Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze

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Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze

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Carteggio (1825-1871) a cura di Irene Gambacorti

l volume raccoglie 96 lettere, in parte inedite, trascritte o ricollazionate sugli autografi, scambiate da Manzoni con dodici corrispondenti legati alla Firenze di Vieusseux, dell’«Antologia», e dell’Accademia della Crusca. Spicca il carteggio tra Manzoni e Tommaseo, dal loro incontro a Milano nel 1825 all’ultima lettera del 1871: testimone di un legame importante, saldo a dispetto delle rade occasioni d’incontro, fondato su un’intima consonanza etica, oltre che sui comuni interessi di studio e d’arte. La cordiale accoglienza del circolo di Vieusseux nel settembre del 1827, l’entusiasmo per le opportunità aperte nell’ambito della ricerca linguistica, si rispecchiano nella corrispondenza con Giuseppe Borghi, Gaetano Cioni, Giovan Pietro Vieusseux, Giovan Battista Niccolini, Gino Capponi, indice della ricchezza intellettuale e umana di un’esperienza che segna l’opera letteraria ma anche, a lungo, i sentimenti e i ricordi. Completano il quadro, sotto l’egida del binomio Firenze-lingua, le lettere scambiate con i segretari dell’Accademia della Crusca, di cui Manzoni è fatto socio corrispondente nel dicembre 1827.

a cura di Irene Gambacorti

Irene Gambacorti è ricercatrice presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Si occupa di letteratura italiana dell’Otto-Novecento (Verga a Firenze. Nel laboratorio della «Storia di una capinera», Firenze 1994; Storie di cinema e letteratura. Verga, Gozzano, D’Annunzio, Firenze 2003).

e 20,00

Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze

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Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze Carteggio (1825-1871) a cura di

Irene Gambacorti

SocietĂ

Editrice Fiorentina


Š 2015 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-353-8 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata


Indice

ix Introduzione

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Nota al testo

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Tavola bibliografica

carteggio

3   1. Manzoni a Niccolò Tommaseo · [Milano]. Brusuglio, 4 agosto 1825 5   2. [Niccolò Tommaseo a Manzoni · Brusuglio]. [Milano, 8-10 settembre 1825] 7   3. Manzoni [a Niccolò Tommaseo · Milano]. Brusuglio, 12 [settembre 1825] 8   4. Manzoni [a Niccolò Tommaseo · Milano]. [Milano, ottobredicembre 1825] 9   5. Manzoni a Niccolò Tommaseo · [Milano]. [Milano, ottobredicembre 1825] 10   6. Manzoni [a Niccolò Tommaseo · Milano]. [Milano, ottobredicembre 1825] 11   7. Manzoni [a Niccolò Tommaseo · Milano]. Milano, [seconda metà di dicembre 1825] 12   8. Manzoni a Niccolò Tommaseo · Milano. [Milano, 10 febbraio 1827] 13   9. Gaetano Cioni a Manzoni · Milano. Firenze, 2 ottobre 1827 15 10. Manzoni a Gaetano Cioni · Firenze. Milano, 10 ottobre 1827 19 11. Giuseppe Borghi a Manzoni · Milano. Firenze, 14 ottobre 1827 20 12. Gaetano Cioni a Manzoni · Milano. Bellosguardo, 16 ottobre 1827 24 13. Manzoni a Giuseppe Borghi · Firenze. Milano, 6 novembre 1827


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14. Manzoni a Gaetano Cioni · Pisa. Milano, 6 novembre 1827 15. Niccolò Tommaseo a Manzoni · Milano. Firenze, 6 dicembre 1827 16. Attilio Zuccagni Orlandini a Manzoni · Milano. Firenze, 22 dicembre 1827 17. Manzoni a Attilio Zuccagni Orlandini · Firenze. Milano, 4 gennaio 1828 18. Giovanni Battista Zannoni a Manzoni · Milano. Firenze, 11 gennaio 1828 19. Manzoni [a Giovanni Battista Zannoni · Firenze]. Milano, 17 gennaio 1828 20. Giovanni Battista Niccolini a Manzoni · Milano. Firenze, 12 aprile 1828 21. Giovan Pietro Vieusseux a Manzoni · Milano. Firenze, 16 maggio 1828 22. Manzoni a Giuseppe Borghi · Firenze. Brusuglio, 16 giugno 1828 23. Attilio Zuccagni Orlandini a Manzoni · Milano. [Firenze], 30 agosto 1828 24. Manzoni a Niccolò Tommaseo · Firenze. Brusuglio, 9 settembre 1828 25. Gaetano Cioni a Manzoni · Milano. Firenze, 3 novembre 1828 26. Gaetano Cioni a Manzoni · Milano. Firenze, 9 novembre 1828 27. Manzoni a Gaetano Cioni · Pisa. Milano, 24 novembre 1828 28. Giuseppe Borghi a Manzoni · Milano. Firenze, 30 novembre 1828 29. Giuseppe Borghi a Manzoni · Milano. Firenze, 10 febbraio [1829] 30. Giuseppe Borghi a Manzoni · Milano. Firenze, 19 febbraio 1829 31. Manzoni a Giuseppe Borghi · [Firenze]. Milano, 25[-26] febbraio 1829 32. Giuseppe Borghi a Manzoni · Milano. [Firenze, fine febbraio 1829] 33. Manzoni a Giuseppe Borghi · Firenze. Milano, 7 aprile 1829 34. Giuseppe Borghi a Manzoni · Milano. Firenze, 19 maggio 1829 35. Manzoni a Giuseppe Borghi · Firenze. Milano, 23 novembre 1829 36. Manzoni a Giovanni Battista Zannoni · Firenze. Milano, 1° dicembre 1829 37. Niccolò Tommaseo a Manzoni · Milano. [Firenze], 28 dicembre [1829] 38. Manzoni a Niccolò Tommaseo · Firenze. Milano, 13 gennaio 1830 39. Niccolò Tommaseo a Manzoni · Milano. [Firenze], 21 gennaio 1830 40. Giovan Pietro Vieusseux a Manzoni · Milano. Torino, 19 giugno 1830 41. Niccolò Tommaseo a Manzoni · [Brusuglio]. [Sebenico, metà agosto 1831] 42. Giovan Pietro Vieusseux a Manzoni · Milano. Firenze, 27 dicembre 1831


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43. Manzoni a Giovan Pietro Vieusseux · Firenze. Milano, 14 gennaio 1832 44. Niccolò Tommaseo a Manzoni · Milano. [Firenze], 11 giugno [1832] 45. Manzoni a Giovan Pietro Vieusseux · Firenze. Brusuglio, 20 settembre 1832 46. Giovan Pietro Vieusseux a Manzoni · Milano. [Firenze], 13 ottobre 1832 47. Manzoni a Giovan Pietro Vieusseux · Firenze. Brusuglio, 20 ottobre 1832 48. Giovan Pietro Vieusseux a Manzoni · Milano. [Firenze], 6 novembre 1832 49. Manzoni a Giovan Pietro Vieusseux · Firenze. Milano, 26 novembre 1832 50. Fruttuoso Becchi a Manzoni · Milano. [Firenze], 25 luglio 1833 51. Manzoni a Fruttuoso Becchi · Firenze. Brusuglio, 8 agosto 1833 52. Manzoni a Niccolò Tommaseo · [Firenze]. Brusuglio, 13 agosto 1833 53. Fruttuoso Becchi a Manzoni · [Milano]. [Firenze], 17 maggio 1834 54. Giuseppe Borghi a Manzoni · Milano. Firenze, 3 giugno 1834 55. Manzoni a Giuseppe Borghi · [Firenze]. Milano, 7 giugno 1834 56. Gaetano Cioni a Manzoni · [Milano]. Firenze, 17 ottobre 1835 57. Manzoni a Gaetano Cioni · Firenze. Brusuglio, 25 ottobre 1835 58. Gaetano Cioni a Manzoni · Milano. Firenze, 19 dicembre 1835 59. Manzoni a Gaetano Cioni · Firenze. Milano, 8 febbraio 1836 60. Gaetano Cioni a Manzoni · Milano. Firenze, 26 marzo 1836 61. Manzoni a Gaetano Cioni · Firenze. Milano, 3 maggio 1836 62. Gaetano Cioni a Manzoni · Milano. Firenze, 25 novembre 1837 63. Manzoni a Giovanni Battista Niccolini · [Firenze]. Brusuglio, 21 agosto 1838 64. Giovanni Battista Niccolini a Manzoni · Milano. Firenze, 22 settembre 1838 65. Manzoni a Niccolò Tommaseo · [Milano]. Brusuglio, [24 settembre 1839] 66. Manzoni a Gaetano Cioni · Firenze. Milano, 24 marzo 1843 67. Manzoni a Domenico Valeriani · Firenze. Lesa, 13 ottobre 1843 68. Manzoni a Gino Capponi · Firenze. Milano, 11 luglio 1845 69. Gino Capponi a Manzoni · Milano. Firenze, 15 luglio 1845 70. Manzoni a Gino Capponi · Firenze. Milano, 21 luglio 1845 71. Niccolò Tommaseo a Manzoni · [Milano]. Venezia, 20 maggio 1847 72. Niccolò Tommaseo a Manzoni · Milano. Venezia, 13 aprile 1848


