Mi dole il groppone

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Giovanni Matulli

Mi dole il groppone Occasioni per sorridere con il fisioterapista Prefazione di Carlo Lapucci



Giovanni Matulli

“Mi dole il groppone” Occasioni per sorridere con il fisioterapista prefazione di Carlo Lapucci

Società

Editrice Fiorentina


in collaborazione con

Centro Riabilitazione Sestese www.c-r-s.org

© 2018 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-473-3 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Immagine di copertina © Dennis Cox - Dreamstime.com Copertina a cura di Studio Grafico Norfini, Firenze


A Francesca, la parte migliore di me, a Ligimol, mia figlia, a Viola, mia amica



Prefazione

Forse l’umanità è più grande del mondo e navigare il mare delle esistenze umane, conoscere le opere e i pensieri della gente, può essere un viaggio più ammaliante e imprevedibile di un’impresa tra le stelle. È quanto viene in mente dopo la lettura, risfogliando e considerando queste pagine di Giovanni Matulli che ricordo un tempo ragazzo simpatico e inquieto, vagamente insofferente delle proposte esistenziali del suo tempo. Nessuno poteva immaginare che avrebbe trovato la sua strada così vicina e in modo così sorprendente, dedicandosi alla fisioterapia nella sua città e, attraverso tale attività, condurre la sua navigazione e le sue scoperte in un mondo sorprendente che si apre dietro le porte di appartamenti, abitati per lo più da persone anziane, collocate dalla vita ai bordi della strada, apparentemente senza storia, circondate dalla monotonia e dalla ripetitività del sopravvivere quotidiano, tutti motivi che li allontanano dal grande mercato dell’esistenza collettiva. Matulli invece dietro quelle porte ha scoperto un’altra vita, un’altra umanità insospettata. Visitando le case quasi dimenticate ha trovato certo situazioni d’infelicità, di delusione, di solitudine, ma vissute da esseri che, risorti dalle personali catastrofi, hanno trovato o cercano faticosamente ed eroicamente un equilibrio precario che, sia pure spennati e malconci, possa conservarli ancora un po’ per unire al coro della vita la loro voce forse un po’ stonata, ma decisa. Avvicinate e sorprese nella loro au7


tenticità queste persone si rivelano tutt’altro che vinte o rassegnate, ma gente ancora ricca della propria umanità, dell’orgoglio giovanile, del piglio popolano, dell’ironia invincibile, della forza d’animo di cui spesso difettano oggi le nuove generazioni. È la nuova umanità prodotta dalla metamorfosi moderna: la dissoluzione della famiglia patriarcale in quella monocellulare ha creato questo limbo isolato di anziani che, con eufemismo un po’ ipocrita, si chiama terza età. È una magia entrare in questa vita remota, ignorata, comunemente ritenuta tediosa, insignificante, muffita e trovare invece un mondo di gente vivace, per nulla rassegnata al destino, spesso non benevolo, fatto di dispiaceri e d’acciacchi, decisa a vivere in piedi gli ultimi anni, ricca d’una vita d’esperienze e d’una dignità ereditata da antenati sconosciuti e con un patrimonio segreto di memorie, da cui sgorgano parole efficaci, espressioni icastiche, immagini, metafore coniate sul momento da una creatività e da una fantasia in continua attività. Giovanni ha trovato una folla d’amici: con discrezione e ironia scivola come un pesce in questo bagno d’affetto di cui è circondato e che ricambia, avviando i caduti a rimuovere i primi passi con tremolante fiducia ed eroismo. Osserva e appunta entrando nei sacrari da tutti fuggiti, ma anche a molti interdetti, e coglie la vita nella sua spontaneità. Si aggira come un fantasma in queste stanze dove il tempo pare essersi fermato, è una presenza inavvertita poiché entra a far parte di quel mondo senza turbarlo: la vita intorno a lui continua come se non ci fosse un estraneo, ma uno che c’è sempre stato. Lui parla come loro, sa pensare come loro, è uno di loro, stupito dalla riduzione dell’attuale nostra realtà congestionata, arruffata, alla loro misura, alle loro categorie: gli anglicismi sono decodificati senza troppo sottilizzare sui significati in una semplicità 8


