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Massimo Fanfani
Massimo Fanfani
rimo dizionario dell’italiano a esser ideato e redatto fra le due guerre, quello di Enrico Mestica, apparso nel 1936 a poca distanza dalla proclamazione dell’Impero da parte di Mussolini, risente molto del clima di quegli anni, ben oltre le voci proprie del linguaggio politico. E consente così di comprendere meglio le vicende di una lingua che attraverso l’esperienza collettiva della Grande Guerra, le risorgenti spinte regionali, gli interventi di una moderna politica linguistica, andava adattandosi alla contemporaneità. E di osservare in un caso concreto come sempre il potere, anche in assenza di un Grande Fratello, cerchi di condizionare il valore delle parole.
Un dizionario dell’era fascista
Massimo Fanfani, associato di Linguistica italiana presso l’ateneo fiorentino, dirige con Andrea Dardi la rivista «Lingua nostra». Nel 2012, in questa collana, ha pubblicato il volume Vocabolari e vocabolaristi. Sulla Crusca nell’Ottocento.
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Un dizionario dell’era fascista
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Massimo Fanfani
Un dizionario dell’era fascista
SocietĂ
Editrice Fiorentina
Il volume è frutto di una ricerca svolta presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze e beneficia per la pubblicazione di un contributo a carico dei fondi amministrati dallo stesso Dipartimento
© 2018 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-492-4 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata
Indice
7 Premessa 13 Abbreviazioni
15
I. Il “Mestica” e le risorse di Apiro
19
II. Moralità ed enciclopedismo di un lessico d’autore
31
III. Fra regionalità e nuovo italiano
41
IV. Riflessi regionali nei lessici italiani
47
V. L’opzione marchigiana di Mestica
53
VI. Un tesoro regionale sommerso
75
VII. Le varie componenti del lemmario
81
VIII. La lingua parlata e i dialettalismi
85
IX. Neologismi e forestierismi
91
X. Le voci della politica
105
XI. La struttura dei lemmi
111
XII. La fortuna del Dizionario
117 Indice delle parole 133 Indice dei nomi
Premessa
Questo studio prende in esame il Dizionario della lingua italiana di Enrico Mestica, collocandolo nel momento storico in cui apparve. Ne considera, in particolare, proprio gli aspetti più strettamente legati al suo tempo. L’opera fu pubblicata nel 1936, a pochi mesi di distanza dal solenne annuncio di Mussolini della «riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma», Impero che avrebbe costituito «un immenso varco aperto su tutte le possibilità del futuro»: in quella temperie, anche per un semplice lavoro di compilazione lessicografica, era difficile non sentirsi chiamati in causa. Del resto in ogni epoca storica le pagine dei vocabolari, per quanto sottili, sono sempre state delle carte assorbenti impregnate, al di là di ciò che risulta a prima vista dalle rastremate colonne del lemmario, degli scarabocchi e dei segni del tempo. A saperle leggere, quelle fitte righe d’inchiostro e di parole fanno rifiorire altri inchiostri e altri umori e ci dicono molto di sentimenti, pensieri, aspirazioni di chi le compilò e anche di coloro cui erano destinate. Ogni vocabolarista, infatti, deve tener conto dei suoi lettori assai più di quel che non faccia uno scrittore, perché in tema di lingua tutti hanno le mani in pasta e se un buon vocabolario può rivelarsi fonte di legittimazione linguistica, in fondo sono sempre i suoi utenti a dargli valore. Così le opere lessicografiche, per quanto siano guide autorevoli, seguono, in modo più o meno