanto inverificato e brado, di narrazioni, la più parte sedicenti e affette da un inguaribile narcisismo. Donde la narrazione-bufala, sulla vasta prateria della Rete. «La verità è una battaglia»31. Verità, è inteso, della realtà. Da un bel libro di Robert Darnton32, abbiamo appreso che i censori di Antico Regime svolgevano in Francia, per grazia del Sovrano, il loro lavoro non solo con dignità ma con autentica perizia letteraria (su tutti il Directeur de la librairie, ChrétienGuillaume de Lamoignon de Malesherbes). Erano severi ma anche entusiasti e ammirativi, si appassionavano anche, dipendeva dalla qualità dei testi. Erano censori-critici, censori-esteti. Censori di gusto appropriato. Fabio Volo – in testa a tutte le classifiche italiane, un po’ come se Barbara D’Urso fosse direttrice del «New York Times» – chissà forse sarebbe caduto, in volo, sotto i loro colpi assolutistici. E se sì, la domanda è: ne sarebbe venuto un gran male all’umanità sofferente? Ahi, Libertà di quanto mal fu matre, e via discorrendo. Il punto è questo e molto ci dà da pensare, in ordine anche a quesiti e problematiche di Estetica. Proviamo a immaginare una classifica che 31 K. Viner, «The Guardian», 2016; trad. italiana, La fine della verità, in «Internazionale», n. 1168, a. 23, 26 agosto - 1 settembre 2016. 32 I censori all’opera. Come gli Stati hanno plasmato la letteratura, trad. di A. Bottini, Milano, Adelphi, 2014-2017.
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gerarchizzi (e premi sul mercato) un qualsiasi oggetto di consumo e di funzione. Lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, automobili, coltellini da taglio. Ebbene in testa alla classifica stanno i migliori prodotti (che per questo costano di più). Lì, fra quelle cose, c’è un criterio a distinguerle, a indicarne il valore, che non è adottabile in letteratura, dove, ahimè, non si sa proprio come giudicare. Disastro delle Estetiche dopo secoli di inconcludenti teoresi. Se questo è il contesto, si intende meglio quanta confusione regni sotto il cielo, e non proprio promettente. La Bufala è un animale post-storico concepito dalla sistematica assenza di controllo. La Bufala è il parto ultimogenito e cesareo delle democrazie caotiche, come il Minotauro lo fu degli amplessi di Pasifae con il Toro nel labirinto di Creta. Nell’epoca della post-verità, e nel torrente mediatico delle notizie infondate, letteralmente senza fondamento (né possibile verifica), si rischia il naufragio nel ridicolo, nell’assurdo. Jonesco al confronto era un neorealista, educato a Frattocchie. «La storia dell’uomo è la storia di una hybris sconfinata»33. È accaduto in Italia (a Piacenza) che un aspirante sindaco, Stefano Torre, ha promesso (nel programma, vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle) l’abolizione della morte. Sì, sono millenni che spadroneggia quella zoccola con la falce, se ne va in giro, «incoronata, / di fiori d’arancio appassiti» (García Lorca), e noi a subire, a sopportare, a dire che non c’è rimedio. Abbiamo pazientato abbastanza, questo invece avrebbe detto la buonanima di Predappio. Ora basta. Che programma, molto più che vaste. Neppure Dada, ai suoi bei tempi. Ci voleva il sociologo bolognese Marzio Barzagli per raccontarla intera nel suo ultimo libro34. Prima però di abbandonarlo al suo destino (il sindaco antiMorte non è stato eletto, il che dimostra che gli Italiani hanno abbandonato ormai le lusinghe della metafisica e abdicato alla speranza di ogni trascendenza), mi sono però compiaciuto con l’uomo politico in pectore per la sua capacità di saper cogliere e circoscrivere dalla parte dei rimedi un problema che, a quanto pare, è stato risolto una sola volta, in una pasqua di duemila anni fa, in Palestina. Ma poi si è riproposto, e continua a riproporsi, e sì davvero senza (attuale) rimedio. Un problema che non esiterei a definire comune, interclassista, quasi eterno (come la questione meridionale). Insomma, caro aspirante sindaco, lei ci ha provato. Che dirle? «In questa breve vita / che dura solo / meramente / un’ora / quanto – quanto poco – è / in nostro potere» (Emily Dickinson). Altrove, sul primo supplemento «Millennium»35, scovammo un elogio della follia erasmiana di Lapo Elkann, l’ultima rockstar che non suona nulla. E 33 C. Bordoni, Il paradosso di Icaro. Ovvero la necessità della disobbedienza, ivi, il Saggiatore, 2018, p. 16 (Una presunzione infinita). 34 M. Barzagli, Alla fine della vita. Morire in Italia e in altri paesi occidentali, Bologna, il Mulino, 2018. 35 N. 1, a. 1, maggio 2017: A. Nove, L’Apologia di Lapo Elkann, pp. 61-69.
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poi ancora leggemmo una intervista36. Ogni giorno lo vediamo impelagato in qualcosa, o nell’ultima fiamma che potrebbe essere – chiosa il cronista di turno – la mamma dei suoi figli. È buono e giusto dare figli alla patria. Io personalmente voglio bene a Lapo. Lapo è buono e indifeso. Non ha mai fatto male a nessuno, solo a sé stesso, e in questo veramente ha dirazzato dalla sua stirpe. Ed è più umano, sicuramente, di suo fratello John, progettato nel laboratorio mentale del nonno. John ha vinto alla roulette un Marchionne che mandava avanti la baracca Fiat, come un Ovidio delle mille metamorfosi azionarie (scomparso il 25 luglio 2018). Caro Lapo, ammiravo tuo nonno – nonno Giovanni con la Juventus e la Ferrari era il tuo parco giochi – a cui dedicai un non disprezzabile portrait (ristampato da Edimedia di Firenze e circolante su Amazon), e so quanto il nonno però amasse Lapo, lo trovasse fantasioso e divertente. Ora Lapo andrebbe salvato, come un sito Unesco del nostro capitalismo famigliare, salvato dai sicofanti che lo attorniano e campano su di lui, e quindi mi offro come precettore, ma anche lui ci mette molto del suo per non farsi dimenticare. Dei gusti sessuali, con o senza unioni civili, non si discute. Amen. Ma, c’è un ma. Quando Lapo assume le pose del manager, atteggiamenti e parole romitiane (Cesare Romiti, il Marchionne di suo nonno), allora sì che non c’è satira che tenga. L’altro giorno l’ho sentito dire (era a Firenze, nel giardino di una villona, forse per Pitti uomo, la più folle esagitata e cogliona kermesse del pianeta), che aveva provveduto a licenziare i suoi manager: e specificava tutti quelli di primo livello. Ora a sentire di licenziamenti, noi di sinistra diventiamo sensibili, anche se i manager possono cavarsela nella dolorosa contingenza. Qui voglio stare sulla motivazione che Lapo addusse sulla giusta causa, esponendola all’intervistatore. Perché insomma li aveva licenziati? Per l’ego. Sì, avete letto bene, li aveva licenziati per il loro ego ingombrante, che finiva per ostacolare il prodotto (mi pare fossero occhiali. I famosi occhiali di Lapo, quelle visiere vitree e multicolori, del costo superiore a un appartamento). Il prodotto – dunque – erano gli occhiali, i quali invece viaggiavano alla grande sul mercato. Ma c’era quell’ego. Si sa che Lapo è una vita che sorveglia e umilia il suo ego con gli Esercizi di Sant’Ignazio. Chi lavorerà per lui e con lui ne sia avvertito. Perinde ac cadaver37. L’arte è lunga, la vita è breve e il giudizio difficile. Parola di Goethe, e prima ancora di Ippocrate. E non solo. Anche la scienza economica dell’ultima leva di studiosi (tutti Nobel), così attenti alla psicologia e al calcolo mentale delle convenienze che sta dietro a ogni gesto economico (emotivo, irrazionale, più di quanto non si creda), lo dimostra, sia pure con il ricorso al paradosso. I processi decisionali è probabile che si degradino quando siamo chiamati alle scelte cruciali della vita. Esempio: se scegliamo, andando a fare la spesa tutti i P. Polio, Lapo: due soli amori e un’infanzia odiata, in «Corriere della Sera», 10 dicembre 2017. Alla vigilia delle elezioni, 23 febbraio 2018, ha dichiarato: «Mi offro volontario, a disposizione di qualsiasi governo avremo da qui a un mese. Sogno di aiutare il mio paese». 36 37
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giorni, diventeremo maestri nell’arte di quella opzione. Ma se dobbiamo prendere moglie (non più di due o tre nella vita, per la maggior parte di noi), allora la scelta diventa operativa con tale rarità di frequenza – i due ingredienti della pratica frequente e del feedback immediato non si danno – che il processo decisionale non solo non si affina ma appunto degrada38. E che scelta è la letteratura? La letteratura è opera del diavolo. Chi oggi non venderebbe l’anima al diavolo pur di pubblicare il suo romanzo? E dovrebbe in molti casi trovare un diavolo di bocca buona. Così Paolo Maurensig si è inventato un apologo in cui il diavolo che viene a dividere e a sconvolgere un’intera comunità di un borgo montano svizzero è un editore. Illude diabolicamente tutti di essere scrittori, li illude a scrivere e a pubblicare39. Fuori dalla demonologia, il problema oggi è la violenta trazione narrativa che sembra trascinare ciascuno, trazione narcisa, egolatrica, anche se bisogna essere misericordiosi e cercare di capire senza iattanza. Quel batrace satollo che era la suocera di Italo Svevo impediva al genero di scrivere, quando c’era da lavorare. Lo raccontava il poveretto in una lettera alla moglie Livia: «Olga dice che domani non ti potrò scrivere perché quando si lavora non si scrive» (Ideologia letteraria condivisa dal Rotary Club, con un giorno dedicato alla dieta della cultura). La gente, il nostro prossimo, noi stessi, non contiamo nulla, e almeno – Olghe Veneziani permettendo – che si racconti questo nulla. Purché abbia una penna in mano, disponga di una tastiera, soprattutto di una esperienza, vale a dire di un cumulo di errori, il narratore anonimo entra in azione. Raccontandosi, poetandosi, si presentifica, si realizza, si attua. L’Ego narrante. E allora questo tale, che chiunque di noi potrebbe essere, equivoca tutto ciò per vocazione romanzesca, e si lascia andare al romanzo, annientando così il genere. Non parliamo poi della poesia, una illusione diffusa (di cui con Leopardi bisognerebbe teoreticamente enunciare la “strage”). L’Ego poetante. Il raggio della pseudo-poesia è corto, ingannevolmente mortifero, e intrappola subito nelle sue spire. La prosa richiede argomenti, sintassi, cioè un briciolo di logica. Anche il racconto è più difficile, non foss’altro che per l’accorgimento della brevitas, l’intelligenza della sintesi, la capacità matura di operare scarti e rifiuti. Il romanzo è l’altare del sé (autobiografia, auto-bio-tragedia). Ognuno vi celebra messa. Sembra che il romanzo sia divenuto il punto di arrivo, il compendio, il telos delle vite, di una miriade di vite, vite dei maggiori, vite dei minori, vite degli illustri e vite degli oscuri, tutte uguali come creature del creato ma distinguibili e gerarchizzabili per le tracce lasciate da ciascuno su questa terra. Il romanzo è il curriculum a volte postumo, ma non sempre, della vita che si sta vivendo, che 38 A scriverlo è il premio Nobel 2017 per l’Economia. Vd. R. H. Thaler, Misbehaving. La nascita dell’economia comportamentale, trad. di G. Barile, Torino, Einaudi, 2018 (ediz. originale, 2015), pp. 60-61 (Sotto tiro, Apprendimento). “Misbehaving” è il comportamento anomalo degli individui, basilare nell’economia comportamentale. 39 P. Maurensig, Il diavolo nel cassetto, ivi, 2018, pp. 94-95.
