Il rito inquieto
Storia dello yajña nell’India antica Marianna Ferrara
Società
Editrice Fiorentina
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il rito inquieto
‘Alti Studi di Storia intellettuale e delle Religioni’ Series The volumes featured in this Series are the expression of an international community of scholars committed to the reshaping of the field of textual and historical studies of religions and intellectual traditions. The works included in this Series are devoted to investigate practices, rituals, and other textual products, crossing different area studies and time frames. Featuring a vast range of interpretative perspectives, this innovative Series aims to enhance the way we look at religious and intellectual traditions.
Series Editor Federico Squarcini, Ca’ Foscari University of Venice, Italy Editorial Board Piero Capelli, Ca’ Foscari University of Venice, Italy Vincent Eltschinger, École Pratique des Hautes Études, Paris, France Christoph Emmrich, University of Toronto, Canada James Fitzgerald, Brown University, USA Jonardon Ganeri, British Academy and New York University, USA Barbara A. Holdrege, University of California, Santa Barbara, USA Sheldon Pollock, Columbia University, USA Karin Preisendanz, University of Vienna, Austria Alessandro Saggioro, Sapienza University of Rome, Italy Cristina Scherrer-Schaub, University of Lausanne and EPHE, France Romila Thapar, Jawaharlal Nehru University, India Ananya Vajpeyi, University of Massachusetts Boston, USA Marco Ventura, University of Siena, Italy Vincenzo Vergiani, University of Cambridge, UK Editorial Coordinator Marianna Ferrara, Sapienza University of Rome, Italy
l’assenza di quiete
Marianna Ferrara
IL RITO INQUIETO STORIA DELLO YAJÑA NELL’INDIA ANTICA
Società
Editrice Fiorentina
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Società Editrice Fiorentina www.sefeditrice.it This edition first published in Italy 2018 by Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Florence, Italy Tel. +39 055 55 32 92 4 info@sefeditrice.it
Stampato con il contributo del Dipartimento di Storia, Culture, Religioni dell’Università Sapienza di Roma
© 2018 Società Editrice Fiorentina individual chapters © Marianna Ferrara The moral right of the author has been asserted. Cover photograph courtesy of Borayin Maitreya Larios All rights reserved. Without limiting the rights under copyright reserved above, no part of this publication may be reproduced, stored or introduced into a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means (electronic, mechanical, photocopying, recording or otherwise), without the prior written permission of both the copyright owner and the above publisher of this book. ISBN: 978-88-6032-459-7 ISSN: 2036-3729
Indice
Abbreviazioni
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Introduzione
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Capitolo 1. L’assenza di quiete intorno allo yajña 21 1.1 L a rivalità fra brāhmaṇa nella storiografia: scontro fra pratiche o rappresentazioni? 21 1.2 Gli antagonismi come chiave di lettura 29 1.3 L’instabilità della pratica nel Ṛgveda 41 1.4 Genesi, funzione e riproduzione della pratica nella dimensione sintattico-terminologica 42 1.4.1 L’incremento semantico intorno a yaj- 46 1.4.2 Sintassi dei casi impiegati con la radice yaj- 55 1.4.3 Morfologia nominale della radice yaj- 56 1.4.4 Morfologia verbale della radice yaj- 58 1.4.5 Composti nominali con yajña 61 1.5 Gli antagonismi nella pratica: yajati vs juhoti 63 1.6 La semantica della rivalità nel Ṛgveda 77 1.6.1 Le abilità dei praticanti di yajña 93 1.6.2 Il potere dell’invocazione nello yajña 101 1.7 L’eccellere di “colui che yajati”: usi di yajiṣṭha e yajīyas 105 1.8 Sedare gli antagonismi: il caso del brāhmaṇa “offeso” 108 Capitolo 2. La quiete apparente
113