evidente, gusti mentalità ideologie del mondo e dell’epoca loro. Ciò appare sempre più chiaro dalla metà del Settecento in poi quando, con il radicarsi di quella mutazione metafisica fondata sull’idea della modernità e del progresso, il discorso pubblico intorno alle novità sociali e politiche si generalizzò, coinvolgendo tutti e interessando ogni aspetto dell’esperienza umana, tanto che la lingua ne risentì profondamente e i vocabolari finirono con l’adeguarsi. Si tese addirittura a farne strumenti di persuasione e di manipolazione dell’opinione pubblica, specie per i termini sottoposti a giudizi di
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valore, come quelli riguardanti la filosofia e la religione, l’economia e la politica, le leggi e l’amministrazione, e perfino i costumi e i rapporti umani. Tuttavia l’ideologizzazione dei vocabolari raggiunse il suo culmine solo coi regimi totalitari del Novecento. In Italia, con l’avvento del fascismo, si venne consolidando una sorta di conformismo lessicografico che, sia pur con toni diversi e non in ogni impresa, continuerà a sopravvivere anche nel secondo dopoguerra, fino a travasarsi nella melassa politicamente corretta dei vocabolari d’oggi. Riguardo alla lingua, il regime instauratosi con il colpo di stato del 28 ottobre 1922 non aveva fatto che riprendere le istanze del nazionalismo risorgimentale e postunitario, incentrate sull’unità dell’italiano come elemento identitario della Nazione, sulla sua puristica indipendenza dalle influenze alloglotte, sulla sua diffusione in ogni strato della popolazione, in ogni regione, in ogni circostanza della vita civile. Tuttavia nel corso del ventennio fra le due guerre tali princìpi assunsero maggior consistenza, anche se occorre distinguere tra le direttive decise dall’alto, le prese di posisione individuali e il concreto e talora contraddittorio interventismo linguistico collettivo. Gli stessi provvedimenti di politica linguistica non costituirono un complesso compatto e coerente, ma si coagularono via via attorno ad alcuni momenti e problemi particolari: la costituzione di una nuova idea d’italiano come lingua moderna e nazional-popolare, unitaria ma aperta ai regionalismi, ancorata alla tradizione ma protesa verso le innovazioni e i linguaggi della contemporaneità, idea presente fin dall’inizio ma che prende corpo in occasione del decennale della “Rivoluzione” nel 1932; l’“autarchia linguistica”, su cui convergono le varie iniziative puristiche, che emerge nel 1935 come mistificante risposta ideale alle sanzioni decretate dall’Inghilterra; la sublimazione linguistica del mito dell’antica Roma e il rilancio del latino e del latinismo che tocca il suo picco nel 1936 con la proclamazione dell’Impero; il progressivo spostamento sulla capitale del baricentro dell’italiano, in sintonia con analoghe scelte politiche, che nel 1938 approda alla postulazione di un “asse linguistico Roma-Firenze”. Insomma un quadro abbastanza mosso d’idee e iniziative nei confronti della lingua, ora convergenti e intersecantisi fra loro, ora discordanti, da tener presente anche nel considerare la produzione lessicografica di quegli anni. Attraverso i vocabolari, infatti, si poteva dare una raffigurazione esemplare del tipo di lingua promossa dal Regime, veicolare nuove parole-guida e nuovi ideali, oscurare o riplasmare il lessico legato alla politica del passato o ai movimenti avversi all’Italia di Mussolini. All’inizio, tuttavia, nella sua fase rivoluzionaria e futuristeggiante il fascismo parve non tenere in alcun conto prodotti così polverosamente inutili come talora sono i vocabolari. Lo stesso Mussolini, quand’era socialista e anche dopo, nonostante i suoi spiccati e molteplici interessi per la lingua, più di una volta ci tenne a vantare la sua allergia ai dizionari: «Conio una parola orribile» – scriveva nel 1912 a proposito di intervi-
