Mente e coscienza tra India e Cina

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Gli autori degli scritti che compaiono in questo volume affrontano, attraverso luoghi specifici della tradizione di pensiero indiana e in parte cinese (la tradizione upanisaadica, il Sa–mkhya e lo Yoga, il Buddhismo pa–li e Maha–ya–na, il Buddhismo cinese), il denso spessore filosofico inscritto nelle nozioni capitali di “mente” e “coscienza” (citta, manas, vijña–na), sia in relazione alla definizione del rapporto tra la coscienza, la conoscenza e la realtà, sia in relazione al problema della costituzione e della decostruzione dell’identità personale, sia in relazione alla determinazione della natura della mente, del valore delle sue rappresentazioni, dei suoi processi e dei suoi oggetti, sia riguardo la comprensione del nesso tra la dinamica funzionale del pensiero che struttura e possiede il mondo e la verità di un pensiero puro e luminoso che del primo rappresenta l’estinzione. Questi saggi ci consegnano dunque un orizzonte di senso in cui l’elaborazione e l’analisi dei concetti di “mente” e di “coscienza” tagliano trasversalmente differenti dimensioni dell’interrogazione filosofica, quella ontologica, quella epistemologica, quella soteriologica. La domanda circa la natura del pensiero rileva, nei luoghi che questi saggi attraversano, che la preoccupazione di una fondazione ontologica del reale declina, lasciando il posto a un problema epistemologico direttamente coordinato a uno scopo liberatorio, di affrancamento dalla invischiante e oscuramente vessante dinamica dell’esistenza nel mondo. Emanuela Magno è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Padova, è da anni studiosa del pensiero indiano, collabora con le cattedre di Estetica e di Sanscrito dell’Università di Padova ed è socia fondatrice e redattrice di Simplegadi, Rivista di Filosofia Interculturale. Tra le sue pubblicazioni: Na–ga–rjuna, Il Cammino di Mezzo, a cura e con il commento di E. Magno (Padova 2004); Sentieri di mezzo tra Occidente e Oriente, a cura di Emanuela Magno e Marcello Ghilardi (Milano 2006); Tra Grecia e India, il Logos e il Brahman, in G. Pasqualotto (a cura di), Per una Filosofia Interculturale (Milano 2008).

Mente e coscienza tra India e Cina   Emanuela Magno

religioni identità culture

Mente e coscienza tra India e Cina a cura di

Emanuela Magno

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euro 15,00 www.sefeditrice.it

Società

Editrice Fiorentina


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religioni identità culture La collana ‘Religioni, Identità, Culture’ costituisce uno spazio di riflessione scientifica dedicato ai fenomeni religiosi. Uno spazio aperto a materiali provenienti da diversi contesti geografici e da differenti periodi storici. Uno spazio in cui sono ospitati studi relativi ad aree distanti fra loro, a partire dagli ambiti asiatici fino a quelli sudamericani. Il suo obiettivo è quello di rendere pubblici i risultati delle più recenti ricerche di area, assieme alle nuove acquisizioni metodologiche, in maniera da illustrare, con sempre maggiore dettaglio, il reticolo relazionale che, ovunque, unisce fra loro le nozioni di ‘religione’, di ‘identità’ e di ‘cultura’.

consulenza scientifica di area Sergio Botta Piero Capelli Chiara Letizia Alessandro Saggioro Alessandro Vanoli Marco Ventura coordinamento di collana Federico Squarcini


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mente e coscienza tra india e cina a cura di Emanuela Magno

Società

Editrice Fiorentina


Volume pubblicato con un contributo del Dipartimento di Lingue e Letterature Anglo-Germaniche e Slave dell’Università degli Studi di Padova (fondi MIUR-PRIN)

© 2008 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn 978-88-6032-090-2 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata


Indice

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Introduzione

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Marcello Meli La coscienza di Yājñavalkya

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Antonio Rigopoulos La nozione di citta nello Yoga classico

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Giangiorgio Pasqualotto Il tema della mente in alcuni luoghi della tradizione buddhista

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Emanuela Magno Il pensiero e il risveglio … nelle MK di Nāgārjuna

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Stefano Zacchetti Fondamentalmente pura è la mente: la concezione del “pensiero luminoso” nelle fonti buddhiste cinesi del periodo arcaico

