Quadri per un'esposizione e frammenti di estetiche contemporanee

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Marino Biondi

Marino Biondi

uadri di una esposizione in un libro di critica letteraria? In un tempo di crisi della lettura, la letteratura e gli autori sono stati collocati, come fossero dipinti, in esposizione, secondo una teoria di Maria Gregorio che ha avuto larga applicazione soprattutto in Germania per le Case museo di Goethe a Weimar e di Thomas Mann a Lubecca. Il costume delle esposizioni d’arte ebbe inizio nel Seicento a Firenze e Roma, come racconta Francis Haskell in La nascita delle mostre (2008). Poi quella moda dilagò. Esporre è diventata una norma, una mania. Che anche la letteratura debba mostrarsi è la nuova frontiera dell’esporre. Il libro rivisita queste modalità espositive e ne aggiunge altre, fra le quali il turismo. Frequenti le incursioni in archivio, mantra di una modernità smemorata. L’archivio, dall’accogliente luminoso Vieusseux-Bonsanti, con le sue squisite vestali, agli archivi di politici e misteri, di poteri e di stragi, di colpe e ricatti, di fatuità ma anche di oggetti desueti e maledetti, sono l’altra dorsale del libro. L’arte vista da un anatomopatologo, Giorgio Weber, è in Mirabilia weberiane, autopsie di capolavori. Il mondo di un’economia disastrata è rivisitato nel capitolo su Paolo Volponi. Se la recherche industriale celebra il mito di Adriano Olivetti, l’altra recherche vola alle dimore dei Lampedusa, dove un tempo fu il paradiso, come tutti i paradisi, perduto. Agli atti resta il presente. Un Capo Horn delle tempeste. Si tratta solo di non fare naufragio.

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Marino Biondi insegna «Letteratura italiana» nel Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze. Studioso della letteratura e storiografia dell’Ottocento e Novecento, ha dedicato indagini e studi alla letteratura del Risorgimento nei tre volumi: La tradizione della patria I, Letteratura e Risorgimento da Vittorio Alfieri a Ferdinando Martini; II, Carduccianesimo e storia d’Italia (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009-2010); Il discorso letterario sulla Nazione. Letteratura e Storia d’Italia (Soveria Mannelli, Cz., Rubbettino, 2012). Gli studi pratoliniani sono confluiti in Pratolini. Cent’anni di cronache (Firenze, Le Lettere, 2014; IIa ediz., ivi 2015). Al volume Tempi di uccidere. La grande guerra letteratura e storiografia (Arezzo, Helicon, 2015), è stato assegnato nella sua XXXIV edizione il premio Firenze per la saggistica (2016). È membro della giuria letteraria del Premio Viareggio-Rèpaci.

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Marino Biondi

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Editrice Fiorentina


Š 2017 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-395-8 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata


A Georgia e a Claudio nella feria d’agosto



Indice

9 Premessa. In morte di Umberto Eco 21 istituzioni archivi cultura contemporanea 21 Vieusseux: storia e autostoria di Firenze e d’Europa 31 biblioteche archivi cataloghi 50 L’Archivio a vita del Senatore 54 Travaglio in archivio 60 Dallas 22 novembre 1963 67 Archivi e gente comune 79 turismo e turismi 79 L’ammirazione nomade. In viaggio per musei 99 Viaggio e turismo 133 Il palcoscenico come cultura 147 archivi e letteratura 147 Documentalità ed esposizioni letterarie. Preziosi e invisibili: gli autori d’archivio 222 Il grande racconto anulare. Narrazioni romanzi divulgazioni 261 Documentare conservare esporre. Qualcosa resterà 299 Mirabilia weberiane


311 è ormai archeologia. letteratura e utopia di un universo industriale 313 Economia scienza triste 347 Paolo Volponi. Romanzo e cultura d’impresa 375 tomasi di lampedusa. nelle stanze della vita l’arte della memoria

