Opere d’arte della Collezione della Banca Federico Del Vecchio
Catalogo a cura di Rossella Campana Supporto tecnico-scientifico Giovanni Graziano Referenze fotografiche Archivio Banca Federico Del Vecchio Centroprisma – Firenze Foto Giusti Paolo (copertina e pp. 41-43) Progetto grafico Studio Grafico Norfini, Firenze Stampa Grafiche Martinelli, Firenze dicembre 2016
© 2016 Società Editrice Fiorentina Via Aretina, 298 – 50136 Firenze www.sefeditrice.it Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-6032-404-7
Opere d’arte della Collezione della Banca Federico Del Vecchio: qualità ed eccellenza come stile di vita
Premessa
Firenze arte e storia. È il filo rosso delle opere che adornano le sedi della Banca Federico Del Vecchio, la cui Fondazione è impegnata in un prezioso lavoro di catalogazione, di cui questo volume strenna offre un eloquente compendio. Costituita per volontà della omonima Banca, la Fondazione persegue scopi di solidarietà sociale, incoraggiando gli studi di cultura umanistica o tecnica, artistica o scientifica, a beneficio della realtà fiorentina. In questi anni la Fondazione non ha fatto mancare il proprio significativo sostegno ad alcune fra le più prestigiose istituzioni museali e accademie cittadine. Sono da ricordare, fra i numerosi interventi, l’illuminazione e il recupero delle sale del Bargello, l’adozione di opere (restaurate) dell’Istituto degli Innocenti, i progetti letterari promossi dalla Crusca… Particolare l’attenzione rivolta alle nuove generazioni, come rivela il consolidato concorso di giornalismo promosso insieme alla Banca, in collaborazione con La Nazione, che consente agli studenti delle scuole medie del territorio di indossare l’abito di redattori e cronisti, proiettati in prima persona nel mondo dell’informazione. Cosimo Ceccuti presidente Fondazione Banca Federico Del Vecchio 4
Introduzione al catalogo
Un tratto distintivo della Banca Del Vecchio nelle sue sedi principali fiorentine, quella storica in via de’ Banchi e il Centro direzionale in viale Gramsci, è certamente la vocazione ad accogliere: e non solo grazie all’affidabilità professionale, per quanto essa sia requisito fondamentale di una banca, ma anche con l’atmosfera di quieta e sobria eleganza creata dagli arredi in legno e cristallo dalle lustre finiture in ottone, su cui spiccano, come sigle araldiche portatrici di una forte identità, i tulipani opalescenti delle lumiere e delle appliques. A questi ambienti, così come agli uffici, la collezione di quadri, di grafica e di oggetti d’arte della banca conferisce un’impronta unica, di dimora borghese di antica e solida formazione, che ha conosciuto progressive fortune dal periodo patriottico e risorgimentale del XIX secolo fin ben addentro al XX. All’Ottocento toscano risale infatti il nucleo principale dei dipinti, nella sua composizione ampia e variegata che spazia dai Macchiaioli ai loro successori, costieri e non soltanto. Ma non mancano, quasi reliquie illustri d’un passato più remoto, effigi che rimandano alle dinastie preunitarie, dal misterioso ritratto del Cardinal Giulio de’ Medici (il futuro Clemente VII) estratto in copia dal celebre quadro di Raffaello con Leone X alla Galleria degli Uffizi, ma tramutato dall’inscrizione antica in un dugentesco vescovo pisano, agli Asburgo in rutilanti uniformi settecentesche. Oltre al ritratto aristocratico ufficiale, altri “generi” pittorici sono toccati con esempi di pregio. Tra i soggetti sacri, si segnala la scena tardocinquecentesca dedicata alla rara iconografia del Ritorno della Sacra famiglia dalla fuga in Egitto, secondo la composizione inventata da Giovanni Battista Paggi, pittore gentiluomo genovese esule a Firenze, più volte replicata e copiata: una scena d’amabile soavità, nella quale il divino e il terreno si uniscono in un’atmosfera di naturalezza familiare. Altri soggetti sacri, altri quadri con ritratti (garbatissima la coppia di fanciulli di Drouais), scene galanti, nature morte e animali ampliano la casistica dei “generi”, sui quali domina incontrastato il paesaggio: le marine settecentesche placide o tempestose, le serene campagne popolate da pittoreschi viandanti, gli scenari montuosi innevati a rappresentare l’inverno, le nobili rovine antiche vere o di fantasia, le vedute romantiche culminanti nell’esattezza visionaria di Fabio Borbottoni. Finché la collezione raggiunge il suo apice nel nucleo di pittura ottocentesca che comprende quadri dei grandi Macchiaioli. L’impressione è quella d’una raccolta familiare che, avviata con gusto e con moderazione da un qualche antenato, e accresciuta con parsimonia nel tempo dagli eredi, grazie alle fortune consolidate o acquisite dalle generazioni seguenti si espanda quasi di colpo, ad accogliere l’arte nelle sue manifestazioni più aggiornate e pregiate. Giovanni Fattori, uno degl’indiscussi protagonisti del movimento della “macchia”, è presente con quadri che rispecchiano i suoi temi, come le campagne ben coltivate percorse da sentieri dalla “poesia agreste” (p. 41), i soldati e i cavalli, le maremme. Di grandi dimensioni e di bel piglio è la tela de Il guado, dove alla fatica degli uomini e dei cavalli da tiro si contrappone la silente indifferenza della luminosa distesa acquatica, che riflette l’immenso cielo ardente, appena solcato di nubi e voli. Oltre a Giovanni Fattori, sono