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si è in parte già vissuta, che ha offerto come tale una fisionomia e proposto un disegno ma questa fisionomia e questo disegno non bastano ad appagare la sensazione che la vita non abbia la forma che si credeva dovesse avere, dovesse assumere e conquistare. Allora affinché la vita acquisti una forma, la si affida al romanzo, la si chiede questa forma al romanzo, la più vulgata versione delle lettere contemporanee. E la narrazione è forma. Che significa forma, senza che per questa domanda si vadano a scomodare i gerghi delle più sofisticate estetiche? Alfred Hitchcock diceva che il cinema era come la vita, solo che in sede di montaggio erano state tagliate le parti noiose. Le parti che nella vita si ripetono, grevi inerti determinate determinanti. Restava nel cinema l’inseguimento come scena capitale, e anche la vita è un inseguimento, magari da fermi. La narrazione, di cui si sente necessità per fare chiarezza, struttura, prospettiva, perché la vita è disordine e struttura informale, e la narrazione è ordine, mette ordine nelle cose, nelle sequenze delle cose. Voglio far ordine, voglio far pulizia, diceva a sé stesso il protagonista di Otto e mezzo di Federico Fellini, il suo alter ego, il Guido Anselmi di Marcello Mastroianni (ah vecchio Snaporaz, dove sei finito?). Fu il capolavoro di Fellini quel film per una ragione quasi paradossale, dopo i discorsi che abbiamo fatto. La narrazione filmica vi riuscì tanto scombinata quanto la vita cui si era ispirata (capolavoro proprio per questa simmetria o equivalenza nel disordine, nel caos e nella inconcludenza del tutto). Ma la vita è una festa, vi si diceva alla fine, nel girotondo felliniano, cerchiamo di viverla insieme. I vivi e i morti40. Dunque narrate o uomini la vostra storia. Sì, aveva ragione Alberto Savinio, scrittore tanto raffinato quanto capace di intuire e interpretare questa onda gigantesca di narrazioni che ci sommerge, o il lenzuolo sveviano che ci copre. Ognuno scriverà di sé, per sé, profetizzava Svevo, e la terra intiera sarà avvolta come da un lenzuolo di storie. Perdio, la vita, al solo narrarla, acquista forse un altro sapore (echi pirandelliani, come il lettore si sarà avveduto). Struttura intreccio linea evolutiva. La linea evolutiva, lo sviluppo organico, logico, in crescendo, era tipica dei romanzi tradizionali (il Conte di Montecristo, e il tema della vendetta, il ritorno, vent’anni dopo), che facevano appendice ai giornali e creavano nei lettori l’attesa fatale della puntata successiva (la serialità delle storie). Oggi la linea tende a essere spezzata. Ma è un altro discorso. Una volta nelle conversazioni da treno, ci si sentiva dire, dopo un po’ di confidenze: caro signore, la mia vita è un romanzo, e via che fluivano storie piccole minime talora anche grandi, da dramma pirandelliano (solitamente a sfondo famigliare), ascoltate dalla bocca di un nostro simile, occasionale compagno di viaggio, che mai più dopo avremmo incontrato. Una volta incontrai o mi imbattei, ma per strada, ricordo che eravamo a due passi dalle Cappelle Medicee, a Firenze, con un uomo che non dormiva da ventitrè anni (nella sua anima, avrebbe detto Mario Mariani, c’era soltanto la notte), e che nel raccon
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R. Chiesi, Otto e mezzo di Federico Fellini, Roma, Gremese, 2018.
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tarmi la sua insonnia quasi mi ipnotizzò. Sì, il lettore lo avrà forse capito, chi scrive è suggestionabile. Anche una vetusta zingara quasi centenaria dalla pelle istoriata dal tempo mi guardò negli occhi, come una iguana, e mi raccontò della sua vita (davanti a un albergo a Pescara) e io le diedi tutto quello che avevo. Non so come feci a tornare a casa. Che stile però, quella storyteller nomade e povera, ma potente, alla maniera più tradizionale come una Sherazade, ancora la ricordo, che eleganza preistorica nel trasmettermi subliminalmente le sue volontà. Sono per questo forse un lettore nato, che se le beve tutte le storie? Sì forse. Tante ne bevvi in vita mia dai miei simili (e dalle mie simili). Ma oggi “la mia vita è un romanzo”, formula da treno (il pirandellismo narrativo è nato in un vagone di terza classe, sulla linea per Roma), è diventata esecutiva e spesso quel romanzo da narrazione orale è trasmigrata o spesso molto spesso trasmigra nel formato di un libro. Così accade che in alcune stagioni dell’anno un lettore per una serie di fatti, e convergenze astrali, o per mestiere, abbia sul tavolo alcune decine di romanzi. Il Narrate o uomini di Savinio realizzato in libri e tirature. Li deve leggere, quei romanzi, in vista dei Premi. Terreno sensibile, delicato, minato. Surclassato anche dalla satira. Una definizione, al solito non lusinghiera, del Premio letterario si legge in Less, romanzo di Andrew Sean Greer: «piccoli tristi combattimenti tra galli organizzati da chi ha meno talento degli scrittori»41. Poi si scopre che anche i satirici ambiscono ai «tristi combattimenti», e ci sono premi alla satira (Forte dei Marmi), sua palese ufficializzazione. Terzo segreto di satira, un gruppo di cialtroni per cialtroni (ipse dixit), è stato fondato nel febbraio 2011 (fra loro Pietro Belfiore e Andrea Mazzarella) ed è approdato per ora al cinema politico (Si muore tutti democristiani, 2018). Materia per satira ce ne è in abbondanza, anche in letteratura e in filosofia, e naturalmente anche e soprattutto in politica, con temi scelti e longevi, da Berlusconi e il berlusconismo (rendita ultraventennale) alla costituzione psico-politica di un partito denominato PD, letto dai cartografi della satira come un temibile triangolo delle Bermude, dove si inabissano i leader, le idee, e dove soprattutto spariscono i voti degli elettori. E, dicevamo, l’Italia di Premiopoli. Brutto termine, da cancelleria giudiziaria e da forca mediatica, ma per intenderci sull’entità del fenomeno. Ci fu qualche anno fa un libro edito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri che elencava i premi uno per uno (e avrebbe anch’esso meritato un premio). I premi all’ingrosso si possono distinguere tra premi di tradizione (con una storia, un passato) e premi di nicchia (specialità, marginalità preziose, tendenze). Poi ogni Pro Loco genera il suo. Stiamo alla tradizione. Il Casentino, organizzato dalla famiglia Miano, ha la sua più che rispettabile storia, e patroni che si chiamano Gadda e Nicola Lisi. Lo Strega – letteratura capitale facendo il verso a un recente processo sul malaffare romano – che Trad. di E. Dal Pra, Milano, La nave di Teseo, 2017.