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stomania – «Me ne dispiace tanto per i puristi, ma in questo momento non ho il tempo di controllare il Petrocchi e trovarne una migliore. Vengo al sodo»; e nel 1917 parlando di trincerocrazia, «l’aristocrazia della trincea», non potette fare a meno di notare: «La parola è brutta. Non importa. Ce ne sono di più brutte che hanno già da tempo diritto alla cittadinanza nella lingua italiana. Ce ne infischiamo dei “puristi” che ringhiano davanti ai “neologismi”»; e nel 1926, ricordando la scelta del termine militaresco di adunata fatta nel marzo 1919 per il raduno di piazza San Sepolcro, notava: «convocando questa riunione io non domandai la parola al dizionario delle sibille democratiche ancora ferme al loro vacuo cicaleccio, ma chiamai questa riunione con un nome che era già tutto un programma: la chiamai “adunata”». Tanto il fascismo era refrattario ai vocabolari, che il primo provvedimento attuato dal Regime nel settore lessicografico fu l’interruzione, nel 1923, del Vocabolario dell’Accademia della Crusca. In realtà, sebbene per certa intellighenzia di allora esso fosse solo ciarpame passatista, la sua fine era stata decisa sotto tutt’altro cielo, quando Benedetto Croce, ministro della pubblica istruzione nell’ultimo governo Giolitti, «per debito d’ufficio, cioè per impedire il cattivo uso che si faceva del pubblico denaro», aveva nominato un’apposita commissione, composta da Cesare De Lollis, Giovanni Gentile e Vittorio Rossi, che nella relazione pubblicata nel giugno 1921 aveva espresso un giudizio assai duro sull’attività della Crusca, proponendo che fosse circoscritta unicamente all’edizione di testi antichi. Quando il Regime prese a interessarsi ai vocabolari, lo fece per motivi pratici e per le necessità del presente. Con la rivoluzione politica, i nuovi provvedimenti sociali, l’organizzazione dei sindacati fascisti e la nascita dell’ordinamento corporativo, ci fu bisogno di riordinare e normalizzare le terminologie dell’amministrazione dello Stato e di diversi settori produttivi e merceologici. Di conseguenza s’intervenne su specifiche questioni nomenclatorie e comparvero via via diversi vocabolari tecnici con lo scopo di uniformare e “italianizzare” puristicamente non poche terminologie particolari. Alcuni di questi vocabolari furono appoggiati o realizzati da istituzioni ed enti statali e perfino la stessa Accademia d’Italia se ne interessò: nel 1929 la Classe di scienze prospettò un dizionario volto «a definire con rigore le espressioni in uso nella scienza, ad unificare la nomenclatura e ad introdurre nomi italiani per concetti e termini formulati da stranieri e non ancora accolti in modo definitivo nella nostra lingua»; nel 1931 Ugo Ojetti vi propose un “Dizionario di arti e mestieri”, di cui apparve nel 1937 un primo voluminoso troncone, il Dizionario di marina medievale e moderna, mentre una analoga raccolta dei termini dell’aeronautica rimase inedita. Sul medesimo terreno della terminologia tecnico-specialistica va ricordata anche la notevole funzione paralessicografica, oltre che ideologica, svolta dall’Enciclopedia italiana, culminata con la realizzazione del Dizionario di politica (1938-1940), in cui era descritto in modo sistematico ogni aspetto della cultura politica e della dottrina del fascismo.