2.1 La teologia dello yajña che acquieta le rivalità 113 2.2 La retorica del “buon patrocinatore” di yajña 115 2.3 Come la pratica si lega agli esecutori dello yajña 126
2.3.1 L’elogio della generosità dello yajamāna 2.3.2 Dal canone di strofe alle strofe “personalizzate” 2.3.3 Come marito e moglie: la fedeltà nello yajña 2.4 Le tante “orecchie” della tradizione 2.5 La pratica che si istituisce compiendosi per la prima volta 2.6 Dubbi e discussioni intorno alle modalità procedurali 2.6.1 Dai dilemmi agli antagonismi nelle procedure rituali 2.7 Preservare lo yajña dall’ascolto non autorizzato
126 136 153 157 171 180 182 194
Capitolo 3. La quiete tradita 209 3.1 Altri parlano di yajña (VI secolo a.C.) 209 3.2 La quiete tradita e la riabilitazione dello yajña 213 3.3 Inedite modalità di compiere la pratica tra le nuove generazioni di brāhmaṇa 216 3.3.1 Nuovi modi di intendere l’azione (karman) 217 3.4 Il rifiuto delle procedure e la conoscenza superiore 237 3.5 Riqualificare la dimensione pubblica dello yajña 242 3.5.1 Indizi circa la polemica buddhista 252 3.5.2 Indizi circa la polemica jaina 256 Capitolo 4. Di nuovo senza quiete
259
4.1 Mettere fine allo yajña: i discorsi del Buddha 259 4.1.1 I nuovi discorsi sul dharma rivolti ai sovrani 270 4.2 Sottrarsi allo yajña nella critica jaina 283 4.3 I discorsi contro lo yajña incisi sulla roccia: Aśoka 301 4.4 Lo yajña nella Bhagavadgītā e la nuova quiete 308 4.5 Il silenzio di Manu 315 4.6 Verso nuovi antagonismi interni: i mīmāṃsāka 322 Conclusioni
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Bibliografia
331
Index locorum
361
Abbreviazioni
A AĀ AB ĀDS AGr AN Anu ĀS ĀŚS AU AVP AVPar AVŚ BĀUK BĀUM BD BDS BG BŚS CU CST4 DN Eggeling ÉVP EWA GB
Aṣṭādhyāyī Aitareya Āraṇyaka Aitareya Brāhmaṇa Āpastamba Dharmasūtra Altindische Grammatik Aṅguttara Nikāya Anuvākānukramaṇī Āyāraṅga Sutta (Ācārāṅgasūtram) Āpastamba Śrautasūtra Aitareya Upaniṣad Atharvaveda Paippalāda Atharvaveda Pariśiṣṭa Atharvaveda Śaunaka Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad Kāṇva Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad Mādhyandina Bṛhaddevatā Baudhāyana Dharmasūtra Bhagavadgītā Baudhāyana Śrauasūtra Chāndogya Upaniṣad Chaṭṭha Saṅgāyana Tipiṭaka, Version 4.0 (1999) Dīgha Nikāya The Satapatha-brahmana, according to the text of the Madhyandina school = Eggeling 1882-1900, 5 voll. Études védiques et pāṇinéennes = Renou 1955-1969, 17 voll. Etymologisches Wörterbuch des Altindoarischen = Mayrhofer 1986-2011, 3 voll. Gopatha Brāhmaṇa
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GDS HŚS JB JUB Kane KapS KauB KauS KauU KenU KEWA KS KŚS KU LIV Manu MBh MN MS MŚS Nir PB PraśU PTS Pat RE ṚV SAnu SK SV SN Sn ŚĀ ŚBM ŚBK ŚŚS ŚYVPar TĀ TB TS U VDS VGr VP
il rito inquieto
Gautama Dharmasūtra Hiraṇyakeśin Śrautasūtra Jaiminīya Brāhmaṇa Jaiminīya Upaniṣad Brāhmaṇa (o Talavakāra Brāhmaṇa) History of Dharmaśāstra = Kane 1968-1977, 8 voll. Kapiṣṭhalakaṭha Sṃhitā Kauṣītaki Brāhmaṇa Kauśika Sūtra Kauṣītaki Upaniṣad Kena Upaniṣad Kurzgefaßtes etymologisches Wörterbuch des Altindischen = Mayrhofer 1956-1980, 4 voll. Kāṭhā Saṃhitā Kātyāyana Śrautasūtra Kāṭha Upaniṣad Lexikon der indogermanischen Verben: die Wurzeln und ihre Primärstammbildungen = Rix et al. 2001 Manusmṛti Mahābhārata Majjhima Nikāya Maitrāyāṇī Saṃhitā Mānava Śrautasūtra Nirukta Pañcaviṃśa Brāhmaṇa Praśna Upaniṣad Pali Text Society Vyākaraṇa Mahābhāṣya Rock Edit (Editti su Roccia) Ṛgveda Saṃhitā Sarvānukramaṇī Sūtrkṛtāṅga (Kalpa Sūtra) Sāmaveda Saṃhitā Saṃyutta Nikāya Suttanipāta Śāṅkhāyana Āraṇyaka Śatapatha Brāhmaṇa Madhyāndina Śatapatha Brāhmaṇa Kāṇva Śāṅkhāyana Śrautasūtra Śukla Yajurveda Pariśiṣta Taittirīya Āraṇyaka Taittirīya Brāhmaṇa Taittirīya Saṃhitā Uttarajjhāyā (Uttarādhyanam-sūtra) Vasiṣṭha Dharmasūtra A Vedic Grammar for Students = Macdonell 1916 Viṣṇu Purāṇa
l’assenza abbreviazioni di quiete
VS VŚS VWC
Vājasaneyī Saṃhitā Vaikhānasa Śrautasūtra A Vedic Word-Concordance = Vishva Bandhu 19351965, 16 voll.
