All'ombra dei cipressi

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Mario Pratesi

All’ombra dei cipressi Mario Pratesi

ienamente cosciente del graduale esaurirsi del tempo a lui rimasto, dopo che la sua carriera didattica si era conclusa nel 1906, il “verista toscano” Mario Pratesi (18421921) non si rassegnò comunque né all’età né all’infermità. Era uno scrittore, uno di quelli eccellenti, conosciuto e rispettato, e voleva continuare ad esserlo. Nel suo testamento olografo per la prima e unica volta rivelò la sua sorprendente intenzione di mandare alla stampa un ultimo lavoro intitolato All’ombra dei cipressi. Il libro non fu mai pubblicato e chi era a conoscenza di questo testo lo considerava smarrito, introvabile fra le carte sparpagliate sulla scrivania dello scrittore scomparso. Il ritrovamento del manoscritto, per caso, fra i documenti pratesiani donati dagli eredi canadesi alle Special Collections di Victoria College (University of Toronto) ci offre l’occasione di una valutazione retrospettiva del volumetto pratesiano alla luce delle considerazioni sullo stile tardo proposte recentemente da critici letterari fra cui Theodor Adorno, Edward Said, Linda e Michael Hutcheon e altri. Questo studio presenta il manoscritto smarrito nella sua interezza, come Pratesi l’avrebbe voluto pubblicare, insieme a una riflessione critica sugli elementi che rivelano nelle ultime pagine pratesiane i capisaldi dello stile tardo.

a cura di Anne Urbancic

Anne Urbancic, Mary Rowell Jackman Professor of Humanities, è docente presso il Victoria College (University of Toronto). Ha pubblicato numerosi saggi di critica letteraria su scrittori italiani dell’Otto e Novecento. Insieme a Giuliana Sanguinetti Katz, ha tradotto in inglese varie opere italiane. Con Carmela Colella ha diretto la digitalizzazione e pubblicazione del carteggio inedito di Mario Pratesi.

€ 18,00

All’ombra dei cipressi

studi 30



studi 30



Mario Pratesi

All’ombra dei cipressi a cura di

Anne Urbancic

SocietĂ

Editrice Fiorentina


Š 2018 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-470-2 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata


Per Andrew



Indice

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Lo stile tardo dell’ultimo manoscritto (inedito) Il titolo I tre capitoli Perché questo lavoro finale? Lo stile tardo di Pratesi Obituari e necrologi «All’ombra dei cipressi». Parte 1: Scritti «in memoriam» «All’ombra dei cipressi». Parte 2: Note pedagogiche «All’ombra dei cipressi». Parte 3: note varie Conclusione

mario pratesi all’ombra dei cipressi 3 Ricordi di amici 3 Carlo Hillebrand 9 Sul feretro del preside prof. Francesco De Francesco 10 Jessie Hillebrand 12 Alessandro Gherardi (Per il volume: All’ombra dei cipressi) 13 Prefazione alle Novelle di G.C. Abba 28 La Canzone in morte di Nullo di G.C. Abba 31 Alessandro Franchi: Discorso 43 Un nobile esempio (Adelaide Maraini) 49 Gastone Lurini 54 Colonnello Dante Pratesi 57 Note Scolastiche 57 Ai Maestri e alle Maestre 59 Ai Maestri di Belluno 62 Agli Insegnanti elementari


63 Per una festa scolastica 65 Agli Alunni del Liceo e del Ginnasio di Belluno 67 Problemi scolastici 73 Note sparse 73 Il Monumento a Dante 75 Il rimpianto e i ricordi di Giosuè Carducci 76 Gli Orfani 77 Saluto a Massa 77 Una lettera di Mario Pratesi 79 Appendice: Canto toscano d’autunno 85 Nota bibliografica 85 Archivi Consultati 85 Bibliografia 88 Articoli proposti per «All’ombra dei cipressi» 91 Nota

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Indice dei nomi


Lo stile tardo dell’ultimo manoscritto (inedito)