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ha appena incoronato il suo scrittore (Paolo Cognetti, titolare di trecentomila copie vendute), è anche Roma e la sua mondanità, il suo generone (il Ninfeo dove chi conta non dovrebbe mancare, e c’è un apposito giornalismo di colore, da Dagospia a «Il Foglio», che descrive dame e damazze, carampane e cofane, come mostri in un acquario). Ma è anche e più specificamente letteratura ed editoria (Mondadori su tutti). Il Viareggio, il più antico fra questi premi (dal 1929), ha già espresso la sua terna (Gianfranco Calligarich, Mauro Covacich, Donatella Di Pietrantonio) e ha selezionato nell’ultima domenica di agosto il supervincitore (Calligarich). Il premio Brignetti Isola d’Elba è nelle mani vigorose dell’amico Alberto Brandani, e ha anch’esso la sua bella storia di mare e di terra (il vincitore dell’anno 2017 è stato Domenico Starnone, uno di nostri maggiori narratori). Anche il Campiello è sulla rampa di lancio (Stefano Massini, Mauro Covacich, Alessandra Sarchi, Donatella Di Pietrantonio, Laura Pugno) e ha premiato L’Arminuta di Di Pietrantonio, che oggi viaggia nell’empireo delle molteplici traduzioni nel mondo. Come si vede, alcuni autori e titoli vengono contesi. A rischio di inflazione (Antonio D’Orrico, nella sua rubrica su «La Lettura» del «Corriere della Sera», scrivendo dell’ultimo romanzo di Roberto Saviano, Bacio feroce, ha diagnosticato una inflazione di Camorra; e magistrati, come Nicola Gratteri e Cafiero De Raho, sono insorti contro la fiction Sky Gomorra – La serie, che fa di un pugno di miserabili criminali autentici eroi del piccolo schermo). E dopo Gomorra? Michele Serra ha ipotizzato, continuando il successo, Buzzurra, Gazzarra, Caparra, Bizzarra, e infine Romanzo criminale criminale (iteratio iuvat)42. Ci sono i premi, alcuni molto onorevoli, e non si può far finta che non esistano. Piuttosto bisogna onorarli, da entrambe le parti, quella degli autori e quella dei lettori chiamati alla valutazione più attenta e più onesta. Lorenzo Tomasin, noto linguista, ha stilato un referto sull’esperienza del lettore-giurato di un premio nazionale, che deve leggere moltissimi libri, e valutarli: Un’assenza quasi generale che spicca all’occhio di chi è sensibile ai fatti di lingua riguarda appunto il modo in cui la larga maggioranza degli autori che abbiamo esaminato maneggia il mezzo, cioè l’italiano. Il grande assente – forse più ancora nella produzione a più ampio smercio che in quella sperimentale e marginale – è lo stile. Diciamolo nel modo più fastidioso: l’esperimento che consiste nel prelievo di un qualsiasi segmento testuale da quasi qualsiasi romanzo pubblicato quest’anno, e nella sua immersione nel tessuto di un altro romanzo – scartati gl’indizi di contenuto, ed escluse le pretese della stilometria auto42 M. Serra, Il prossimo idolo è Gegè ’o Ruttone, in «L’Espresso», n. 43, a. lxiii, 22 ottobre 2017, p. 27. Serra è un patentato satirico, anche sull’Unesco e la sua inflazione sitografica, propone uno dei suoi paradossi: «Oltre al Palio di Siena, ambiscono al riconoscimento di patrimonio dell’umanità anche la Bastonata di Poggibonsi, con gli abitanti dei diversi quartieri che si rincorrono con grossi randelli finemente decorati […]» (Anche Poggibonsi vuole l’autonomia, in «L’Espresso», n. 44, a. lxiii, 29 ottobre 2017, p. 23).
36 temi e questioni di varia letteratura matica, che si appunta su fatti invisibili all’occhio del lettore normale – dà quasi sempre lo stesso risultato: indistinguibile. Le migliaia di pagine passate sotto i nostri occhi sono insomma scritte pressoché tutte in un italiano che non oserei chiamare letterario, ma piuttosto editoriale (un italiano degli editor?) cui pare rassegnata la larga maggioranza dei narratori. È un curioso contrappasso quello che ha portato la prosa italiana dall’affannosa ricerca – solo un paio di secoli fa – di una lingua comune vista come eroico conseguimento di civiltà, alla constatazione che il suo trionfo ha reso possibile il dilagare di uno stile inodore, insapore e incolore in cui pressoché chiunque può cimentarsi, alla peggio col soccorso di un maquillage redazionale cui vien da attribuire almeno l’ultimo strato dell’uniforme patina di cui lingua, stile e persino elementi strutturali e architettonici dei testi paiono tutti placcati43.
Opprimente monotonia, questa una sensazione comune dichiarata dai lettori impegnati in certami in cui il numero delle opere costituisce un peso oggettivo, una remora iniziale, ed è già una discriminante nella operazione critica. La quantità è assillante, perché imprime indebite accelerazioni, mentre la lettura, per essere degno esercizio di mente e di gusto estetico, richiede una comprensiva empatica lentezza, allorché il libro si lascia scoprire pagina dopo pagina, rivelando, buona o cattiva che sia, la propria essenza. Aggiungiamo che i premi (lo Strega, il più incidente sulle vendite, e forse l’unico, con il Campiello, a essere un fatto mediatico, come una volta era anche per il Viareggio) impegna per statuto i suoi finalisti in performance stagionali (devono andare in tourneé con i loro libri, ingraziarsi un pubblico). I primi vincitori furono Flaiano (1947), Cardarelli (1948), Angioletti (1949), Pavese (1950), Alvaro (1951), Moravia (1952), Bontempelli (1953), Soldati (1954), Comisso (1955), Bassani (1956), Morante (1957), Buzzati (1958), Tomasi di Lampedusa (1959). Un parterre de roi. Un altro mondo e una vera società letteraria, oggi estinta44. Il lato commerciale della faccenda è oggi, fra premi premietti festival e sagre, ineludibile (gli altri premi non sono così impegnativi, o per lo meno sono molto tradizionali). Uno studio testuale, linguistico-stilistico-letterario-grammaticale (la punteggiatura)45, e comunque sistematico, dei Premi, o almeno delle rose dei finalisti, consentirebbe più di un sondaggio sulla letteratura e la lingua nella sua storia e mutazione recenti (una lingua debole, più ancora del 43 L. Tomasin, Leggere, che mestieraccio!, in «Il Sole 24 Ore», 27 maggio 2018. Si tratta di un brano del Bilancio dell’annata letteraria, proposto alla cerimonia di selezione della cinquina finalista del premio Campiello Letteratura (Università degli Studi di Padova, 25 maggio 2018). La cinquina finalista della 56° edizione del Campiello comprende: H. Janeczek, La ragazza con la Leica; E. Cavazzoni, La galassia dei dementi; D. Orecchio, Mio padre la rivoluzione; F. Targhetta, Le vite potenziali; R. Pastorino, Le assaggiatrici. Janeczek guida anche la cinquina dello Strega (14 giugno 2018). 44 I vincitori delle ultime edizioni: P. Giordano (2008), T. Scarpa (2009), A. Pennacchi (2010), E. Nesi (2011), A. Piperno (2012), W. Siti (2013), F. Piccolo (2014), N. Lagioia (2015), E. Albinati (2016), P. Cognetti (2017). E infine l’annunciata Helena Janeczek (5 luglio 2018), donna (toccava), espressione di un editore di nicchia, Guanda (ma quale nicchia, se fa parte del gruppo Gems), nata in Germania, con studi in Italia (Gallarate), grata a quel professore (Pompeo Mancarella), che le aveva messo in mano Salgari, Gadda e Meneghello. 45 Vd. L. G. Luccone, Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto, Roma-Bari, Laterza, 2018.
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pensiero, quella attuale), quasi una percezione e visione in diretta della transizione culturale dal libro letterario, rigorosamente letterario, il letterario di tradizione, a un letterario che non è più soltanto tale. Oltre la letteratura. Oppure adibendo la letteratura di romanzo a una funzione di recupero di storie, di vite (di qui le biografie, che in taluni casi appaiono solo come meri pretesti per armare la penna). Un letterario saggistico, un letterario storico, un letterario geografico (le montagne di Paolo Cognetti), un letterario scientifico, un letterario biografico (nello Strega corrente, 5 luglio 2018, due biografie, Ritratto di Natalia Ginzburg di Sandra Petrignani e La ragazza con la Leica di Helena Janeczek, biografia della fotografa Gerda Taro, compagna di Robert Kapa, morta nella Guerra di Spagna)46. Prendere una biografia e ricavarci un romanzo equivale a fissare una fotografia per concepire un quadro. Bisogna vedere la potenza attrattiva dell’originale sulla copia. In genere i romanzi su biografia sono opere pretestuose (nell’accezione letterale di pretesto). Umberto Eco, con Il nome della rosa, Strega nel 1981, ruppe l’egemonia del puro letterario. Fu il letterario ingegneristico, il romanzesco del narratologo, oltre che del medievista, che si decideva a scrivere la narrazione tante volte teorizzata, come un continuum degli studi. Chi fino ad allora aveva teorizzato, per meglio teorizzare, cominciò a narrare la sua stessa teoria. Docufiction di studi e di erudizione. Lì, fra critica letteraria, semiologia, comunicazioni di massa, la letteratura italiana ha subìto una svolta. Gli esponenti delle più assortite professioni, dalla medicina all’urbanistica, videro nella letteratura, o quella che si profilava come tale, il bacino di acqua comune in cui bagnarsi. Tutti romanzieri. Todos Caballeros. Per la critica letteraria, in uno dei suoi momenti più difficili, verrà inventato qualche software, o addirittura verrà progettato un robot, una intelligenza artificiale vicaria? Un robot per la critica d’arte, battezzato Berenson, è stato realizzato da un ingegnere e da un antropologo, Philippe Gaussier e Denis Vidal. Se il miglior critico robotico d’arte è stato ispirato da Bernard Berenson, chi potrebbe dare il suo nome al robot di critica letteraria? Avremo un robot Debenedetti, un androide Citati, un’intelligenza artificiale che abbia succhiato la passione e lo stile di Garboli? Anzi lo stile di Cesare47. Congegni semoventi, come i venerabili ordigni di Vaucanson, fra gli scaffali delle biblioteche e delle librerie? 46 Vd. per un confronto con il più prestigioso premio inglese, il «Booker Prize»: C. Taglietti, Strega e Booker, 50 anni a confronto, in «Corriere della Sera», «La Lettura», 1 luglio 2018, p. 13. 47 È davvero un libro singolare il Cesare di Rosetta Loy (Torino, Einaudi, 2018), ritratto sentimentale del critico e lettore Cesare Garboli, ma soprattutto biografia di una personalità, dei suoi umori e capricci, emozioni e tensioni intellettuali, della sua romanità rigettata (dopo la morte di Moro), della sua casa di famiglia (Vado di Camaiore), infestata da un fantasma genealogico, lettore e scrittore che si è misurato o con autori amici e amati (Morante, Natalia Ginzburg, Delfini, Longhi, Parise), o in un costante contrappunto antagonistico con autori che avversava, o di cui disprezzava l’identità, la piccineria umana, la microborghesia cetuale (i non amati Chateaubriand e Pascoli, pure fra loro agli antipodi). Chi scrive si è trovato a parlare di alcuni di questi autori (e ancora Morante e Matilde Manzoni), insieme a Garboli in diverse occasioni, alcune pacifiche, e per il sottoscritto me-