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73. Niccolò Tommaseo a Manzoni · [Milano]. [Corfù, ante 24 maggio 1851] 74. Niccolò Tommaseo a Manzoni · [Milano]. Corfù, 12 settembre 1851 75. Gino Capponi a Manzoni · Siena. Firenze, 2 ottobre [1852] 76. Manzoni a Gino Capponi · Firenze [ma Varramista]. Siena, 3 ottobre [1852] 77. Giuseppe Arcangeli a Manzoni · Stresa. Firenze, 30 agosto 1855 78. Manzoni a Giuseppe Arcangeli · Firenze. Milano, 7 settembre 1855 79. Manzoni a Niccolò Tommaseo · [Torino]. Lesa, 23 ottobre 1855 80. Niccolò Tommaseo a Manzoni · Milano. [Torino, prima metà di febbraio 1856] 81. Manzoni a Niccolò Tommaseo · Torino. Milano, 19 febbraio 1856 82. Gino Capponi a Manzoni · [Viareggio]. Firenze, 14 agosto [1856] 83. Niccolò Tommaseo a Manzoni · [Milano]. [Torino], 3 aprile 1859 84. Manzoni a Gino Capponi · [Firenze]. Milano, 9 maggio 1862 85. Gino Capponi a Manzoni · Milano. Firenze, 30 luglio 1862 86. Niccolò Tommaseo a Manzoni · [Milano]. Firenze, 6 marzo 1864 87. Brunone Bianchi a Manzoni · Milano. Firenze, 21 marzo 1864 88. Manzoni a Brunone Bianchi · Firenze. Milano, 24 marzo 1864 89. Niccolò Tommaseo a Manzoni · [Firenze]. Firenze, 17 giugno 1864 90. Niccolò Tommaseo a Manzoni · [Milano]. Firenze, 7 luglio 1864 91. Gino Capponi a Manzoni · [Milano]. Firenze, 27 marzo 1868 92. Manzoni a Gino Capponi · [Firenze]. Milano, 28 marzo 1868 93. Niccolò Tommaseo a Manzoni · [Milano]. Firenze, 25 settembre 1871

lettere di data incerta

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94. Manzoni a Niccolò Tommaseo · [Torino o Firenze]. [Milano, 1854-1873, forse gennaio 1873] 95. Niccolò Tommaseo a Manzoni · [Milano]. [Milano, 1826-1827 o 1831] 96. Niccolò Tommaseo a Manzoni · [Milano]. [Firenze, 1859-1873, forse gennaio 1873]

181 Indice dei corrispondenti 191 Indice dei nomi


Introduzione

1. Questo volume raccoglie tre nuclei di corrispondenza omogenei, legati tra loro per ambiente e argomenti: il carteggio tra Manzoni e Tommaseo, dal loro incontro a Milano nel 1825, all’ultima lettera del 1871; quello con i letterati conosciuti a Firenze nel settembre del 1827 (Giuseppe Borghi, Gaetano Cioni, Giovan Pietro Vieusseux, Giovan Battista Niccolini, Gino Capponi), nell’ambiente dell’«Antologia», cui anche Tommaseo partecipa; e gli scambi con istituzioni culturali del capoluogo toscano, come l’Accademia della Crusca, di cui Manzoni è socio corrispondente dal dicembre 1827, o il Regio censore degli spettacoli, Attilio Zuccagni Orlandini, per il progetto di rappresentare le tragedie manzoniane sulle scene fiorentine, auspice il granduca Leopoldo II, ammiratore entusiasta dello scrittore milanese. Le lettere con Tommaseo testimoniano una stima profonda, umana e intellettuale, fondata su una consonanza etica oltre che sui comuni interessi letterari e linguistici: un legame importante, duraturo, a dispetto delle rade occasioni d’incontro, dopo i primi anni milanesi, e della discontinua relazione epistolare. La corrispondenza con i nuovi amici di Firenze sembra prolungare il clima affettivo e culturale del soggiorno nel capoluogo toscano: l’accoglienza cordiale dei letterari del circolo di Vieusseux, l’entusiasmo per i progressi nel lavoro di ricerca linguistica permessi dalle nuove conoscenze. Un tono amichevole, spigliato e affettuoso, caratterizza le lettere con Borghi e soprattutto con Cioni, e poi con Capponi, anche nelle riprese del carteggio, a distanza di anni; tratti rari nell’epistolario manzoniano, così misurato e all’apparenza freddo, se non con pochissimi intimi. Indice che l’esperienza fiorentina del 1827 ha un peso non solo artistico, ma anche, e insieme, umano, che segna a lungo i sentimenti e i ricordi, oltre alla ricerca letteraria e linguistica. L’interesse linguistico, che con Firenze si lega da ora in poi, per Manzoni, in modo indissolubile, è la costante che dà unità al carteggio, attraverso la varietà dei corrispondenti e l’ampiezza cronologica. Si incontrano in proposi-


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to pagine trascinanti, di vivo fervore dialettico: quando si tocca l’argomento della lingua la pagina decolla, e la penna rischia di non fermarsi nei limiti imposti dalla discrezione. I corrispondenti fiorentini non sembrano partecipare troppo di questo entusiasmo, o anche comprenderne le motivazioni: solo Tommaseo, pur se da posizioni parzialmente divergenti, ne condivide necessità e ragioni etiche. 2. Le 32 lettere superstiti del carteggio con Tommaseo sono poche, certo, per un legame di quasi cinquant’anni, dall’autunno del 1825 alla morte; non rendono ragione dell’intensità del vincolo, avvertito saldo a dispetto della lontananza, e del riserbo proprio di entrambi. Una dozzina di queste, per di più, non sono che biglietti occasionali, o brevi missive di presentazione per letterati amici desiderosi di conoscere lo scrittore celebre. Qualcosa, è vero, è andato perduto (la prima lettera di Tommaseo, di cui resta solo l’incipit; qualche biglietto dei primi anni milanesi; la lettera da Marsiglia in cui Tommaseo, sulla via dell’esilio, chiedeva nel ’34 a Manzoni una commendatizia per Fauriel…); ma non molto, si intuisce da ciò che resta. Il ventiduenne Tommaseo giunge a Milano nel novembre del 1824, e con «importunità […] impertinente e ragazzesca», come narra nelle Memorie poetiche, cerca subito di avvicinarsi a Manzoni. La conoscenza con l’autore già celebre, maggiore di lui di diciassette anni, è propiziata, più tardi, dal lungo articolo sull’Adelchi che Tommaseo pubblica in tre puntate sul «Nuovo Ricoglitore», tra l’aprile e il giugno 1825, in risposta alle critiche rivolte all’opera da Zajotti sulla «Biblioteca italiana». Non abbiamo, in realtà, neppure negli scritti autobiografici di Tommaseo, un racconto del primo incontro, o della prima visita. Il carteggio si apre sulla circostanza delle infelici condizioni economiche di Tommaseo a Milano, con la notizia di un prestito, di cinque zecchini, offerto da Manzoni al giovane, che, in angustie, a lui si era rivolto con una lettera del 2 agosto 1825, di cui purtroppo non resta che l’incipit: «Ricorro alla sua umanità»… Tommaseo vive a Milano di collaborazioni giornalistiche ed editoriali (una «insana poligrafia», la definisce con insofferenza scrivendo all’amico Antonio Marinovich, il 1° marzo 1825), principalmente per l’editore Stella e il suo «Nuovo Ricoglitore»; l’inesperienza, il carattere ombroso, l’orgoglio, rendono difficili i rapporti con l’editore, ma anche con l’amico Rosmini, e con lo stesso Manzoni (i biglietti superstiti, degli ultimi mesi del 1825, recano traccia di incomprensioni, fraintendimenti, presunte offese). Più volte ancora, tra il ’25 e il ’27, Tommaseo riceve a Milano aiuto da Manzoni; e una volta anche dalla madre dello scrittore, Giulia Beccaria, che, a dispetto della «rusticità» di cui lo stesso Tommaseo si accusa nei suoi riguardi (così in una lettera a Niccolò Filippi, 7 dicembre 1825), gli si mostra benevola, gli concede di chiamarla con l’appellativo di «maman». Questo tratto di generosità lascia in Tommaseo un sentimento di riconoscenza che non viene mai meno, messo in versi, anche: «e la miseria mia / Al cantor d’Ermengarda e di Maria / (A cui tutto è nel cor l’alto intelletto) / Fe’ tremante la voce, umido il