Dalle sue strette stanze sovrastanti Firenze in via San Leonardo, l’ormai anziano scrittore toscano Mario Pratesi poteva godere della visuale della città nella sua interezza, con il serpeggiante fiume Arno e il cielo punteggiato di profili merlati a ricordare continuamente il glorioso passato rinascimentale. La vista è spettacolare ancora oggi e non sorprende che innumerevoli pullman turistici si dirigano nella medesima direzione, verso Piazzale Michelangelo, per vivere l’esperienza fiorentina nella sua quintessenza. I turisti, però, non possono vedere ciò che vedeva Pratesi quando si trasferì in quella zona nel 1906, dopo il suo pensionamento dall’insegnamento e dall’amministrazione scolastica di Belluno. Dalle camere del suo appartamento al piano superiore, Pratesi poteva guardare al di là del fiume, fino al Lungarno delle Grazie e quasi direttamente dentro le finestre della casa dove, da giovane, aveva lavorato con Niccolò Tommaseo. Tommaseo, scrittore, poeta, linguista, filosofo, il Grande Dalmata, come era noto, da vecchio, e quasi cieco, aveva bisogno di un segretario che lo aiutasse nel suo lavoro. Nei pochi mesi in cui il ventiseienne Pratesi coprì questo incarico, Tommaseo divenne anche il mentore e insegnante a cui Pratesi si ispirava mentre si perfezionava nei suoi primissimi esperimenti letterari. La casa di Tommaseo, però, divenne per Pratesi un posto pesante e traumatizzante. Pratesi si innamorò dell’unica figlia di Tommaseo, Caterina, ma fu rifiutato dal padre di lei. Il giovane si dimise immediatamente, completamente sconvolto e in preda ad una forte confusione psicologica che ne provocò l’esaurimento e il tentato suicidio. Fortunatamente, Pratesi fu trovato e portato all’ospedale psichiatrico di Siena1. Da vecchio, guar1 Mario Pratesi a Giuseppe Cesare Abba, 22 agosto 1874, e anche Pratesi a Giosuè Carducci, 22 dicembre 1869, lettera ora conservata negli archivi di Casa Carducci, Cartone xciii, 42 (26.243). La corrispondenza tra Pratesi e Giuseppe Cesare Abba è citata per gentile concessione degli eredi di Mario Pratesi.


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dando dalle finestre verso la casa del Tommaseo, Pratesi poteva rivivere quel desiderio di una morte prematura. Dietro di lui, dalle stanze che davano sul retro, le finestre gli permettevano di scorgere San Miniato al Monte, la basilica dal bianco candido con l’intarsio dorato lucido della sua facciata, e con accanto il cimitero dove chiese di essere sepolto. È qui che Pratesi, negli ultimi anni che «più correnti che saetta, son sen’andati», poteva riflettere sulla morte che inevitabimente si avvicinava2. L’atteggiamento di Pratesi nei confronti della morte in diversi momenti della sua vita invita a una riflessione attenta. Nel 1920, quando esplicitava le sue ultime volontà, era infermo e stanco; soffriva di un male incurabile e doloroso ed era pienamente consapevole del fatto che gli restassero solo pochi mesi di vita. Pratesi accettò la sua fine e la morte non indugiò. Lo scrittore venne a mancare in un giorno di tarda estate, il 3 settembre 1921. Il tentativo di suicidarsi fu unico per Pratesi, ma il pensiero della morte non l’abbandonò mai del tutto; entrava nei suoi scritti e nelle sue poesie, non come elemento macabro o spaventoso, ma come un fatto ineluttabile della vita. Pienamente cosciente del graduale esaurirsi del tempo a lui rimasto, dopo che la sua carriera didattica si era conclusa nel 1906, Mario Pratesi non si rassegnò comunque né all’età né all’infermità. Era uno scrittore, uno di quelli eccellenti, conosciuto e rispettato, e voleva continuare ad esserlo. Di conseguenza, mentre scriveva il suo testamento olografo, ricordò, elencandole, le opere del suo passato, i libri che si erano guadagnati l’approvazione dei lettori e dei critici contemporanei in tutta Italia e in altri paesi d’Europa. Nel suo testamento, Pratesi chiese al suo esecutore, il fidato confidente e parente Gino Bandini, di ripubblicare il corpus completo delle sue opere, prevedendo una raccolta di circa dodici volumi. E, per la prima volta, rivelò la sua sorprendente intenzione di pubblicare un nuovo lavoro, un piccolo volume, intitolato All’ombra dei cipressi3. Il libro non fu mai pubblicato. Molte ne sono le ragioni: la morte di Pratesi prima di tutto. Senza la sua sollecitazione e il suo interessamento, e considerato il fatto che non ne aveva nemmeno mai fatto menzione fino al suo testamento, il progetto non sembrava aver importanza o urgenza. Persino la disposizione fisica del manoscritto contribuì a questa confusione: una collezione disordinata di estratti, di articoli, ritagli di giornale, opuscoli e fogli sparsi, tutti raccolti in una vecchia busta voluminosa lasciata sulla sua scriva2 Pratesi inizia il suo Testamento ricordando i versi del Canzoniere di Francesco Petrarca (Canzone vii, vv. 87-91: «Vergine sacra ed alma, | Non tardar, ch’i’son forse all’ultim’anno, | I dì miei più correnti che saetta, | Fra miserie e peccati | Son sen’andati; e sol morte n’aspetta»). 3 Il testamento di Pratesi, datato 19 ottobre 1920, includeva due appendici. Nella seconda Pratesi lasciò al dottor Bandini istruzioni esplicite riguardo alle sue opere. Il 20 marzo 1921 aggiunse poi un codicillo che teneva in considerazione la sua situazione finanziaria sempre più precaria. Il documento è trascritto per intero nel Carteggio Inedito di Mario Pratesi, a cura di Anne Urbancic e Carmela Colella, Victoria University Library (Toronto), 2009. http://pratesi.vicu.utoronto.ca/ricerca.


