Recitare le ceneri

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UNGARETTIANA

mariomoroni

SocietĂ

Editrice Fiorentina

recitareleceneri



ungarettiana 7

collana di poesia, traduzioni e saggi diretta da Paolo Valesio e Alessandro Polcri

«Ungarettiana» si interessa a un’esperienza di poesia che sappia fare convivere un forte senso della situazione italiana con una significativa apertura internazionale. Nel repertorio della collana rientrano libri monolingui in italiano, libri bifronti (tradotti in italiano) e saggi. Siamo convinti che la poesia sia in prima istanza ricerca di linguaggio e linguaggio della ricerca. Ma quello che noi in ultima analisi cerchiamo non è, come spesso accade di trovare nella lirica contemporanea, un eccesso di esistenza al ribasso, spesso ridotta a catalogo di fatti insignificanti narrati con una lingua scolorita; è, semmai, una nuova e accresciuta quantità di vita e di pensiero. Lo stile sarà la forma di quella quantità e sarà a volte semplice, a volte – perché no? – complesso e seletto. Ma saranno i poeti che sceglieremo a condurci là dove ancora non sappiamo di voler andare.



Mario Moroni

Recitare le ceneri prefazione di

Carlo Alberto Sitta

SocietĂ

Editrice Fiorentina


Š 2015 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn 978-88-6032-329-3 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina Gabriele Picco, Una collezione di messaggi mai arrivati, 2013, polvere su tela, 95x76 cm, collezione privata (courtesy galleria Francesca Minini, Milano)


prefazione

la voce oltre le nuvole

Attraversando diverse terre e paesi il viaggiatore aspira alla stabilità del punto d’arrivo, al luogo che offra un approdo definitivo e metta un termine alla tensione del nomadismo. Ma al poeta, disegnatore di mappe, si apre un altro percorso, singolarmente inquieto, responsabile di sensibilità diversamente ambientate, che investono il fluire del vivere e l’infallibile evenienza della metamorfosi nel cuore cieco dell’oggettività. Il punto finale qui rischia di diventare un’erranza ulteriore. In queste recenti scritture Mario Moroni rivive lucidamente il diario degli anni come unica possibilità di permanenza, in definitiva come garanzia di esistere. Qui la poesia coglie, e accoglie, un momento di agnizione molto particolare, incarna l’ora della sosta, il punto fermo sulla mappa – frutto involontario della matita che, per un attimo, sfugge al controllo della mano. Il profilo del tempo prende forma così, punto dopo punto, tra linee e ghirigori, mentre si azzera la meta e le distanze diventano solide. La memoria, allora, istituisce il confronto fra presente e passato, dove i ricordi si fanno cenere, medaglie sparse in un cumulo di foto. Le temps dort dans la cendre du feu d’hier, ha scritto Yves Bonnefoy. Cenere che è un frammento di vita vissuta decaduta nell’inspiegabile, intrasmissibile. Le narrazioni future si alimenteranno di memorie che sono il

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passaggio di una consegna, da foto a foto, da generazione a generazione, come le foglie che riscrivono ogni primavera, come i figli che apprendono l’essenziale intorno al falò dei padri. Tenuto conto che qualcosa è cambiato, e risulta profondamente alterato, nel dominio incerto del divenire. Non solo i sogni, ma il modo stesso di sognare. Per Moroni il fuoco di ieri ardeva, originariamente, nella Maremma laziale. Veniva per via diretta dai primordi, dalla caverna dove la narrazione era il garante ancestrale del senso del vivere. Voci oltre le nuvole, «nell’avventura di una lingua soffusa, / mai del tutto scritta». Qui ha avuto inizio ogni narrazione, come – nella scoperta successiva – poteva accadere nel Maine, la terra dove «alzando le mani, a volte, gli anziani indicavano un’ombra sulla parete, una direzione, un gesto di un personaggio della storia». Dove il tempo, praticamente, dormiva nella cenere della sua oralità. Sembra così configurarsi una corrispondenza puntualmente bilanciata tra la memoria della Maremma e quella degli abitatori del Nuovo Continente: «due cimiteri si toccano / nel vento scomposto / che li unisce e li separa». Nella sua collocazione originaria la figura paterna diventa un elemento definitivo, nei passi di una asciutta rivisitazione, filtrata da uno sguardo che «cede alla discrezione». Il dialogo col figlio si prolunga invece in un rapporto denudato ma enigmatico, come accade a chi si proietta nel futuro. La reminiscenza leopardiana si fa esplicita, investe il rischio della scelta nel cuore imperscrutabile dell’esistere. Il ritorno inattuale di Moroni a certe tematiche del passato ha il senso di una ri-appropriazione: ripristina timori e tremori nell’accadimento stesso del nascere, come era agli inizi della modernità, e come torna a essere attuale nell’angoscia del presente storico. Perché «per quanto