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Introduzione
tad vā ṛṣīṇām anuśrutam āsa | te yajñaṃ samabharan yathā yaṃ yajñaḥ sambhṛta eṣa vā atra yajño bhavati yo dīkṣata eṣa hyenaṃ tanuta eṣa enaṃ janayati | Questo è stato udito di volta in volta dagli ṛṣi. Costoro hanno assemblato lo yajña. Nel modo in cui lo yajña è [adesso] assemblato, così è colui il quale, [reso] dīkṣata,1 diviene lo yajña, in quanto egli lo compie, lo fa nascere. (ŚBM 3.2.2.12 ~ ŚBK 4.2.2.12)
Così si esprime l’autore dello Śatapatha Brāhmaṇa, un antico testo brahmanico di prescrizioni rituali, in cui si trova una delle prime rappresentazioni della sistemica dello yajña, il rito di offerta attraverso cui i brāhmaṇa dovevano onorare gli dèi. “Poeti veggenti” (ṛṣi) sono detti i primi officianti che hanno dato inizio al discorso sullo yajña: con il loro ascolto, questi esperti della parola sono gli artefici del modo brahmanico di onorare le divinità. E dīkṣita è detto colui che, per il tramite degli officianti, compiva l’offerta. Tale offerente era il vero protagonista del rito perché, mettendo in moto la pratica, ne era il promotore. Ma chi era tale dīkṣita? Nella nota traduzione inglese dello Śatapatha Brāhmaṇa (18821900) di Julius Eggeling, dīkṣita è reso con consacrated sulla scia della terminologia antropologico-religiosa del tempo, mentre il Monier Williams Sanskrit-English Dictionary (1872) dà una seconda opzione con initiated into. Entrambe le accezioni sono entrate nel1 Il termine che compare nello Śatapatha Brāhmaṇa e in pochi altri testi è dīkṣata, un tema che non è registrato in nessun lessico, ma che è equivalente di dīkṣita. Si tratta probabilmente di un nome verbale in * eto- in funzione aggettivale, la cui morfologia non altera il significato del lessema. Cfr. Brent 1998: § 2.62; Benveniste 1948: 87-93.
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la vulgata accademica, facendo dimenticare che la semantica offre altre possibilità di interpretazione. La radice verbale dīkṣ, da cui dīkṣita deriva, è una forma desiderativa della radice dāś-, “onorare, offrire, omaggiare”.2 Di qui desumiamo che questa parola indica propriamente qualcuno “che desidera onorare, porgere un’offerta, rendere omaggio”. Questa accezione potrebbe suonare come un forzato tentativo di tradurre alla lettera un termine divenuto tecnico nel linguaggio delle prescrizioni rituali per indicare l’offerente che si preparava a compiere il rito, attraverso una sequenza, più o meno complessa, di azioni preliminari. Ma se dīkṣita diventa un termine notevole, scelto dai brāhmaṇa per qualificare il donatore che si apprestava a prendersi carico del loro servizio rituale per porgere l’offerta gli dèi, non possiamo trascurare il valore retorico del “desiderio di onorare” implicito nella forma desiderativa della radice verbale dīkṣ-. Nel tentativo di emanciparmi da una terminologia che rischia di limitare la comprensione delle condizioni storiche in cui i significati vengono definiti, propongo dunque di recuperare il significato letterale di dīkṣita e di valorizzare l’effetto retorico del desiderativo, pensando a questa figura come a “colui che è esortato a onorare” dai professionisti del rito. Con questa traduzione intendo mettere in risalto la retorica che orienta la semantica intorno allo yajña e ai suoi esecutori, sempre interessata a preservare la relazione fra gli officianti e gli effettivi consumatori del rito, vale a dire i capifamiglia laici. Nel dire dīkṣita, dunque, non si deve pensare soltanto al pio fruitore dello yajña, ma anche a colui che lo patrocinava, lo sosteneva, lo finanziava, e il cui desiderio di rendere omaggio agli dèi doveva perciò costantemente essere sollecitato dagli specialisti del rito per la loro stessa sopravvivenza. Con abilità e raffinatezze poetiche e competenze rituali e teologiche, i brāhmaṇa hanno tenacemente operato nel tentantivo di legittimare la loro attività rituale agli occhi dei potenziali donatori, promuovendo i sommi benefici dello yajña nell’arduo percorso verso 2 Cfr. Pirart 1986; EWA: I.722; 727; KEWA: II.44; *daś in Werba 1997: 194. Secondo altri (Charpentier 1912: 67; Hilldebrandt 1927: 482 sgg.) la forma desiderativa dīkṣ- sarebbe connessa alla radice verbale dah-, “consumare”. Morfologicamente entrambe le radici, dāś- e dah-, sono possibilità storiche di una radice IE *de -, “prendere, accogliere”, ma in entrambi i casi resta oscuro il suffisso -ṣ-. Su questo punto la ricostruzione diacronica più esaustiva è quella fornita da Pokorny (1959: 189-191), che definisce così la radice IE *de - 1: “‚nehmen, aufnehmen‘, daher‚ begrüßen, Ehre erweisen‘. Aus der Bed.‚ annehmen, gern aufnehmen‘ fließt die Bed.‚ gut passend, geeignet, sich schicken, ziemen, es jemandem recht machen; als unannehmbar darstellen, etwas einem gut scheinend machen, lehren, lernen‘”. Pokorny considera *de s- un ampliamento radicale di *de - 1, invece, è lemmatizzato come radice a sé nella seconda edizione del Lexikon der indogermanischen Verben (LIV: 112), con il significato di “essere buono, utile” (dal presunto ampliamento *de s- “essere buono, utile”, LIV: 112: “taugen, tüchtig sein”) e “offerta, rendere onore” (dal desiderativo *di-d -s-, “voler onorare, desiderare di fare un’offerta”, LIV: 111 nota 20: “will verehren, begehrt zu opfern”). Harðarson (1993: 63 sgg.) propone per la radice IE *de - la seguente evoluzione semantica: “accogliere (un invito)” > “dare il benvenuto” > “rendere omaggio”.