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Un altro settore che ebbe notevole impulso dal rifiorire del purismo nazionalistico di quegli anni fu quello dei vocabolari di neologismi e forestierismi. A parte il fortunato Dizionario moderno di Alfredo Panzini che dal 1905 veniva continuamente ristampato, è tutto un pullulare di lavori di varia consistenza: dai Neologismi buoni e cattivi di Giuseppe Rigutini riproposti con una nuova appendice di Giulio Cappuccini (1926), al Barbaro dominio di Paolo Monelli (1933), al Dizionario di esotismi di Antonio Jacono (1939), fino a una serie di lessici minori apparsi fra il 1938 e il 1940, mentre l’Accademia d’Italia redigeva gli Elenchi di forestierismi da bandire, pubblicati fra il 1941 e il 1943. L’adattamento dei vocabolari generali della lingua e, in particolare, dei vocabolari scolastici al nuovo clima fu invece assai più lento, anche perché si trattava quasi sempre di opere apparse prima dell’avvento del fascismo. A parte i lessici ottocenteschi di Tommaseo, Fanfani, Rigutini, Petrocchi, Melzi, Cerruti, che continuarono ad esser riproposti anche nei primi decenni del nuovo secolo, il settore si era arricchito di tre ottimi vocabolari – quelli di Giovanni Mari (1910), di Giulio Cappuccini (1916) e di Nicola Zingarelli (1917-1922) – abbastanza aperti alla realtà linguistica contemporanea. Tuttavia fu solo dopo l’introduzione nel 1928 del testo unico per le elementari e la sempre più capillare fascistizzazione della scuola e dell’editoria relativa che anche i vocabolari scolastici, per rispondere alle indicazioni ministeriali, cominciarono a esser revisionati sul piano politico-ideologico, sebbene tutto si riducesse a ritocchi e aggiunte che non intaccavano il loro impianto originario. A differenza di tali lessici revisionati, il Dizionario di Mestica fu l’unico ad esser ideato e realizzato negli anni del fascismo e quindi poté esser completamente impostato secondo le nuove direttive linguistico-ideologiche. All’inizio si è accennato al fatto che le pagine dei vocabolari son carte assorbenti che dietro alle parole stampate rivelano la mentalità di un’epoca. Ma anche negli spazi bianchi esse son fatte della medesima stoffa e talora possono contenere dati e tesori aggiuntivi. È ciò che è capitato alla copia del Dizionario di Mestica su cui è stato condotto il presente studio: una copia nella quale son poche le pagine dai margini ancora immacolati, dato che dal 1936 in poi le diverse generazioni dei suoi utenti vi hanno lasciato numerose tracce non prive d’interesse: obeli, ritagli incollati, sottolineature, aggiunte, osservazioni, che in certi casi rendono difficoltosa la lettura del testo stampato. La firma di possesso sul frontespizio, datata 18 febbraio 1937, è di un uomo dal cognome ligure (e alla Liguria si riferisce un suo appunto interno); nell’antiporta è incollato un ritaglio pubblicitario della Libreria Fausto Fiorentino di Napoli, con la sigla di un’altra firma e la data 9 aprile 1950; nel volume c’è poi una scheda di libraio che potrebbe risalire agli anni settanta. Fra la congerie di note dovute a mani diverse, le più curiose sono le continue sottolineature con matita rosso-blu accompagnate da osservazioni e rimandi fatte da qualcuno (un maestro di scuola?) che ha avuto il coraggio e la pazienza di leggere il di-
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zionario dall’A alla Z. Insomma un corpo a corpo di tanti lettori col vocabolario, segno della vitalità di un’opera che merita di esser ancora indagata. A occuparmi del Dizionario di Enrico Mestica mi ha spinto Franco Musarra, che nell’ottobre 2014 ebbe la bontà d’invitarmi a un convegno che stava organizzando nella sua Apiro per l’aprile dell’anno successivo, con lo scopo di celebrare le figure di tre concittadini del passato studiosi di Leopardi: Filippo Mariotti, Giovanni Mestica e il nipote Enrico. Nella sua sostanza il presente volume riprende e rielabora, con tagli e integrazioni, il testo intitolato Le risorse di Apiro. Enrico Mestica lessicografo pubblicato negli atti di quel convegno (Per non dimenticare: Mariotti e Mestica all’ombra di Leopardi, a cura di Franco Musarra, Gilberto Piccinini, Nadia Sparapani e Pacifico Ramazzotti, Firenze, Cesati, 2017, pp. 143-212). Desidero esprimere la mia sentita gratitudine innanzitutto a Franco Musarra e poi a coloro che hanno agevolato le mie ricerche e mi hanno generosamente aiutato in vario modo, da Valeria Della Valle, Monica Galfré, Susanne Kolb, Roberta Millul Lattes, Piero Fiorelli, Pacifico Ramazzotti, fino agli amici Francesco Avolio, Roberto Pertici, Antonio Vinciguerra.