387 Indice analitico


Premessa. In morte di Umberto Eco

Ho frequentato negli ultimi anni archivi e archivisti, e mi sono occupato fino al 2013 della Casa-Museo Serra di Cesena, che ha aderito alla Associazione italiana Case della Memoria, presieduta da Adriano Rigoli. In questa sede ho raccolto da quella esperienza qualche frutto. C’è molto da dibattere, soprattutto ci sono esperienze da scambiarsi. E nuovi contributi a stampa sugli archivi, sulla loro funzione e legislazione, da commentare1. Un volume di Atti, Uomini e donne del Novecento. Fra cronaca e memoria, è una documentazione imponente quanto eclettica in materia, dalle scrittrici agli attori e registi, dai musicisti ai banchieri, fino a comprendere la classe dirigente di un paese2. E naturalmente le case degli autori, le case dei poeti, della poesia o della letteratura, che si portano appresso la tematica dell’esposizione letteraria3. Leonardo Sciascia, scrittore di archivi, sempre più attratto dai fondi archivistici della sua isola e dell’isola-archivio-Italia, talora da benefici archivi di famiglia (Nina Ruffini), tal’altra dai faldoni di carte celate alla comune conoscenza (anche degli storici convenzionali), sapeva però che gli archivi erano luoghi di minacce, e altresì di miraggi, sottrazioni, inganni, specie in un paese che lui descri1 L. Giuva, S. Vitali, I. Zanni Rosiello, Il potere degli archivi. Usi del passato e difesa dei diritti nella società contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 2007 (siglato PA); E. Lodolini, Storia dell’archivistica italiana. Dal mondo antico alla metà del secolo XX, Milano, Franco Angeli, 2008; C. Cavallaro, Fra biblioteca e archivio. Catalogazione, conservazione e valorizzazione di fondi privati, presentazione di C. Del Vivo, saggio introduttivo di M. Rosi, Milano, Sylvestre Bonnard, 2007; Tradizione e modernità. Archivi digitali e strumenti di ricerca, Convegno di Studi, Firenze,27-28 ottobre 2006, a cura di S. Magherini, presentazione di G. Tellini, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2009. 2 Uomini e donne del Novecento. Fra cronaca e memoria, Atti degli incontri sugli archivi di persona, Sapienza Università di Roma 2009-2013, a cura di A. Aiello, F. Nemore, M. Procino, Mantova, Universitas Studiorum Casa Editrice, 2015. 3 Una rassegna sistematica nel vol. di A. De Simone, Case di poeti, prefazione di E. Affinati, Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2012. V. anche S. Petrignani, La scrittrice abita qui, Vicenza, Neri Pozza, 2002.


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veva ormai solo come un “contesto” di complicità e corruzioni: «Cercavano delle carte: e nel giro di dieci minuti si può far sparire tutto un archivio»4. C’è anche un’altra convinzione, che aprire archivi sia sfatare leggende. Questo libro è anche informalmente un diario di letture, e di esperienze. I temi sono vari. Nella dimensione degli archivi, legati a persone e personalità, e magari a leggende politiche del Novecento, abbiamo dato spazio a due figure, e a due storie, quella del delitto Kennedy, analizzando il libro di Philip Shenon, e la vicenda tutta italiana di Giulio Andreotti e dell’andreottismo, fattasi quasi sinonima di mistero, di cose conservate, segretate, minacciate (e di baci rubati). Il libro e la sua storia, dal libro cartaceo, con un «formato cognitivo perfetto»5, perché contiene solo se stesso ai supporti che contengono anche il libro, lo ospitano insieme a mille altre opzioni. Kindle garantisce come una agenzia di rating la tripla A: «Anything Anytime Anywhere»6. Letteratura industriale o quel che ne resta (Paolo Volponi, le mosche del capitale e l’archeologia industriale). Un romanzo di Ermanno Rea, La dismissione, uscito nel 2002, analizzò il passaggio dalla fabbrica viva all’inumazione archeologica, allorché anche le cose, gli ambienti di quella che fu la grande fabbrica, l’insediamento di una città operaia, abbandonati si ritirano, anch’essi come una ciclopica Casa degli Usher decadono e muoiono, lentamente: «Le cose come gli uomini, inclinano subito a inselvatichirsi, a trasformare il silenzio in ruggine. Anche in rancore»7. Il romanzo contemporaneo e le sue forme cangianti, metamorfiche, smisurate. Il romanzo è rimasto il solo genere a esprimere letteratura, o una sua intenzione, e fa mondo a sé. Il romanzo spesso viene impugnato da scrittori che non sono tali ma personaggi desiderosi di lasciare traccie e testimonianza, diventando sinonimo di una autobiografia curriculare. Sono reportage da una vita, ciascuno la propria considerata romanzabile. La corsa alla polizza del romanzo di sé scatta quando si indebolisce la individualità degli individui. La fenomenologia del best seller resta l’araba fenice degli operatori di borsa letteraria. La letteratura che ha dimenticato sé stessa, tradizione e lingua, ha ispirato Giorgio Ficara che in un suo libro, Lettere non italiane, sostiene che la letteratura italiana corrente non è più definibile come italiana, lingua povera, gergale, standardizzata nella comunicazione, senza memoria di stile8. Meglio i saggisti, i ritrattisti letterari, i biografi e gli storici, ove vi sia un qualche spessore e polpa di contenuto, una ricerca, una esplorazione, al riparo dalla invasività dell’io. Altri temi. Il turismo nomade e il modernissimo e quasi trash, all’insegna di un eclettismo normato dalla teoria dell’estasi della influenza o delle influen L. Sciascia, I pugnalatori, Torino, Einaudi, 1976, p. 51. R. Casati, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 27. 6 G.A. Ferrari, Il libro, Torino, Bollati Boringhieri, 2014, p. 191 (L’ideologia dell’ebook). 7 E. Rea, La dismissione, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 159. 8 G. Ficara, Lettere non italiane. Considerazioni su una letteratura interrotta, ivi, Bompiani, 2016. 4 5


