Maurizio “Riro” Maniscalco
NYC Subway Cronache metropolitane
Dello stesso autore Mi mancano solo le Hawaii. Appunti di vita e viaggio di un italiano trapiantato in America Dal Ponte all’Infinito. The Way of the Cross over the Brooklyn Bridge Musica, parole e storie. Ovvero: come si diventa un finto vero musicista God bless America. Un diario a stelle e strisce
Maurizio “Riro” Maniscalco
NYC Subway Cronache metropolitane
Società
Editrice Fiorentina
© 2019 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-515-0 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Le foto pubblicate nel libro sono di Riro Maniscalco (per gentile concessione) Copertina Grafica a cura di Studio Grafico Norfini, Firenze
Filo diretto con l’autore email riromaniscalco@gmail.com facebook account www.facebook.com/maurizioriro. maniscalco instagram account @riromaniscalco
Indice
7 Prefazione 13
La prima volta
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Stesso posto, stessa ora
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Qualcosa toccherà pur fare…
48
Musicanti, Mendicanti & Protestanti
64 Pubblicità! 78 Topoloni 83
Scarpe, Shoes, Caligae…
88 Avvisi 92 Attese 97
Poesia & Cronaca
105
Novità dell’ultima ora…
109 Conclusioni
The Things that I See, Got Me Laughing Like a Baby, The Things that I See, Got Me Crying Like a Man Le cose che vedo, mi fanno ridere come un bambino Le cose che vedo, mi fanno piangere come un uomo
Prefazione
Ho fatto un calcolo approssimativo, sicuramente per difetto: a tutt’oggi sulla subway di New York sono salito (almeno) 12,123 volte. Tempo che pubblichiamo questa cosa e che finisce nelle vostre mani chissà dove sarò arrivato – a meno che il mio albergare in questo paese o su questa terra giunga al capolinea prima di quando mi aspetti e auguri. E dire che a Pesaro penso di essere salito sui mezzi pubblici – l’autobus – un paio di volte in tutto, con zia Italia, per provarne l’ebbrezza e soprattutto perché zia Italia non aveva la macchina (e non aveva neanche nessuna voglia di passare del tempo con dei bambini – pace all’anima sua). Sottolineo, per chi non lo sapesse, che io a Pesaro ci sono nato e cresciuto e che a Pesaro c’è il mare, ma non la subway, non c’è mai stata e non credo che sia in programma. Sapete dov’è Pesaro? Scusatemi, lo chiedo perché ho abbastanza presente che la geografia non va più tanto di moda. Pesaro è in cima alle Marche, proprio al confine con la Romagna. Siamo e parliamo più come romagnoli che marchigiani. È a Pesaro che ho vissuto fino agli anni dell’università, trascorsi a Milano. E finché sono stato al paesello non c’era ragione di far grande uso dei mezzi di trasporto pubblici. Tutto troppo vicino, dovunque si volesse andare. A Milano quantomeno la metropolitana c’era e ogni tanto la si usava, ma quei giri lì tra la “rossa” e la “verde” (le altre linee ancora non esistevano) con treni fatti sì e no di quattro carrozze erano veramente poca cosa, possiamo anche non contarli. Ma New York City è un’altra storia. Non solo per via della subway, ma anche. Dodicimilacentoventitre rides sono parec7
chie, ma la prima – come il primo amore – non si dimentica mai. Non parlo della prima in assoluto, che francamente non mi ricordo neanche. Parlo del primo viaggio con una “destinazione seria”, cioè con un destino, cioè con uno scopo: il viaggio verso la prima giornata di lavoro effettivo a Manhattan. Andare al lavoro (a Manhattan), è il motivo principe per cui la gente qua sale in metropolitana tutti i santi giorni. Al tempo di quel primo “viaggio con uno scopo” avevo già vissuto sei mesi a New York, ma lavorando a Brooklyn. Brooklyn in realtà è bella grande (con una popolazione pari mas o menos al doppio di quella di Milano), ma io avevo la fortuna di abitare vicino all’ufficio dove potevo arrivare o a piedi o in bici, quasi come nella mia vita precedente in una classica cittadina di provincia come la mia hometown. Speaking of which… le probabilità che voi abbiate preso in mano questo libro perché avete letto Mi mancano solo le Hawaii o Musica, parole e storie o