In copertina Campo G, 10 - giallo, 1986 olio su pannello, 80 x 100 cm Gudo Gambaredo (MI), collezione privata
William Congdon Silvio Prota
Silvio Prota (1966), architetto, ha collaborato alla didattica presso la cattedra di Storia dell’Architettura ed Estetica dell’Università La Sapienza di Roma. Ha partecipato al restauro della Stazione di Porta San Paolo a Roma (Marcello Piacentini) e del Real Albergo dei Poveri a Napoli (Ferdinando Fuga). Ha pubblicato, per la Società Editrice Fiorentina: Realtà e realismi nell’opera di Duccio di Buoninsegna, Beato Angelico, Caravaggio e Giorgio Morandi (2005) e L’incanto di ogni giorno. Riflessioni sulla pittura di Monet (2010). Coautore, insieme ad Alessandro Rondena, del volume La Sagrada Família. Un percorso dello sguardo (Cantagalli, 2014), nel 2015 è stato tra i curatori della mostra Mossi da uno sguardo. Dalla Sagrada Família all’Abbazia di Morimondo. Storia di una amicizia. Sempre nel 2015 ha fondato l’associazione culturale Live Art per favorire la conoscenza dell’arte attraverso il rapporto diretto con le opere. Svolge in tutta Italia attività di conferenziere proponendo percorsi tematici legati all’arte e all’architettura.
Silvio Prota
William Congdon Un occhio e un cuore nuovo
euro 14,00
www.sefeditrice.it
Questo libro ripercorre sinteticamente le tappe principali del percorso artistico di William Congdon (1912-1998), con l’intento di svelare l’unità profonda che lega la produzione artistica e l’esistenza del pittore americano, chiaramente espressa anche nei suoi numerosi scritti pervenutici. Le ragioni dello stile, che qui si propongono, attingono alla tensione esistenziale dell’artista, tutta permeata dalla consapevolezza di essere stato insignito di un grande dono dall’Alto: quello della creatività artistica. Tale coscienza nasce e si sviluppa dentro e attraverso le circostanze che segnano la vita di Congdon, traducendosi in una pittura originale e di altissimo livello artistico, che tocca punte di intenso lirismo soprattutto nella produzione degli ultimi due decenni.
A Sandro Rondena
Silvio Prota
William Congdon Un occhio e un cuore nuovo
introduzione di
Elena Pontiggia
© 2017 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice
Grafica e impaginazione Andrea Tasso - Borgoognissantitre Per le immagini © The William G. Congdon Foundation
isbn 978-88-6032-441-2
Redazione Cristina Fiorini
Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata
È vietata la riproduzione o duplicazione, con qualsiasi mezzo, delle immagini contenute nel volume
La vita e la forma
C’è un elemento caratteristico in questo libro di Silvio Prota su William Congdon. È il rapporto stretto, tenace, che l’autore stabilisce tra le opere e la vita dell’artista. Lo si osserva anche visivamente ad apertura di pagina. Ogni sequenza di opere è preceduta da una nota biografica che non è una semplice introduzione didattica o un capitolo iniziale degli apparati critici. Non è, insomma, un dovere filologico da espletare in fretta e magari con qualche fastidio. No, la nota biografica occupa invece un posto d’onore e già questa collocazione è una scelta significativa in un saggio su un artista come Congdon, per il quale valgono più che mai le parole di Hegel: «Lo stile è l’uomo». C’è una «unità profonda», come riconosce l’autore stesso e come il libro fa capire, tra l’opera di Congdon e la sua esistenza, tra la sua conversione religiosa e la sua vicenda espres-
siva, com’era inscindibile il nesso tra la sua fede e la sua vita. Tale nesso non conduce Silvio Prota a un’indagine, per così dire, contenutistica, come purtroppo capita spesso quando si parla di arte ispirata da una tensione spirituale. Dimenticando che la pietas può aprire la porta del Regno dei Cieli, ma non necessariamente quelle del regno dell’arte. Anzi, a volte le chiude. In questo libro, invece, le ragioni dello stile sono care all’autore. Tuttavia, l’analisi del testo non eccede nel formalismo. Viviamo in tempi di critica filologica, il che è un bene. Ma la critica filologica può diventare ipertrofica, e questo è meno positivo. Complici le possibilità che offre internet (quante riviste d’epoca, quanti dati, quanti archivi che un tempo occorreva cercare in tutto il mondo, oggi ci raggiungono comodamente sul computer), la lettura e l’interpretazione dell’opera
LA VITA E LA FORMA
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d’arte stanno divenendo sempre più professorali. Cose da dottorandi, che difficilmente escono dal chiuso delle aule universitarie e dalle clientele dei loro concorsi. Invece sembra che Silvio Prota abbia tenuto presente le parole di Eduardo De Filippo: «Chi cerca la vita trova la forma, chi cerca la forma trova la morte». Il grande drammaturgo intendeva dire che non c’è arte senza sapienza di linguaggio, e insieme che il magistero stilistico non deve compiacersi di se stesso, ma nascere da una tensione esistenziale.