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ze. Il turismo ci porta anche a un discorso sulla città, e sulle città d’arte. Che a Firenze è poco meno che un leit motiv quotidiano. Ci si chiede che cosa sia e come sia proposta questa bellezza, su cui si esercita una opzione tanto ripetitiva quanto stereotipata. I monumenti sono simboli mnestici, ci legano con affetto alle immagini del passato9. Accade questo al turista e alla nostra sedentarietà di fiorentini residenti? Non sembra. Un altro tema è la divulgazione scientifica nel libro di Carlo Rovelli, sorprendente in Italia dove il bunker epistemologico della scienza resta precluso ai profani. Un po’ di tutto nello spazio-tempo promiscuo della globalizzazione. Qualcuno potrà ricordare il guerrigliero dei rifiuti, Jesse Detwiler, che frugava nel pattume delle celebrità in Underword di Don DeLillo. Only connect – si leggeva in Casa Howard di E. M. Forster – nient’altro che connettere. In un mondo che è diventato “un campo minato”, non ci sono più classificatori, profeti, esperti, guru, pensatori di riferimento. Gli stessi pensatori e guru, a meno che non siano inguaribili narcisi da video, sono preda se non dello sconforto, di un certo disorientamento. Così si è espresso, nel giorno del suo compleanno, il novantenne Bauman: «“Talvolta più che un ornitologo, mi sento un uccello”»10. Parlare al vento non saprei se non in sogno, scriveva Montaigne (Essais, i, xxxix), e lamentava di essere costretto al soliloquio di un libro piuttosto che al colloquio epistolare. I giornali precipitano nelle vendite (dimezzate negli ultimi vent’anni), per quella che un uomo-giornale, come Eugenio Scalfari, definì in una trasmissione televisiva la «crisi della parola scritta»11. I giornali allora diventano parlati, dibattimentali, saggistici e immoderatamente autoreferenziali (come la Repubblica delle Idee). Per quanto concerne la pattumiera del mondo dei media, dove il trash trionfa, George Steiner ha osservato che i regimi dispotici possono esercitare una coercizione a favore del classico nelle arti, nella musica e nella letteratura. Gli esempi che faceva riguardavano l’Unione Sovietica, Berlino est, Varsavia, Leningrado. In quelle città, per ordini imperscrutabili, Mozart e Goethe, Tolstoj e Thomas Mann, sembrava si fossero dati una voce per scacciare tutto ciò che fosse indegno di loro. La tirannia ama il classico come pietrificazione dell’esistente. Caduto il Muro, cosa è successo? «Quasi da un giorno all’altro la libertà ha recuperato il suo diritto inalienabile a cibarsi di porcate»12. Anche se le porcate nelle nostre libere democrazie hanno raggiunto un livello di guardia, quella di Steiner è una buona lezione di critica di ogni purismo culturale. 9 R. Milani, L’arte della città. Filosofia, natura, architettura, Bologna, il Mulino, 2015, p. 65 (Che cos’è la città?). 10 W. Goldkorn, Bauman? “Io sempre straniero l’unico giudice è la mia coscienza”, in «la Repubblica», 18 novembre 2015. Bauman è scomparso il 9 gennaio 2017. 11 Otto e mezzo, a cura di L. Gruber e P. Pagliaro, con P. Mieli, E. Scalfari, chiamati a commentare la nuova direzione di «Repubblica» affidata dall’editore a M. Calabresi (La7, 2 dicembre 2015). 12 G. Steiner, Errata. Una vita sotto esame, trad. dall’inglese di C. Beguin (1997), Milano, Garzanti, 2000, p. 142.