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molte pagine dicano dell’essere» il destino del figlio Jacopo è affidato alla sua sorte personale, e la sua vicenda sta scritta in una lanterna magica che proietta gli eventi sulla parete buia della caverna. Anche il biografismo indiretto del Maine diventa un atto propiziatorio, un vaticinio per il figlio. Già dai suoi primi moti, percepiti in video durante la gestazione, lì dove il sapere umano può evidenziare immagini, ma non farsi augurante. Non sarà propriamente funesto il dì natale, quanto un percorso a rischio, la scommessa di chi ignora il proprio destino all’interno del destino di tutti, pur nella consapevolezza di doverlo accettare. Soprattutto ora, «dopo che le poche monete del tramonto / hanno mostrato le loro facce alla luna». Difficile, per Mario, affidare a Jacopo una memoria che resista, qualcosa che abbia capacità e trasmissione di volere e potere. Persino l’identità è un elemento di incerta natura. Di sé si tramanda quel tanto che entra in una foto, affinché «le lettere gelate / del suo alfabeto rimangano vive». L’alfabeto è certamente una totalità che dà forma alla lingua, è il fondamento di ogni rappresentazione entro le scene del narrare. Ma una sola totalità, fra tante, non basta a completare il quadro complesso dove abita il disegno di una vita. Fin dal titolo di questa raccolta l’accento del poeta cade sulla recita, che in presenza di fuochi in espansione virale diventa elemento portante della metamorfosi. Al figlio il lascito paterno non sarà allora tanto nutrito di buoni consigli – le regole del vivere e i consigli di condotta sono scritti su labili folate e sentieri interrotti – quanto sulla dolcissima elegia della parola. Il giusto valore dell’esperienza personale, la sua saggezza, abita in una voce particolare: «del viaggio rimangono fogli / isolati eppure scritti / con parole d’amore». Questo è lo

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specifico registro e il timbro della condivisione che entra nel vissuto in quanto facoltà di nominare i sentimenti. Poesia non sarà condividere un qualsiasi codice emotivo nel finto falò delle storie inventate, ma nel sigillo delle prime verità, nello sguardo restituito alle origini, con i fuochi trascorsi che vanno a lambire le ceneri del futuro. Una conclusiva tenerezza per una plenitudine di auspicio, una voce che cerca la tregua dalla tensione sperimentale, infine un’atmosfera che libera i pensieri – qui arriva il messaggio di Mario per il figlio, due esistenze separate che vanno a suturarsi «come per un appuntamento / di sguardi». Risuona il timbro dell’elegia riconquistata in nome e per conto di Jacopo: «un’altra pagina, / un’altra alba del tuo quaderno a righe». Credo che per parlare adeguatamente di questa poetica sia indispensabile riguadagnare a ritroso il rapporto segreto che la collega a quelle, precise e diverse, che hanno viaggiato per sentieri nascosti, talvolta impervi, spesso inattuali, negli ultimi decenni, per quanto risulti ampio il quadro da affrontare. Limitiamoci a notare come un raffronto tra Moroni e altri autori coevi abbia senso anche qui, pur in presenza di una svolta tematica, figlia a sua volta di una mutazione ambientale. Forse il cammino di omologazione all’interno di un mondo definito globale è più rapido di quanto non si modifichi l’interiorità e la percettività di un poeta. Ma di fatto Moroni abita da tempo stabilmente in America, e il respiro degli anni e dei luoghi tende a modificarsi nei linguaggi che fanno da cornice agli eventi. Il punto di vista dipende ancora dall’angolo di osservazione, geografia e storia mantengono vivi i colori e gli umori, salvando le differenze. Del terribile evento del settembre 2001 abbiamo avuto sovrabbondanza di informazioni, in immagini, suoni,