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La massima vale per gli artisti, ma anche per i critici. Congdon sapeva che l’arte non è nata per permettere agli studiosi di compilare schede. Ma lo sa anche Prota, che nella sua lettura si sforza di ricordare che una sola cosa, in arte, conta più del linguaggio. Ed è il pensiero che il linguaggio racchiude. Elena Pontiggia Docente di storia dell’arte all’Accademia di Brera e al Politecnico di Milano
Premessa
Che cosa significa guardare un’opera d’arte? Un’opera d’arte può essere letta da un punto di vista stilistico, iconografico e iconologico, contestualizzata nel periodo storico, letterario e artistico in cui è nata e nel percorso figurativo del suo autore, nonché interpretata in base al personale bagaglio conoscitivo ed esperienziale di ciascuno. Il concetto di opera d’arte che si offre allo sguardo, che dona se stessa a occhi avidi di conoscenza rappresenta uno dei temi fondamentali della pittura di William Congdon. Essa non si “dona” subito, ma richiede un atteggiamento di attesa, pazienza e disponibilità, quasi di umiltà, da parte dell’osservatore. Occorre concederle lo spazio necessario affinché si dispieghi in tutta la sua misteriosità, svelando a poco poco i suoi più reconditi significati. Talvolta, però, nemmeno la più sincera disposizione d’animo è sufficiente per comprendere a fondo un’opera: può infatti
capitare che essa rimanga in sé poco comprensibile nonostante tutti i buoni propositi di chi le sta di fronte, come se ci fosse, al fondo, un non so che di oscuro e sfuggente. Davanti ai grandi capolavori artistici ho sempre vissuto l’esperienza di un’alterità. Quella dell’artista dentro la propria opera, ma anche l’alterità dell’opera in sé, paragonabile a un bambino che, intimamente legato alla madre – quasi un tutt’uno con il suo ventre – è al contempo totalmente altro rispetto a lei. Tale esperienza si è rinnovata in me, in maniera decisiva, tutte le volte che mi sono avvicinato alle opere di Congdon. La figura del pittore americano mi è sempre apparsa singolare per due ragioni: da un lato – lo si evince chiaramente dai suoi scritti – Congdon è costantemente teso a decifrare l’immagine artistica da lui prodotta, a dimostrazione che nemmeno l’artista conosce fino in fondo la propria opera; dall’altro lato si av-
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verte un’unità profonda tra la vita e le opere di Congdon, tanto che l’intera sua produzione artistica è, a tutti gli effetti, specchio della sua stessa esistenza. Al di là delle varie letture sulla produzione artistica di Congdon, il mio vero incontro con il suo genio artistico è avvenuto in occasione di importanti esposizioni, quali Cielo è terra. William Congdon: opere 19831993 (Rimini, Meeting per l’amicizia fra i popoli, 1997), William Congdon 1912-1998. La mirada de un testigo del siglo xx (Madrid, Sala de Exposiciones de Plaza España, 1998-1999), William Congdon 1912-1998. Nei luoghi del mondo (Bassano del Grappa, Palazzo Bonaguro, 1999) e William Congdon a Venezia. Uno sguardo americano. Opere 1948-1960 (Venezia, Università Cà Foscari, 2012). Nel 2017 ho avuto poi occasione di rivedere, presso la William G. Congdon Foundation di Buccinasco, alcune delle opere già incontrate nel corso degli anni, accorgendomi con sorpresa che numerose immagini erano rimaste silenziosamente impresse nel mio cuore e nella mia memoria. La pittura di William Congdon si sviluppa in un itinerario artistico estremamente complesso e articolato, caratterizzato fin dagli inizi dalla convinzione che l’immagine
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pittorica nasca dal profondo del proprio essere e che il trasferimento sul supporto pittorico sia paragonabile, in tutto e per tutto, all’atto del partorire. La progressiva presa di coscienza del ruolo che l’atto creativo riveste nella sua vita, e l’evoluzione di tale coscienza nella successione degli avvenimenti che segnano la sua storia personale rappresentano, a mio avviso, una valida chiave di lettura per interpretare in modo adeguato le opere dell’artista. Da qui la scelta di presentare i vari dipinti in successione cronologica, e di inserire in apertura di ciascun capitolo una breve nota biografica per meglio contestualizzarli. Ogni capitolo corrisponde a una precisa fase pittorica: la prima, dagli esordi alla fine degli anni Cinquanta, è segnata dalla presa di coscienza sempre più consapevole del dono creativo e dalla successiva crisi dell’ispirazione artistica. La seconda, caratterizzata da un nuovo linguaggio figurativo, prende le mosse dalla conversione di Congdon al cattolicesimo, avvenuta nel 1959 ad Assisi, e si protrae fino al 1979. La terza, che segna un nuovo rapporto con la natura e si esprime in una maturità artistica assolutamente originale, inizia dopo il trasferimento dell’artista a Gudo Gambaredo, nella Bassa milanese, e termina nel 1998, anno della sua morte.