di concetti e di termini della vita di sempre, mentre il linguaggio televisivo viene tradotto in sestese stretto. Tutto questo non per vezzo, né per orgoglio, ma come operazione spontanea di gente che vuol restare quello che è sempre stata e immagina giovanili allenamenti di calcio come imprese nella terra dei monsoni. Due brillanti signore molto anziane, la Rina e la Carla, per la giornata ventosa, sono preoccupate per un nipote che nel pomeriggio deve andare ad allenarsi in una squadretta di calcio e si tormentano, mentre Giovanni pratica sulla Rina la sua terapia. Tutto in quel mondo diventa alterco, si sussurra ad alta voce, senza mezzi termini, dicendo le cose come stanno, come vengono alla bocca e si litiga dal bene che ci si vuole. Dopo un lungo battibecco, la Rina, sotto le mani del fisioterapista, dice: «Carla, telefona alla Simona, senti se la intende portare il bambino a i’ pallone…». La Carla si alza strapazzando rumorosamente la sedia sul pavimento e dopo pochi secondi si presenta sulla porta di camera, alle mie spalle, infuriata: «O icché c’è stasera?! Ma tussei fissata, tussei! Ora t’è venuta la fittonata del pallone! T’ho detto: non lo so! Che ne so io? Ma penso di no, con questo vento e vola via la palla, altro che allenamenti; e vola via anche lui se unn’i sta attento… anche se gli è massiccio. Ma non lo so. Ora che ti pare che telefoni a somà per sapere se la lo porta a i’ calcio: se la mi dà di grulla ell’ha ragione, ell’ha. Piuttosto te pensa a fare la ginnastica, altro che chiacchiere». E ritorna verso la sua macchina da cucire.

Goldoni non avrebbe saputo far meglio e appare subito l’umanità con cui viene avvicinato dall’autore questo minuscolo universo. Prima di tutto la lingua, che è il sestese. Coloro che ancora lo parlano lo conservano come un lascito prezioso, ci tengono e non sono disposti a rinunciarci. 9


Sono abituato a leggere testi in dialetto, in vernacolo, parlate delle varie zone della Toscana, ma una lingua così spontanea, vera, per nulla ostentata o artificiosa, vissuta nel contesto e nelle proprie architetture espressive, capita raramente d’incontrarla. Questo pregio, oltre che dal talento naturale dell’autore, deriva dal fatto che tutti i testi, a quanto ci viene assicurato, sono trascritti pressoché immediatamente e sul campo, per cui la parola vernacola, o stravolta, s’incastona nel giro della frase senza perdere la collocazione datale di chi l’ha usata. Mi pare un altro merito il fatto che Giovanni non si sia posto problemi teorici per quanto riguarda la trascrizione fonetica dei vari termini, cosa che spesso porta a creare subito un distacco tra la narrazione e la parola, con un qualcosa d’artificioso che si frappone tra il testo e il lettore, fastidio da cui frequentemente non va esente neppure il teatro vernacolo. Qui l’autore ha scelto il mezzo più semplice, una trascrizione psicologica, che è risultata anche il più efficace: trascrivere le parole così come le sente, nei suoni percepiti dall’orecchio come la voce li pronunzia. Anche ad essere pignoli non gli si può dar torto: somà (sua mamma) si pronuncia come una sola parola, e così è scritta; un’i sta (egli non sta) è fedelissimo poiché là dove si trova l’apostrofo, nel parlato non c’è una “enne” completa (unni), ma una mezza “enne” sulla quale la voce scivola. Vullo (voi lo), tussei (tu sei), unnicosa (ogni cosa) sono intese come parole sole, e così via. Il fatto è che, avendo insegnato due anni a Sesto, ne ho ritrovato fedelmente trascritta la parlata e anche lo spirito del luogo. Ricordo che una mattina, assistendo a un tema in classe, sentii una voce sommessa chiedere al compagno di banco: «Senti, come si dice sèramo, senza di’ sèramo?» 10