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Profilo degli Autori


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Introduzione

Mente e coscienza tra India e Cina è probabilmente un titolo ambizioso rispetto a un piccolo volume come questo, date la complessità del tema proposto e l’estensione storico-geografica e culturale a cui fa riferimento. Tuttavia riteniamo che esso rappresenti la cornice appropriata ad accogliere questa breve raccolta di saggi, che affrontano attraverso luoghi specifici della tradizione di pensiero indiana e in parte cinese (la tradizione upaniṣadica, il Sāṃkhya e lo Yoga, il Buddhismo pāli e Mahāyāna, il Buddhismo cinese) il denso spessore filosofico inscritto nelle nozioni capitali di “mente e coscienza”, sia in relazione alla definizione del rapporto tra la coscienza, la conoscenza e la realtà, sia in relazione al problema della costituzione e della decostruzione dell’identità personale, sia in relazione alla determinazione della natura della mente, del valore delle sue rappresentazioni, dei suoi processi e dei suoi oggetti, sia riguardo la comprensione del nesso tra la dinamica funzionale del pensiero che struttura e possiede il mondo e la verità di un pensiero puro e luminoso che del primo rappresenta l’estinzione. Il progetto generale in cui si inscrive il lavoro qui raccolto, che rappresenta altresì l’esito e l’approfondimento di una Giornata di Studi svoltasi presso l’Università degli Studi di Padova (Dipartimento di lingue e letterature anglo-germaniche e slave —Dipartimento di Filosofia), ha inteso sottoporre alla riflessione e al dialogo tra studiosi delle tradizioni di pensiero asiatiche, non solo la questione dell’analisi definitoria e di inquadramento storico-culturale dei termini “mente”, “co-


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scienza”, “conoscenza” (citta, manas, vijñāna), ma anche la domanda circa la potente concezione filosofica e religiosa che l’elaborazione concettuale Hindūista e Buddhista ha costruito attraverso tali nozioni. I saggi che seguono dunque sono sensibili ad almeno due chiavi di lettura. In primo luogo dalle diverse trattazioni sul tema in oggetto deriviamo un illuminante chiarimento concettuale relativo al significato dei termini “mente” e “coscienza” e alla loro funzione nei rispettivi contesti filosofico-culturali di appartenenza. In secondo luogo la concezione del “pensiero”, della “mente”, della “coscienza” e della “conoscenza”, indagati qui, lascia emergere il ruolo determinante che la funzione conoscitiva, sviluppata e articolata nei suoi più diversi e svariati aspetti e gradi di rapporto con il reale, assume all’interno di quelli che potremmo definire “sentieri per la salvezza”. La dimensione epistemologica assume una funzione di rilievo nella prospettiva di pensiero panindiana laddove il nesso che questa dimensione intrattiene con la preoccupazione soteriologica è indubbiamente centrale. Le vie per la salvezza si pongono come vie di conoscenza, e il processo di affrancamento dai lacci del divenire si configura come una progressiva eliminazione di un offuscamento congenito che impedisce la visione limpida, pura e chiara del reale. Le Upaniṣad antiche testimoniano la procedura speculativa che sostiene la ricerca di un principio unitario cui ricondurre la molteplicità della manifestazione, concepita come illusoria rappresentazione di una coscienza ancora completamente soggiogata dalle dinamiche saṃsāriche. Nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad riconosciamo lo stile argomentativo che procede nella determinazione di nessi tra micro e macro-cosmo nel tentativo di rintracciare la ragione ultima che muove la conoscenza alla ricerca del suo senso e della sua origine. Qui si realizza la nota identificazione tra l’assoluto brahman e l’ātman, principio coscienziale che al culmine dell’iter conoscitivo si sottrae alla dimensione dell’egoità e alla contingenza del divenire.