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Uno scrittore americano, nel libro L’estasi dell’influenza, ha scritto di non essere l’unico a essere nato rivolto al passato: «in un mondo incoerente fatto di testi, prodotti e immagini, in un ambiente commerciale e culturale con cui abbiamo arricchito e, insieme, cancellato il nostro mondo naturale. Non posso rivendicarlo come “mio”, non più dei marciapiedi e delle foreste del mondo, eppure lo abito, e io, per poter avere una chance come artista e come cittadino, devo avere la possibilità di dargli un nome»13. Anche noi, come lui, non possiamo rivendicare niente o quasi niente, quindi nessun assolutismo estetico, ma dobbiamo avere almeno una chance. Insomma siamo influenzati da tutto. E questa è la nostra estetica. Jonathan Lethem non è soltanto un saggista ma un grande scrittore contemporaneo, uno dei più comprensivi del caos gnoseologico che attraversiamo, come un tempo si attraversavano penombre. Come ha scritto in un libro importante, riedito postumo, Omar Calabrese, uno dei maggiori estetologi del presente e teorico del neobarocco: «il progresso delle idee nasce quasi sempre dalla scoperta di relazioni impensate, di collegamenti inauditi, di reti inimmaginate»14. Di questi andiamo in cerca, relazioni e collegamenti. «La definizione più famosa delle tecniche comunicative dell’oracolo delfico è contenuta in un frammento di Eraclito, secondo il quale “il signore che ha il suo scranno profetico a Delfi non dice (leghei) e non nasconde (kryptei), ma indica attraverso segni (semainei)”»15. Eco, il signore eracliteo-delfico della cultura italiana del dopoguerra, lo è stato ma non in un linguaggio oscuro. Questa Pizia onnisciente e divertita, sommo comunicatore e studioso di comunicazione, che nulla aveva di oracolare, leggeva i segni (semainei) e gli enigmi (ainigmata) della nostra confusa più che criptata contemporaneità come un aruspice. Lo faceva – potremmo dire – su una plausibile base di inferenza. Come sempre il problema fu di avere il demone giusto. E Umberto Eco lo ebbe. Abbiamo citato un suo amico Gianni Coscia, musicista jazz, alla cui orazione funebre del 23 febbraio nel Castello Sforzesco di Milano carpimmo questa chiusa. Sì, il demone giusto, e allora si può dire di tutto, scrivere e occuparsi di tutto, del jazz e della fisarmonica, delle Langhe e di Joyce, di Santo Stefano Belbo e dei prestigiosi atenei americani dove andava a insegnare. Tuttavia c’è demone e demone. Per Harold Bloom il demone, The Daemon Knows, è solo quello del sublime, Literary Greatness and the American Sublime (lui, il vegliardo insonne di Yale, l’ultimo adepto dello Pseudo-Longino nella terra

13 J. Lethem, Circondati dai segni, in L’estasi dell’influenza. Nonfiction, etc. (2011), trad. di G. Pannofino, ivi, Bompiani, 2013, p. 157. 14 O. Calabrese, Il Neobarocco. Forma e dinamiche della cultura contemporanea, presentazione di U. Eco (Profezie per tempi inquieti), postfazione di S. Jacoviello (Appunti per domani), Lucca, La Casa Usher, 2013, p. 59 (Il gusto e il metodo), p. 59. 15 S. Beta, Il labirinto della parola. Enigmi, oracoli e sogni nella cultura antica, Torino, Einaudi, 2016, Gli oracoli della storia, p. 158.


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d’Occidente)16. Ma c’è anche il demone che dirazza e confligge, come in Malebolge, con i portatori di sublime, luce e verità, un demone che fu anche dantesco, impuro vischioso orrido. E il demone di Eco? Un demone di trapasso, un Hermes faccendiero ed empio, un fratacchione ateo, un cambiavalute, un bracconiere tra le sfere, tra la terra e il cielo. Ma all’occorrenza credente e serafico in ardore nel celebrare ogni dì il sacramento della cultura: quanto Eco tenesse all’università e alla cattedra, dato lo stato dell’università italiana, poteva anche sembrare un enigma ma per lui l’università era una comunità medioevale e lo Studium felsineo si prestava più di altri, come a un redivivo Michele Scoto, alla professione di magister, medicus et magus. L’alto e il basso della postmodernità, di cui era detentore, erano fatti precipitare nella sterminata e cromatica bibliografia dello studioso. La polimorfia delle espressioni e delle fonti fece scuola. L’alto e il basso, la promiscuità indifferenziata degli approvvigionamenti documentari, precipitano a cascata anche nella storiografia contemporanea17. Umberto Eco (Alessandria, 5 gennaio 1932 - Milano, 19 febbraio 2016). Tutti hanno potuto vedere un filmato della sua labirintica biblioteca personale. Ebbene c’era e c’è anche molta ingenuità e rozzezza in questa visualizzazione e quantificazione del dato culturale, far vedere Eco fra i libri, pensoso e suo malgrado solenne tra gli scaffali pieni e rigurgitanti di opere rare e costose, come quando si entra in una casa dove ci siano molti libri alle pareti e si chieda al proprietario se li ha letti tutti. Sarebbe come entrare nella casa di un promotore farmaceutico e chiedergli se ha assunto tutti i farmaci che commercia. Uomo gutenberghiano e postgutenberghiano, uomo di scuole e di università (selezionato tra le tracce degli esami di maturità 2016 per un tema Su alcune funzioni della letteratura, tratto da Sulla letteratura, raccolta di saggi del 2002), Eco è stato il polimorfo chierico a caratteri mobili fra il mondo degli incunaboli e quello del computer. Senza pregiudizio alcuno nei confronti del mezzo, del medium, fossero lo stilo, la penna d’oca o i software. Secondo il principio enunciato da Maurizio Ferraris del Trash in - Trash out: «Se quello che ci metti dentro è spazzatura, allora anche quello che viene fuori è spazzatura». Eco è stato per l’ampiezza dei territori presidiati un Croce del secondo Novecento, e sì che di Croce, della sua Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, delle folgoranti tautologie e paralizzanti truismi delle sue definizioni (estetica/linguistica; intuizione/espressione; bellezza/espressione riuscita; espressione non riuscita/non espressione; cosmicità dell’arte), degli “pseudoconcetti”, tali da bandire ogni progresso scientifico in Italia, aveva scritto con severità analitica pari a un certo disagio, come se non potesse evi16 H. Bloom, Il canone americano. Lo spirito creativo e la grande letteratura, edizione italiana a cura di C. Galli, trad. di R. Zupper, Milano, Rizzoli, 2016. 17 Vd. G. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi, Roma, Donzelli, 2016, p. VIII (Introduzione).