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nia in mezzo a tanti altri effetti personali. Aveva l’aspetto di un lavoro incompiuto e, in assenza di qualsiasi struttura organizzativa o addirittura di razionalità per il volume nel suo complesso, a parte le parti indicate nel suo testamento, le pagine sicuramente non avrebbero attratto alcun editore, come era stato il caso di molti dei suoi scritti negli ultimi anni di vita. Rifiutandosi di riconoscere quanto scarse ne fossero le possibilità, Pratesi aveva comunque lottato fino agli ultimi istanti della sua vita per fare (ri)pubblicare i suoi racconti e i suoi romanzi, partecipando in un frustrante tira e molla con le case editrici che finirono con l’esasperarlo e con l’angustiarlo nei suoi ultimi anni. I tempi erano cambiati: la sua prosa limpida, descrittiva e squisitamente toscana, aveva ceduto ad altri stili, ad altri gusti letterari, e pertanto gli editori, sempre attenti alle eventuali vendite, lo avevano visto come un rischio troppo poco redditizio4. Una volta che il testamento finale di Pratesi fu eseguito pienamente, la ripubblicazione dei suoi volumi come opera omnia fu giudicata impraticabile e, nel decidere questo, anche il nuovo progetto di All’ombra dei cipressi venne abbandonato. Ciononostante il lavoro non è senza merito letterario o storico come abbiamo scoperto quasi ottant’anni dopo, nel momento in cui il reparto delle Special Collections della Victoria University all’Università di Toronto ha ricevuto in dono la corrispondenza di Pratesi da parte dei suoi eredi, i quali si erano trasferiti in Canada. Le pagine destinate al nuovo volume di Pratesi sono state recuperate tra i vari documenti conservati ancora nella confezione originale. L’abbozzo dell’indice, scritto a mano con la calligrafia tremolante di Pratesi, con le sue cancellature e le sue aggiunte, conferma che il volume non era mai stato completato rimanendo così un progetto in corso. La volontà di Pratesi che questa busta di documenti diventasse un libro indipendente non era affatto realizzabile, nel senso di un’impresa editoriale economicamente sostenibile. Il volume, se fosse stato pubblicato, avrebbe contenuto un centinaio di pagine, un disastro commerciale per qualsiasi editore dato che la maggior parte dei pezzi da pubblicare erano già apparsi in precedenza in varie riviste e giornali. Con i cambiati gusti dei lettori, difficilmente sarebbe stato un lavoro pienamente apprezzato per il suo valore letterario. Tuttavia, come cercherò di mostrare, vale la pena fare una valutazione retrospettiva del volumetto, specialmente alla luce delle considerazioni sullo stile tardo fatte da Theodor Adorno e, più recentemente, da Edward Said, Linda e Michael Hutcheon, insieme ad altri ancora. Perché Pratesi desiderava tanto pubblicare questo lavoro finale sapendo che sarebbe stato uno sforzo postumo sulla cui stampa non avrebbe avuto alcun controllo e da cui sapeva che non avrebbe tratto alcun profitto personale? Perché scelse una serie di articoli molto specifici omettendone altri che illustravano il medesimo tema? Perché specificò le divisioni nel modo indicato? E perché il titolo, All’ombra 4 Per un’eccellente rilettura e analisi si veda Elisabetta Benucci, Mario Pratesi e «Le Perfidie del caso», in «La Rassegna della letteratura italiana», 119, 1, gennaio-giugno 2015, pp. 30-44.