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parole. L’orrore non dice tutto, né tutto può essere spiegato, in questo caso. Credo che in noi si sia consolidata un’idea ancora provvisoria intorno al senso dell’accadimento, e che i pochi anni che ci separano da quella data abbiano non tanto portato chiarezza, quanto un’ulteriore richiesta di comprensione. Si è aperta una ferita che chiede di essere suturata, non semplicemente per capire, ma per tentare la via impervia di far convivere la ragione con i sentimenti. Ora Moroni ha introiettato i fatti e li ha riscritti alla maniera di una moderna tragedia. La poesia non è una voce fra le tante, parallela alla massa incontrollata di informazioni disponibili, ma nasce dalla propria autonoma prospettiva: come recita delle ceneri, appunto, nella coralità della scena che si apre dove finisce la cronaca, dove cessa il narrato dei video e dei commenti. Recita che si propone come nuda oggettività, impostata dietro quinte separate entro l’unico grande teatro del mondo, per creare lo spazio che contenga, e rappresenti, quantomeno, il cielo d’Asia in conflitto con quello d’America. Lì la voce oltre le nuvole esprime i registri delle vittime e dei carnefici, le prospettive dei singoli un attimo prima di essere stroncati in un eccidio senza catarsi. Vista dall’Europa la stessa tragedia sembra essere passata sopra teste che guardavano altrove. Anche il nostro continente ne è stato colpito, ma di ritorno, come un obiettivo secondario. Impressionante invece è la pronuncia che la voce “american” di Moroni adotta per mettere in scena lo scontro dei moderni Titani: «… io partito dai deserti quando / l’Asia era altra Asia, / quando le mattine non ancora / esplose nelle viscere / sotto i fuochi dei mortai, degli dèi…». A parlare è un ipotetico terrorista in volo verso il suo obiettivo di morte. Ecco: è

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in questa chiave scenica che l’attentato alle Torri impone un chiaro limite alla vertigine linguistica, pretende un ritorno di senso che arrivi in parte a cancellare una macchia collettiva che pesa sull’intera umanità. Non basta una semplice condanna, occorre attivare l’ascolto sotto le macerie, fra la cenere ancora calda, per percepire ciò che va colto dal fondo delle diverse sepolture. Occorre una poesia che dissotterri le voci, anonime o identificate, in un’altra universale Spoon River. L’innocenza del poeta diventa così la stessa delle vittime, coincide con la condizione di chi si trova sul luogo del dramma senza preavviso o responsabilità. Per questo la recita mette al centro la coralità delle voci, spostando il commento in uno spazio deuteragonista. Nella splendida chiusura in prosa ritorna in primo piano la narrazione, ancora il Maine col vaticinio di uno sbarco aereo, il Maine che diventa per un attimo l’altra sponda della Normandia: «l’enorme calma del film sullo schermo delle nuvole, l’enorme contrasto tra quella calma e la turbolenza dell’oceano...». Prosa limpida, figlia di un recupero espressivo che conserva precise maniere e stilemi personali, nella prospettiva d’uso di un poeta che finalmente ha qualcosa da dire, e lo dice. Carlo Alberto Sitta Modena, agosto 2014

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l’ora della sosta



Fine del diluvio, delle grandi piogge. Termine della strada, dei chilometri contati per anni. Fine anche dell’attenzione continua del sé, dello specchio vacillante appeso ogni giorno. Nuvole chiare, come incombenti sul respiro, ma lontane dal dolore, dal nubifragio senza sosta, chilometri e chilometri per chiamare qualcuno e qualcuno risponde, dall’altra parte della strada, voce in movimento, oltre le finestre rese indolori dalla sera. A quest’ora s’abbandona l’idea di partire, si cerca invece l’orario d’arrivo, come isole che vagano, navi verso il porto, o pellegrini che assaporano le ultime luci. Si cerca l’ora violetta fatta di molte ore e di fiori nel giardino, con la fiducia del visitatore,

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la curiosità dell’ospite, che segna i propri passi e lascia impronte sulla sabbia. È l’ora del passeggero anonimo che sosta dentro il proprio sogno. È l’ora in cui si lascia ad altri la partenza, ai loro gesti concreti e si cerca invece l’approdo, il molo, la stazione. Un’ora che si conclude nelle vicinanze di un luogo, nella via dimenticata, sulla superficie della vita di altri che non sanno oppure fanno brevi movimenti per indicare la sosta, l’abbandono dell’itinerario assoluto o dell’inseguimento di ombre ormai sfilate e sfuggite nella corrente. È l’ora aspettata, quella delle conversazioni abituali che emergono dal sonno, dalle linee dei tetti, ancorate contro la corrente. Le conversazioni serali che dalle gradinate vengono giù verso il parco pieno di eucalipti.