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tare una procedura fallimentare e di pignoramento concettuale e metodologico nella dimora di un grande intellettuale18. Il Croce di Eco era stato Jacobson e le funzioni del linguaggio. Nel Trattato di semiotica generale, teorizzando del Rilievo semiotico del testo estetico, da una base minimalistica enunciava che il testo estetico implicava una manipolazione dell’espressione, la quale a sua volta provocava un riassestamento del contenuto, «producendo un genere di funzione segnica altamente idiosincratica e originale»19. Eco è stato a sua volta un autore la cui estetica, le cui estetiche hanno cavalcato i secoli, medievista e semiologo. Scomparso per tutti quasi all’improvviso – tanto valeva la sua vitalità mentale a non renderlo morituro – questo imperatore dei segni lascia una vastissima eredità di saperi, tecniche, argomentazioni, immaginazioni, parole aperte, discipline polivalenti, esperienze professionali, sfide, anche umori ironici sulla cultura – il non prenderla troppo sul serio mentre la si praticava indefessamente – simbolo di una intelligenza capace di coordinarsi e flettersi tra saggistica, erudizione, romanzo, in una analitica illimitata e impareggiabile del passato e del presente. Il romanzo come punto di arrivo della teoria, la costruzione liberatoria da certe sue aporie. Alla sua morte, i giornali sono stati pieni di Eco, di un sincero rimpianto – il vuoto che si apriva non era una frase fatta – e degli echi della sua fama e della sua personalità. Questo tomista diventato un Voltaire arguto ed enciclopedico ha rivoluzionato già a metà degli anni Sessanta il paesaggio della critica e della cultura. Da allora fu Opera aperta e Apocalittici e integrati, titoliepoca, con tutta la scorta dei loro significati, impliciti ed espliciti. Elaboratore di un eclettico neoumanesimo, bulimico e inclusivo della cultura popolare, del Pop italico allo stato nascente, senza che l’alta cultura avesse a cedere lo scettro del controllo e della verifica, della guida e del comando. Solo che avocava a sé, e alla cultura accademica che teneva a rappresentare in qualità di prestigioso docente universitario, il fumetto, la canzone, il disegno, le comunicazioni di massa, i media, il Kitsch, la burla, come un boccacciano d’osservanza decameroniana. Grande artista della contaminazione fra i generi, pontifex tra le diverse entità-gradazioni dello scibile, manipolatore delle culture come divertissement, estensore di mappe e portolani di navigazione, Eco ha retto sui propri pilastri un arco sospeso che andava dalla filosofia del linguaggio all’ultima voce, anche effimera, di una sua infinita Lista. Di tutto si è interessato, a tutto ha guardato come a scienza del segno umano, anche alla morte, l’inemendabile morte. Nella vasta aneddotica che lo ha accompagnato nel tempo, una, fra le tante battute irresistibili, descriveva il suo perplesso giudizio sui programmi della Rai, alla quale aveva collaborato dal 1954 al 1959. «Sento un gran parlare di audio e di video ma non vedo il cogito». Già 18 U. Eco, Le definizioni nell’Estetica di Croce (1991), in Dall’albero al labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione, Milano, Bompiani, 2007, pp. 485-499. 19 Id.,Trattato di semiotica generale, ivi, 1975 (1998), p. 328 (Il testo estetico come esempio di invenzione).