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Ne La coscienza di Yājñavalkya Marcello Meli ci consegna una lettura originale della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad. Attraverso l’esame dei luoghi in cui Yājñavalkya affronta il problema della definizione dell’oggetto della conoscenza, della modalità di considerarlo e delle cause che lo determinano emerge tutta la complessità del rapporto che intercorre tra la nozione di coscienza, le sue determinazioni e la sua condizione di possibilità, il suo substrato. L’attenzione cosciente (vijñāna), secondo Yājñavalkya , deve innanzitutto rivolgersi all’oggetto “in sé”, al coglimento della sua natura, dunque deve essere rivolta alle cause che lo condizionano e determinano, non ai fenomeni. Meli rileva come il discorso di Yājñavalkya proceda “dall’apparenza fenomenica alla realtà in senso epistemologico (di quello che cioè è dato sapere), non dagli attributi alla sostanza in senso ontologico”. La ricerca e l’individuazione di una causa ultima, il mahad bhūtaṃ, non viene infatti identificato con un principio ontologico determinante il reale, quanto piuttosto con lo stesso processo di coscienza che conduce alla individuazione della “causa ultima”. Qui dunque la “coscienza” pare darsi come “un processo individuale che definisce l’oggetto; di più, l’oggetto non è altro che la coscienza che se ne ha”. La speculazione sull’ātman, rileva Meli, assume consistenza non tanto in questo primo momento di identificazione con il mahad bhūtaṃ, causa ultima del reale, che ricorre solo in ultima istanza, ma nel momento in cui Yājñavalkya si rivolge al re Janaka per tentarne una definizione coerente. Il problema della definizione del principio irriducibile di ciò che si manifesta viene ricondotto, di nuovo, attraverso l’esame della nozione del “veggente non veduto” e dell’articolazione del “neti neti”, alla dimensione della processualità della conoscenza e sottratto alla determinazione della “sostanza ātman”. Dire che le cose sono, in ultima analisi, ātman, sottolinea l’autore, non significa dire qualcosa dell’ātman. Dunque Yājñavalkya nel tentativo di fornire una coerente e articolata esposizione di “ciò che deve essere conosciuto”, di ciò che ogni cosa è, e di ciò che rende possibile la conoscenza


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di ogni cosa, sembra restare costantemente al di qua di ogni determinazione definitoria che strutturi un’ontologia, che individui una sostanza con cui dire l’ātman, pienamente consapevole del fatto che il principio che tutto sostiene non può essere definito dal processo conoscitivo se non riprecipitando nella dimensione del mito e della tradizione, e che la sola modalità di speculazione su di esso deve avanzare per via di negazione. In questa tendenza che mette in primo piano la prospettiva epistemologica l’autore rintraccia infine un’analogia con il pensiero Buddhista, che attraverso l’opera di decostruzione analitica della nozione di ātman ha parimenti rilevato l’impossibilità per il linguaggio e per il pensiero di sostenere coerentemente la consistenza ontologica di ogni principio fondante la realtà. Così Yājñavalkya, che pure ammette che l’ ātman sia, e sia ragione di ogni cosa, sottrae allo svolgimento discorsivo la possibilità di stabilire il “che cosa” esso sia. Antonio Rigopoulos (La nozione di citta nello Yoga classico) affronta la nozione di citta nello yoga classico, definito, sulla scorta di una tradizione di studi assodata, la versione “pratica”, del Sāṃkhya, sistema filosofico brāhmaṇico (darśana) realista e radicalmente dualista. Il dualismo ontologico presentato dal Sāṃkhya e dallo Yoga riconosce nella Prakṛti e nel Puruṣa i principi irriducibili del reale, la materialità cieca e lo Spirito puro. Citta qui nomina il complesso mentale che attraverso il manas (la mente quale organo —sostrato della percezione), l’antaḥkaraṇa (il senso dell’io che determina il rapporto di appropriazione con l’oggetto di conoscenza) e la buddhi (l’intelletto) svolge il pensiero della realtà. Il pensiero e le facoltà intellettuali sono tuttavia Prakṛti, dunque fondamentalmente funzioni fisiologiche, restando il Puruṣa, nella sua trascendente luminosità e purezza, estraneo alle determinazioni processuali delle condizioni cognitive (cittavṛtti) e alla consapevolezza dell’intelletto. Il Puruṣa, coscienza pura e indifferente ai moti di citta, è impassibile e luminosa presenza, di cui citta può solo riflettere l’emanazione luminosa. Dunque solo impropriamente citta può dirsi coscienza, essendo la coscienza la fondamentale natura del Puruṣa