La domanda lasciava intendere che il giovane sapeva che sèramo era errato, ma non ricordava eravamo. Tuttavia l’impostazione dell’interrogativa mostrava che la sua convinzione fosse che era ben detto sèramo, anche se, per esigenze scolastiche, bisognava scrivere eravamo. Così possiamo cogliere anche un frutto fresco fuori stagione, poiché la mareggiata dei media ormai ha quasi travolto questi patrimoni locali, di cui forse un giorno ci dovremo ricordare. Giovanni ha salvato almeno il sapore di questa loquela nel ricordo dello zio Varo: «Lui, sestese doc, lo conosceva in ogni minima sfaccettatura, sapeva benissimo coniugare i verbi al passato (andonno, portonno, compronno, ecc., ma anche feciano, fussi, ecc.)». Più originale ancora è il lessico: parole adattate, aggiustate, storte, rigirate assai divertenti ma, guardando bene, rivissute facendole diventare espressive da logore, al punto che si stampano nella mente: difficoltoso di schiena, la spalla mi dolica un monte, e le frasi: se si chiamassino le pompe funebre un la vogliono nemmeno loro; speriamo la vinchi; e la si sente male… l’è distesa sui’letto, la pare esposta. Gli apax si sprecano, volano. C’è un capitolo dedicato a una discussione filologica tra due maestre di questa lingua, la signora Anna e la figlia, sul termine bozzanino, dal significato misterioso: la parola non si trova registrata neppure nel Dizionario Battaglia (21 volumi di oltre tre chili ciascuno, più indici e supplementi), eppure mediante le parole della signora Anna, pur sotto la terapia, trova la sua esplicazione, la definizione e i sinonimi. Forse, continuando i massaggi, si sarebbe arrivati fino all’etimologia. Protagonista di questo atollo della senilità è la donna: vitale, irriducibile, dal passo incerto e dalla voce tremolante, la memoria ballerina, ma senza dubbi sul continuare a vivere ad ogni costo. Un po’ ritirate e nascoste nei 11


gusci della loro vecchiaia, queste nonne lasciano trasparire dalle parole decise e taglienti la fierezza popolana delle giovani toscane della narrativa d’un tempo, spavalde, senza peli sulla lingua, l’occhiata balenante, l’incedere sicuro, fiere d’aver costruito una famiglia anche se il tempo l’ha sfogliata come una rosa. Ora sono lungo la sponda del torrente come ciuffi d’erba lasciati dalla piena, ma ancora vitali, certo con molti ricordi, ma poca malinconia. Gli uomini entrano anche loro sulla scena con onore, hanno la loro parte, ma con meno brio, meno verve, non tengono il passo e non le raggiungono quasi mai, anche perché le protagoniste, silenziose, ma prepotenti, descritte con brevi tratti sicuri nel corso della narrazione, sono le case, regno incontrastato delle donne che lavorano ancora agucchiando, nidi di vita essenziali come le memorie. Gli appartamenti hanno infissi vaghi, dubitanti, ventosi, arredi elementari, antichi, riaggiustati, consunti, armadi sui quali nascono i funghi, non muffe: dei bei funghi forse anche mangiabili, dal momento che il legno di coltura è buono, forte, massiccio. Invecchiate con gli abitanti nelle vicende familiari, testimoni negli anni di tutte le gioie e di tutti i dolori, le suppellettili sembrano sorridere anche loro con Giovanni dei battibecchi dei padroni. Anche la globalizzazione comunque entra prepotente tra quelle mura e quei cimeli acquistati ai tempi delle nozze, ma viene macinata dalla tremenda filosofia sestese e ne esce spennacchiata, incatenata nei giudizi e nelle categorie collaudate dall’esperienza, poiché tutto viene ridotto alla misura di quell’ordine di pensiero e ribattezzato col giusto nome. La memoria rigida e quella volatile sono sostituite da rigidissime lavagne a pennarelli dove si scrive il poco che serve alla vita quotidiana; il telefono è ancora attaccato al muro e così non si perde. 12