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rappresentati da tele di alta qualità Telemaco Signorini e Silvestro Lega, solo per ricordare i principali Macchiaioli. Le figure aspre e potenti di Lorenzo Viani, l’affabile famiglia sul prato di Armando Spadini, il vibrante e turbato soggetto sacro di Plinio Nomellini conducono verso la pittura del Novecento, con la molteplicità dei suoi linguaggi, orientamenti e movimenti artistici. Anche qui, la raccolta Del Vecchio include rappresentanze d’eccellenza: la tendenza figurativa di radice rinascimentale di Pietro Annigoni, il classicismo risonante di Giorgio De Chirico, la fragilità introspettiva di Filippo De Pisis e altro ancora. L’arte fra le due guerre e oltre propone lavori di Galileo Chini, Elisabeth Chaplin, Gianni Vagnetti, la compagine post-macchiaiola dei labronici… Nelle stanze dal comfort sobrio e dall’intonazione ottocentesca, quadri di autori molto amati e quasi popolari stanno accanto ad artisti rimasti in disparte, che proprio questo catalogo (di grande spessore scientifico, grazie alle ricerche e alla stesura di un’esperta come Rossella Campana) contribuirà a restituire alla più vasta attenzione che meritano. Se ogni strumento di conoscenza che rende noto e valorizza un settore del nostro immenso e diffuso patrimonio artistico è benvenuto, specie per chi come me ha dedicato e dedica ad esso gran parte delle proprie energie intellettuali e spesso fisiche, non nascondo una commozione speciale all’apparire di questo volume: strumento di conoscenza, certamente, ma per me anche evocatore di ricordi speciali che, alla vista di certe opere d’arte, riemergono da plaghe profonde della memoria, non più visitate da tempo. L’amabile, felicissima Fontana della satiretta di Sirio Tofanari, vero maestro nei getti in bronzo di animali, la rivedo proiettata nei ricordi di certe visite domenicali al seguito dei miei genitori alla Villa della Capponcina, abitata allora da Gastone e Jolanda Pampaloni. Là, con impazienza d’adolescente annoiata tra adulti, mi cercavo intorno le suggestioni della convivenza della Duse e di D’Annunzio; erano svanite però con l’asta del 1911 e le ultime tracce erano cancellate dall’assetto lussuoso e convenzionale della villa, ormai solo ricca magione, a sua volta svuotata dall’asta del 2001, dove fu acquistata la fontana. E poi, i quadri di Piero Del Vecchio – circhi, teatri, interni segreti tra il Doganiere e Balthus – mi torna in mente d’averli visti via via che li dipingeva, in un intorno di tempo negli anni Settanta in cui venivo talvolta invitata, tramite l’autorevole mentore ed amico Franco Borsi, nella sua casa accogliente. Ne ricordo uno in particolare, dove allo spettacolo circense di danzatrici volteggianti in esercizi equestri assisteva un vecchione solenne... il nonno Federico, con barba bianca e cilindro come nei ritratti fotografici, sbalzato dal nipote pittore in una fantasiosa e gaudente Belle Époque! Grazie a questo volume, appare in tutta la sua evidenza come la famiglia, la banca, la fondazione e la collezione d’arte Del Vecchio formino un unico specchio, in cui ancora si riflettono l’etica, l’energia, la sobrietà e il gusto per l’arte d’una lunga stagione della società italiana. 6
Cristina Acidini vicepresidente Fondazione Banca Federico Del Vecchio
La Banca Federico Del Vecchio
La Sede storica La Banca Federico Del Vecchio ha sede a Firenze in via dei Banchi n. 5, nell’antico palazzo Ambron, fin dal 1° gennaio 1889, data di costituzione della “Ditta bancaria Federigo Del Vecchio”. Il palazzo è posto all’angolo fra via dei Banchi e via del Moro, in corrispondenza della delimitazione della quinta cerchia muraria del XII secolo, e la sua costruzione risale agli inizi del XVI secolo. Esso apparteneva alla famiglia dei Lapaccini, successivamente passò ai Buontalenti, che vi ospitarono il pittore napoletano Salvatore Rosa. In seguito appartenne ai Giraldi. La facciata su via dei Banchi è ben proporzionata, con due ordini di finestre ad arco con bozze sporgenti. Gli ambienti della Banca, al piano terra dell’edificio, conservano gli arredi che ne testimoniano il vissuto e la storia: mobili dell’Ottocento, dipinti, incisioni, caricature inglesi, vetri di Murano e tappezzerie, che conferiscono un’atmosfera gradevole, colloquiale e domestica.