La presente pubblicazione non sarebbe stata possibile senza la disponibilitĂ della William G. Congdon Foundation e la preziosa collaborazione di Rodolfo Balzarotti, direttore scientifico della stessa, che desidero ringraziare per i fondamentali e illuminanti consigli.
La Fondazione, nata per volere dell’artista, custodisce gran parte delle opere di William Congdon e si propone di diffondere la conoscenza dell’artista attraverso mostre, conferenze e pubblicazioni, con particolare attenzione al mondo dei giovani.
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La scoperta del dono creativo e la sua crisi
William Grosvenor Congdon nasce il 15 aprile 1912 a Providence (Rhode Island) in una famiglia di fede protestante. I suoi genitori, Gilbert Maurice Congdon e Caroline Grosvenor, appartengono entrambi a facoltose e rinomate famiglie di industriali. Nel 1934, all’età di ventidue anni, inizia a seguire i corsi di pittura di Henry Hensche a Provincetown (Massachusetts), durante i quali comincia a chiarirsi la sua vocazione all’arte. Due anni più tardi, nell’autunno del 1936, Congdon partecipa ad alcuni corsi di figura e modellato organizzati a Boston dallo scultore di origine greca George Demetrios. Nel 1942 si arruola come autista d’ambulanza nell’American Field Service e, seguendo gli spostamenti dell’viii Armata britannica, assiste alla battaglia di El Alamein, durante la quale affianca un chirurgo neozelandese nel gravoso compito di curare i feriti. Nel maggio 1945 arriva nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, appena liberato,
dove presta soccorso per tutto il mese ai superstiti. È qui che, dopo quasi un anno di stasi creativa, riprende a disegnare registrando tutto ciò che avviene sotto i suoi occhi. Si trasferisce quindi a New York nel 1948 e inizia a esporre presso la prestigiosa Betty Parsons Gallery; qui ha modo di conoscere Pollock, Rothko, de Kooning, Newman e altri importanti artisti legati all’Action Painting. Il 1950 segna l’avvio di una lunga peregrinazione per città che lasciano un segno indelebile nella sua pittura: Venezia, Roma, Assisi, Atene, Istanbul, Parigi… Congdon rimane in particolar modo abbagliato dalla luce di Venezia, che cerca costantemente di catturare nei numerosi dipinti che ritraggono la città lagunare, rappresentata con forza visionaria inedita. Uno dei suoi soggetti preferiti è piazza San Marco, che ritrae per tre anni consecutivi. Le opere di questo periodo, esposte durante varie mostre organizzate a New York, Boston e Washington, suscitano grande ammirazione fra
LA SCOPERTA DEL DONO CREATIVO E LA SUA CRISI
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William Congdon al lavoro nel suo studio (monastero della Cascinazza presso Gudo Gambaredo), 1981 © Elio e Stefano Ciol
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i critici e i collezionisti americani. Il successo, tuttavia, non dura a lungo: ben presto il linguaggio figurativo dell’artista, così lontano dall’astrattismo della pittura americana coeva, e insieme le sue lunghe peregrinazioni in Europa, lo isolano a poco a poco dal panorama artistico d’oltreoceano. Negli anni successivi tale isolamento si acuisce ulteriormente, accompagnandosi al bisogno, sempre più incalzante, di viaggiare (Sahara, India, Cicladi, Messico, Egitto)
per alimentare la propria ispirazione e, contestualmente, trovare se stesso: «L’artista è un nomade, alla ricerca del luogo in tutti i luoghi del mondo… alla ricerca dell’immagine che mi stava aspettando»1. Alla metà degli anni Cinquanta Congdon attraversa una profonda crisi di ispirazione che si accentuerà ulteriormente negli anni successivi. Nel 1957 allestisce ad Antigua, in Guatemala, uno studio ricavato nel semidiroccato convento del Carmine. Congdon ama la semplicità, il senso di primitivo che si respira in questi luoghi, avulsi da qualsiasi forma di perbenismo sociale e dove i ritmi, lenti e pacati, non hanno nulla da invidiare alla vita moderna e frenetica delle grandi città. Al 1959 risalgono i viaggi in Cambogia e ad Assisi dove, animato dall’intenso fervore spirituale che gli avevano suscitato le letture di carattere religioso degli ultimi anni – in primis gli scritti di sant’Agostino –, riceverà, come vedremo nel capitolo successivo, il battesimo.