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dei cipressi? Ancora più importante: le considerazioni teoriche della scrittura in stile tardo si prestano al manoscritto perso di Pratesi? I capisaldi di tale stile ci permettono un valido scorcio critico sulla sua scrittura negli ultimi anni di vita? Queste sono le domande dalle quali nasce l’attuale studio. Il titolo “All’ombra dei cipressi” è una citazione che probabilmente Pratesi ricordava dai versi di apertura di De’ Sepolcri di Ugo Foscolo: «All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne | confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?». Il poeta romantico si lamentava del decreto napoleonico (il Décret Impérial sur les Sépultures del 1804, detto l’Editto di St. Cloud) che relegava tutti i cimiteri fuori dalle mura cittadine, proibendo i funerali nelle chiese, come era tradizione precedente. Sebbene il decreto fosse indetto per motivi di sanità e di igiene pubblica, sconcertò comunque la nozione classica e tradizionale dei cimiteri religiosi. I versi di Foscolo descrivono l’ingiustizia che si palesa in una cultura senza rispetto per i suoi grandi poeti ed eroi, portando come esempio poetico la sepoltura del poeta Giuseppe Parini (1729-1799) in una tomba comune, accanto a ladri e criminali. L’avvertimento che «Sol chi non lascia eredità d’affetto | poca gioia ha dell’urna» (vv. 41-42) può ulteriormente aver incoraggiato Pratesi a vedere in questo titolo un modo di rivendicare per sé la gioia di poter ricordare i suoi amici e, così facendo, di essere anche lui ricordato dopo la morte. Quindi, il fatto che questo volume (All’ombra dei cipressi) venga annunciato solo nelle sue ultime volontà è molto significativo: sebbene avesse tantissime, profonde e fidate amicizie, Pratesi non aveva però eredi diretti e questo volume gli sarebbe servito, appunto, come una sorta di eredità. Nella simbologia italiana il cipresso è l’albero dei cimiteri: con il suo tronco diritto, abbracciato da fogliame scuro che evoca il lutto, è il simbolo dell’immortalità5. Se i cipressi della poesia foscoliana avevano fornito a Pratesi le parole per il titolo di quest’ultimo lavoro, egli si ispirò anche ai cipressi dell’amico Giosuè Carducci, il quale ne scrisse in Davanti a San Guido. La poesia fu redatta nel 1874 ma Carducci non la terminò fino al 1886, mentre si trovava in soggiorno a Caprile sulle Dolomiti. A quel tempo Carducci e Pratesi si erano già incontrati in diverse occasioni, anche durante i soggiorni di vacanza in Nord Italia. Non vi è nessuna menzione della poesia nelle loro lettere, ma la possibilità di averne parlato – due scrittori che commentano il loro rispettivo lavoro – non è irragionevole. Ciò è particolarmente vero se si considera che Pratesi, che conosceva e scrisse della Maremma toscana, sarebbe rimasto affascinato dall’attenzione che Carducci aveva

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L’albero è associato al dio greco della morte, Thanatos.


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riservato a quel territorio, in particolare in Davanti a San Guido in cui il poeta delle Odi barbare descrisse il viaggio in treno attraverso la Maremma da Roma verso casa sua. Infatti Pratesi, sempre attratto dal tema della morte, avrebbe sentito un forte richiamo emotivo con i versi che iniziano la poesia carducciana: I cipressi che a Bólgheri alti e schietti Van da San Guido in duplice filar, Quasi in corsa giganti giovinetti Mi balzarono incontro e mi guardar. Mi riconobbero, e – Ben torni omai – Bisbigliaron vèr’ me co �l capo chino – Perché non scendi? Perché non ristai? Fresca è la sera e a te noto il cammino… … quello che cercai mattina e sera Tanti e tanti anni in vano, è forse qui, Sotto questi cipressi,… (vv. 1-8, 103-105)

A livello paesaggistico, la descrizione topografica della zona evoca un senso di nostalgia per il territorio intimamente familiare a Pratesi; anzi, i cipressi antropomorfi hanno ragione nel sapere che «a te noto [è] il cammino». V’è comunque da notare che i versi sono per Pratesi un ontologico cri de coeur, il grido di un vecchio e malato che si sente messo da parte in un ambiente sociale che egli non comprende più, un ambiente che ignora i suoi contributi passati, come prontamente attestano le lettere scritte più tardi nella sua vita in cui espone il suo rammarico e la sua delusione di trovarsi retrocesso proprio in un campo in cui una volta eccelleva. I cipressi hanno riconosciuto la sua senescenza e, con essa, la sua vicinanza alla morte. Quindi gli sussurrano: «Perché non scendi? Perché non ristai? | Fresca è la sera e a te noto il cammino» (vv. 7-8). Di seguito nella poesia, affermando la sua rottura poetica con le ormai imbarazzanti emulazioni manzoniane, Carducci esprime i pensieri che Pratesi pure aveva espresso in alcune lettere indirizzate agli amici. I versi che più ispirano il titolo di Pratesi sembrano essere stati scritti espressamente per lui: «Quello che cercai mattina e sera | Tanti e tanti anni in vano, è forse qui, | Sotto questi cipressi,…» (vv. 103-105). All’ombra dei cipressi Pratesi troverà la risposta teleologica alla sua profonda angoscia, allo scopo della sua scrittura e alla giustificazione della sua costante consapevolezza della Morte. I tre capitoli Come ho già accennato sopra, il testamento di Pratesi, con il suo piuttosto lungo, ma in realtà ancora incompleto elenco dei contributi con cui aveva


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