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ciglio» (nelle Memorie poetiche). Riconoscenza per l’aiuto economico, ma anche e più per la pazienza con cui Manzoni tollera le sue giovanili intemperanze («dove la necessità lo richieggia, la mia gratitudine non mi vieterà dir di Lei tutto il bene e tutto il male ch’io sento», scrive ad esempio al suo benefattore, in merito al primo prestito ricevuto). Molti anni dopo (19 marzo 1850), scrivendo di Manzoni a Rosmini, Tommaseo rievocherà la «pazienza con che sofferse le ignoranze e le baldanze della mia giovinezza», dichiarando la propria «gratitudine al molto che debbo a’ suoi scritti, alle parole, agli esempi». Manzoni ha grande stima per Tommaseo, benevolenza, sincero incoraggiamento; acconsente a incontrarlo da solo a solo, come chiede il giovane, che evita la conversazione serale con gli amici di casa, che pure potrebbe frequentare («io amo intertenermi da solo a solo con lui: ciò mi giova di più, e più si affà all’umor mio», scrive a Marinovich il 19 dicembre 1825), ed elude la possibilità di un impiego stabile come precettore in casa sua, che gli balena possibile, ma non confacente al proprio «bisbetico e tristo e melensissimo umore», come spiega a Vieusseux, il 24 novembre 1826. Per lui Manzoni è una sorta di faro morale prima che letterario. «M’ama più ch’io non meriti; e la sua sola presenza appura il mio cuore, nobilita la mia mente, rallegra e addolcisce l’umor mio tetro e selvatico», recita la citata lettera a Marinovich. Tommaseo, in visita alla famiglia in Dalmazia, è assente da Firenze in occasione del soggiorno manzoniano del settembre 1827; vi giunge nell’ottobre, iniziando una regolare collaborazione all’«Antologia», fino alla chiusura della rivista, per motivi politici, nel marzo 1833, che lo spinge all’esilio in Francia, dal febbraio 1834. L’autoritratto fiorentino di Tommaseo conferma l’immagine del «selvatico» ostentata negli anni milanesi: «Io me ne sto tra quest’aure pregne di vita […], e tra le convalli popolate d’oliveti, proprio come un ablativo assoluto» scrive nella prima lettera a Manzoni da Firenze, il 6 dicembre 1827: «Poco partecipo alla gaiezza di questo cielo, alla libertà di quest’aria: poco mi rallegra quest’accento incantatore, questa lingua divina»… L’incarico di redattore della parte letteraria dell’«Antologia», in appoggio a Montani, lo porta a occuparsi anche dell’opera manzoniana: la recensione ai Promessi sposi, comparsa nell’ottobre 1827, esibisce disinvolta sicurezza, e punte velenose; ma quando ne parla infine all’autore, nella citata lettera del 6 dicembre, è chiaro il timore delle reazioni dell’interessato. «Scuserà la necessità in cui sono posto di parlare di cose ch’io intendo ancor meno del benigno Lettore», scrive; e implora una risposta che lo rassicuri: «io ho veramente bisogno d’una sua lettera». Sarà poi la volta della «malaugurata edizione del Batelli», una ristampa delle opere complete di Manzoni, con ampie note introduttive di Tommaseo, che per essa aveva chiesto l’assenso dell’autore, senza ottenerlo (ma l’autorizzazione non era necessaria per legge). Nella lettera del 21 gennaio 1830, Tommaseo di nuovo avanza scuse impacciate, soprattutto per essersi lasciato trascinare nell’occasione in una nuova polemica con la «Biblioteca italiana» («questa lezione stessa non è poco valsa a disgustarmi del mestier di Critico», scrive a Rosmini, il 19 gennaio).


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Di questi anni, tra il 1829 e il 1833, sono le missive più lunghe, di argomento linguistico e letterario. Sono gli anni del Nuovo Dizionario de’ sinonimi: Manzoni ha grande considerazione per il lavoro lessicografico di Tommaseo, di cui avverte l’urgenza e capisce la complessità; Tommaseo guarda a Manzoni come suo primo lettore e imprescindibile termine di confronto. Sul primo saggio dell’opera, alcuni lemmi pubblicati sul «Nuovo Ricoglitore» tra agosto e dicembre 1829, Tommaseo chiede «con istanza» un giudizio di Manzoni («una parola mi basta», 28 dicembre 1829). L’invito è raccolto: Manzoni accenna «sommessivamente qualche dubbio» (lettera del 13 gennaio 1830), contestando a Tommaseo di fondare le proprie distinzioni di significato sugli esempi tratti dagli scrittori, e non sull’uso vivo fiorentino. «L’uso, Ella dice benissimo, è l’arbitro sovrano», risponde Tommaseo, il 21 gennaio; ma l’autorità degli scrittori resta utile per quei vocaboli di cui l’uso fornisce scarsi esempi o nulli. Torna poi a sollecitare ad ogni occasione un giudizio sul dizionario, mentre procede la stampa dei fascicoli (dal novembre 1830 al dicembre 1832, per l’editore fiorentino Pezzati); solo il 13 agosto del 1833 Manzoni manda laconici ringraziamenti per un’opera che è per lui «come un libro di scola». In realtà, appena ricevuto il primo fascicolo del Nuovo dizionario de’ sinonimi, con la Prefazione e i lemmi della lettera A, Manzoni aveva iniziato alla fine del 1830 una lunga lettera che approfondiva le ragioni di dissenso sui criteri adottati da Tommaseo, in particolare sulla questione dell’uso già accennata, ma anche sui motivi della preferenza da accordare al toscano parlato. Incompiuta e non spedita, la lunga missiva non è perciò compresa in questo carteggio (si trova nell’epistolario manzoniano edito da Arieti, insieme a una più breve riscrittura, ed è compresa negli Scritti linguistici curati da Angelo Stella e Maurizio Vitale per l’Edizione nazionale). Attraverso Rosmini, Tommaseo era stato comunque informato delle obiezioni di Manzoni fin dal giugno del 1831, e indirettamente vi risponde nella Prefazione alla seconda edizione del Nuovo dizionario de’ sinonimi (Milano, Crespi, 1833). La lettera del 13 agosto 1833 presenta un altro argomento di rilievo, e un’attestazione di sicura stima nei confronti di Tommaseo, perché Manzoni vi si spinge a fare ciò cui assai raramente acconsente nell’epistolario, anche se molte volte ne è richiesto: dare un giudizio critico sull’opera altrui, in questo caso il manoscritto di un dramma storico sottopostogli dall’amico. Forse a parziale risarcimento del silenzio tenuto sui Sinonimi; ma più fondatamente il motivo sarà da cercare nel legame con la riflessione manzoniana coeva sui «componimenti misti […] di storia e d’invenzione»: per i quali qui Manzoni dichiara di aver «perduto la bussola affatto», e di non sapere a quali criteri di giudizio attenersi, stante la convinzione sulla intima contraddittorietà del genere, illustrata con termini ed espressioni vicine al discorso Del romanzo storico, pubblicato solo molto più tardi (1850). Le brevi missive seguenti riflettono per frammenti la movimentata avventura biografica e intellettuale di Tommaseo. Anche le lettere di presentazione dirette a Manzoni sono eloquenti. Sono scritte per importanti figure di intel-