Il Centro direzionale Nel 1998 la Banca ha inaugurato il nuovo Centro direzionale, a Firenze in viale Gramsci n. 69, composto dal villino e dalla limonaia che si affacciano sul giardino della fontana bronzea di Tofanari. Gli ambienti, arredati in linea con lo stile della sede storica di via dei Banchi, risultano accoglienti ed eleganti ed ospitano la collezione d’arte ed una selezione di arredamento d’antiquariato. La costruzione dei due immobili rientrò nel programma di ampliamento della città, predisposto dall’architetto Poggi nel 1865. I due edifici furono eretti su un “terreno lavorativo” coltivato a vite e frutteto, successivamente all’abbattimento delle mura medievali fra il 1876 ed il 1884, anno in cui risultano inseriti sulla planimetria del Vecchio Catasto. Nel 1897 le due costruzioni furono separate dalla proprietà del palazzo prospiciente la piazza d’Azeglio, e nel 1925, come rilevato dall’atto di successione Rohr-Hausser, risultano definiti il muro di cinta e gli accessi sul viale Principe Eugenio (oggi viale Gramsci). Fra il 1925 ed il 1939 i due edifici vennero ampliati nella consistenza attuale.
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Sede di viale Gramsci, sala del consiglio
Opere d’arte della Collezione della Banca Del Vecchio: qualità ed eccellenza come stile di vita
La Collezione della Banca Federico Del Vecchio comprende opere d’arte figurativa moderna e contemporanea, nazionale ma non solo, e bene si configura, pur nella dimensione contenuta e nel carattere di arredo, come l’espressione qualitativamente significativa di un eletto mecenatismo, tipico della grande tradizione fiorentina. Proprio tale carattere consente d’altronde di far risaltare le eccellenze, dando contestualmente il giusto peso al ricco tessuto in cui esse sono inserite, e ciò a partire dalla presa d’atto che un simile patrimonio d’immagini ha provenienze varie nel corso degli anni. Parte delle opere, infatti, è conseguenza della passione collezionistica della famiglia Del Vecchio, proprietaria all’origine e fino al 1998 della Banca stessa. Parte deriva invece da acquisizioni occasionali verificatesi nel corso degli anni. Parte, infine, è frutto di acquisizioni mirate. Da ciò dipende la eterogeneità della Collezione, che si articola lungo un arco temporale che va dal XVI al XX secolo, ma che tuttavia si distingue tanto per un buon livello medio quanto per la presenza di autentici capolavori, tali da conferire sicuro rilievo all’insieme. La selezione che qui si illustra intende presentare una ricognizione ad ampio raggio di tale patrimonio, che si auspica aperto a una progressiva ulteriore crescita, in un contesto contemporaneo difficile ma rispetto al quale l’arte figurativa conserva gelosamente il proprio significato di testimonianza culturale e dunque il proprio ruolo di riferimento intrinsecamente etico.