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totalmente altro. Sta proprio nel non cogliere la radicale e irriducibile alterità del Puruṣa rispetto alla Prakṛti, dunque nel concepire una loro mescolanza e interazione, la radice di quell’offuscamento, di quella nescienza che incatena al divenire. Il problema soteriologico, anche qui, è inerentemente connesso alla dimensione epistemologica. Il processo di emancipazione e affrancamento dal saṃsāra, che tuttavia è possibile solo a partire dall’intuizione messa in atto dalla più elevata funzionalità di citta, la buddhi (intelletto), si realizza attraverso un complesso e articolato iter yogico, in cui il raccoglimento meditativo (samādhi) arresta progressivamente le condizioni cognitive (cittavṛtti) dissolvendo la mente. Si tratta dunque di una graduale e irreversibile sottrazione dell’attività sensoriale e intellettuale, di una estinzione (nirodha) del dinamismo mentale, articolazione della Prakṛti, che in ultima istanza, tramite le sue funzioni cognitive, può solo rappresentare negativamente ciò che essa non è, il radicalmente altro, il Puruṣa. Perciò, come suggestivamente ricorda l’autore, si può dire che “è per il Puruṣa, impassibile spettatore, che la Prakṛti rappresenta la sua danza”. Dunque la più alta e sottile attività intellettuale che lo yogin svolge in sé non cessa di essere funzionalità materiale (Prakṛti), fondamentale per l’intuizione ultima della realtà delle cose (realtà, si diceva, dualista e realista), ma radicalmente estranea alla pura coscienza che è il Puruṣa. L’essere della pura coscienza si dà luminosamente quando le attività di citta cessano, dissolte. Il saggio di Giangiorgio Pasqualotto (Il tema della mente in alcuni luoghi della tradizione buddhista) esamina le nozioni di citta, manas, vijñāna nel Buddhismo antico e Mahāyāna. Il Buddhismo, come afferma l’autore, potrebbe essere detto a ragione una “religione della mente”. È a partire dalla mente, dal riconoscimento delle tensioni e delle articolazioni della sua attività, dalla sua disciplina, dalla sua osservazione e dalla sua purificazione che si realizza la liberazione. La liberazione viene descritta nei più diversi orientamenti della dottrina come l’estinzione della processualità del pensiero.


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E la processualità del pensiero come stato di fondamentale offuscamento. Com’è noto la nescienza, rappresenta nell’analisi buddhista la radice primaria della sofferenza cui l’esistenza è condannata nel ciclo saṃsārico. Il problema fondamentale dunque, di nuovo problema eminentemente gnoseologico, consiste nel realizzare il passaggio da una mente offuscata a una mente risvegliata. Ciò che è interessante notare qui è che la potente riflessione critica cui viene sottoposta l’attività mentale è direttamente funzionale alla decostruzione del senso dell’Io, vale a dire di quella percezione indubitabile di consistenza che trova il suo più grande alimento nelle forme di attaccamento o adesione agli stati mentali. L’estinzione del senso dell’io non può che passare attraverso la presa di coscienza dell’inconsistenza ontologica e della natura fluttuante e mobile dei processi mentali. Si comprende dunque la capitale importanza che la pratica meditativa (sati in pāli) assume nel percorso di “dis-inquinamento” della mente. Si tratta di una pratica che coinvolge integralmente la dimensione corporea e che procede con attenzione analitica al riconoscimento della natura impermanente e insostanziale degli stati mentali. Nella prima parte del saggio, dedicata alla definizione della natura della mente nel Buddhismo antico, Pasqualotto esamina le accezioni di manas (il pensiero che coglie i dati del mondo esterno e li organizza, che dubita e che prende decisioni); di vijñāna (la coscienza dei processi interni della soggettività) e di citta (equivalente delle due precedenti, ma con la particolare facoltà di fornire esistenza ai fenomeni del mondo) e la loro relazione con i fattori determinanti la costituzione dell’esistenza. Attraverso l’illustrazione della concatenazione causale del paṭiccasamuppāda (co-originazione dipendente dei fattori dell’esistenza) viene mostrato dall’autore che il complesso processo di condizionamenti originanti il flusso esistenziale, a partire dall’offuscamento originario della mente, è destinato a reiterare se stesso ininterrottamente fino a che la mente resti in balia del desiderio e dell’ansia di appropriazione, e che a spezzare il giogo può intervenire solo un percorso di decondizionamento basato sulla decontami-