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lettuali cattolici francesi: nel 1832, lo storico dell’arte Alexis-François Rio; nel 1847, il cattolico democratico Antoine-Frédéric Ozanam, noto per le iniziative di impegno sociale, successore di Fauriel alla cattedra di letterature straniere alla Sorbona. Una breve comunicazione risalente ai mesi concitati della Repubblica Veneta, dove Tommaseo è ministro dell’Istruzione e del Culto, lo ritrae intento (13 aprile 1848) a promuovere uno scambio di prigionieri che avrebbe dovuto riguardare anche il giovane Filippo Manzoni, catturato dagli austriaci durante le Cinque giornate di Milano. E ancora vi sono commendatizie per letterati greci, o italo-greci, conosciuti durante il secondo esilio a Corfù: nel 1851 Giulio Tipaldo, poeta della scuola ionica; nel 1864 il cugino di questi, Emilio De Tipaldo, letterato e biografo attivo a Venezia. Una visita a Manzoni a Brusuglio, nel 1839, lascia deluso Tommaseo, che è potuto rientrare dalla Francia in Italia grazie all’amnistia proclamata in occasione dell’ascesa al trono del nuovo imperatore austriaco Ferdinando I: di una «consolazione troppo più desiderata che aspettata» parla Manzoni nell’invito; «con me, nel settembre, fu freddo», ne scrive però Tommaseo a Capponi, da Venezia, dove prende poi dimora. Del resto totalmente mutata è la situazione familiare di Manzoni, passato a seconde nozze, in una casa funestata dai lutti. Il ricordo affettuoso rimane però costante: «Nel pensare che Alessandro Manzoni lascierà questa terra, piango di lagrime di dolore e di tenerezza», si trova nel Diario intimo, alla data del 25 maggio 1852. Nel giugno del 1855, al capezzale di Rosmini morente, Manzoni e Tommaseo si ritrovano infine (dopo l’esilio a Corfù seguito ai fatti veneziani del 1848, Tommaseo dal 1854 vive a Torino). Proprio tramite Tommaseo Manzoni aveva conosciuto Rosmini, nel 1826, quando il giovane abate aveva soggiornato a lungo a Milano, dividendo l’abitazione con l’amico Tommaseo appunto, conosciuto negli anni di studio all’università di Padova. Seguono, nell’ottobre del ’55, a Lesa, le «venti ore circa di colloquio», nello spazio di tre giorni, religiosamente annotate da Tommaseo (i Colloqui con il Manzoni pubblicati postumi nel 1928): un breve periodo di intensa frequentazione, voluto da Tommaseo, ora padre di famiglia, e quasi cieco. Un’esperienza profonda, che nel nome di Rosmini salda il legame tra i due, trent’anni dopo il primo incontro a Milano, lo radica in una comune ricerca religiosa, letteraria ed etica, al di là delle differenti opinioni e sensibilità. «Di quante cose abbiamo a parlare insieme!, e principalmente della dolorosa e gloriosa memoria di quel sommo nostro amico e maestro», scrive Manzoni il 23 ottobre 1855, alla vigilia dell’incontro. Documenti di stima e grato affetto, per «un’antica amicizia, attraversata, ma non indebolita da tante e così lunghe assenze» (Manzoni a Tommaseo, 19 febbraio 1856), sono anche le lettere scambiate da Tommaseo con «donna Teresa» (Teresa Borri, seconda moglie di Manzoni); o l’invio di versi latini, sei componimenti che Tommaseo presenta a Manzoni nel 1859, «per ritornare con Lei a Lesa, anzi piuttosto a Milano col nostro Rosmini» (lettera del 3 aprile); ed anche l’appoggio fornito, nel marzo 1864, con una lettera di presentazione per il mediatore, Gasparo Barbèra, al tentativo di conciliazione della disputa che


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opponeva Manzoni all’editore fiorentino Le Monnier, reo di aver pubblicato nel 1845, dopo l’entrata in vigore della Convenzione sulla proprietà letteraria, una ristampa non autorizzata dei Promessi sposi nella «Biblioteca nazionale» (anche Capponi aveva provato a metter pace, due anni prima, senza fortuna). Non si rivedono fino al giugno 1864, a Firenze, dopo l’Unità. Manzoni, in città con la figlia Vittoria e il genero Giovan Battista Giorgini, accompagnato dalla nuora Giovannina moglie di Pietro, ospite nel palazzo di Capponi, visita più volte Tommaseo nella sua casa sul Lungarno alle Grazie. Sull’album della figlia dodicenne dell’amico, Caterina, scrive affettuose parole di augurio. Ma è Tommaseo a riprendere, nella lettera del 7 luglio di quell’anno, l’argomento linguistico, mentre è in corso a Torino la stampa dei primi fascicoli del suo Dizionario della lingua italiana. Nell’ansia di dimostrarsi «non tanto ribelle» alle convinzioni manzoniane, espresse pubblicamente con la lettera a Giacinto Carena Sulla lingua italiana, a stampa nelle Opere varie nel 1850, Tommaseo sottolinea la presenza di espressioni vive dell’uso nelle voci da lui redatte o riviste; ma «del resto non mancano esempi anco di modi scaduti dall’uso, perché l’assunto del Dizionario è comprendere tutta quanta la lingua, e il passato dà ragione del presente, fornisce la storia della parola», aggiunge: il necessario «Dizionario della lingua vivente, […] nel presente stato delle lettere e della nazione, non si può e non si deve dalla parte storica separare». Né l’auspicato Dizionario dell’uso fiorentino sarebbe ormai lavoro per lui, «vecchio e stanco, scarso di sapere e di favore, d’ajuti e di colloquii, d’ore e di luce», come accoratamente si descrive. Questione per lui forse più importante è la valorizzazione delle radici etiche del linguaggio, su cui è certo di trovare Manzoni concorde: «il nuovo ordine dato a’ significati secondo le idee; le dottrine del Rosmini applicate alla lingua; gli esempj turpi tolti via; posti in rilievo i più nobili sensi de’ vocaboli concernenti le cose religiose e morali e civili e filosofiche e letterarie». Un biglietto di Tommaseo difficilmente databile, ma tardo, testimonia ancora la persistenza di «quel riverente affetto che acquista dagli anni vigore». L’ultima lettera del carteggio, del 27 settembre 1871, con cui egli presenta al­ l’anziano Manzoni il suo segretario Ariodante Le Brun, in visita a Milano, ha il tono di un congedo tenero e dolente: «Tra le poche cose ch’io ambisco, gli è il potermi partire da questa terra lasciando nell’animo suo la credenza che l’affetto mio verso di Lei è sempre stato non men vivo che riverente, e che tale sarebbe quand’anco non ci avesse parte (e avercela deve) la gratitudine. Accolga le benedizioni del suo Tommaseo». Un finale quasi romanzesco offre poi il racconto dell’incontro con Manzoni, tramandato da Le Brun (Di Niccolò Tommaseo, cenni, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1875, pp. 58-9): Prima d’accomiatarmi, dissi della stima e del bene che il Tommaseo gli voleva, e del suo dolore pensando che lui, don Alessandro, non gliene volesse punto. Giusto cielo! gridò egli, rizzandosi diritto come per uno scatto di molla, e spingendo indietro la poltroncina su cui era seduto (aveva 87 anni), giusto cielo! io non voler bene al Tommaseo! Non l’avessi mai visto né conosciuto, per il bene che ha fatto e farà all’Italia, lo amerei come un fratello; per


introduzione   xv le sue virtù, per i suoi dolori lo amo; per la nostra amicizia, solamente interrotta dalla lontananza e dalla nostra vita solitaria, ma che dura e durerà sin ch’io viva; gli dica, lo assicuri che il Manzoni vuol bene al Tommaseo ora come prima. – Tornato a Firenze, riportai quelle stesse parole, che all’anima del Tommaseo furono di tale consolazione che, commosso, domandava: Davvero? gli ha detto proprio così?