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La storia come disciplina ufficiale, e pratica discorsiva basata su precise regole e protocolli, ne ha fortemente risentito. Il medioevo nessuno lo conosce, ma molti lo hanno letto e poi lo hanno visto al cinema con la mediazione prima romanzesca e poi filmica di Eco e Annaud (con Sean Connery nelle vesti del frate logico del Nome della rosa). Adesso è subentrato il medievistaromanziere, specialista del giallo storico, Marcello Simoni (I misteri dell’Abbazia di Pomposa, La nave di Teseo, 2017). Ed è stata, per intenderci, data la statura del primo divulgatore, la migliore divulgazione possibile, la migliore eco di quell’epoca misconosciuta. Poi è stata una cascata di volgarizzazioni incontrollate e (soprattutto) mendaci (Dan Brown). Il romanzo storico, la vulgata immaginaria, le trasfigurazioni filmiche, le sceneggiature fantastiche, hanno preso il sopravvento sulla storia. Fake History, per coniare una nuova formula della bufala nella Storia. Il danno, senza voler esagerare, è però ingente e porta, se non corretto almeno dalla scuola e dalla istruzione universitaria, a una progressiva estinzione del passato storico, sostituito da un passato variamente abbigliato, arredato, confezionato in una delle versioni che il soggetto deciderà di far propria, come un abito, una divisa, una propria memoria. Un prêt-à-porter temporale. Alla crisi della storia, non a caso, corrisponde una torrenziale produzione di memorie e autobiografie. Mediamente si scrive bene, o si scrive meglio. Twittando si scrive. Alfabetismo di ritorno. Stile tacitiano, si fa per dire. Già, ma come si scrive, e chi tecnicamente può valutare con meno approssimazione il fenomeno della lingua al presente? E ora veniamo a quella che i nostri emigranti dicevano l’importanza del «saper lettera», quando si doveva cercare fortuna all’estero (ma aggiungeremmo ormai anche in patria). Diremo di due libri, firmati da presidenti della Crusca, entrambi molto interessanti anche perché utili, veri e propri bilanci, concreti lucidi fattivi prospettici, dello stato generale della nostra lingua, dove emerge il punto di vista laico della nuova generazione dei linguisti (non più alla lettera e ortodossamente cruscanti, come da vulgata). Cominciamo dal libro del presidente in carica, il torinese Claudio Marazzini, che vorremmo morande (il Pascoli e Matilde cesenati, Chateaubriand al Vieusseux nel gennaio 1996); altre addirittura burrascose (una Morante, Il gioco segreto, con Carlo Cecchi, che a tenaglia con Cesare mi annichilirono, con un pubblico, pure eletto, indeciso a prestare soccorso al malcapitato, ma non per viltà, sì bene perché aveva occasione di assistere a una delle espressioni più espressionistiche della esegesi garboliana, capace di prepotere sull’altro, e non tollerarne, in quel caso specifico, la presunta freddezza, ma tu non la senti, mi diceva, non la senti). Garboli non amava i libri interi (non amava scriverli), il primo lo scrisse dopo i 40 anni (La stanza separata, 1969), preferiva gli apparati, le soglie, le prefazioni-postfazioni, le note, i commenti, come uno scoliaste antico. Aveva bisogno di una parete dove appiccare il chiodo e fare la risalita al cielo dell’arte. Era evidente la sua paura del vuoto (da solo non avrebbe scritto forse una riga). Se aveva fantasia, la teneva per sé, o la impiegava a commento, a margine degli autori. Questa mancanza di coraggio (buttarsi nel vuoto) gli doleva perché era troppo intelligente per non accorgersene. Ne parlo sempre con Laura Desideri, che ha conosciuto e conosce più di ogni altro il “come lavorava” Cesare Garboli, e lo dimostra nelle sue edizioni adelphiane (con Domenico Scarpa). Vd. E. Ferrero, Segugio delle parole, in «Il Sole 24 Ore», 24 giugno 2018; B. Valli, Cesare Garboli intimo degli dei, in «L’Espresso», n. 28, a. lxiv, 8 luglio 2018, p. 110.
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fissare, fra i tanti temi proposti, essenzialmente in due. Il primo concerne il prestigio passato della nostra lingua e la condizione presente. Lo sviluppo politico e l’egemonia delle lingue sono cresciuti viaggiando (come il latino, ma anche il francese, lo spagnolo e adesso l’inglese) al seguito dei loro eserciti. Lingue espressioni di imperi. Mentre la forza della lingua italiana la si deve esclusivamente al prestigio e all’attrazione esercitati dalla cultura, dall’arte, dai valori che essa lingua veicolava, così che, venendo meno l’interesse per tale cultura, è decaduto anche quello per la lingua. L’italiano, nonostante la risibile parentesi imperiale della Roma mussoliniana, non è mai stata una lingua imperiale. E l’impero di Augusto aveva il latino affiancato dalle sue legioni48. Un altro punto importante, toccando il quale si rischia di inimicarsi una parte cospicua di popolazione italica (quella che Eco aveva brevettato come Industria del genio italico), riguarda il rapporto fra gli scrittori e la lingua. E ancora, più specificamente, il fatto che gli italiani che vogliono o vorrebbero scrivere sono diventati una massa ingente (tralasciamo i numeri). Che c’è di male, dirà il lettore. Meglio scrivere che oziare o malfare. Già, ma gli italiani, che di solito non leggono, vogliono scrivere da non leggenti, a caso vergine, come scalare una montagna senza attrezzatura. Ed essi scivolano in parete, sulla parete a strapiombo di una retorica non tenuta al guinzaglio. Scrivono convinti che il ramo d’oro dell’arte letteraria fiorisca e rifiorisca con loro. Si è toccato la piaga del dilettantismo scrittorio che ambisce a farsi pubblico, editandosi, o autoeditandosi. Inoltre gli italiani non sono portati alla scrittura razionale, quella che esprime fatti, elabora idee, pensa concetti. Gli italiani amano solo la scrittura d’arte. Questo è il problema, un residuo di romanticismo. E molti sono i risultati incresciosi. La tabe romantica li contamina ogni volta che con la penna in mano, o la tastiera alle dita, si mettono a creare. Vietato creare ai non addetti ai lavori, verrebbe da dire. Una cattiva letteratura (una cattiva lingua) è una moneta falsa, perniciosa comunque per l’ambiente. L’altro elemento è che si è interrotto il ruolo propulsore dello scrittore (qui parliamo di scrittori veri, più o meno importanti) sul destino della propria lingua di riferimento e di elezione. La lingua dipende sempre meno dalla letteratura49. Il libro di Francesco Sabatini, presidente onorario della Crusca, Lezioni di italiano. Grammatica, storia, buon uso50, cerca di fare il punto sulla lingua, la lingua che è dentro di noi e noi siamo fra le sue braccia (l’epigrafe è firmata da Mario Luzi). Il libro di buona divulgazione è tutto da leggere e molto istruttivo, espressione di una nuova stagione particolarmente fattiva e incisiva della Crusca, non più il fortilizio dei purismi da tutelare ma la postazione di osservatori laici di una lingua in continua trasformazione, pur sulle solide e solidis48 C. Marazzini, L’Italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, Milano, Rizzoli, 2018, p. 15 (Una lingua senza impero), pp. 16-17 (Italiano lingua troppo colta). 49 Ivi, p. 155 (Un italiano giusto: la lingua al guinzaglio. La fine di un mandato: la letteratura che non c’è più). 50 F. Sabatini, Lezioni di italiano, Milano, Mondadori, 2016.
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sime basi della nostra secolare lingua-letteratura. Ma se dovessi segnalare un capitolo a scelta per il nostro lettore, lo indicherei nell’Invito 2, intitolato Incontro con quattro autori e prove di lettura, che mette in sequenza una dopo l’altra la prosa di Machiavelli (Niccolò Machiavelli tra l’osteria e lo scrittoio, 1513), Eugenio Montale (Eugenio Montale, “l’anguilla”, 1948), Gian Antonio Stella (Gian Antonio Stella, “Odissee. Italiani sulle rotte del sogno e del dolore”, Rizzoli, 2004) e infine Ilvo Diamanti (Ilvo Diamanti, “Migranti, gli italiani hanno paura: via Schengen, sì alle frontiere”, «la Repubblica», 7 marzo 2016). Dalla classicità (sia pure della lettera famigliare a Francesco Vettori) alla scrittura giornalistica, quella dominante oggi in Italia, e linguisticamente la più divulgata e la più esemplare, di Stella (autore, insieme a Sergio Rizzo, del libro più venduto degli ultimi anni, La casta, Rizzoli 2007, non si sa quanto letto ma sicuramente acquistato come Gomorra di Saviano, uscito nel 2006, libro feticcio, da impugnare più che da leggere), e di un sociologo che è anche accademico (Università di Urbino), Diamanti, le cui Bussole, titolo particolarmente ispirato nell’odierno disordine, appaiono settimanalmente sul quotidiano romano. Mi soffermo sulla prosa di Diamanti, di cui sono abituale lettore, e di cui avevo notato la maniera espressiva, quell’espressionismo della frantumazione, che ora forse trova una spiegazione. Ebbene la sua prosa non solo è frammentaria, ma va, in quanto si decida che vada, letteralmente in frantumi. Un paese in frantumi, un sociologo che ne monitora i pezzi. Si arriva a separare l’aggettivo dal suo sostantivo («… e dei loro confini. Nazionali»); a piazzare al centro le parole che si vogliano evidenziare, come zummandole, rendendo protagoniste esse sole nel corpo dell’argomentazione: «Perché ha suscitato paura. Paura. In particolare: la paura del mondo che ci invade…». La paura è uno dei grandi temi della pubblicistica corrente, parola e stato d’animo che corrono e trascorrono dalla politica ai giornali ai commenti televisivi, come una sorta di gotico sociale. Sabatini come legge questa prosa del sociologo? Sminuzzando ogni concetto, l’autore ottiene due effetti: cerca di esaminare bene ogni frammento; offre al lettore una visione scomposta, non pienamente definita del tema complessivo. E forse con questo vuole anche dire che una spiegazione lineare e compatta dei fatti descritti non c’è, deve cercarla il lettore, sperduto in tante contrapposizioni e contraddizioni. La prosa a singhiozzo di Diamanti si distingue proprio per questo carattere, che corrisponde all’intenzione di segnalare che tutto è controverso. Tutto sommato è una scrittura ansiogena. (Incontro con quattro autori e prove di lettura, p. 101)51
51 Vd., più godibile ancora, il vol. di A. Andreoni, Ama l’italiano. Segreti e meraviglie della lingua più bella, Milano, Piemme, 2017. Con confortanti notizie non solo sulla bellezza dell’idioma (lo sapevamo, ma qui è argomentato e mostrato con forza persuasiva ed elegante) ma sulla sua diffusione (la quarta lingua straniera più studiata al mondo, dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese, con 2.233.373 stranieri che si sono applicati allo studio della nostra lingua nell’anno scolastico 2015-2016).