Bisogna esser grati a Giovanni, quello della gennastica, per la scoperta di questo mondo che c’era: era lì, ma non si vedeva perché insospettato. I numerosi, recenti film popolareggianti lo hanno appena sfiorato, le raccolte aneddotiche sono rimaste sul convenzionale: il vecchio appariva un vinto, escluso, penoso, lamentoso. Qui, anzi la lamentela si fa per rito, ma non piace: è la condizione sparagnina… non si rammalicare mai, non si lamentare mai. Si tratta d’un mondo fluido, imprecisato, che è qui e là, dove si discute seriamente e si decide che gni se ne presenta è espressione più consona e corretta nella frase interrogativa, mentre si gne ne presenta è più confacente nella frase affermativa, asseverativa. Basilio Puoti si rianimerà nelle sue ceneri. È il luogo di sordi che urlano amorosamente, dove, come s’impara, si può anche sparare, dove i giorni si scrivono sulle lavagne a pennarello così: Ora 11 mercoledì viene Giovanni 16 giorno. E non se ne perde uno. Carlo Lapucci

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INTRODUZIONE

Sono nato a Firenze ma sono sestese. Da bambino abitavo con i miei genitori nel Viale Redi, poco distante dalla casa dei nonni materni. Ci siamo trasferiti a Sesto quando avevo 5 anni, nel 1975; già in quegli anni il traffico aumentava, il rumore del viale disturbava sempre di più specialmente di notte, anche se io ne conservo scarsi ricordi, e allora decisero di vendere le due case, quella dei nonni e la nostra, e di trasferirsi in una casa unica, a Sesto Fiorentino, comune limitrofo in cui era nato e abitava lo zio Varo, zio della mia mamma, sestese autentico, ceramista di professione. Già, lo zio Varo. I miei genitori lavoravano entrambi e quindi sono cresciuto passando diverse ore del pomeriggio, dopo la scuola, con i nonni materni, nonno Bruno e nonna Clara, e la sorella della nonna, zia Nelly, e suo marito, zio Varo. Sicuramente devo allo zio Varo l’interesse per il dialetto sestese: lui, sestese doc, lo conosceva in ogni minima sfaccettatura, sapeva coniugare benissimo i verbi al passato (“andonno, portonno, compronno, ecc…, ma anche feciano, fussi, seramo, ecc.”), le “girate in automobile”, prima la Uno poi la Punto, rigorosamente bianca, il sabato ci portavano nei vari quartieri e zone di Sesto, che lui conosceva per filo e per segno e che ci illustrava nei minimi particolari: il Canto, il Casato, Salimbosco, la Coculia, Val di Rose, Panicaglia, solo per citarne alcuni. Dopo l’Università, il diploma di Laurea in Terapista della Riabilitazione, nel 1994, ho fondato insieme a Luigi, 14


socio e amico, il Centro di Riabilitazione Sestese, struttura ambulatoriale privata in cui trattiamo tutte le problematiche relative alla fisioterapia e alla riabilitazione, con una mia particolare predilezione per i pazienti in età geriatrica. Penso che questa professione, come altre ma anche più di altre, forse come tutte le professioni in ambito sanitario, vada fatta con il cuore, con una grande passione, disponendo di conoscenze e studi, ma soprattutto cuore, impegno, presenza, per entrare in relazione amichevole con ogni singolo paziente. Per ottenere qualsiasi beneficio fisico e motorio, ma anche morale e psicologico, cerco sempre di entrare in relazione con il paziente. Penso di non aver mai trattato un solo paziente in maniera distaccata, pensando ad altro, con la testa altrove. Non solo, ma anche per queste ragioni, nel 2007 ho conseguito la Laurea in Scienze e Tecniche di Psicologia Generale e Sperimentale, presso l’Università degli Studi di Firenze. Il prof. Antonini, parlando della geriatria, la definiva “l’età dei capolavori”; nella mia esperienza professionale, dai pazienti di età più avanzata, ho tratto spesso una lezione di serenità e qualche occasione per sorridere. Ho così iniziato a scrivere gli “incontri” più singolari con l’intento e la volontà di mantenerne il ricordo, con l’obiettivo di non perdere espressioni dialettali ormai tipiche della generazione precedente alla mia o anche di quella ancora precedente, espressioni, verbi, modi di dire, tipici dei nostri nonni, e come tali destinati a diventare sempre più rari e meno usati, fino quasi a scomparire. Alcuni “incontri” descrivono “scenette” di vita quotidiana, tutte rigorosamente autentiche e vissute da me in prima persona, scenette non particolari nel contenuto ma 15