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gli dèi. Mi riferisco agli officianti protagonisti delle opere brahmaniche, i quali, grazie all’iniziativa dei loro committenti, potevano espletare la funzione di addetti alla pratica rituale. E mi riferisco anche a tutti i poeti, maestri e commentatori che per oltre un millennio hanno promosso e difeso l’importanza del desiderio di compiere riti, aggiugendo tasselli a una tradizione rituale mobile ed eterogenea, faticosamente eretta sulla centralità assegnata allo yajña. Il tema del “desiderio di onorare”, attraverso cui i potenziali donatori erano esortati a richiedere il servizio rituale dei brāhmaṇa, consente di riflettere sulla retorica che per secoli ha reiterato il tema della necessità dell’istituto dello yajña, il rito di offerta tout court in ambito brahmanico. Il capofamiglia laico che si rivolgeva ai brāhmaṇa era innanzitutto un “offerente” (yajamāna), che poi diveniva l’“offerente che desidera rendere omaggio agli dèi” (dīkṣita), per il tramite degli addetti alla pratica. Tali officianti si sfidavano con combinazioni di preghiere, offerte, canti e altre forme di riverenza nei confronti degli dèi, esibendo le loro conoscenze e abilità. In questo volume propongo di mettere a tema il legame tra il praticante di yajña e il patrocinatore, qui inteso come colui che disponeva dei doni e che li metteva a disposizione per espletare il rito onorifico. Tali doni (dakṣinā) erano alla base della sopravvivenza dei singoli brāhmaṇa o di una cerchia di brāhmaṇa, che offrivano le loro competenze rituali per il bene del singolo patrocinatore o della comunità intera. Da questa prospettiva lo yajña non è più soltanto una modalità rituale, ma è soprattutto parte di un discorso che, se da un lato svela come conquistare un posto accanto agli dèi, dall’altro definisce la necessità del legame tra l’esperto officiante e il suo protettore e la sollecitazione del dono con cui legittimare il servizio religioso. Soltanto mettendo in evidenza la funzione del patrocinatore quale effettivo donatore della posta in palio destinata agli officianti si può comprendere il moto retorico che si scatena intorno all’esortazione allo yajña che prende di mira l’effettivo consumatore di riti. È il suo favore che i professionisti del rito mirano a conquistare. Un tratto rilevante nella storia del discorso sullo yajña è infatti la posizione sociale di chi, nelle prescrizioni rituali, fruiva dei riti onorifici estesamente descritti e spiegati: nelle formulazioni più antiche, tramandate oralmente in versi e in prosa, il patrocinatore è sempre connotato da titoli che ne indicano una posizione sociale e politica prestigiosa: un “capo” (pati), un “capo del popolo” (janapati), un “governante” (rājan), in definitiva un membro autorevole della società. Questo dettaglio suggerisce che là dove il patrocinatore di riti era il vero motore dello yajña e l’effettivo donatore di risorse, la posta in palio non era soltanto la benevolenza degli dèi che andavano onorati, bensì proprio colui che alla posta in palio provvedeva. Il patrocinatore di yajña diventa l’oggetto sempre aperto e mutevole della contesa, anch’essa sempre aperta e mutevole, dunque inquieta per definizione. Di qui la storia complessa di un rito
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auspicato, ordinato, reclamato e dibattuto all’interno dell’assetto brahmanico, contrastato e criticato da quanti predicavano percorsi alternativi di liberazione interiore. Al fine di illustrare le questioni cruciali che alimentano l’antagonismo fra diversi gruppi —tanto all’interno delle cerchie brahmaniche quanto fra i brāhmaṇa e i gruppi ascetici—, ho selezionato i passaggi più rilevanti per la storia semantica del termine yajña, i quali consentono di far luce sulle condizioni storiche (politiche, sociali, economiche) nelle quali un semplice termine, che indicava l’atto di onorare gli dèi, si è fatto pratica, codifica, poi istituto tra dibattimenti e riqualificazioni necessari alla sua stessa sopravvivenza e reiterazione. Poiché i testi da cui traiamo queste informazioni appartengono a tradizioni che fanno capo a diversi gruppi di specialisti operanti in varie aree dell’odierna India settentrionale, ne consegue che non mancano divergenze in fatto di norme, istruzioni e spiegazioni rituali, tanto che parlare dello yajña come di un sistema prescrittivo uniforme nella storia delle tradizioni brahmaniche è una forzatura da un punto di vista storico e filologico. Malgrado ciò, a partire dagli studi ottocenteschi molti hanno contribuito alla costruzione di un ideale di “brahmanesimo monolitico”, concepito come una religione immutabilmente sopravvissuta attraverso la centralità dello yajña e l’autorevolezza dei brāhmaṇa. Tant’è vero che l’immagine unitaria della “antica religione brahmanica”, avulsa da