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nazione della mente rispetto alle sue attività e alle sue tensioni. Nella parte del saggio dedicata al Buddhismo Mahāyāna, laddove si esaminano gli orientamenti di scuola che in maniera più significativa hanno pensato il problema della mente (in particolare lo Yogācāra e le scuole buddhiste cinesi Tientai e Chan), l’accento è posto su una problematicità intrinseca che il processo mentale di conoscenza, risveglio, distacco, trae con sé, vale a dire il problema dell’attaccamento residuo all’“idea di liberazione della mente”. Poiché è l’attività della mente che determina la possibilità di “dis-inquinare” la mente, e poiché tale dialettica —lungi dall’essere un’articolazione meramente speculativo-discorsiva del problema— incarna la tensione tra la processualità del pensiero (anche il pensiero che chiarisce ed estingue l’attaccamento) e quella visione ultima che è detta “assenza di pensiero”, o “sola mente”, o “mente pura e luminosa”, pacificata, priva di attività e determinazioni, ebbene qui si cela l’estremo rischio di attaccamento allo stato di somma beatitudine. Qui resiste l’estrema tensione dualistica determinata dall’ansia di appropriazione. La mente che si rappresenta il mondo, i cui stati e le cui funzioni significano il “possedere” il mondo, realizza e riconosce la sua vera natura, quando ogni separazione, ogni distinzione, io-altro, relativo-assoluto, pensiero-realtà, mente luminosa-mente offuscata, si sciolgono nell’estinzione. Il tema del rapporto dialettico, “irrisolvibile” sul piano logico-argomentativo, tra diffusione concettuale (prapañca) [o pensiero discorsivo] ed emersione della “chiara visione” della realtà, del risveglio, costituisce motivo di riflessione di un mio breve saggio (Il pensiero e il risveglio) che tenta di passare attraverso quei luoghi del pensiero di Nāgārjuna (come espresso nelle Madhyamakakārikā) in cui più criticamente si sperimenta lo iato tra la più elevata e raffinata torsione del pensiero speculativo che tenta di togliere da sé gli ultimi residui di una concettualità appropriativa e l’intuizione ultima e liberatrice, che, infine, vede non vedendo, pensa non più pensando. Il “pensiero luminoso”, espressione che compare già nel canone pāli, oltre che nella letteratura della Prajñāparamitā,


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è il tema affrontato da Stefano Zacchetti attraverso l’esame delle prime fonti cinesi del II-III secolo da cui emerge tale concezione. La ricostruzione della ricezione e rielaborazione del concetto consente all’autore di mettere in luce da una parte il momento creativo di elaborazione linguistica legato alle prime traduzioni dei testi buddhisti in cinese, dall’altra, attraverso l’analisi dei testi esegetici, di riconoscere un ulteriore momento di riconfigurazione concettuale delle dottrine originali nel nuovo contesto culturale. La concezione della mente che attecchisce e si ri-articola con l’assimilazione delle dottrine buddhiste in Cina, dunque, sulla scia della tradizione Yogācāra e del pensiero del Tathāgatagarbha (che sostengono la intrinseca purezza della coscienza e la natura accidentale e sovrapposta dell’attività mentale quale contaminazione di una sua originarietà incontaminata, nonché la presenza in ogni essere di un principio spirituale che testimonia la potenzialità immanente del risveglio in ogni realtà coscienziale) ci consegna una nozione che sottolinea la natura fondamentalmente pura, quieta e trasparente della mente, intesa come “unica mente”, dispiegamento immanente della realtà ultima nella sua incontaminata sicceità; che distingue tra la mente come facoltà (xin) e la mente come insieme delle sue funzioni (yi); che assimila queste ultime, dunque le attività mentali e la processualità del pensiero discorsivo, all’insieme di contaminazioni estrinseche e accidentali che maculano della mente-facoltà la luminosità originaria. Il percorso seguito dall’autore, a partire dalla individuazione dei principali termini relativi al concetto di “mente” (vijñāna, citta, e manas) in alcuni testi risalenti ai due più importanti traduttori del periodo degli Han Orientali, An Shigao e Lokakṣema (II secolo d.C.), si concentra in particolare sui luoghi testuali (dalle traduzioni dell’Aṣṭasāhasrikā Prajñāparamitā e del Vimalakīrtinirdeśa) da cui emergono le più antiche attestazioni della nozione di “mente/pensiero luminoso” nelle fonti cinesi, per giungere a rilevare l’articolazione di significati aggiuntivi che questa espressione