che contengono espressioni dialettali, verbi e parole tipiche di Sesto Fiorentino. Altri “incontri”, invece, non contengono espressioni dialettali ma descrivono situazioni, scenette, dialoghi, veramente singolari, quasi unici direi. Trascrivo alcuni di questi “incontri”, con interlocutori più o meno anziani, tutti rigorosamente autentici pur se, per comprensibili motivi, ne ho modificato i nomi. Gli incontri vanno dal 1994 al 2017, rappresentando quasi i primi 25 anni di attività del Centro di Riabilitazione Sestese. Alcuni di questi pazienti non ci sono più, e questo rappresenta anche un modo per ricordarli, altri periodicamente li incontro o addirittura hanno nuovamente e ancora bisogno delle mie cure e, conoscendo i personaggi, non mancheranno nuove occasioni di incontri da trascrivere, di altri ho perso le tracce ma il nostro incontro meritava di essere trascritto. Un grazie sentito, personale, ad ognuno. Di cuore. Giovanni

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NOMI DIVERSI, STESSO AGGEGGIO: IL BOZZANINO

Un piovoso martedì pomeriggio si presenta al mio studio la signora Anna, brillante ottantenne, che circa un mese e mezzo prima si è fratturata la testa dell’omero, l’osso del braccio, subito sotto la spalla sinistra. Come sempre anche questa volta è accompagnata dalla figlia, una cinquantenne che durante la seduta di riabilitazione della mamma sta sulla sedia tra la scrivania e il lettino e chiacchiera in continuazione, praticamente senza sosta, di ogni argomento, mentre la mamma soffre e si contorce mentre le mobilizzo la spalla. Questo martedì la mamma, in un autentico fiorentinosestese, mi chiede: «Ma in dò la sta lei? Insomma te, via... Voi… Te e la tu’ donna, indò vù state ora?» Mentre le alzo il braccio sinistro, cercando di recuperare il movimento che per ora le procura abbastanza dolore, rispondo: «Abitiamo a Malmantile». E subito è pronta la seconda domanda: «Che è vostra la casa?» Le dico che non è nostra, che siamo in affitto nella casa attuale da circa due anni e che proprio negli ultimi mesi stiamo cercando con sempre maggiore insistenza una casa da acquistare. La figlia entra nel discorso: «Ma questa come è?» Descrivo brevemente la casa, dico ad entrambe che si 17