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Siamo d’accordo. Aggiungo che trovo retorica questa miniaturizzazione a intermittenze. Leggo la bussola, le bussole, e non trovo, a volte, la direzione52. O più semplicemente la segnaletica è quella del sondaggio. Dei sondaggi non ci si si fida più di tanto, e, a certi livelli di analisi dei media, si ammette ormai che bisogna pesare diversamente l’attenzione53. Sull’ansia, mia personale pertinenza, torneremo ancora in seguito. Avviciniamoci alla letteratura. Del resto che la lingua sia al centro del costume, lo sanno bene gli scrittori54. Ci sono professionisti della scrittura, e la loro professionalità si avverte nel come sanno governare il racconto, nella proporzione-sproporzione tra l’idea, lo spunto, anche minimi, addirittura pretestuosi, e la trasformazione di quell’idea, di quello spunto in un romanzo. Costoro di romanzi ne sfornano uno all’anno, e anche di più, se l’editor, o chi per lui, non li calmierasse. Hanno comprato appartamenti, curano i loro investimenti, e scrivono, ahimè, scrivono, immagino anche a supporto dei mutui accesi. E perché mai la letteratura non dovrebbe servire alla vita di tutti i giorni, alimentare i suoi bisogni, le sue impellenti e comuni necessità? C’è un mutuo da estinguere e mi trovo ad avere in testa una bella storia e allora perché non la narro? Narrate, o uomini. A ciascuno la sua narrazione. Uno dei narratori italiani più popolari ma anche più avversati dai colleghi è stato e continua a essere Matteo Renzi da Rignano sull’Arno, ex premier (febbraio 2014 – dicembre 2016), e attuale segretario del maggiore e più lacerato partito italiano (PD). Sbastigliato anche dall’ultima fortezza, dopo il 14 luglio del 4 marzo elettorale. È stato eletto senatore (di Scandicci) e, come gli ex presidenti americani, fa conferenze ben quotate. Alla gente interessa il potere, anche in retrospettiva, testimoniato da chi lo ha avuto, e perduto. Narratore – teorico della narrazione politica come necessità di comunicazione – affabulatore orale tra i più facondi, magnifici e progressivi, osteggiato fino all’odio dall’invido leopardismo di D’Alema, ultimamente ha pensato bene che “scripta manent”. Pensatori italiani tra i più pensosi gli avevano consigliato di prendersi, dopo la catastrofica domenica del referendum (4 dicembre 2016), un anno sabbatico, andare in America (come una volta si andava ad Atene) e leggere qualche libro (fra questi anche Massimo Cacciari). Ma lui, no, ha voluto far gemere i torchi della sua memorialistica progressiva. Con il suo stile neogaribaldino, di un garibaldinismo Apple. Come se ci fosse sempre uno sbarco a Marsala da compiere, e da epicizzare. Il suo romanzo si inti-
52 Vd. per una descrizione del suo metodo geosociologico-geopolitico, I. Diamanti, In lode delle mappe, in «L’Espresso», n. 5, a. lxiv, 28 gennaio 2018, pp. 82-83. 53 Vd. A. Contri, McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale, prefazione di D. de Kerckhove, con un’intervista a cura di A. Barbato Ricci, Torino, Bollati Boringhieri, 2017, Rendite di posizione e resistenza al cambiamento, p. 45. 54 G. Morselli, Diario, prefazione di G. Pontiggia, testo e note a cura di V. Fortichiari, Milano, Adelphi, 1988, p. 219 (18-20 luglio 1961).
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tola, Avanti. Perché l’Italia non si ferma55. Acclamato e vilipeso. Pubblicizzato quasi fosse un vaccino, per il progresso contro il regresso (di fatto il libro è paragonabile a un dossier, non privo di dati e di interesse, raccontato alla maniera del Maestro o del Bomba, come lo chiamavano a Firenze). Non staremo qui a recensirlo. Un libro di Matteo non lo si recensisce – sarebbe incostituzionale – o lo si vota, o non lo si vota, oppure su quelle pagine ci si astiene. Ci preme chiosare solo il titolo, arcaico e nuovissimo al contempo. Avanti, come un antico e nobile giornale socialista di molti anni fa, ridotto sul lastrico da un tal Valter Lavitola faccendiere, fors’anche prosseneta, ma Avanti senza punto esclamativo. C’è un limite alla retorica (e il punto esclamativo anche per questo risulta penalizzato). Al contrario, poiché stiamo attraversando la più inquietante penombra dagli anni della guerra, e navighiamo nella suprema incertezza del domani, il punto interrogativo sta vivendo la sua grande irripetibile stagione. Romanzi e romanzerie, carte da parati della scrittura d’arredamento. No, non è così, non è solo così. Benedetto Croce, ma erano altri tempi, leggeva i romanzi per riposarsi dopo le letture serie (della filosofia, della critica e della storia), e allo stesso modo la domenica andava al cinema con le figlie. Come si vede, un gesto famigliare, più che culturale. Romanzi e storie di celluloide erano il dessert dopo un pasto vero. Chiamava i romanzieri, alcuni che bussavano alla sua porta (Alberto Moravia, fra questi), scrittori di romanzi, come tenesse a specificare la natura dubbia del loro scrivere e dicesse ballerine di varietà, cantanti d’opera o di operette. Era una specialità curiosa per lui, antico signore della Storia, e comunque un ludus, un divertimento, come andare al cinema al termine di una giornata di lavoro. E noi non faremo il verso al grande don Benedetto, spregioso di romanzi, ma lettore anche di quelli (tutta la narrativa dell’Ottocento è nei tomi della Letteratura della nuova Italia). Arredamento, abbiamo scritto sopra. Croce usava, in un suo più tardo volume di estetica, a proposito della letteratura romanzesca il termine di “intrattenimento”. Intratteneva il tempo, piacevolmente, e lo faceva passare. Il romanzo come intrattenitore, un’entraîneuse delle ore. Era una distrazione da negotia intellettuali più austeri, più rispettabili (sì, ancora la filosofia). Non si era accorto quel grande (e i grandi fanno errori più grandi) che il romanzo moderno aveva avocato a sé anche la filosofia (Proust, Broch, Joyce, Musil, Kafka, Mann), la filosofia e anche la teologia (la demonologia), ed erano più filosofi di molti filosofi e filosofanti che insegnavano una stentata e illusoria filosofia da molte cattedre universitarie della penisola. No, noi non diremo male del romanzo, siamo cresciuti a romanzi. Romanzi e cinema. E un libro di Oscar Iarussi ci ha fatto rivisitare i nostri luoghi amati, letterari e cinematografici, città per città: «Ardenze e veemenze, inna Milano, Feltrinelli, 2017.
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morarsi a Firenze. O di Firenze». E non solo56. Erano il nostro pane, nutriente e indispensabile come il latte di nostra madre per la crescita. Alcune volte bloccavano, tanto erano importanti e decisivi e traumatici, anche la crescita stessa. Capolavori tirannici, ma anche spargitori di mali epidemici. Conosco gente, ma non ne farò il nome, che dopo avere letto la Recherche proustiana, ha cominciato ad accusare disturbi del comportamento emotivo, e nella fattispecie pur continuando ad amare le donne (in generale), non si è più innamorata (di una donna in particolare), o ha cercato disperatamente lottando contro l’istinto, di non più innamorarsene, per non patire l’inferno delle passioni, come la coppia di amanti nella Prigioniera e nella Fuggitiva, per non straziarsi l’anima come il narratore Marcel. Ennio Flaiano, che aveva lavorato a lungo a una sceneggiatura dalla Recherche, testimone assolutamente fededegno, osava affermare una legge pressoché deterministica che, dopo avere letto la Recherche, i comportamenti sarebbero stati improntati comunque al modello proustiano, sensibilità ulcerata, persuasione che l’amore, quando si fosse manifestato, era una malattia inoperabile. Insomma, un disastro. Lo stesso grado di omeopatia o di contagio, altri lettori hanno sostenuto di avere sperimentato a contatto con la reiterata e radicata memoria testuale delle storie, romanzi e racconti, di Franz Kafka, assicuratore praghese, funzionario delle Generali di Trieste, tanto che ogni volta che il postino suonava alla loro porta e lo avesse fatto con insistenza, con una percepita intenzione impositiva, di minaccia, questi poveretti, marchiati a fuoco di kafkismo, erano convinti che un drappello di inquisitori e poliziotti fosse arrivato (finalmente) per prelevarli, e consegnarli a un iter giudiziario (infinito, come lo è del resto nel nostro kafkiano Belpaese), promettendoli a un processo che tanto non si sarebbe celebrato, poiché l’imputato sarebbe morto prima. Qualcuno doveva aver diffamato Joseph K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato. (Il processo)
Essere posseduti dal kafkismo significa una specie di collaborazionismo psichico col nemico-persecutore, collaborare con chi ti perseguita, diventare uno scarafaggio, e convincersene così a fondo da vivere e voler vivere come uno scarafaggio, nutrirsi come uno scarafaggio, perdendo la memoria dell’uomo che si è stati. Che in fondo a questa cuna, a quella tana, ci fosse un dio, lo pensava Max Brod. Essere presi e arrestati a casa propria, all’ora di colazione, quando si è ancora semivestiti, confusi di sonno, e l’alba si manifesta, simile all’amore nella Recherche, come una malattia inoperabile. Accidenti, dirà qualche lettore del nostro letterato e accademico volume, meglio non leggere. Se 56 Andare per i luoghi del cinema, Bologna, il Mulino, 2017, p. 85 (Firenze, la costanza della bellezza).