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trae con sé nel Qi xin lun (VI secolo), testo di fondamentale importanza per l’elaborazione delle dottrine Yogācāra e Tathāgatagarbha e per l’influenza che tale sintesi eserciterà nell’evoluzione del Buddhismo cinese. Attraverso suddetto percorso viene progressivamente messa in luce la distinzione che l’elaborazione concettuale cinese opera tra xin 心, mente intesa come facoltà di per sé quieta e simile ad uno specchio, coincidente con la realtà suprema (dharmakāya, tathatā), e la sua attività (yi 意) contaminante e accidentale, estrinseca perturbazione della pacificata sicceità del pensiero. Zacchetti rileva come questa differenziazione sia riconducibile alle dicotomie binarie del tipo ti 體 / yong 用 (sostanza/funzione) ecc., che svolgono un ruolo fondamentale nel pensiero cinese, attestando dunque l’elaborazione di una concezione filosofica che assimilando risponde contemporaneamente ad esigenze di riflessione ed elaborazione originali ed autonome. I saggi qui raccolti ci consegnano dunque un orizzonte di senso in cui l’elaborazione e l’analisi dei concetti di “mente” e di “coscienza” tagliano trasversalmente differenti dimensioni dell’interrogazione filosofica, quella ontologica, quella epistemologica, quella soteriologica. La domanda circa la natura del pensiero rileva, nei luoghi che questi saggi attraversano, che la preoccupazione di una fondazione ontologica del reale declina, lasciando il posto a un problema epistemologico direttamente coordinato a uno scopo liberatorio, di affrancamento dalla invischiante e oscuramente vessante dinamica dell’esistenza nel mondo. Che consistenza hanno, qui, la mente, il pensiero, la coscienza? Laddove questi interrogativi ricevono risposta, la risposta non sembra di diritto appartenere alla sfera della rappresentazione concettuale che dovrebbe esprimerla. Mente, pensiero, coscienza si configurano prevalentemente come funzioni, non come entità sostanziali, principi metafisici, cause prime, in grado di fondare consistentemente il soggetto dell’esperienza, e con esso la realtà che gli porgono. Piuttosto processi di assorbimento, controllo, coordina-


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mento, comprensione, analisi, attenzione e disciplinamento, di sottrazione di ostacoli e contaminazioni. Processi di trasformazione dell’esperienza, dall’offuscamento alla contemplazione luminosa; processi di costruzione della conoscenza attraverso procedure decostruttive, che in ultima istanza, riconsegnano al silenzio o a una pura luminosità coscienziale la visione pacificata della verità che libera e salva. La dimensione ontologica, vale a dire la soluzione alla domanda sull’essere, pare trovare unica risposta al compimento di un percorso conoscitivo che l’articolata funzionalità del pensiero e della coscienza dispiegano ai fini della realizzazione della salvezza, laddove però pare non abbia più senso che quella domanda sia posta. Ringrazio Marcello Meli e Giangiorgio Pasqualotto per aver condiviso e sostenuto concretamente l’idea che anima il progetto di questo lavoro collettivo. E ringrazio Federico Squarcini, senza il cui aiuto e consiglio questo libro non sarebbe stato realizzato. Emanuela Magno Padova, 27 ottobre 2008


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Marcello Meli La coscienza di Yājñavalkya

1. L’insegnamento di Yājñavalkya a Maitreyī è attestato in due luoghi della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (BĀU II 4, 1-13 e IV 5, 1-15)1 e, trattandosi di una comunicazione privata a una delle due mogli, non è rivolto a un discepolo o a un uditorio di teologi, e nemmeno si colloca all’interno di qualcuna delle dispute sapienziali (brahmodya) che Yājñavalkya si trova spesso costretto ad affrontare per garantirsi le ricche prebende sacerdotali. Si può perciò ragionevolmente supporre che costituisca una sintesi del pensiero di Yājñavalkya su un argomento decisivo della speculazione indiana. In BĀU II 4, 1-13 Yājñavalkya inizia (BĀU II 4, 5) con una considerazione che è compendiata in una serie di proposizioni sul modello dalla prima: na vā are patyuḥ kāmāya patiḥ priyo bhavatyātmanas tu kāmāya patiḥ priyo

L’affermazione è analizzabile in due proposizioni contrarie (1a) na vā are patyuḥ kāmāya patiḥ priyo e (1b) bhavatyātmanas tu kāmāya patiḥ priyo. In (1a) na patiḥ priyo è una proposizione nominale in cui pati “marito” riceve il predicato priya “caro”, “prediletto”, mentre nella locuzione patyuḥ kāmāya l’ultimo termine è al dativo e viene solita1 Per il testo sanscrito della BᾹU si veda Shri S. Subrahmanya Shastri, The Bṛhadaranyakopanishad with the bhashya of Shri Shankaraacharya, Mahesh Research Institute, Varanasi 1986, pp. 189-202 (dalla stessa opera, in 3 volumi, sono tratte le altre citazioni dalle Upaniṣad antiche presenti in questo saggio); cfr. anche G.W. Pimplapure, Kāṇva Śatapatha. A Critical Edition, Maharshi Sandipani Rashtriya Veda Vidya Pratishthan, Ujjain 20052, pp. 963-965.


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