trova in campagna, in un bellissimo contesto, al piano superiore ha due camere e due bagni e al piano terra cucina, ampia sala e un bagnetto di servizio nel sottoscala, una piccola terrazza e attraverso delle scale esterne si raggiunge un giardino condominiale in cui parcheggiamo le nostre auto. Mentre la signora si lamenta per le rotazioni dell’omero sinistro aggiungo che, forse proprio perché stiamo cercando un’altra abitazione, ci stiamo sempre più rendendo conto anche dei difetti dell’attuale casa. «Il difetto più grande è che non ha un ripostiglio, né una soffitta o una cantina, e quindi abbiamo tutta la roba che si usa meno stivata e nascosta negli angoli più impensabili ma anche scomodi». La signora appare stanca e dolorante quindi decidiamo di fare una piccola pausa, ma subito ricominciano le domande: «A parte il ripostiglio, che l’è un bel problema, ma fuori, in terrazza o giù in giardino, un c’è nemmeno un bozzanino?» Sgrano gli occhi, evidentemente non ho la minima idea di cosa possa essere questo misterioso oggetto. E lei mi ripresenta la domanda: «Un c’è un bozzanino fuori? O come vù fate?» Chiedo: «Bozzanino? Che sarebbe?» «Come icchè sarebbe il bozzanino? Il bozzanino l’è… Il bozzanino… Come vullo chiamate voi altri? Si dice il bozzanino». Interviene la figlia, che fino a quel momento stranamente non aveva preso parte attiva alla discussione, come invece è suo solito fare: «Il bozzanino sarebbe… Un lavandino fuori, uso lavarino…». Immediatamente la mamma, distesa sul letto, si volta verso la figlia: 18


«E no vva! I’ bozzanino l’è il bozzanino e il lavarino l’è il lavarino!» Risponde la figlia: «Su mamma, l’è uguale, bozzanino, lavarino…». «E no eh, il bozzanino l’è una cosa, il lavarino l’è un’altra». La figlia la guarda perplessa. Io resto in attesa di ulteriori spiegazioni. La figlia riprende la discussione: «O che differenza c’è allora?» La mamma, dopo un attimo di concentrazione, con calma inizia: «Il bozzanino l’è un lavandino che sta fuori, ma deve essere completo per essere detto bozzanino, deve avere lo sportello sotto per mettere la roba, detersivi, saponi, bruschini, e deve avere la discesa davanti per strusciare forte i cenci; l’è grigio, uso di cimento, non bianco; e accanto ci ha a essere il posto per stendere i cenci lavati»; un attimo di pausa e riprende: «Il lavarino invece può essere dentro o fuori ma… uso piccolo lavandino, anche bianco, senza altri aggeggi, sennò l’è un bozzanino». La figlia storce il naso, alquanto perplessa della spiegazione della madre, che se ne accorge e subito la riprende: «Un ti torna? Allora dillo te!» La figlia prova timidamente a cercare di spiegare queste differenze ma la madre non le dà il tempo: «Il lavarino l’è uso lavandino di casa, ma l’è in garage, o in cantina, o in terrazza, ma l’è uso lavandino. Il bozzanino l’è qualcosa di più, anzi molto di più; l’è esterno, ha gli sportelli sotto, lo stendere accanto, ha unnicosa!» E la figlia rivolta a me: «Tipo trogolo!» E la madre, sospirando sconfortata: «I’ trogolo? I’ trogolo? Ma icchè c’entra i’ trogolo ora?! I’ trogolo che un tu sei altro! Altro che!» 19


Poi rivolta a me, scuotendo la testa: «Ma che dai retta a lei?! L’è una vita che si sta in campagna e la confonde ancora il lavarino, il bozzanino e ora anche i’ trogolo… Vieni, vieni, tira questo braccio…, l’è meglio».

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Indice

7 Prefazione di Carlo Lapucci 14 Introduzione 17

Nomi diversi, stesso aggeggio: il bozzanino

21

In palestra

23 L’albicocco 28

Alta pressione

33

Gambe quasi‌ perfette

39

Data e ora

45

Allenamenti di calcio

50

Il vigile

53

Le tre grazie

59

Strani odori

63

Un ciclamino rosso

69

La canina

72 Roberto 75 Carlo 77 Lina 81

Al telefono

84

La cyclette

87

Oh che ti lamenti?!


91

Muratori in casa

97

Porte e finestre

103

Walt Disney cars

111

Pasticche miracolose

114

In autostrada

119

Lezione di anatomia

125

Viti, dadi e bulloni

128

Le ricette di Anna

138

Frasi di pazienti‌

145 Ringraziamenti


Filo diretto con l’autore www.giovannimatulli.it


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