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il cogito, questo Cartesio sapiente, metodico e ridanciano lo cercava ovunque, anche nella fenomenologia dei presentatori televisivi. Mike Bongiorno fu il cogito piatto, a encefalogramma spento. La morte cerebrale della televisione? Ma no, questa è apocalisse ed Eco, che la televisione l’aveva vista nascere, non l’avrebbe condivisa. Tante le testimonianze sulla sua eccellenza di intellettuale, l’onnivora curiosità, su un talento strepitoso che forse surrogava il genio, parola che non avrebbe gradito gli fosse attribuita. L’alchimista secondo Le Goff, il quale aveva intuito da sodale la centralità e la funzione esercitate dai saperi medievistici del collega italiano. È sempre stato un intellettuale del futuro ma anche del Medioevo. Il suo segreto, il suo patrimonio affondava le credenziali nel Medioevo. Quel coacervo di secoli, di solito misconosciuti, e stolidamente abbrunati nel buio. Questo il punto di convergenza temporale su cui conviene scavare per identificare Eco sotto la sua maschera. Il presente – diceva – lo aveva conosciuto indirettamente; del Medioevo invece aveva cognizione diretta. Del gusto del Medioevo, che poteva osservare nell’uomo e nell’amatore d’arte del XII secolo, come Suger, abate di Saint-Denis, umanista raffinato dell’Île de France, quanto nel rigorismo di Bernardo. Eco medievista, anche per questa sua appartenenza secolare, pur con il corredo della genetica scepsi alessandrina, non poteva essere un nazionalista – nessuna autorità, né esclusiva sovranità, concesse alla nazione – come se avesse una idea di patria coincidente con un impero (scrisse un libro Dalla periferia dell’impero. Cronache da un nuovo medioevo). Dovrà essere scritta una storia del medioevismo echiano, un capitolo della nuova fortuna di quel tempo tanto controverso, e ormai, anche per suo merito, riabilitato20. C’era in lui qualcosa del monaco senza fede, cui fosse rimasto in dote un potenziale enorme di intelligenza (e di bonomia). Difficile scegliere tra le reazioni, le emozioni, le chiose critiche, i precoci profili e aggiustamenti storici in cui dovrà essere inserita la sua figura poliedrica e letteralmente sterminata. Bernard Pivot, il guru di Apostrophes, nel ricordarlo ha così commentato l’eco-connection: «A Umberto Eco si dava una parola, e lui ne tirava fuori due storie, tre ricordi e quattro riflessioni»21. Storie e riflessioni, pensiero critico e romanzo, dove non arrivava la critica, poteva farcela come in una staffetta la scrittura narrativa (Il nome della rosa nasceva da questo snodo, da questo scambio di binario). Efficace la sintesi, come in una carambola di discipline, in un gioco al biliardo di culture e passioni, di Stefano 20 Vd. per un bilancio, il vol. di D. Balestracci, Medioevo e Risorgimento. L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento, Bologna, il Mulino, 2015. Gli storici medievisti non sono del parere che la loro disciplina goda buona salute. Tema importante di riflessione che a un medioevo rivitalizzato in forme letterarie, immaginarie, figurative, romanzesche, come fosse stato collocato, traslato, ma in altro contesto che il proprio e unicamente suo, corrisponda una grave crisi della storiografia medioevale nell’insegnamento universitario. Interessanti osservazioni da un prolifico autore di medievistica fantasy e historical fiction: M. Simoni, L’invenzione del Medioevo, in «La Lettura» «Corriere della Sera», 26 giugno 2016, pp. 44-45. 21 S. Montefiori, L’intervista Bernard Pivot, Senza il Nobel che meritava, in «Corriere della Sera», 21 febbraio 2016.


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Bartezzaghi: «Dalla filosofia medioevale tornava ad Aristotele e poi rimbalzava su James Joyce, che lo portava sulla trincea delle neoavanguardie del secondo Novecento, con il Gruppo 63, l’intuizione dell’“opera aperta” e l’amicizia e la collaborazione con Luciano Berio […] La prima carambola sulle sponde del poliedrico biliardo della cultura fu questa e coinvolgeva filosofia antica, medioevale e contemporanea, avanguardia, accademia e mass media. Poi sarebbero arrivati i fumetti, lo strutturalismo e la semiotica; Gérard de Nerval e Sherlock Holmes; il cabalismo ebraico e cristiano e la fantascienza; le teorie della traduzione, i labirinti; il pensiero debole e quello ermetico; i complotti e il cognitivismo; le analisi di movimenti politici, terrorismo e berlusconismo; gli anagrammi e i romanzi; bellezza, bruttezza e terre incognite; la ghiotta bibliofilia ma anche l’impegno pionieristico sull’editoria multimediale, con la sua Encyclomedia e la fondazione del primo web-magazine italiano, Golem»22. Danco Singer, responsabile della Ricerca Olivetti all’epoca del prototipo di computer multimediale, ha ricordato la sua lectio magistralis all’Onu, Contro la perdita della memoria. Era il 21 ottobre 2013. Eco, il filosofo amico della tecnica (Ferraris), era anche l’uomo della memoria. Ma non il borgesiano “memorioso”. Ricordare tutto sarebbe stato come ricordare niente. Il suo romanzo più celebre Il nome della rosa (5 gennaio 1980) continua e continuerà a tenere la scena, ma il suo romanzo più segreto e intimo, e il più amato dal suo autore, è stato Il pendolo di Foucault (1988). Lì, fra quelle pagine, c’è la sua razionalità forte anche del confronto con le varie logiche della non ragione («Ma tutti stavamo lentamente smarrendo quel lume intellettuale che ci fa sempre distinguere il simile dall’identico, la metafora dalle cose») e, specie verso il drammatico epilogo, è da rintracciare la chiave della sua storia più personale, mai più confessata con tanto pathos. Diciamolo, c’era un senso di incompiutezza, quasi di viltà. Tanta intelligenza, e poi nel fare, nell’operare sulle cose della realtà, quella intelligenza aveva avuto coraggio? La domanda per Eco rimase parzialmente sospesa: non quanto ce ne sarebbe voluto. Leggiamo dall’ultima pagina, Malkut, epigrafata da un brano dello Spaccio della bestia trionfante di Giordano Bruno: «Ho capito. La certezza che non vi era nulla da capire, questa dovrebbe essere la mia pace e il mio trionfo. Ma io sono qui, che tutto ho capito, ed Essi mi cercano, pensando che possegga la rivelazione che sordidamente desiderano. Non basta aver capito, se gli altri si rifiutano e continuano a interrogare. Mi stanno cercando, debbono aver ritrovato le mie tracce a Parigi, sanno che ora sono qui, vogliono ancora la Mappa. 22 Per un fascio qualificato di commenti e ricordi, si rinvia a L’ultima lezione di Umberto Eco lascia il segno dell’Italia nel mondo, in «la Repubblica», 21 febbraio 2016, con l’inserto Fenomenologia di Umberto Eco (1932-2016). S. Bartezzaghi firma l’articolo La cultura mostruosa di un uomo libero. La testimonianza su video e cogito in Rai è di U. Gregoretti, intervistato da S. Fiori, Il concorso in Rai era stato taroccato. Altri contributi: D. Singer, Quando scoprì il computer; M. Ferraris, E quando maledì il web. Uno Speciale TG1, a titolo Il nome di Eco, a cura di A. Martorelli e D. Valentini, gli è stato dedicato, molto articolato e con immagini inedite (Rai I, 21 febbraio 2016). Vd. anche i contributi in «Il Sole 24 Ore», 20 febbraio 2016 (A. Massarenti).