conflittualità interne, comincia a sbiadirsi non appena ci si addentra nei testi e si prendono in considerazione i contenuti dei commenti, delle polemiche e delle discussioni. Comprendere il sistema di relazioni che circonda lo svolgimento dello yajña nell’India antica richiede, dunque, che la storia delle pratiche e del discorso sulle pratiche sia sottoposta a un’analisi critica proprio delle forme di relazioni che intercorrono fra le diverse parti in causa, tutte in lotta fra loro per il controllo della pratica e per garantire la tenuta del vincolo che saldava il patrocinatore agli addetti al servizio rituale. Infatti, vedendo i testi normativi, si scorgono i segni di una interminabile contesa interna all’assetto brahmanico, dove esponenti di diversi lignaggi dibattono sulle modalità e sui dettagli della pratica. Abbondano gli esempi in cui gli specialisti del rito si contendono la correttezza e l’efficacia della conoscenza simbolica e delle procedure rituali, sperando che restasse vivo il sistema di domanda e offerta tra patrocinatori e officianti. Con questa lettura delle fonti, possiamo infatti scorgere diversi gradi di antagonismo, come quelli tra le cerchie brahmaniche e i gruppi ascetici, i quali divengono addirittura concorrenti ulteriori nell’arena dell’offerta religiosa, in cui la posta in palio sono sempre ricchi e autorevoli donatori di risorse, impiegate per onorare gli dèi e mantenere i professionisti del rito. L’analisi di una dimensione discorsiva tra opere che fanno capo a diverse tradizioni religiose (brāhmaṇa, buddhisti, jaina) richiede
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inoltre che la storia delle pratiche sia sottoposta a una ridisposizione delle cronologie, che sappiano correlare e allineare in maniera sistemica le articolazioni del discorso sullo yajña, pro e contra lo yajña in uno spazio storico. In special modo, ciò implica che si guardi con rinnovata perizia alla sequenza storica dei discorsi sullo yajña, in modo da comprendere il succedersi delle rielaborazioni, delle istituzionalizzazioni, delle riqualificazioni dell’istituzionalizzazione stessa, del dibattimento. Grazie allo sguardo a lungo termine, si vede che ci sono variazioni e che le ragioni che fanno variare lo yajña non hanno nulla a che fare con lo yajña, ma con la posta in palio che con lo yajña gli specialisti del rito ambivano ad assicurarsi. Mettendo in luce l’ansia di mantenere o di scongiurare il rischio di perdere legittimità e consenso, si vede anche come i discorsi sullo yajña elaborati, imposti, riqualificati e dibattuti in diverse condizioni storiche, non riguardino questioni “religiose”, ma altre questioni che in questo dibattere acquisiscono, mantengono o rischiano di perdere legittimità. Il modo diacronico di leggere le fonti consente inoltre di vedere le varianti e di capire le ragioni della loro apparizione storica, in primis, la funzione assegnata allo yajña di acquietare l’ansia costante dei brāhmaṇa di perdere visibilità e riconoscimento. Di qui la mia proposta di esaminare lo yajña come un “rito inquieto”, al quale gli specialisti del rito hanno dato l’arduo compito di soffocare rivalità e precarietà. Questo modo di guardare allo yajña consente di intendere diversamente la funzione omologante che questo istituto esercita sia sui modi di svolgerlo, sia su coloro che lo svolgono. D’altronde, proprio l’omologazione consente l’istituirsi della tradizione, qui intesa come istituzionalizzazione della prassi e dei praticanti, progressiva sofisticazione di riti e specializzazione di competenze, formazione, saperi. Tuttavia, se non si riconoscerà che la centralità dello yajña nelle opere sanscrite è stata assegnata dai suoi praticanti, si continuerà a pensarlo come il comune denominatore di una tradizione religiosa identificata con l’autorevolezza della classe brahmanica, al centro di un sistema teologico armonioso, seppur variegato. Al contrario, attraverso le lenti di una prospettiva storico-critica, il rapporto tra yajña e tradizione sarà chiaro. Ciò nonostante, è ancora diffusa la lettura che si ferma al piano meramente descrittivo, in cui lo yajña è rappresentato nella sua onnipresenza come pratica rituale uguale a se stessa, accentratrice di un’organizzazione sociale e religiosa, che dipende dai brāhmaṇa quali depositari del sapere ultimo. Per chiunque si fermi a questa lettura, lo yajña non può che apparire come il filo conduttore fra opere molto diverse, un elemento di continuità nella visione del mondo condivisa nei Veda, una nozione trasversale a tutte le opere sanscrite più antiche di autorialità brahmanica. Leggendo più attentamente, la centralità dello yajña è invece una strategia discorsiva messa in atto per dare sembianze pratiche dell’unità, dell’identi-