Rossella Campana
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Sede di viale Gramsci, presidenza
Scuola toscana Ritratto del cardinale Giulio dei Medici, da Raffaello 1524-1530 circa olio su tavola, cm 77x67
Riflettografia
Il quadro rappresenta in veste da cardinale Giulio de’ Medici (1478-1534), futuro papa Clemente VII (dal 1523), derivandone l’immagine da quella che compare nella grande tavola conservata agli Uffizi, che Giorgio Vasari nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori attribuisce integralmente alla mano di Raffaello Sanzio (1518), lì posta accanto a quella dell’allora papa Leone X (Giovanni di Lorenzo de’ Medici, 1475-1521, regnante dal 1513) e di Luigi de’ Rossi (1474-1519), anch’egli in veste di cardinale, entrambi suoi cugini. Pervenuto alla Collezione nel 2000 da una illustre famiglia toscana, esso è stato sottoposto a un restauro che ha confermato la piena compatibilità cinquecentesca dell’esecuzione. In quell’occasione è stata inoltre rimossa un’iscrizione apocrifa di epoca posteriore in caratteri capitali, nella quale si leggeva: “Vitale Marzi arcivescovo pisano nel 1246”, ed è stata altresì rilevata la presenza, sotto al colore, di un disegno preparatorio nelle parti del volto e della mantella del personaggio ritratto. Ciò ha posto contestualmente la questione della storia e dell’eventuale attribuzione dell’opera, che, pur essendo una copia, è tuttavia una copia d’epoca e relativa a un personaggio che fu senz’altro un protagonista della storia del suo tempo. Attribuzione in merito alla quale va subito segnalato un ulteriore interrogativo, dato che studi recenti sull’originale presunto raffaellesco hanno messo in dubbio anche la qualità autografa delle figure dei due cardinali, per le quali a completare l’opera raffaellesca sono stati fatti i nomi di Sebastiano del Piombo o Giulio Romano (V. Guazzoni, A. Natali, Raffaello e il ritratto di Papa Leone, Milano 1996). Rispetto a quel precedente, inoltre, nel nostro quadro la figura di Giulio de’ Medici risulta completata nella parte che concerne le braccia e il busto e modificata nella semplificazione della struttura architettonica sullo sfondo. Ma torniamo alla fonte. Vasari, dunque, aveva scritto di come Raffaello avesse dipinto l’originale a Roma con le tre figure. Dopo la morte di Leone X (1521), papa com’è
noto, proveniente dalla famiglia dei Medici, quel quadro era stato portato a Firenze, dove nel 1523 era stato visto e molto ammirato da Federico II, duca di Mantova, di passaggio nel recarsi a Roma a omaggiare il nuovo papa nel frattempo salito al soglio, per l'appunto Clemente VII, già cardinale Giulio de’ Medici. Federico, quindi, avrebbe chiesto in dono al papa l’opera raffaellesca e questi – sempre secondo Vasari – avrebbe ordinato a Ottaviano de’ Medici (1484-1546, di un ramo collaterale della famiglia, figura di spicco della vita politica e culturale della città) di inviarla a Mantova. E qui il racconto vasariano si fa per noi intrigante. Non volendo cedere un simile capolavoro, infatti, Ottaviano ne avrebbe comandata segretamente una copia ad Andrea del Sarto, altro grande nome della pittura fiorentina del tempo, e tale copia (attualmente presso il Museo di Capodimonte), sarebbe riuscita assolutamente conforme all’originale raffaellesco, “insino alle macchie del sucido”. La storia, vera o verosimile che sia, come sempre nell’aneddotica vasariana rivela comunque il groviglio d’interesse che circondò da subito l’originale presunto integralmente raffaellesco e accresce di conseguenza l’attenzione per il nostro quadro. Ancora secondo Vasari, infatti, in quella medesima occasione e proprio per Ottaviano de’ Medici, Andrea del Sarto avrebbe eseguito anche un quadro con “solo la testa di Giulio cardinal de’ Medici, che fu poi papa Clemente VII, simile a quella nel quadro di Raffaello, che fu molto bella”. “Testa” che, visto il contesto 11 narrativo, si può ipotizzare fosse a sua volta derivata da quella dell’originale. Ottaviano, sempre secondo Vasari, avrebbe in seguito donato questa sua “testa” al “vescovo vecchio de’ Marzi”, ovvero Angelo Marzi (1477-1546), personaggio strettamente legato ai Medici e in particolare a Giulio, fedele a oltranza alla famiglia nonostante le molte peripezie cui essa era andata incontro in quegli anni turbolenti. Quando e perché ciò sarebbe accaduto Vasari non specifica. Tuttavia, data l’importanza di un simile dono, l’occasione non poteva essere fortuita. Nel 1529, infatti, in segno di riconoscenza per i molti servigi resi, proprio Clemente VII aveva nominato il Marzi, che in quell’anno aveva preso i voti, vescovo di