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E per tanto che io gli dica che mappe non ce ne sono, la vorranno sempre»23. Da Eco anche noi forse abbiamo atteso, voluto, la Mappa, il piano regolatore delle cose della cultura, o ci siamo illusi che egli, prima di partire, l’avesse allestita e nascosta da qualche parte. La moglie Renate, rispondendo a un’intervista alla fine delle esequie, ha riportato le sue ultime parole: «Mi chiudo come un riccio»24. E lungi da lui – per volontà testamentaria – i convegni, le tabule gratulatorie, gli stanchi riti di un’università morente. I suoi studi sul pensiero medievale, raccolti in volume, costituiscono al tempo stesso due libri, uno di studi specialistici, e un altro, ricchissimo di connessioni fra quella età e la nostra25. Eco ha resuscitato l’età di mezzo e dei cosiddetti, i vilipesi, secoli bui, ha fatto un alchemico laboratorio di nuove storie, connessioni, rispecchiamenti, contagi. Mario Andreose, il suo editor in Bompiani, ha annunciato la pubblicazione della saggistica e in seguito dei titoli narrativi che si libereranno dai diritti. Per la nuova editrice “La nave di Teseo” il 26 febbraio è uscita la prima opera postuma, il nuovo e ultimo libro sul costume italico, uno dei suoi temi d’elezione, dai tempi del Costume di casa (1973), dal titolo allusivo all’insolubile enigmistica dantesca, Pape Satàn Aleppe26. Avviandoci alla fine di una Premessa che si è convertita nella camera verde di un necrologio, diremo inoltre che preziosa guida agli avatar del cinema contemporaneo, su scala globale, dentro e fuori Hollywood (Fuori dal sistema: Nollywood), è stato il libro di Franco Marineo, Il cinema del terzo millennio27. What is Vanguard – si è chiesta Elisabetta Sgarbi in un suo film di ricerca presentato il 25 settembre 2013, allo Spazio Oberdan di Milano. Che cosa è e c’è ancora? O è ridicolo ormai parlarne dopo i fasti e i nefasti del Novecento, con le avanguardie nell’Accademia fascista degli ermellini? E poi che valore ha parlare di avanguardie in questa estetica collettiva? Fra gli intervistati, lo scrittore di Particelle elementari Michel Houellebecq, in cima alle cronache per il suo ultimo romanzo Submission, sulla Francia diventata nel 2022 uno stato islamico28, ha risposto che era da molto tempo che non sentiva quella parola, aggiungendo: «Non ha più niente da dire… Niente»29. Eppure, come ha ricor U. Eco, Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988, p. 367, p. 508. TG1, Rai 1, 23 febbraio 2016. Eco, Scritti sul pensiero medievale, Milano, Bompiani, 2012. 26 Id., Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, ivi, La nave di Teseo, 2016, Introduzione, p. 10: «Una parola sul titolo. La citazione è evidentemente dantesca (“Pape Satàn, pape Satàn aleppe”, Inferno VII, 1) ma, com’è noto, benché schiere di commentatori abbiano cercato di trovare un senso a questo verso, la maggior parte di essi ritiene che esso non abbia alcun significato preciso. In ogni caso, pronunciate da Pluto, queste parole confondono le idee e possono prestarsi a qualunque diavoleria. Mi è parso pertanto comodo usarle come titolo di questa raccolta che non tanto per colpa mia quanto per colpa dei tempi, è sconnessa, va – come direbbero i francesi – dal gallo all’asino, e riflette la natura liquida di questi quindici anni». Siglato PSA 2016. 27 F. Marineo, Il cinema del terzo millennio. Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni, Torino, Einaudi, 2014, pp. 35, sgg. (Fuori dal sistema: Nollywood). 28 M. Houellbecq, Sottomissione, trad. di V. Vega, Milano, Bompiani, 2015. 29 Id., L’avanguardia non ci addomestica, in «Corriere della Sera», 22 settembre 2013. 23 24 25