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tà e della continuità brahmanica nel corso di oltre due millenni di storia religiosa, sociale e politica. Preso atto della funzione unificante derivata dai discorsi sullo yajña e armandosi degli strumenti storico-critici e della metodologia storico-religiosa, si può procedere a un approfondimento, che mette in risalto le condizioni storiche e discorsive nelle quali il potere unificante dello yajña agisce, divenendo una pratica fondante e una nozione vitale per il senso di appartenenza e la memoria delle comunità che ne hanno fatto il loro perno. La mia ipotesi è che guardando il senso storico dello yajña, esso non è più uguale a se stesso: la nozione va in frantumi e viene restituita al contesto di produzione, dove c’è la lotta fra specialisti del rito per qualificarsi agli occhi dei potenziali committenti. Guardando lo yajña nel suo susseguirsi storico, non vediamo più lo yajña in sé, ma attraverso la sua esecuzione vediamo l’officiante e il committente e la scena storica nella quale la nozione di yajña viene intensificata, alimentata da una condizione paradigmatica di perenne tensione. Scorgiamo non solo i conflitti tra gli esponenti religiosi che disputano per il controllo della pratica sul territorio, ma anche le tensioni fra gli addetti alla pratica e i potenziali fruitori, alimentate dal costante bisogno, da parte degli esegeti, di rinsaldare il patto di eterna alleanza tra patrocinatori e officianti, e dalla minaccia di perdere l’esclusività conquistata. Il discorso sullo yajña è dunque una strategia dell’acquietare che, svolgendosi, dà parvenza dell’acquietamento e dell’avvenuta sparizione del conflitto. Scorti in questo modo i tentativi di simulare l’unità e dissimulare il conflitto attraverso il discorso intorno allo yajña, allora si passa a un ulteriore livello di lettura di queste opere, che mette in risalto come la contesa dello yajña venga assiduamente riaccesa attraverso retoriche sempre più ricercate sulla sua funzione, sul suo significato, sulla sua inalienabilità. Il parlare intorno allo yajña costituisce l’arena del conflitto fra cerchie di brāhmaṇa che, al tempo stesso, ambivano a dare stabilità alla pratica che le qualificava, che dava loro visibilità e li faceva spiccare agli occhi del potenziale committente. Parlarne è esso stesso elemento di aggregazione, pertanto produrre il dibattito diviene in taluni casi prescrittivo, in quanto crea la condizione caotica nella quale il sapiente poteva esercitare la sua superiorità. Come dire che, mentre allo yajña veniva assegnata la funzione di saldare il vincolo fra praticanti e committenti, al tempo stesso il suo essere oggetto di contesa ne ha preservato la rilevanza e la necessità e, per logica conseguenza, ha riprodotto il prestigio di coloro che sono riusciti a rappresentarsi come professionisti del rito. Lo yajña è una risorsa di capitale simbolico e relazionale senza pari nella storia dell’India antica. Visto in questo modo, il termine yajña, anziché rimandare a un “rituale religioso” stabile nel tempo e sempre uguale a se stesso, diventa spia storica di una sistemica relazionale in continua metamorfosi e perciò in grado di permanere a lungo nella storia dell’In-
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dia. Un’analisi di lunga durata fa vedere le scene dei momenti del discorso, entro il quale lo yajña è il dispositivo che cerca di placare gli antagonismi e che riesce a risolverli temporaneamente, fino a quando l’ansia degli specialisti di perdere consenso e legittimità non produce stati di quiete tradita. Il “rito inquieto” è il paradigma interpretativo di una quiete mai definitivamente acquisita. E l’inquietudine è la condizione che tormenta i professionisti del rito là dove altri possono superarli e acquisire posizioni più vantaggiose nel sistema di relazioni. Tutte le categorie sono perciò simulazioni di acquietamento del conflitto, che invece ne è il motore. Per queste ragioni, le diverse fasi del discorso sullo yajña meritano di essere distinte proprio secondo la logica sistemica che vado a proporre e che ci permette di vedere (cap. 1) iniziali momenti di assenza di quiete, (cap. 2) le costruzioni di una quiete apparente, (cap. 3) episodi di quiete tradita e dunque (cap. 4) la permanenza storica di quella inquietudine che lo yajña prometteva di risolvere. Il volume si articola in quattro parti che illustrano altrettanti snodi narratologici del discorso sulla nozione di yajña e mettono in primo piano gli interessi che percorrono le variazioni del discorso. Il primo capitolo si apre con un’indagine della terminologia circostante alla parola yajña, a partire dalle composizioni linguisticamente più antiche, vale a dire le strofe raccolte nel Ṛgveda, che viene solitamente datato tra il 1200 e il 1000 a.C. Attraverso una selezione degli inni che appartengono a diversi strati di composizione, si procederà