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questi sono gli esiti. Paura, terrore, ansia, massima inibizione a che i sentimenti prosperino e si realizzino fecondi e felici. La sorgente letteraria dell’incubo, la vena kafkiana, non si è mai inaridita e getta ancora puro distillato di incubi e angoscia dalle profondità dell’Europa, come il romanzo Epepe (1970) dello scrittore ungherese Ferenc Karinhy57. Non è così, cari amici, lo abbiamo già detto, la lettura è il nostro canto libero, siamo liberi leggendo, immergendoci in quella soluzione di parole che sono i racconti e i romanzi, di provare di tutto, il bene, il male. Stordirci anche in una prova simulata di incubo incomunicante (Epepe). E in quello stato perenne di inquietudine, come un mal di mare, che è la nevrosi. Quella che faceva dire a Freud, in un momento di autentica pietà per il genere umano, che la vita che ci è stata imposta è troppo dura per noi (e neppure la psicoanalisi poteva farci niente). In un celebre racconto dei fratelli Grimm, Storia di uno che se ne andò in cerca della paura, un figlio decide di vivere la sua avventura nel mondo imparando la paura. Un bel giorno il padre gli disse: “Ascolta, tu in quell’angolo diventi grande e grosso, ed è ora che impari a guadagnarti il pane. Guarda come si dà da fare tuo fratello; ma con te è fatica sprecata.” – “Sì padre,” egli rispose, “vorrei imparare qualcosa; anzi, se fosse possibile, mi piacerebbe imparare a farmi venire la pelle d’oca; di questo non so proprio nulla.” Il fratello maggiore rise nell’udirlo e pensò fra sé: “Mio Dio, che stupido è mio fratello, non se ne caverà mai nulla. Il buon giorno si vede dal mattino.” Il padre sbuffò e gli rispose: “La pelle d’oca imparerai ad averla, ma con questo non ti guadagnerai il pane.”
Ma non ci fu verso di impararla, la paura. Come il Candido di Voltaire, questo personaggio ignora pervicacemente l’ansia e il terrore. Un panglossismo psichico da studiare in laboratorio. Candido e imperturbabile come certi santi della tradizione paesana, fra Ginepro, san Giuseppe da Copertino, l’idiota di Dio. Ahi, di quanto mal fu madre l’intelligenza, specie quando si rivolta contro sé stessa e diventa patologia (Patrick McGrath). Il personaggio dei Grimm vede cose orrende, spettri sulle torri campanarie, corpi di impiccati oscillare nel vento, castelli fatati e maledetti, si lascia dietro catastrofi, ed è tranquillo. Anche i sommovimenti del mondo fisico non lo scuotono. La pelle d’oca non gli viene. Il coniglio e la lince, e una pozza d’acqua, come in una fiaba di Esopo (ma è invece il neurologo americano Joseph LeDoux). Il coniglio aggredito dalla lince, mentre si abbevera nell’acqua di uno stagno. Quando e come il coniglio, se vorrà tornare a bere, si libererà dalla paura della lince? Con il tempo, come con il lutto, la paura, come il dolore, passerà. Ma se la lince ricompare, e la paura si riattualizza? Nella vita, non c’è aggressione che non venga ripetuta, non c’è dolore che non si replichi. La pelle d’oca si dimentica ma poi torna. F. Karinthy, Epepe, prefazione di E. Carrère, trad. di L. Sgarioto, Milano, Adelphi, 2015-2017.
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Dobbiamo continuare a poter bere allo stagno, anche se c’è, o ci potrebbe essere, la lince in agguato. Equivale a dire che dobbiamo continuare a vivere, anche se dietro l’angolo si nasconda qualcuno o qualcosa contro di noi. E allora? Servono strategie di salvezza, studiate, concrete, realistiche, per non sviluppare le false credenze, con aggressioni e dolori continui, con una lince che ci azzanna, ci azzannerà sempre. Le false credenze di cui spesso siamo vittime58. La letteratura compone e ricompone elementi che la scienza ha indagato59. Arrivata al cuore più intimo delle nostre angosce, la scienza potrà anch’essa specchiarsi sul lago fiabesco dei Grimm. Essi hanno scritto in forma di favola la prova provata che la paura e l’ansia, che ci attanagliano, ce le costruiamo noi, nel nostro cervello. Allo spuntar del giorno, il giovane si mise in tasca i suoi cinquanta scudi e se ne andò sulla via maestra dicendo fra sé: “Ah, se mi venisse la pelle d’oca! Se mi venisse la pelle d’oca!” Lo raggiunse un uomo che sentì questo discorso; quando ebbero fatto un pezzo di strada e furono in vista della forca, questi disse al ragazzo: “Vedi, quello è l’albero su cui sette uomini hanno sposato la figlia del funaio: siediti là sotto e aspetta che venga notte, allora imparerai che cos’è la pelle d’oca.” – “Se è tutto qui,” rispose il giovane, “è presto fatto; se imparo così in fretta che cos’è la pelle d’oca, avrai i miei cinquanta scudi: ritorna da me domani mattina presto.” Il giovane andò allora alla forca, vi si sedette sotto e attese la sera. Poiché‚ aveva freddo, accese un fuoco; ma a mezzanotte il vento soffiava così gelido che egli non riusciva a scaldarsi nonostante il fuoco. Quando il vento spinse gli impiccati l’uno contro l’altro facendoli oscillare su e giù, egli pensò: “Tu geli qui accanto al fuoco, chissà che freddo hanno quelli lassù! E come si dimenano!” E siccome era di buon cuore, appoggiò la scala alla forca, salì, li staccò a uno a uno e li portò giù tutti e sette. Poi attizzò il fuoco, ci soffiò sopra e ci sedette intorno gli impiccati perché si scaldassero. Ma essi se ne stavano seduti senza muoversi e il fuoco si appiccò ai loro vestiti. Allora egli disse: “Fate attenzione, altrimenti vi riappendo di nuovo lassù.” Ma i morti non sentivano, tacevano e continuavano a lasciar bruciare i loro stracci. Perciò egli andò in collera e disse: “Se non volete fare attenzione, io non posso aiutarvi: non voglio bruciare con voi.” E li riappese l’uno dopo l’altro. Poi si sedette accanto al fuoco e si addormentò. Il mattino dopo venne l’uomo che voleva i cinquanta scudi e disse: “Hai imparato che cos’è la pelle d’oca?” – “No,” rispose egli. “Come avrei potuto impararlo? Quelli lassù non hanno aperto bocca, e sono così stupidi da lasciar bruciare quei due vecchi stracci che hanno addosso.” L’uomo capì che per quel giorno non poteva prendersi i cinquanta scudi, se ne andò e disse: “Non mi è mai capitato di incontrare un tipo simile.”
La lettura è anche una simulazione di vita e di morte ma la vita e la morte sono un’altra cosa. Ma intanto attrezziamoci (alla vita soprattutto). Montaigne, scrivendo, si attrezzava a entrambe. Un fatto è certo, che la grande letteratura non consola, e semmai sconsola e provoca. Ho enfatizzato per dire che la lettura crea dei mondi, degli universi paralleli. Viviamo di più, vivrete di più. Ecco perché i grandi romanzi, le grandi storie, le favole anche, sono stati P. Legrenzi, Come immunizzarsi dalla paura, «Il Sole 24 Ore», 25 giugno 2017. J. LeDoux, Ansia. Come il cervello aiuta a capirla, Milano, Raffaello Cortina editore, 2015.
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il pane, o il lievito fantastico, di molte generazioni tra Ottocento (il secolo del romanzo) e i nostri tempi internettiani, di narrazioni frammentarie ma pur sempre fluviali nei labirinti incontrollati e incontrollabili della Rete. Erano il nostro pane, quelle storie. E di più anche. Oggi molti romanzi sono come dei panini, il panino McDonald’s, una nutrizione controllata, più ridotta, più settoriale, più artificiale, più pilotata (gli editor, veri e propri cuochi di redazione). In una parola facoltativa. Non so se riesco a spiegarmi. Scrittori o piuttosto scriventi? Se lo era chiesto un grande critico francese, uno dei maggiori del secolo, Roland Barthes (Cherbourg, 12 novembre 1915 Parigi, 26 marzo 1980), il quale pure aveva affermato che nel momento dello scrivere, l’autore cancellava sé stesso (la teoria nota come la morte dell’autore). I romanzi – scriveva all’amico Jean Cayrol – erano riserve di seduzione, eleggevano «creature desiderabili, riuscite, interessanti, appassionate, esemplari, nel Bene come nel Male, insomma un materiale umano selezionato, che fa sognare»60. Barthes, che l’Album rivela in una fonda e melanconica umanità e solitudine (la madre, Henriette, unico amore e unico bene), quel sogno era portato a scomporlo, a sezionarlo (come un cadavere). Amava forse di più leggere i dizionari, l’ordine alfabetico dello scibile lo rasserenava. Anche i miti d’oggi, i sistemi dell’effimero (la Moda), tutta la «micromitologia in polvere», di cui gli scriveva Michel Butor dalla Pennsylvania il 16 febbraio 1960. La sua teoria fu interpretata, nel momento apicale della moda strutturalista, come la parola fine imposta al biografismo. In realtà c’era qualcosa di più profondo nella morte autoriale di Barthes, che la grande scrittura, la scrittura come grande fatto di stile, di conoscenza, di lingua, la scrittura intransitiva, non solo e meramente transitiva, vale a dire semplicemente comunicativa, obliterava, se non estingueva, l’io empirico di chi quella scrittura aveva prodotto. Era anche la profonda convinzione di Marcel Proust (contro il biografismo di SainteBeuve). Mentre tanto più forte e instante, condizionante, fosse stato l’io, e i residui dell’io presenti nella scrittura, le tracce invasive dell’io biografico, le servitù della vita instante, tanto più debole nella sua eteronomia soggettivistica sarebbe risultata la scrittura. Che cosa concluderne? Allora pochi sarebbero gli scrittori (la grande intransitiva scrittura che cancella l’autore) e molti gli scriventi. Questa diagnosi barthesiana spiega come oggi il numero dei soggetti che scrivono stia salendo in quote esponenziali. Ci sono romanzi, e tanti, semplicemente superflui. E allora meglio la critica, e la storia. Attenzione però. Alcune situazioni sono comunque ben trovate, e il romanzo allora diventa o si realizza come una analisi situazionale in forma narrativa. Ci sono romanzi 60 Vd. il vol. Barthes, Album. Inediti, lettere e altri scritti, edizione stabilita e presentata da É. Marty, con la collaborazione di C. Coste per «Su sette frasi di “Bouvard e Pécuchet”», trad. di D. Borca, ivi, il Saggiatore, 2016 (ediz. originale, Éditions du Seuil, 2015). La lettera è datata mercoledì [dopo il 1954], p. 212. Un libro di amici e di libri, di istituzioni culturali e di case editrici. Vd. Intorno al «Grado zero della scrittura», Barthes con la casa editrice Gallimard, Raymond Queneau, Jean Paulhan, Marcel Arland. E con la casa editrice Seuil, il rapporto con Albert Béguin e Jean Cayrol.