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Assisi. Nel 1532, inoltre, due anni dopo la a perdere significato nel corso di secolari restaurazione medicea a Firenze, sempre trasmissioni ereditarie? Clemente gli aveva concesso la facoltà Potrebbe insomma il nostro Ritratto di di testare a favore dei nipoti e nel 1533 Giulio dei Medici essere proprio quello gli aveva attribuito una lauta pensione e che Vasari dice essere stato eseguito da rendite. Cosimo I avrebbe infine sancito Andrea del Sarto contestualmente alla questo legame nel 1537 conferendo copia da Raffaello per il Duca di Mantova, ai Marzi il privilegio di aggiungere al originariamente donato da Ottaviano al proprio il cognome Medici, e due anni vescovo Angiolo Marzi dei Medici pochi dopo avrebbe collocato Angiolo al vertice anni dopo che essa era stata eseguita, e di dell’apparato pubblico preposto alla cui si erano perse le tracce? distribuzione di dispense, grazie e privilegi La vicinanza del volto a quello in nome del sovrano. dell’originale (chiunque ne sia l’autore) Nel 1546, dunque, alla morte del Marzi autorizza a sperarlo, ma la qualità alta (il cui sepolcro imponente, opera di della pittura anche – posto che in una Francesco da Sangallo, a testimoniare copia la personalità dell’artista deve dell’importanza della sua figura pubblica forzatamente annullarsi, soprattutto se, troneggia alla sinistra dell’altar maggiore come in questo caso, il fine è l’inganno. della Basilica della Santissima Annunziata In merito, tuttavia, Vasari parlava in a Firenze), le sue proprietà, fra le quali effetti solo di una “testa”, mentre noi si può ipotizzare si trovasse appunto la siamo di fronte a un mezzo busto che “testa” di Giulio-Clemente detta da Vasari integra di cappa rossa e veste bianca di mano di Andrea del Sarto, passarono la figura del cardinale, seminascosta agli eredi del “vescovo vecchio”. nel quadro attribuito a Raffaello da L’ipotesi, a questo punto, è che essa possa quella in primo piano del papa Leone X, essere rimasta di proprietà della famiglia introducendo quanto alla definizione dei Marzi Medici anche nei secoli successivi, tessuti elementi di morbido pittoricismo ed essere pervenuta per via ereditaria divergenti rispetto al fermo dettato fino a Maddalena di Ferdinando Marzi lineare del volto, riferibili piuttosto a Medici Tempi, che negli anni ottanta del un momento successivo della maniera Settecento andò sposa a Piero Vettori, fiorentina. e quindi infine, attraverso la loro figlia, Proprio questa divergenza, tuttavia, Maria Ottavia Marzi Medici Tempi Vettori, potrebbe costituire in modo indiretto e sposa di Giulio Placidi, esser toccata in sempre ipotetico un ulteriore tassello del sorte alla famiglia del patriziato senese nostro curioso puzzle, introducendo la legata alla provenienza in Collezione della possibilità di un intervento successivo di nostra tavola. completamento della semplice “testa”, Tornando alla quale giova a questo punto magari proprio in occasione del dono da rammentare come prima del restauro parte di Ottaviano, poiché ciò accadde un’iscrizione posticcia, in modo del tutto verosimilmente negli anni trenta del incongruo rispetto al soggetto ritratto, Cinquecento, quando la famiglia medicea, ma alludendo verosimilmente alla veste tornata al potere a Firenze, pagò a più ecclesiastica, avesse adeguato l’immagine riprese il proprio debito di riconoscenza a quelle, ad esempio, della Serie Gioviana alla fedeltà del Marzi. In quel caso, se dei Ritratti degli Uomini Illustri oggi non ad Andrea stesso, morto oltretutto agli Uffizi, e per far ciò avesse chiamato nel 1530, tale intervento potrebbe infatti in causa un altro uomo di chiesa, Vitale essere ascritto a una personalità della Marzi, effettivamente vissuto in Toscana, sua cerchia, o anche autonoma, data ma a Pisa, e nel XIII secolo. Si tratta di l’entità del dono, e comunque aggiornata una mera coincidenza o forse, invece, ormai sulle soluzioni stilistiche altrimenti quell’iscrizione era il retaggio tardo di una orientate di cui si è detto. notizia familiare che si era corrotta fino
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