«E dimostrò dispiacere di non aver meglio potuto coltivare questa da lui detta amicizia, ma io non osai mai arrogarmi il titolo di suo amico, come taluni fanno», chiosa Tommaseo, raccontando l’episodio nel Diario intimo. 3. Con Tommaseo, Manzoni ha comune anche l’amicizia con alcuni degli intellettuali facenti capo all’«Antologia» (1821-1833) e al Gabinetto Scientificoletterario fondato da Giovan Pietro Vieusseux a Firenze all’inizio del 1820: Cioni, Niccolini, Borghi, Capponi. Tommaseo anzi ha un ruolo nel preparare la favorevole accoglienza fiorentina (anche se assente dalla città in occasione del soggiorno manzoniano): tra il 1826 e il 1827 tiene aggiornato Vieusseux su interessi e studi di Manzoni, sui progetti del viaggio in Toscana, sulla stampa del romanzo. I dati del soggiorno fiorentino di Manzoni sono ben noti: giunto nel capoluogo per la strada di Genova e Livorno, dopo aver fatto sosta nelle due città per i bagni di mare, si stabilisce dal 29 agosto sul Lungarno, all’Albergo delle Quattro Nazioni, nei pressi del ponte Santa Trinita (e di palazzo Buondelmonti, sede del Gabinetto Vieusseux), con la famiglia (la madre, la moglie, sei dei figli, tranne il piccolo Filippo, lasciato a Milano con la fidata domestica Fanny); ne ripartirà il 1° ottobre, alla volta di Bologna, attraverso l’Appennino e il passo della Futa (una divertita lettera a Cioni del 10 ottobre 1827 ricorda in proposito gli infondati timori di donna Giulia). Il 3 settembre si tiene al Gabinetto Vieusseux una serata in suo onore: apprezzamento unanime nei confronti del gentiluomo milanese si legge in lettere, ricordi e diari degli intervenuti, anche di diverse convinzioni religiose e letterarie, come Giordani. Mentre i Promessi sposi suscitano, com’è noto, distinguo e dubbi, già per lo stesso genere letterario, in un ambiente dominato dal classicismo. Con Vieusseux, Manzoni intrattiene una corrispondenza occasionale, in parte composta di lettere commendatizie, comunque testimoni della cordialissima stima reciproca, oppure legata all’attività di Vieusseux nel campo del commercio librario, quando questi funge da tramite all’invio della Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789 di Carlo Botta, per iniziativa dell’editore parigino Baudry (invio respinto da Manzoni, dopo essersi accertato che non l’avesse voluto l’amico Botta, forse perché inteso come mossa strumentale e obbligazione inopportuna nei suoi confronti da parte dell’editore). Più interessante è la lunga lettera circolare a stampa con cui Vieusseux chiama a collaborare all’«Antologia», alla fine del 1831, intellettuali di tutta Italia, in nome dei «crescenti lumi», dei «bisogni del secolo», del «miglioramento della nazione italiana»: una decisa dichiarazione d’intenti in favore del progresso sociale, culturale ed economico, dell’istruzione popolare, della


xvi    Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze

«pubblica utilità», in aperta prospettiva nazionale. Nella copia inviata a Manzoni, la cauta lettera di accompagnamento di Vieusseux, redatta in realtà da Tommaseo, cerca di toccare tasti sensibili: si preoccupa di distinguere l’«An­ tologia» dagli altri giornali letterari, di sottolineare la possibilità anche con i giornali, «moneta spicciola del commercio intellettuale», di «far del bene» e «diffondere qualche verità»; ma non raggiunge l’effetto sperato. Nel febbraio del 1827 del resto, sappiamo dal carteggio tra Tommaseo e Vieusseux, già si era inutilmente saggiata la possibilità di una collaborazione. Anche stavolta è un rifiuto: la metafora impiegata nella breve risposta (14 gennaio 1832) pare indicare un bisogno di completa indipendenza (neppure al «Conciliatore», del resto, Manzoni aveva collaborato): «Io sono […] un di que’ cavallacci, che, attaccati a una carretta, tanto la strascinano, bene o male; ma, posti in un tiro a sei, vi fanno una trista figura e, invece d’aiutar, guastano». Ma l’interesse del soggiorno a Firenze, si sa, è lo studio della lingua: si tratta di rivedere la lingua del romanzo secondo l’uso fiorentino, ma anche di riscontrare voci e locuzioni milanesi nell’uso toscano «vivente», in vista di una riscrittura del Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini secondo l’idea, a suo parere «capitale», «della uniformità del nostro dialetto colla lingua parlata di qui», come scrive il 17 settembre 1827 a Grossi, che ha coinvolto nella ricerca insieme all’amico Rossari. «Ho trovate persone che riuniscono in sommo grado la scienza e la compiacenza; e quantunque io ne usi e ne abusi principalmente per la revisione della mia tiritera, pure ne hanno abbastanza anche per soddisfare alle mie richieste intorno alle cose generali della lingua», recita la stessa lettera, dove si trova l’espressione divenuta proverbiale, riferita ai fogli di stampa dei Promessi sposi: «ho settantun lenzuolo da risciaquare, e un’acqua come Arno, e lavandaie come Cioni e Niccolini, fuor di qui non le trovo in nessun luogo». Sono noti i frutti della collaborazione: le postille al romanzo, gli appunti sull’uso toscano, gli elenchi di termini, recentemente riproposti nei volumi degli Scritti linguistici dell’Edizione Nazionale manzoniana. Le lettere solo in minima parte ne danno conto. Ne tace, in particolare, l’esiguo carteggio con Giovan Battista Niccolini («uno dei pazienti revisori della mia storia», scriveva Manzoni a Grossi: «vedi chi sono andato a pescare»), che si compone di poche, brevi, cordiali commendatizie (una per d’Azeglio, in visita in Toscana). Già conosciuto come tragediografo (del 1827 è l’Antonio Foscarini), Niccolini è anche accademico della Crusca e autore nei primi anni Venti di alcuni discorsi sul ruolo dell’uso e del consenso della nazione nell’affermazione di una lingua, nell’ambito della polemica che aveva visto contrapposti Monti e l’Accademia. La stessa cordiale familiarità caratterizza il carteggio, ben più ampio e importante, con Gaetano Cioni, ingegno duttile ed esuberante, passato dagli studi di matematica alla chimica industriale e quindi agli interessi letterari e linguistici (aveva raggiunto notorietà con il confezionamento di un falso novelliere rinascimentale). Manzoni ne stima enormemente le conoscenze linguistiche, estese dai trecentisti al gergo popolare contemporaneo, preziose per le ri-


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cerche lessicali intraprese insieme agli amici: «dotto e amabile uomo», lo descriveva a Grossi nella citata lettera da Firenze, «l’autore di quelle novelle che furon credute d’un cinquecentista, e oltre il resto, così pratico della lingua la più e la meno comune, che avendogli io data in mano la tua noterella, (Rossari di nuovo) egli, lette le definizioni di quei pazzi stromenti di fabbro e di legnaiuolo e di bottaio, m’improvvisò il nome di molti, e mi darà, spero, la risposta a tutti in iscritto». Il «caro e bravo Cioni» accetta con entusiasmo di occuparsi della revisione dei Promessi sposi: «non trovando che bastasse il far così delle noterelle», scrive ancora Manzoni a Grossi, «mi s’è esibito di legger tutti i tre volumi insieme con me, e di far le correzioni a questo modo. Pensa s’io ho accettato; ma vedi se si può esser più gentile e più paziente, anzi dirò coraggioso di questo brav’uomo, il quale avrà una bella faccenda a ripassar quei settantun foglio, in qualche quindici giorni che noi passeremo ancor qui». Tornato a Milano, ringraziandolo anche da parte di Rossari per «quei bei vocaboli cristiani avuti in cambio degli arabici ch’io Le ho portati costà» (10 ottobre 1827), Manzoni gli anticipa che ricorreranno ancora al suo aiuto («parole, locuzioni, termini d’arti, proverbii, per tutto si ricorrerà a Lei»). Non pare però, dal carteggio, che questo sia avvenuto; si attendono, piuttosto, i risultati della revisione del Vocabolario milanese-italiano del Cherubini secondo la lingua dell’uso, che Manzoni ha affidato a Cioni e a Borghi, un volume ciascuno. Il tono delle lettere è di schietta, affettuosa amicizia, premurosa nel chiedere e dare notizie degli amici comuni, nel salutare uno per uno i familiari: Cioni fin dalla prima lettera (del 2 ottobre 1827, all’indomani della partenza di Manzoni) dichiara i suoi sentimenti di «vero affetto» («io L’amo come una rara persona»); Manzoni parla di «una amicizia, alla quale, per meritare il titolo d’antica, non manca proprio che il tempo materiale» (10 ottobre 1827), e rievoca nostalgicamente «quei soavissimi colloquii di via del Campuccio [casa di Cioni] e di Lungarno» («il desiderio, o il rammarico […], ne durerà in me quanto la vita»). Le lettere di Manzoni riflettono in parte la giovialità e la svagatezza delle missive del corrispondente, per quella capacità di adeguare i toni al registro del destinatario, anche nello stile e nella lingua, che è tratto notevole dell’epistolario manzoniano (marcato all’estremo, ad esempio, nelle lettere ad Antonio Cesari, o a Giuseppe Giusti). I tempi di revisione del romanzo, e delle postille al Cherubini, si dilatano assai più del previsto. Dopo un anno di silenzio, Cioni confessa la propria negligenza: «di non aver quasi mai fatto nulla per voi come se non vi avessi promesso di fare, di ciò che m’incaricaste e pei Promessi sposi, e pel dizionario milanese» (3 novembre 1828); pochi giorni dopo, il 9 novembre, affida alla lettera commendatizia scritta per Gioberti il proprio «sgomento per avere per sì lungo tempo trascurata la vostra relazione». Manzoni rassicura l’amico (24 novembre 1828), con un incipit inconsueto ed eloquente: Ma non v’è egli venuto in mente, carissimo e pregiatissimo Cioni, che le vostre scuse mi tornerebbero in rimproveri? Con chi vi chiamate voi così in colpa dell’essere stato de’


xviii    Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze mesi senza scrivere? Con chi fa professione di starci degli anni? A chi volete voi dimostrare che l’amicizia può durar viva e ferma senza l’aiuto della penna e della posta? A chi lo sa più che altri per esperienza propria? Potete voi pensare ch’io dubiti della perseveranza del vostro affetto, quando ne ho per prova l’immutabilità del mio?