con l’illustrare come la storia semantica dei termini notevoli che definiscono la pratica rituale costituisca un parametro di ricerca sulla genesi dello yajña. In tal senso, si mostrerà che negli strati testuali più antichi si registra uno stato di precarietà della pratica, che ho definito assenza di quiete, deducibile dal modo in cui essa è descritta e prescritta dagli specialisti. La disamina sintattico-terminologica consente di mettere in luce la semantica della rivalità nel discorso sullo yajña, e di sostenere che proprio i testi più antichi del canone vedico sono percorsi da antagonismi fra gli addetti al servizio rituale e da lotte per il monopolio della pratica, in un “mercato religioso” probabilmente ben più variegato di quanto le fonti lascino trapelare. Il secondo capitolo illustra il tema della contesa in una fase avanzata della codifica dello yajña, in cui la quiete intorno alla pratica è soltanto apparente. La documentazione per questa fase della ricerca comprende le raccolte dello Yajurveda, o canone delle formule di invito degli dèi, e diverse porzioni delle opere prescrittive, note come Brāhmaṇa e Śrautasūtra, che qui saranno analizzate in diacronia secondo la cronologia relativa più accreditata, che abbraccia un ampio lasso di tempo tra il 1000 e il 400 a.C. La tipologia di antagonismi individuati nei testi, e qui esaminati di volta in volta, concerne alcuni dilemmi sulle modalità rituali, sulla replicabilità dei riti a fronte di condizioni mutate o sulla possibilità di fare eccezioni rispetto alla norma recepita. Al fine di facilitare la discorsività, si è scelto di selezionare il materiale che meglio con-
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sente di illustrare come le discrepanze di opinione, i dibattiti e le lotte per il monopolio del discorso legittimato e legittimante siano un parametro d’indagine euristico per la storia sociale dei rituali vedici e per la storia della nozione di yajña nell’India antica. Il paradigma della quiete apparente serve a inquadrare la lotta per il monopolio del linguaggio legittimato, che fa da sfondo ai temi sviluppati nei capitoli successivi. Tema nodale della questione sarà pertanto il discorso prescrittivo e normativo sullo yajña che viene messo a punto nella lunga stagione di opere sulle norme rituali (Śrautasūtra), denominata a ragione dagli studiosi “riforma śrauta”. Il terzo capitolo mette a tema la frammentarietà intestina, che percorre e infine esaspera la quiete apparente dell’assetto interno alle cerchie brahmaniche, allorché nuovi discorsi sullo yajña, sia da parte di brāhmaṇa innovatori sia da parte di dissidenti non brāhmaṇa, guadagnano visibilità. Mi riferisco specificamente alla fase che ho definito di quiete tradita e che si basa sulla disamina delle Upaniṣad cosiddette vediche e delle porzioni in prosa che, insieme alle Upaniṣad, sono state accorpate e incluse nel canone in forma di capitoli conclusivi di opere passate alla tradizione sotto la denominazione di Āraṇyaka, solitamente interpretate come “(testi) della foresta”. In queste opere, spesso espressione di una visione più esposta agli influssi esterni all’ambiente brahmanico e non abbarbicata alla necessità della prescrizione rituale, la nozione di yajña appare più fluida. La denuncia da parte di alcuni esponenti brāhmaṇa contro la falsa sapienza spacciata per tradizione è uno degli indizi di discontinuità storica, cui ho inteso porre particolare attenzione, perché sfocia nel tentativo di alcuni innovatori di “riqualificare” la pratica dello yajña in termini di rottura con il passato. La riqualificazione che si inserisce nel flusso delle tradizioni è una strategia che compare in molte Upaniṣad e in alcune porzioni Āraṇyaka, ma non ha alcun riscontro negli Śrautasūtra, che con la loro attenzione all’atto rituale reiterano la tradizione, diremmo, canonica, cioè fondata sulla recitazione e sull’apprendimento del sapere rituale. Il silenzio sul “nuovo” che caratterizza gli Śrautasūtra sarà l’elemento singolare attraverso cui cercherò di argomentare il sospetto che i sūtrakāra, cioè i compositori di sūtra, abbiano tentato di recuperare la vecchia codifica in risposta a quel che accadeva intorno. Il quarto e ultimo capitolo tratta i discorsi intorno allo yajña in una fase storica che interessa le regioni settentrionali dell’India dal IV sec. a.C. in poi, cioè nei primi secoli immediatamente successivi al regno di Aśoka Maurya, che forniscono una cronologia ante e post quem per la datazione delle opere sanscrite precedenti. L’obiettivo è rendere conto dei temi dibattuti e riqualificanti che hanno avuto o che ambivano ad avere maggior impatto sulla legittimità della pratica dello yajña, in un’epoca in cui vi erano, evidentemente, diverse tipologie di professionisti dello yajña (yājñika) in rapporti di vicendevole antagonismo. Molti specialisti del rito dovettero impegnarsi nel gestire la loro visibilità, il loro consenso e il diritto di