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In una sera d’estate, arrivare non visti e lÏ, in un angolo, fermarsi e ripensare la mappa d’una città antica, dalle strade strette, fermarsi in un angolo a raccontare storie.

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nota biobibliografica

Mario Moroni è nato a Tarquinia (VT) nel 1955. Dal 1989 vive negli Stati Uniti dove ha insegnato all’Università di Yale e a Colby College. Attualmente insegna italiano all’Università di Binghamton, nello Stato di New York. Ha pubblicato sette volumi di poesie e uno di prose poetiche: Dall’assoluta attualità (Geiger, 1979), I racconti (Ripostes, 1985), La composizione del tempo (Edizioni del Laboratorio, 1988), Paesaggi oltre (Anterm, 1989, Premio Lorenzo Montano), Tutto questo (Oedipus, 2000), Le terre di Icaro (Book, 2001), Brevi storie dell’ospite assente (Ed. del Laboratorio, 2002), Icarus’ Land (Lietocolle, 2006). Sue poesie e testi di poetica sono apparsi su «Antologia Geiger», «Carte segrete», «Anterem», «Cervo volante», «Steve», «Terra del fuoco», «Invarianti», «Novilunio», «Gradiva», «Chelsea», «L’anello che non tiene», «Yale Italian Poetry», e sulle antologie Poesia Italiana Oggi (1981), Viaggio al termine della parola (1981), …a cominciare da zeta (1986), Le radici della poesia (1987), La poesia nel Lazio (1988), Poesia italiana della contraddizione (1989), Terza ondata. Bologna: ES/ Synergon, 1993, Poesaggio (1993), Scritture di fine Novecento (1998), Dal Po al Potomac (1998), Akusma (2000), Trent’anni di Novecento (2005) e Poets of the Italian Diaspora (2013). Come critico letterario Mario Moroni ha pubblicato Essere e fare (Luisè, 1991), La presenza complessa (Longo, 1998), Al limite (Le Monnier, 2007) ed è stato

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il curatore di tre volumi di saggi: Italian Modernism, con Luca Somigli (U. of Toronto Press, 2004), From Eugenio Montale to Amelia Rosselli, con John Butcher (Troubador Press, 2004) e Neoavanguardia con P. Chirumbolo e L. Somigli (U. of Toronto Press, 2010). Con il compositore Jon Hallstrom, Mario Moroni ha prodotto Reflections on Icarus’Land, un dvd per voce, musica elettronica e immagini. Inoltre ha elaborato una versione del poema Recitare le ceneri per voce recitante, voce soprano e pianoforte con il compositore David Gaita. Questa versione è stata eseguita in occasione di vari festivals e incontri di poesia.

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Indice 7 Prefazione. La voce oltre le nuvole di Carlo Alberto Sitta

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L’ora della sosta

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Poesie della nascita

35

Otto movimenti per la vita

45

Apparizioni, viaggi

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Recitare le ceneri

67

Ballate del Maine

75

Storie del Maine

89 Nota 91 Nota biobibliografica


ungarettiana 1. Emma Pretti, I giorni chiamati nemici, pp. 84, 2010 2. Vera Lucia de Oliveira, La carne quando è sola, pp. 72, 2011 3. Leopoldo María Panero, Ianus Pravo, Senz’arma che dia carne all’«imperium», pp. 92, 2011 4. Patrizia Santi, Frammenti, periferici, pp. 56, 2013 5. Alberto Bertoni, Traversate, pp. 152, 2014 6. Marco Sonzogni, Ci vuole un fiore, pp. 72, 2014 7. Mario Moroni, Recitare le ceneri, pp. 96, 2015


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