Ma anche gli ricorda, discretamente, quanto tenga all’impegno di revisione, con uno di quei caratteristici giri di frase dell’epistolario manzoniano, dove ogni parola è pesata con attenta cura: Vi dirò dunque in fretta, che, certo, io desidero d’avere quel mio libro toccato da voi, in modo che un lettore toscano non abbia a trovarsi mai fuor di casa nella seconda lettura, (chi avrà il coraggio di farla) come gli sarà troppo spesso accaduto nella prima: ma non so che garbo avrei nel pregarvene con insistenza, quando è cosa per sé così noiosa, e voi stesso però mi promettete con tanta buona grazia di volervi attendere: ch’io lo desidero, lo sapete; d’esser buono non vi potete dimenticare.

Ma un lungo silenzio segue poi; solo sette anni dopo, il 17 ottobre 1835, Cioni gli annuncia l’invio dei due tomi del Vocabolario milanese-italiano postillati, dopo aver recuperato quello rimasto presso Borghi. L’occasione per riallacciare i contatti è l’attività editoriale che l’energico Cioni settantacinquenne ora promuove con la Tipografia Galileiana, da lui diretta, per conto del gruppo della soppressa «Antologia»: la mossa, concordata con Vieusseux che rivede la minuta della lettera, è volta ad ottenere il diritto di pubblicare in Toscana, simultaneamente alla stampa milanese, le nuove opere di Manzoni e Grossi di cui si è sparsa voce, con notizie inesatte che Manzoni si affretta a smentire (25 ottobre 1835): «Dell’Assedio di Firenze del Grossi, e de’ miei Untori, le son tutte favole». Il ricordo è ancora nostalgico e affettuoso («Come potrei io infatti aver dimenticato Voi, e le gentilezze che mi avete usate in codesta cara Firenze, e le seccate che vi ho date io, e quella casa di Via del Campuccio dove io andavo a far chiacchere così gustose per me, e ad accattar parole toscane, e a mangiar pere, che dell’une e dell’altre mi viene ancora l’acquolina alla bocca?»). Manzoni coglie l’occasione per coinvolgere di nuovo Cioni nella propria ricerca linguistica, per un «libretto» in corso di composizione, di cui propone in un primo momento all’amico la vendita in esclusiva in Toscana, ma per cui in seguito di nuovo interpella la sua sperimentata competenza. Il libro è il Sentir messa, iniziato insieme a Grossi, poi continuato da solo, con l’intento «di mostrare che non c’è altra lingua italiana che la lingua toscana», come scrive a Cioni l’8 febbraio 1836. Nella stessa lettera accusa finalmente ricevuta del Vocabolario milanese postillato, e chiede all’interlocutore, insieme a informazioni sull’uso toscano di alcune espressioni idiomatiche, una «traduzione esatta e sicura in toscano vivente dell’articolo Messe dell’ultima recentissima edizione del Vocabolario dell’Accademia francese» (del 1835), che gli trascrive per intero sul foglio. Il risultato è una «accurata e perfetta, anzi sovrabbondante traduzione», esulta Manzoni (3 maggio 1836), un modello per l’auspicato dizionario dell’uso; poi un nuovo silenzio di oltre un anno, interrotto da Cio-


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ni che, nell’interesse della Galileiana, chiede notizie del promesso libriccino sulla lingua, e conferme alle voci di una prossima nuova edizione illustrata del romanzo; un ultimo saluto di Manzoni, infine, nel ’43. 4. Anche il carteggio con l’altro revisore incaricato di postillare il Vocabolario del Cherubini, l’abate Borghi, nativo di Bibbiena, collaboratore dell’«An­to­ logia», vicebibliotecario della Riccardiana, è rilevante, ma altri sono gli argomenti che in prevalenza lo occupano. È ora Borghi che impegna Manzoni con i propri scritti, inducendolo a esercitare l’ufficio per lui inconsueto di critico e correttore sui suoi inni sacri La Fede, La Speranza e La Carità, elaborati tra il 1828 e il 1829 e sottoposti a Manzoni manoscritti. A spingerlo ad assumersi un ruolo in genere sgradito ed evitato, può essere stata la riconoscenza per il lavoro di correzione che Borghi, con Cioni, si era assunto nei confronti del Vocabolario milanese-italiano. Possono aver avuto il loro peso anche i legami di Borghi con l’Accademia della Crusca, di cui è fatto socio nel 1829 e per cui cura l’edizione della Commedia dantesca detta «dei Quattro Accademici», insieme a Niccolini, Capponi e Becchi, edita nel 1837. Ma soprattutto gli stretti legami con gli ambienti della corte granducale devono aver indotto Manzoni a questa paziente condiscendenza. Il Granduca e la famiglia granducale sono infatti argomento ricorrente delle lettere: Borghi è intimo del Granduca, una sorta di poeta di corte (compone ad esempio, nel 1831, le Canzoni per le nozze di Leopoldo II). Spesso parla con lui di Manzoni e della sua opera, di cui il giovane sovrano, sul trono dal 1824, è estimatore entusiasta (in occasione del suo trentaduesimo compleanno, il 3 ottobre 1828, nella villa reale di Poggio a Caiano, si mettono in scena quadri animati ispirati ai Promessi sposi; al pittore Sabatelli è commissionato il ritratto dell’autore; negli appartamenti reali della Meridiana di Palazzo Pitti si fanno affrescare da Nicola Cianfanelli, nel 1834-1837, scene del romanzo manzoniano…). La stima del Granduca lusinga Manzoni, che nel settembre 1827 si compiace di essere presentato a corte, al sovrano e all’intera sua famiglia, come racconta nei particolari a Grossi, nella citata lettera del 17 settembre, in cui molto loda la «bontà» del granduca, «un uomo coltissimo, amabilissimo, d’ottimo ingegno e d’ottimo cuore», di «istruttiva e amenissima conversazione». Con Manzoni, Leopoldo II rimane in corrispondenza: sono note quattordici missive, tra il 1828 e il 1841, in gran parte edite, non riprodotte in questo volume perché esulano da ragioni propriamente letterarie, e anche per le gravi difficoltà di lettura poste dalla grafia del sovrano. La relazione diventa presto ingombrante, dopo la stretta reazionaria del governo toscano, dopo la chiusura dell’«Antologia». Lo scrittore rifiuta allora l’onoreficenza al merito (la croce dell’ordine di San Giuseppe) conferitagli nel 1834 dal Granduca, ed evita di recarsi ancora nel capoluogo per eludere l’obbligo di una visita a corte: i viaggi in Toscana, negli anni Cinquanta dell’Ottocento, per vedere le figlie e gli amici, non prevederanno soste a Firenze, fino al nuovo soggiorno del 1864, dopo l’Unità.