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pronunciarsi a riguardo dello yajña e dei temi ad esso funzionali, con nuovi e competitivi concorrenti. Per concludere, se, come avverte Fedro, non semper ea sunt quae videntur, decipit frons prima multos, spero di aver contribuito in qualche modo a far emergere quod interiore condidit cura angulo (Fab. 2. L. IV). Nota alle traduzioni Dove non è espressamente indicato, la traduzione è mia. Ringraziamenti Questo volume è l’esito di una ricerca triennale realizzata nel corso del Dottorato in Storia religiosa, conseguito alla Sapienza negli anni in cui il Dipartimento di Studi storico-religiosi si apprestava a divenire l’attuale Dipartimento di Storia, Culture, Religioni. Pertanto il primo ringraziamento va ai colleghi di dottorato, agli amici e ai docenti che in quegli anni, e in quelli a seguire, quando il Dottorato a sua volta è confluito nel Dottorato in Storia, Antropologia, Religioni oggi coordinato dal Prof. Alessandro Lupo, mi sono stati vicini con incoraggiamenti e suggerimenti. Grazie dunque a Paola Buzi, Marina Caffiero, Alberto Camplani, Gloria Capomacchia, Gaetano Lettieri ed Emanuela Prinzivalli per avermi sempre riservato parole di sostegno e uno sguardo premuoroso, rendendo piacevole l’ambiente di lavoro e i confronti fruttuosi in ogni occasione. Sono ancora debitrice nei confronti della Commissione di Dottorato, composta dai professori Raffaele Torella, Francesco Sferra e Rosa Ronzitti, i cui rilievi e le cui sollecitazioni ho tenuto costantemente presenti negli anni in cui quel lavoro di ricerca si è andato evolvendo fino a raggiungere la forma attuale. Devo esprimere profonda gratitudine nei confronti di Federico Squarcini, che sia nei miei primi passi nel campo dell’indologia e della storia delle religioni, poi durante il dottorato e, infine, accogliendo questo volume nella collana da lui diretta, mai mi ha fatto mancare consigli, suggerimenti, critiche; similmente devo ringraziare Alessandro Saggioro e Sergio Botta, sotto la cui supervisione, in diversi progetti di ricerca in storia delle religioni alla Sapienza, ho potuto sia affinare le mie capacità critiche nella disciplina, sia interagire proficuamente con campi di studio diversi dal mio, ma con un eguale impianto storicista e comparatista, secondo la tradizione ma anche secondo i più recenti sviluppi della disciplina. Desidero ringraziare anche alcuni studiosi e nuovi amici con i quali ho avuto il piacere di confrontarmi durante i workshop di lingua vedica tenuti a Leiden e a Procida sotto la guida rispettivamente di Werner Knobl e Francesco Sferra, e nei convegni e nei seminari
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in cui ho presentato i primi risultati della ricerca e che desidero qui menzionare: il gruppo seminariale “Research Evenings for Indian Studies”, organizzato nel 2011 da Johannes Bronkhorst all’Université de Lausanne, Section de langues et civilisations orientales; il ciclo di seminari dottorali “Autorità e canone”, da me coordinato nel 2012 sotto la supervisione di Alessandro Saggioro, allora direttore del Dottorato di Storia religiosa; il Convegno nazionale dell’Associazione Italiana di Studi Sanscriti (AISS) e l’International Seminar “The Broken World of Sovereignty in India and beyond”, entrambi organizzati da Tiziana Pontillo, rispettivamente nel 2012 e 2013, all’Università di Cagliari. Non potendo ricordare tutti gli studiosi che hanno ascoltato le mie riflessioni, mi limito a rivolgere un pensiero di gratitudine agli organizzatori di questi convegni per me preziosi e a Marianne S. Oort, Martina Palladino, Velizar Sadovski, Serena Saccone e Florinda De Simini. Ringrazio anche Paolo Taviani e Nicola Cusumano che nel 2014 hanno organizzato la presentazione del mio libro La lotta per il sacrificio. Rappresentazioni, categorie, metodologie nello studio dell’India antica (Bulzoni, 2013), rispettivamente all’Università de L’Aquila e presso il Museo Internazionale delle Marionette “Antonio Pasqualino” con la collaborazione dell’Università di Palermo. Da quelle esperienze sono fiorite ulteriori riflessioni che hanno contribuito al lavoro attuale. Un ringraziamento va infine a Duccio Lelli, Carmela Mastrangelo e Giuliano Giustarini che hanno riletto con affetto e competenza il lavoro. Dalle tante e generose persone che ho incontrato e che hanno avuto la pazienza di interagire con me mentre elaboravo questo libro ho accolto suggerimenti, correzioni, aiuti: la responsabilità finale della traduzione dei passi riprodotti e dell’opera nel suo complesso resta mia. Negli anni in cui ho lavorato a questo libro sono nati i miei nipoti Emanuele e Valerio. A loro dedico il sollievo di vederlo finalmente pubblicato.