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che sono veri e propri saggi in situazione – così li definirei – come se fossero sonde narrative inviate in aree di esistenza o inesplorate o invissute. Romanzi che sono analisi di condizioni e di contesti sconosciuti, di mondi remoti, inaccessibili, in cui si penetra con il mezzo del romanzo, anche per essere più liberi dal dovere di tutto certificare all’anagrafe del verum factum. Un esercizio critico su episodi, schegge, vortici di vita, anche della più ordinaria, o della meno ordinaria (e della più inconfessabile, o solo immaginabile). Leggere alcuni romanzi in contemporanea, qualunque possa essere la soddisfazione che si ricava da ciascuno di essi, è comunque una esperienza, come di mondi paralleli che si intersecano fra loro. Leggendo sfogliamo anche la nostra vita, anzi le nostre vite. Lo so, è già stato detto, ma chi legge ha più vite. È vissuto un bel po’ di volte, ed è morto anche molte volte. Ci siamo fatti dei pianti che non finivano più per la morte della Karenina, per non dire di quella adultera contro cui inveiva Flaubert perché, anche da morta, Emma Bovary gli era sopravvissuta. Quindi leggiamo, continuiamo a leggere, la lettura essendo una delle pratiche più degne che sia toccata all’homo così poco sapiens. Un lettore (la lettrice celebrata da Italo Calvino nel romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore), anche il lettore-lettrice più abitudinario e normale, ha una mente coltivata ad arte, certo con l’arte altrui, prodotta da altri, a meno che non si decida a passare alla scrittura (passo difficile da valutare attentamente, e non è sempre un bene). L’influsso della lettura, e della lettura dei romanzi, può allora essere ancora più interessante, sotto il profilo dell’esperienza mentale, dell’apprendimento cognitivo, non sto parlando della mera critica letteraria, e meno che mai del cartellino recensorio da timbrare per chi abbia quel ruolo. A volte basta aprire un libro, un romanzo, e una frase ti inchioda. La casa era stregata, questo dicevano i vicini. Più precisamente: La casa era maledetta. Questo diceva la gente.
Da un altro romanzo ricaviamo questo incipit: Nostra Nonna è la madre di nostra Madre. Prima di venire ad abitare da lei non sapevamo che nostra Madre avesse ancora una madre. La chiamano Nonna. La gente la chiama la Strega. Lei ci chiama figli di cagna61.
Una serie di cominciamenti come questi ti legano al testo per sempre. Cominci a preoccuparti anche di casa tua (perché ogni casa è stregata per il fatto di essere abitata, contaminata dall’umano infestante che è in noi, noi gli unto61 A. Kristof, Trilogia della città di K. Il grande quaderno. La prova. La terza menzogna, trad. di G. Bogliolo et alii, Torino, Einaudi, 2014 (Paris, 1986), Nonna, p. 9.
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ri delle mura di casa nostra). E cominci anche a stare in ansia per la nonna. E il romanzo, quel romanzo, non lo lasci più. Avvinto al terrore che ne emana, alla seduzione dell’oltre (il nostro inguaribile romanticismo, ulterioris ripae amor). Perché quel romanzo parla il linguaggio in codice di tutte le case stregate, compresa la nostra. Delle nonne-streghe, compresa la nostra. In una delle sue scene da un matrimonio, uno scrittore tutt’altro che fantastico, ed esperto matrimonialista, ha scritto forse l’unica probabile verità: «i fantasmi che abbiamo lasciato li possiamo vedere solo noi»62. Beati i lettori ingenui, perché è e sarà di loro il regno della lettura. I troppo critici non si divertono più. Come in un film di Mike Nichols, di molti anni fa, Conoscenza carnale (Carnal Knowledge, 1971), in cui i troppo navigati di un tempo, i troppo scafati, non riuscivano più a fare l’amore (memorabile la torva impotenza interpretata da Jack Nicholson). Un po’ di storicismo darwiniano. Gli psicologi evoluzionisti ci dicono che quando siamo furenti, e vorremmo allora mordere il mondo, tendiamo a mostrare i denti, come quando da selvaggi usavamo i canini per aggredire la preda. E così in questa dinamica evolutiva c’è posto anche per la nostra ingenuità (perduta) e per gli occhi che avevamo da bambini, teneri e meravigliati di tutto, occhi che al calare del buio si oscuravano anch’essi, ma anche si accendevano, e vedevano nell’invisibile. Il buio di Borges. Il buio e i demoni di Cunningham. M’intrufolo fra cotanto senno. Io personalmente, nei miei lunghi soggiorni nella campagna pugliese, nella casa di villeggiatura della famiglia di mia madre, dopo il rosario recitato dai miei nonni sul far della sera, avendo a lungo sentito parlare di anime del purgatorio, tristi sì ma confortate dalla prospettiva un giorno o l’altro di salire in paradiso (indiarsi, avrebbe detto Dante), mi pareva di scorgerle, quelle meschine (un po’ bruciacchiate), e mi coprivo tutto con il lenzuolo perché niente di me si esponesse a quei mesti eppur nocivi visitatori notturni. Insomma un nucleo di ingenuità, una facoltà di illudersi, di vedere spettri nelle ombre, o nei lenzuoli del bucato appeso alle finestre, messaggi nei lamenti notturni del legno dei mobili, il lettore, il lector in fabula, li deve conservare, per stare veramente al gioco del narrare. Deve, quel lettore, essere tolemaico se necessario. Credere a tutto, o meglio sospendere scientemente l’incredulità. Quella sospensione è cosa ben diversa dalla credulità. Tzvetan Todorov, il grande critico bulgaro e parigino, da poco scomparso (Sofia, 1° marzo 1939 Parigi 7 febbraio 2017), aveva teorizzato quella sospensione, il margine di vuoto, di vertigine sulla soglia fra il credere e il non credere (Introduction à la littérature fantastique, 1970). La casa stregata ci possiede dunque. Allora si resterà inchiodati al romanzo in cui la casa è maledetta, o si dice che lo sia, quella è la voce che corre tra i vicini, quella la narrazione, e il prezzo dell’immobile 62 J. Updike, Scene da un matrimonio (2009), trad. di O. Pesa, Firenze, Edizioni di Clichy, 2018, p. 130.
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(mobilissimo al suo interno) non può che crollare alle pubbliche aste di vendita. Perché la legge economica punisce i luoghi della paura, e si mostra molto conformista in questo tipo di valutazione. Portiamo un esempio degno della questione, con un inquilino d’eccezione. Anzi, il romanzo, più lo rileggo – e mi sono deciso a leggerlo (a compitarlo) anche in inglese – e più mi convinco che dovrebbe essere una lettura obbligata per agenti immobiliari. Anche per taxisti – lo dirò all’amico Simone, taxista e sperimentato lettore – per chiunque abbia a che fare con le figure della notte. Cominciamo verso la fine del libro: «This London was no place for him». Asserzione infondata, che il romanzo e la sua fama mostruosa smentirono. Londra era adatta a lui. A chi dunque? Allorché il conte Dracula, nel romanzo di Bram Stoker (Dracula, 1897), si mette a cercare casa a Londra (era invece il luogo adatto, il più adatto), e si sa quanto sia faticoso fino all’esaurimento nervoso un trasloco, anche per chi sia morto da secoli, a Londra poi, e nella Londra prima della Brexit, così rigidamente vittoriana, con le fanciulle vergini fino al matrimonio, e anche per quel costume di illibatezza Nosferatu ha deciso di trasferirsi dal suo castello nei Carpazi portandosi dietro la terra-giaciglio del talamo-sepoltura. Ebbene il conte la cerca quella dimora – «The house is very large and of all periods back, I should say, to mediaeval times». La casa è assai vasta e risale, credo di poter dire, al medioevo – la cerca, dicevamo, nella zona dei cimiteri (sepolture e funebri cappelle, una zona anch’essa residenziale, residenze d’eternità, tranquille, riservate, al riparo dalle mondane movide o fatue notti bianche). Il vantaggio della quiete (requiem aeternam) si univa a quello indubitabile del risparmio. Bisogna riconoscere tuttavia che non era quello il suo intento. Ma la serenità di una morte-non morte: «I seek not gaiety, nor mirth…». Non cerco né gaiezza, né allegria (Cap. 2 Jonathan Harker’s Journal Continued)63. Dalla casa medioevale del conte torniamo alla casa stregata. Il lettore, è una sua prerogativa, cerca gaiezza e allegria anche tra i fantasmi, tra i macabri reperti delle necropoli. Si tratta di un romanzo americano, pieno di echi di una filosofia europea della trascendenza, dei morti fra noi, e noi con loro, su sottili e contigue intercapedini di spazi (Emanuel Swedenborg). Il titolo è L’apparenza delle cose. L’autrice è Elizabeth Brundage64. Narra una storia, molte storie, amore e disamore, di case, mura domestiche calde di affetti e funestate dalla morte, ed è la morte, allora, che strega, l’assenza, la forma cava, e l’impronta di chi fu e non è più. Ogni lutto pertanto ci ha stregati. Meglio saperlo. E narra anche tanto altro, compresa una storia di rapporti dipartimentali 63 Vd. sulle tecniche narrative del capolavoro di Stoker, le pagine di C. A. Senf, Introduzione a Stoker, Dracula, con un saggio di A. Baricco, trad. di F. Saba Sardi, Milano, Mondadori, “Oscar”, 2014. Dracula, e con lui Bram Stoker, non hanno trovato alloggio nel piccolo falansterio eretto da P. Bertinetti, Il romanzo inglese, Roma-Bari, Laterza, 2017. 64 Trad. di C. Prinetti, Torino, Bollati Boringhieri, 2017; ediz. originale 2016.