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Il favore del granduca, forse il suo esplicito desiderio, è con ogni evidenza sotteso anche all’iniziativa di portare sulle scene fiorentine le tragedie di Manzoni, attraverso la mediazione del Regio censore degli spettacoli, Attilio Zuccagni Orlandini; che non si occupa solo di avvisarne l’autore, ma detta i criteri della messa in scena, ad esempio per la drammatizzazione dei cori, la scelta delle compagnie, la distribuzione dei ruoli. Manzoni si oppone alla proposta, avanzatagli il 22 dicembre 1827, in nome della scarsa attitudine alla rappresentazione teatrale delle due tragedie, «condotte senza alcun riguardo all’effetto, agli usi, al comodo della scena», «intendendo appunto di scrivere per lettori e non altro», come avanza in risposta il 4 gennaio 1828, in una lettera assai tormentata di correzioni. Vi è anche il timore che i suoi testi incontrino una pregiudiziale opposizione antiromantica, per il loro «andar contro al gusto generale». Ma l’autore non può impedire che sia rappresentato infine, nell’agosto del­l’anno successivo, Il conte di Carmagnola, al teatro Goldoni, dalla compagnia di Luigi Vestri. Del risultato informa, con benevolenza, anche Cioni (lettera del 3 novembre 1828); ma le fonti d’epoca raccontano di un esito assai contrastato (solo il coro e il quinto atto piacquero), anche per la pessima recitazione di alcuni attori, e la prevista interferenza dello spirito di parte. Borghi, dunque, si premura di avvertire l’amico che Leopoldo II legge le sue lettere, e volentieri le conserva per sé: «Se avete qualche cosa da dirmi privatamente, fatelo in un foglietto a parte, poiché mi verrà dimandata, secondo il solito, la vostra Lettera dal Granduca, il quale sa che vi ho scritto, e perché vi ho scritto. […] Del resto tenete per regola generale, che quando voi scrivete a me, non posso dispensarmi dal portare il vostro foglio a Palazzo, perché ivi se ne fa sempre una festa, e resta poi quello tra le carte del Granduca» (10 febbraio 1829). La circostanza spiega forse le lacune del carteggio: almeno tre missive manzoniane risultano ad oggi disperse. Manzoni è avvertito che le correzioni agli Inni di Borghi sono attese dal Granduca, saranno da lui lette («ha egli voluto fin d’ora i miei versi, e v’attende sopra le vostre osservazioni: dal far le quali pienamente e liberamente voi non dovete perciò rimanervi […]»). Anche questo lo spinge evidentemente a un lavoro coscienzioso e bilanciatissimo, con un giudizio nel complesso ampiamente positivo: gli inni gli son piaciuti «dimolto, dimolto», per «l’affetto così spontaneo, l’impeto così ragionevole che vi regnano, tante belle verità di lassù e di qua entro, o novamente osservate, o novamente espresse, e talvolta una rara felicità in far dire alla poesia certe cose che la è un po’ ritrosa a dire»… (25 febbraio 1829). L’ampia ritrosa premessa sulla difficoltà del giudizio, e di un giudizio per scritto, che debba dar ragione di impressioni («ora le ragioni del sentimento sono per me la cosa più astrusa, più incerta, più imbrogliata del mondo»), stavolta dunque introduce pagine e pagine di osservazioni, di carattere per lo più lessicale, sulla chiarezza e la proprietà delle espressioni e la loro ragione poetica, formulate con tatto e cortesia esemplari, ma anche con rigore e schiettezza di giudizio. Il ruolo di critico e censore insomma non è assunto pro forma, né si tratta di rilievi di poco conto, come replicatamente Manzoni protesta («cavilli cavil-


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lucci», «dubbi, sospetti, barlumi»…). Lo stesso ragionato esame è ripetuto, in seguito, sulle varianti ai passi contestati, inviategli da Borghi un mese dopo. L’importante lettera del 25 febbraio dà anche appiglio a ragionamenti più generali sulla lingua, probabile eco dei dialoghi fiorentini: ad esempio sul Vocabolario della Crusca, che Manzoni concede comunque sia «il meno imperfetto, il più autorevole, il più utile, nella singolar condizione di questa povera lingua», perché «lavoro di persone che conoscevano meglio degli altri l’Uso parlato e lo scritto», e «ve l’hanno rappresentato meglio che non si fosse mai fatto prima, e pur troppo meglio di quello che si sia mai fatto né tentato di poi». Beninteso, «dove l’Uso si fa intendere, il vocabolario non conta più nulla per me», puntualizza; ma ciò non vale per il linguaggio poetico, vincolato alla tradizione, per «quel capriccio della poesia di non accoglier volontieri parole nuove, prima che non siano, per dir così, bene stagionate nell’Uso del discorso e della prosa scritta». Con i ringraziamenti per il lavoro che Borghi e Cioni stanno svolgendo sul dizionario milanese-italiano del Cherubini, la lettera si allarga verso la fine in una di quelle eloquenti tirate, fitte di esclamative e interrogative, che la questione della lingua spesso suscita, non come freddo oggetto di disquisizione teorica, ma come questione vitale per chi «facendo pure il mestiero dello Sgorbia, ignora una buona parte della lingua colla quale ha da sgorbiare, e un’altra buona parte la sa senza saper di saperla, giacché crede idiotismo del suo dialetto ciò che è lingua viva e vera e legittima quanto si possa». Condizione («Ignorare una buona parte della lingua, o non esserne certo, e non saper dove, come trovarla, o assicurarsi!») che cerca di metter davanti agli occhi dei «privilegiati toscani» dipingendo a vivaci colori le proprie traversie: Gli scrittori eh? Da che capo li piglio, gli scrittori? Da che lato mi fo, per trovare il vocabolo di cui ho bisogno? E se li leggessi tutti, in corpo e in anima, e non ve lo trovassi? Chi m’assicura che negli scrittori vi sien tutti i vocaboli? Io mi tengo anzi sicuro del contrario. E se ne trovo uno che non è più in uso, e sta nei loro scritti come i loro corpi stanno nella fossa? Il vocabolario? ma per cercare una parola nel vocabolario, bisogna saperla. E poi quante mancano! quante sono di quelle che l’Uso ha abbandonate, e nel vocabolario stanno imbalsamate, se volete, ma non vive certamente. Sapete a che mi bisogna ricorrere tante volte, per arrivar dal noto all’ignoto? al vocabolario francese-italiano; perché so il vocabolo o la locuzione francese, e d’italiano nulla. Bel turcimanno per un italiano il vocabolario francese!

La conclusione è pessimistica. Siamo «lontani dall’avere in Italia una lingua come le altre, dico dall’averla davvero», constata: «quanto al vederla questa lingua, convenuta, conosciuta, diffusa, adoperata un po’ generalmente dagli italiani, che pur non ne hanno altra, quanto al vederla trattata come le altre lingue vive, come la francese, per esempio, è cosa ch’io non ispero più a’ miei giorni; né so se l’abbia a sperare pei miei nipotini». La corrispondenza con Borghi si interrompe dopo il 1829, con un penoso epilogo nel 1834 quando l’abate, caduto in disgrazia a corte e in generale di-


xxii    Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze

scredito nell’ambiente fiorentino, in strettezze economiche, per motivi non esattamente precisabili, stante l’elusività delle fonti, rivolge a Manzoni un appello disperato ma irricevibile perché interceda per lui presso il granduca, magnificandone ad arte i meriti letterari. Manzoni risponde con una secca lettera, dura nella sua esteriore correttezza (un «Borghi, a cui Dio perdoni» è l’unico altro accenno che si incontra poi nel suo epistolario, in una lettera del ’56 al figlio Pietro). 5. Il carteggio con Capponi inizia, almeno secondo i documenti ad oggi conosciuti, solo in anni tardi, rispetto alla data dell’amicizia tra i due, da riportare anch’essa al soggiorno fiorentino del 1827. Mostra modi disinvolti, amichevoli, parole di stima e di «venerazione», ma è anche legato a contingenze pratiche. Il primo nucleo di lettere, almeno tra quelle pervenuteci, è originato dalla necessità in cui Manzoni si trova di nominare un mallevadore per muovere causa a Le Monnier, per la ristampa abusiva dei Promessi sposi cui già si è fatto cenno, nel 1845 (più tardi, nel ’62, è Capponi a tentare senza fortuna di ricomporre il dissidio, per conto di Le Monnier, patrocinando un accordo su un risarcimento economico di entità ragionevole, dopo la condanna dell’editore in giudizio). Un’altra serie di brevi lettere, in «linguaggio tutto amichevole», come si esprime Capponi (2 ottobre 1852), è diretta a prendere accordi per i due soggiorni di Manzoni, insieme a Giovan Battista Giorgini, nella tenuta del marchese a Varramista, presso Pontedera (Pisa), nell’ottobre del 1852 e nell’agosto-settembre 1856. Nel secondo e più lungo, i due elaborano insieme alcuni lemmi del tanto auspicato Vocabolario italiano secondo l’uso di Firenze, confrontando il Vocabolario della Crusca, quello dell’Académie française e le locuzioni dell’uso. I materiali ci sono giunti, e sono stati editi da Macchia nel 1957, ma le lettere, brevi e pragmatiche, non vi fanno alcun cenno diretto. Manzoni non è un amante dell’epistolografia, e più volte ammette la sua pigrizia nell’adempiere ai doveri della corrispondenza. Le missive sono spesso motivate da un interesse pratico. È palese del resto l’avversione di Manzoni al parlar di sé, della sua vita e del suo lavoro, e tantomeno dei propri sentimenti (vedi il pudore con cui sempre accenna ai gravi lutti familiari, o la reticenza nelle stesse notizie liete, come nell’occasione del secondo matrimonio). La quantità o l’estensione della corrispondenza non può essere assunta dunque come automatico indicatore dell’importanza e dell’intensità di una relazione umana o letteraria. Questo è il caso, appunto, del carteggio con Capponi. L’amico, che tra l’altro è già costretto, in questi anni, a servirsi di un segretario per la dettatura e la lettura della corrispondenza, a causa della sopravvenuta cecità, può a sua volta scrivere a Manzoni, nel 1862: «Voi sapete com’io soglia da’ comuni amici chiedere di Voi e non mai scrivervi: sapete dunque che il non vi scrivere non vuol dire che io non vi voglia bene, e che io non tenga tra’ conforti della vita mia quella benevolenza che avete per me». Altro è il caso in cui la misura retorica della lettera venga adottata come forma congeniale per l’argomentazione serrata e la dimostrazione dialettica,