18    Quadri per un’esposizione e frammenti di estetiche contemporanee

dato Cesare de Seta, il fatto che abbia vinto il primo premio alla Biennale Arte 2011 il film di Christian Marclay, The Clock, che dura ventiquattrore, sta a dimostrare «che l’ambizione a un Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale, è viva, vegeta e operante»30. Siamo tutti stranieri in questa nuova terra. E la tecnologia è tutto ciò che è stato inventato dopo la tua nascita, il resto è solo roba (Alan Kay). Lo ha detto Vikram Chandra, l’autore indiano di Amore e nostalgia a Bombay, uno di quegli scrittori che è stato anche programmatore informatico e conosce a fondo le nuove tecnologie, lo spaesamento che producono in chi è nato prima, l’assuefazione di roba per chi ci è nato dentro. Il Narraprogrammatore31. Il libro di Pietro Montani, Tecnologie della sensibilità, ci ha posto di fronte a un dilemma sulla vocazione tecno-estetica della specie umana, se la realtà aumentata (augmented reality) e le tecnologie indossabili (Google Glass) potenzieranno o indeboliranno, adesso che anche lo spazio è medializzato, le percezioni della suddetta specie32. Il film di John Carpenter, Essi vivono (They live, 1988), si era già pronunciato sulla finalità politica di quelle protesi. Intanto un libro recente, una summa commentata di parole usate, ci ha riportato al breviario delle parole compagne di una vita, nostre vecchie conoscenze33. Per le aperture e le associazioni continue – variatio delectat – tali sono i modelli cui si ispirano le note che si offrono al lettore di questo libro. Che vogliamo concludere con una visita alle stanze lampedusiane della memoria, al paradiso dell’infanzia, nella più classica tradizione della recherche. Sono debitore per una buona parte di queste esperienze alle amiche Maria Gregorio e Diana Toccafondi, grandi esperte in materia di archivi e documentazione, e a entrambe va il mio grato saluto. Noi nativi tipografici e migranti digitali (così siamo stati definiti, a fronte dei nativi digitali coloro che intuiscono la tecnologia34, da un principe della Chiesa esperto in comunicazione), tentiamo solo di non affogare in questo passaggio di Capo Horn35. 30 C. de Seta, Biennali souvenir, Milano, Mondadori Electa, 2013, p. 53 (2011. Biennale Arte: Illuminazioni e offuscamenti). 31 S. Danna, Narraprogrammatore. Creare per un computer è come costruire romanzi che però vivono d’ambiguità, in «La Lettura» «Corriere della Sera», 16 marzo 2014, pp. 6-7. Alla domanda, «Cosa hanno in comune informatici e scrittori?», la risposta è stata: «Entrambi hanno a che fare con il linguaggio, ma in maniera molto diversa: nella programmazione l’ambiguità può portare al disastro. Quando scrivi codici il linguaggio deve essere completamente ed esclusivamente denotativo. Nel linguaggio poetico, al contrario, viene introdotta e utilizzata una voluta ambiguità, un’implicazione che – stando alla tradizione classica degli esteti indiani e ai teorici del linguaggio – è sempre stata oltre qualsiasi possibilità di denotazione. La poesia parla attraverso ciò che non dice, grazie a una risonanza che gli studiosi chiamano dhvani, vibrazione, riverbero». 32 P. Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Milano, Raffaello Cortina, 2014. 33 E. Lombardi Vallauri, G. Moretti, Parole di giornata, Bologna, il Mulino, 2015. 34 G. Riva, Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media, Bologna, il Mulino, 2014. 35 Pubblico in questo volume anche una relazione sulla letteratura di viaggio, che svolsi a New York, il 2 ottobre 2014.


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Gennaro Jovine, il personaggio-reduce della Napoli milionaria di Eduardo De Filippo (1945), visto il suo mondo di prima crollare, diceva Ha da passà ’a nuttata. Sì, Ha da passà ’a nuttata. Con un auspicio, e questa volta da una terna di eccezione, Schiller, Handke e Wenders: «I bei giorni di Aranjuez non sono ancora alla fine». Firenze 3 marzo-6 luglio 2016

M. B.



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