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fra professori (che non sono mai storie d’amore, e neppure di schietto odio, ma solo nebbia, nient’altro che nebbia). Il lettore è poligamo, infedele per natura. Mai cogliere un lettore in peccato di flagrante fedeltà. Oggi fedele a un libro, domani a un altro. Ha appena, quel lettore, finito un libro, e immediatamente dopo, senza troppo elaborare il lutto, si mette a intrecciare una relazione con un altro libro. È la sua memoria a essere fedele perché si ricorda di tutti (o quasi) i libri che ha letto. Per farla breve, dopo il romanzo swedenborghiano, sulla costa atlantica degli Usa, ho incontrato e letto un romanzo, che nel titolo conteneva l’antitesi di quello che vi avrei trovato65. Per questa mi è piaciuta, per l’antifrasi. Una storia sulla fantasia porno di un ragazzo che riesce a vivere puramente in quella dimensione di donne solo immaginate, le quali esercitano la loro potenza di eros, divino e bestiale, solo a patto di essere immaginate, surrogate con delirio fantastico, che escludono da sé la vita, l’esperienza, riducendosi a pure essenze angelicate. Porno e castità. La castità dell’adepto del porno. Come filosofia, come scienza, come coltivata ossessione. Ecco un esempio di quello che prima teorizzavo come romanzo-saggio a speciale angolatura, su una situazione, un contesto speciale. Non ce ne sono altri nella letteratura italiana. Il linguaggio è tanto sorvegliato, raffinato, quanto più l’autore visita gli anfratti più torbidi dell’immaginario maschile e femminile in tema di eros. È molto strano ma è un romanzo d’amore, e non è sentimentale, ed è quasi a lieto fine, per quanto davvero tragica sia la situazione del protagonista Martino Bux. L’autore si segnala per grazia anche nel ringraziamento che rivolge alla fine della sua fatica, lieve e al contempo greve e incandescente, al proprio editore, il più remoto da ogni fantasia porno si possa immaginare sulla faccia della terra. Un tempo quell’editore vigilava sui costumi ideologici degli Italiani, tutti rigorosamente usciti dalla Resistenza, e pubblicava per la loro rigorosa pedagogia i Saggi marxiani di Luckás e quelli francofortesi di Theodor W. Adorno. Da Minima moralia a Maxima Immoralia. Quell’editore, in tema di narrativa, era il regno di Italo Calvino, la Ville Lumiere della letteratura italiana, la sua coscienza più adamantina. Oggi vi si legge di Rocco Sifredi, e di baldracche talmente stratosferiche da rasentare la metafisica. Il porno è metafisica. Una teologia della carne. Sogno, incubo, costante speculazione di immagini astratte. Il porno, e il porno di Martino, è davvero il sesso degli angeli. Adatto a un concilio ecumenico d’epoca bizantina su cui faceva del sarcasmo quel senza Dio di Voltaire. Forse niente di memorabile ma in ogni storia, se in essa ci si immerge, c’è uno spicchio di vita quale non l’abbiamo mai vista. I giornali, i più vari, hanno nutrito la presente rubrica. A volte si fanno scoperte, come è capitato leggendo un articolo di Enrico Deaglio dagli Stati Uniti. Il titolo riguardava una audizione dell’ex capo del FBI, caduto in disgrazia presso il suo presidente Donald Trump. Quel Donald, il narcisista ma M. Desiati, Candore, Torino, Einaudi, 2016.
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ligno (Siri Hustvedt), che gli scrittori americani fanno a gara a descrivere, ricorrendo anche, come ha fatto Paul Auster, a una parola italiana: «Come dite in italiano, pazzo?». Nel giorno di Comey anche la storia si prende la rivincita. In che senso la vecchia democrazia, e un po’ anche la civiltà linguistica e letteraria, si era presa la rivincita sul potere dopo molte umiliazioni patite di recente. Leggiamo dunque: La «vecchia democrazia» si è presa una rivincita, soprattutto di stile. Per esempio: giunto al suo turno di domande, il senatore Agus King, indipendente dello stato del Maine, – faccia ed eloquio da Spencer Tracy – ha domandato a Comey: «Quando il presidente le ha chiesto di non indagare sul generale Flynn, usando parole come “spero che”, “mi auguro che…” ha avuto l’impressione che le stesse dando un ordine?» Comey ha risposto: «Beh, mi ha ricordato la storia del meddlesome priest». E il senatore: «Ah, mi ha tolto la citazione di bocca!». I due si riferivano a un celebre episodio della storia inglese spesso citato a teatro: Enrico II, il re, seccato dalle pretese di Thomas Becket, capo della sua Chiesa, esclama: «Chi mi toglierà dai piedi questo prete intrigante?» (meddlesome priest, appunto). «Già! E il giorno dopo Thomas Becket viene ucciso!», aggiunge il senatore. Comey increspa il labbro, moltitudini si riversano su Google, Trump non ha la minima idea di cosa succeda. Almeno per un giorno, il teatro inglese si è presa una bella rivincita su Goebbels. Nel frattempo, a Londra, Jeremy Corbyn, guidando la riscossa nell’Inghilterra usurpata da Theresa May, citava il poeta Shelley: «We are many, they are few» («Noi siamo tanti, loro pochi»). E riconquistava un po’ di masse. L’8 giugno 2017 è stata una bella giornata letteraria66.
Non c’è che dire, valeva la spesa del supplemento del quotidiano, con tante notizie inutili, ma questa non lo era. Era uno squarcio sulla persistente qualità di un ceto personale politico e amministrativo della più grande potenza del mondo. E anche Corbyn se la cavava bene, una volta tanto. Una bella lezione di lingua, di stile, di memoria dei testi. Sì, con tali letture e tali reminiscenze, l’occidente non è al tramonto. E da noi? Immaginiamoci Renzi, Gentiloni, Berlusconi, Salvini che triangolano fra loro in una partita di citazioni da Manzoni a Gadda. Matteo Salvini legge e commenta da par suo i disegni milanesi dell’Adalgisa. Paolo Gentiloni, che è stato compagno di liceo dell’editore Giuseppe Laterza, ha detto a Bologna che spera in un’altra vita – trascendenza del lettore impedito – per poter leggere i libri che non riesce a leggere. Nel frattempo però il premier sta riflettendo sulla storia d’Italia, sui suoi eterni ritorni. Infatti è da giorni che, sotto il fuoco degli Austriaci – del premier poco più che adolescente Sebastian Kurtz, il quale, insieme alla destra populista di Heinz-Christian Strache, vuole dare la doppia cittadinanza al Sud Tirolo – si sta chiedendo proprio in queste ore se l’abbiamo veramente vinta la Prima guerra mondiale. O se fu peggio che vittoria mutilata. Silvio Berlusconi legge e rilegge la Notte dell’Innominato e all’alba, senza bisogno di un Borromeo mediatore, congeda una «Il Venerdì di Repubblica», n. 1526, 16 giugno 2017, p. 146.
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stupenda Lucia di Olgiate Brianza che teneva prigioniera nel suo castello, facendole una dote virtuosa. Matteo da Rignano lo vediamo come interprete ideale delle novelle di Franco Sacchetti, che tanto piacevano a Malaparte, l’inventore, che Dio lo perdoni, della stirpe dei Maledetti toscani. Cala il sipario sul quadretto istituzional-letterario. Se fossimo riusciti ad annoiarvi, credeteci che non si è fatto apposta. Sempre, nei momenti difficili come quelli che stiamo attraversando ma anche quelli in cui si deve chiudere un pezzo, Alessandro Manzoni è un faro e un’ancora di sicurezza. Ben lo sa il nostro festeggiato. Ma vorrei affidare la conclusione a parole, ascoltate durante una lezione tenuta da Paolo Nori su Aleksandr Puškin (Vieusseux, Firenze, 19 dicembre 2017). Nori, che parlava più come lettore che come critico, si è augurato di continuare a essere un suddito felice di un reame dove a dominare siano sovrani come Puškin67. Il lettore come suddito felice è sembrata l’immagine più bella per il nostro commiato.
67 Vd. ora Id., La grande Russia portatile, Milano, Salani, 2018. E Puškin riappare nelle bellissime lezioni di un maestro, Conversazioni sulla cultura russa (1986-1991), di J. M. Lotman, a cura di S. Burini, trad. di V. Parisi, ivi, Bompiani, 2017.
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25. Peter Mayo, Paolo Vittoria, Saggi di pedagogia critica oltre il neoliberismo, analizzando educatori, lotte e movimenti sociali, pp. 192, 2017.
11. Giorgio Linguaglossa, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, pp. 148, 2013. 12. Arnaldo Di Benedetto, Con e intorno a Vittorio Alfieri, pp. 216, 2013. 13. Giuseppe Aurelio Costanzo, Gli Eroi della soffitta, a cura di Guido Tossani, pp. lvi96, 2013.
26. Antonio Pucci, Cantari della «Guerra di Pisa», edizione critica a cura di Maria Bendinelli Predelli, pp. lxxvi-140, 2017. 27. Leggerezze sostenibili. Saggi d’affetto e di Medioevo per Anna Benvenuti, a cura di Simona Cresti, Isabella Gagliardi, pp. 228, 2017. 28. Manuele Marinoni, D’Annunzio lettore di
psicologia sperimentale. Intrecci culturali: da Bayreuth alla Salpêtrière, pp. 140, 2018. 29. Avventure, itinerari e viaggi letterari. Studi per Roberto Fedi, a cura di Giovanni Capecchi, Toni Marino e Franco Vitelli, pp. x-546, 2018. 30. Mario Pratesi, All’ombra dei cipressi, a cura di Anne Urbancic, pp. lx-100, 2018.
31. Giulia Claudi, Vivere come la spiga accanto alla spiga. Studi e opere di Carlo Lapucci. Con tre interviste, pp. 168, 2018. 32. Marino Biondi, Letteratura giornalismo commenti. Un diario di letture, pp. 512, 2018. 33. Scritture dell’intimo. Confessioni, diari, autoanalisi, a cura di Marco Villoresi, pp. viii-136, 2018.