introduzione   xxiii

secondo i canoni del fortunato genere pubblicistico-letterario di ascendenza settecentesca: già con la lettera Sul Romanticismo diretta al marchese Cesare Taparelli d’Azeglio nel 1823 (a stampa senza l’autorizzazione dell’autore nel 1846, poi nelle Opere varie del 1870), o, più tardi, con la Lettera di A. Manzoni al Sig. Prof. Girolamo Boccardo intorno ad una questione di così detta proprietà letteraria, nel 1860 (Milano, Redaelli); ma soprattutto per gli scritti sulla lingua, dalla ricordata Lettera sulla lingua a Giacinto Carena (spedita all’interlocutore nel 1847, a stampa nel 1850), agli scritti del 1868, la Lettera intorno al libro De vulgari Eloquio di Dante Alighieri e la Lettera intorno al Vocabolario, pubblicati di rincalzo alla Relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla sul quotidiano «La Perseveranza» diretto dall’amico Ruggiero Bonghi; fino alla lettera del 30 marzo 1871 ad Alfonso della Valle di Casanova, missiva privata, ma pensata per la pubblicazione. Nell’epistolario manzoniano anche pagine non destinate alla divulgazione a stampa conservano a tratti questa impronta, dove il destinatario è strumentale all’esposizione argomentata di un’idea, che necessita per la sua efficacia un interlocutore reale o ficto cui magari attribuire l’opinione avversa. Al 1868, e alla lettera sul De vulgari eloquentia, comparsa sulla «Perseveranza» il 21 marzo di quell’anno, si collega l’ultimo scambio epistolare con Capponi (si erano rivisti a lungo a Firenze, nel giugno del 1864, quando Manzoni era stato suo ospite nel palazzo fiorentino): la missiva di Capponi del 27 marzo compare a stampa sulla stessa «Perseveranza» il 1° aprile, come introduzione a un brano dell’ancora inedita Storia della Repubblica di Firenze, dove si parlava appunto del trattato linguistico di Dante. Le vicende della Commissione governativa sull’Unità della lingua e i mezzi per diffonderla, istituita nel 1868, presidente Manzoni, dal ministro dell’istruzione Broglio, avvicinano di nuovo, dopo quarant’anni, Manzoni, la lingua e Firenze, ora capitale del nuovo Regno d’Italia, ma ancora e forse più indifferente alla proposta manzoniana. La Commissione sulla lingua ebbe, è noto, due anime: Manzoni, il presidente, a capo della sottocommissione milanese, colse l’occasione per rilanciare subito in veste autorevole le sue convinzioni sulla necessità di compilare un vocabolario dell’uso fiorentino come base dell’unità linguistica; la relazione della sottocommissione fiorentina, presieduta da Raffaello Lambruschini, solo in apparenza si presentava concorde con le idee manzoniane, da cui in sostanza divergeva in modo inconciliabile. Capponi faceva parte della sezione fiorentina e ne condivideva i presupposti; così Tommaseo, che per non schierarsi pubblicamente su posizioni dissonanti dall’amico rassegnò pubblicamente le dimissioni. Ma la vicenda, con gli altri suoi protagonisti – Broglio, Bonghi, Giorgini, Fanfani, Lambruschini, Tigri… –, il dibattito sollevato e l’intenso carteggio relativo, ha ampiezza e implicazioni tali da non poter essere compresa nei confini e negli intenti del presente volume. Per intero vi è compreso invece lo scambio epistolare con l’Accademia della Crusca. Legato a occasioni istituzionali, con i diversi segretari che negli anni si succedono, non si configura in realtà come un dialogo. Dalla prima


xxiv    Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze

lettera di Giovan Battista Zannoni, conosciuto personalmente da Manzoni a Firenze nel 1827, segretario al tempo della nomina dello scrittore a socio corrispondente, conosciamo i particolari della votazione, eccezionalmente risultata unanime, l’11 dicembre 1827. Il tono dei ringraziamenti inviati da Manzoni è di registro sostenuto, quasi aulico; lo stesso linguaggio deferente e forbito caratterizza anche i semplici biglietti con cui si accusa ricevuta, volta volta, dei volumi degli Atti dell’Accademia, ad esempio, nel 1829, o in seguito dei primi fascicoli del nuovo Vocabolario. Manzoni rifiuta di contribuire alla vita dell’Accademia (e questo è in linea con l’abituale renitenza ad assumere in qualità di scrittore un qualsiasi ruolo pubblico): declina l’invito rivoltogli, il 25 luglio 1833, dal segretario Fruttuoso Becchi a scrivere l’elogio dello storico Carlo de’ Rosmini, cugino di Antonio Rosmini, a cui è succeduto tra i soci dell’Accademia, o ancora a trasmettere ad essa «un qualche lavoro relativo al patrio idioma, o al nostro Vocabolario». Ma, pur conscio delle profonde differenze di impostazione, rispondendo a Becchi (8 agosto 1833) non rinuncia a ribadire rispettosamente le proprie convinzioni linguistiche, quasi ad auspicare uno sviluppo in tal senso del lavoro lessicografico: parla del lavoro cui ha posto mano per dimostrare che non esiste «una lingua italiana diversa dalla toscana» (il mai compiuto trattato Della lingua italiana), e soprattutto afferma l’importanza risolutiva di un «compiuto vocabolario […] della vivente lingua toscana», opera che per Manzoni sarebbe naturale compito dell’Accademia della Crusca, che si apprestava a por mano ai lavori preparatori per la Quinta edizione del vocabolario: «Così possa un sì gran beneficio venir quanto prima da codesta Accademia, la quale, così per ingegni e per vario sapere, come per fama e per lo stesso suo nome, possiede insieme i mezzi per cui l’opera riesca degna del fine, e l’autorità che la faccia più prontamente e volonterosamente ricevere da tutti gl’italiani». La nuova edizione del vocabolario ha una gestazione lunga e travagliata (mai conclusa tra l’altro): il primo fascicolo dell’edizione esce nel settembre 1843 (il 13 ottobre Manzoni ringrazia il segretario Domenico Valeriani per l’invio); ma nel 1852 il tentativo si arena, dopo che in nove anni sono usciti solo 7 fascicoli, fino alla voce Affitto. La stampa riprende da capo, secondo criteri più moderni, nel 1863, con caute aperture alla terminologia scientifica e all’uso parlato, ma mantenendo salda la base letteraria trecentesca (il primo volume dell’opera è spedito il 21 marzo 1864 a Manzoni, che ne ringrazia il vicesegretario Brunone Bianchi). Negli anni della lunga elaborazione della quinta Crusca, Manzoni, ormai disingannato sulla possibilità di vedere anche solo in parte condivise le sue convinzioni, autonomamente tenta di dare all’Italia il vivo strumento linguistico unitario della cui importanza è più che mai persuaso, il vocabolario dell’uso fiorentino, prima lavorando di concerto con Capponi, poi mettendo a frutto l’insperata possibilità offertagli dalla Commissione governativa del ministro Broglio. Il carteggio con la Crusca si riduce ora a cortesi biglietti di ringraziamento, in risposta a lettere circolari e spedizioni di volumi per i soci corrispondenti, senza aggiunte e commenti di rilievo.


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