God Bless America, sono molto alte. Perché se si fa lo sforzo di leggerne uno poi si vogliono leggere anche gli altri (questa quantomeno sarebbe l’intenzione…). Qualora invece le cose non stessero così, se io e te ci stiamo incontrando sulla carta stampata per la prima volta, non mi resta che ringraziarti per aver preso questo libro, augurarti buona lettura e invitarti a recuperare anche i libri precedenti. Anzi, se sei uno di quei quattro gatti che ancora al giorno d’oggi compra carta stampata, please, compra tutto quello che ho scritto. Da qualche parte tra front e back cover di questo libercolo ci deve essere l’elenco completo. Sennò guardate su internet che tanto su internet si trova sempre tutto. Comprate e leggete: fa bene a voi, fa bene alle cose belle in cui sono invischiato (dove vanno tutte le mie imponenti royalties), fa bene all’editore. Non che questo libro qui non si possa leggere senza aver letto gli altri, però se l’avete fatto, se gli altri li avete letti, magari conoscete un po’ della mia America e probabilmente la 8
cosa aiuta. Un po’ di familiarità con il macrocosmo Usa aiuta a capire meglio il microcosmo (“micro” si fa per dire) dove la subway vive la vita sua e incrocia la vita mia. Questa digressione è già lunghetta, e se non siete abituati al mio stile adattatevi in fretta perché a me le digressioni piacciono e la lingua italiana ce le permette. In inglese dopo quattro parole in croce una frase comincia a farsi oscura. Se non ci sono soggetto, verbo e complemento oggetto sempre lì a portata di mano, ci si perde. Ma in italiano si può e lo stile con cui si scrive è un po’ come la faccia che hai: a certi piace, a certi risulta indifferente, altri te la prenderebbero a mattonate. Comunque tornando alle digressioni ci sono due cose che vi posso assicurare e sulle quali vi posso rassicurare: una, che non mi dimentico mai (mai!) di dove ero arrivato, non perdo mai il filo; due, che questa digressione non è finita J. Subway e libri… una volta in subway si leggevano tanti libri. Seduto o in piedi pigiato come in un barattolo di sardine (si potrebbe anche dire in un ambiente bello compatto come l’interno di una scatoletta di tonno, così, per cambiare pesce ogni tanto…), una mano era sempre impegnata a serrare saldamente un libro. Magari un romanzuccio rosa, una storiella d’amore e tradimenti senza tante pretese, prodezze di cappa e spada o le avventure di un valoroso guerriero contro un despota crudele o peggio un drago, storie di spie, un gialletto, però uno straccio di libro ci stava. Giornale? Sì, venticinque anni fa si leggeva anche quello, ma aprire e girare le pagine di un giornale nell’affollatissima subway della rush hour (l’ora di punta quando si va e si torna dal lavoro) è come stendere la tovaglia in spiaggia quando tira vento: ti incazzi tu, fai incazzare quelli attorno a te e la tovaglia non si stende proprio e se ne svolazza per i fatti suoi riempiendoti la faccia di sabbia. Venticinque anni fa. Per quanto i due giornali plebei di NYC («New York Post» e «Daily News») avessero adottato già al tempo un formato tabloid, di dimensioni più ridotte, più facile da sfogliare del nobile «New York Times», le cose presero a cambiare in 9
fretta, con grandissima accelerazione e quasi tutti ben presto smisero di trafficare con le pagine, grandi o piccole che fossero. Da libri e giornali si passò ai walkman, cuffiette e cassettine, con la conseguente trasformazione dei passeggeri da attenti lettori a inebetiti ascoltatori. Io ne ho un paio conservati gelosamente come reliquie dei tempi che furono. Intendo i walkman non gli inebetiti ascoltatori. Gli altri sviluppi tecnologici penso li abbiano presenti anche i lettori più giovani e quindi li trascuro. Magari state leggendo questa pagina in formato elettronico sul vostro kindle, nook, iPad, telefonino o altre cose inventate mentre scrivo. Per me invece il libro è carta, va comprato (perdonate l’insistenza J) e va comprato di carta. Tuttavia capisco la praticità del formato elettronico che come avrete intuito non amo affatto. Devo confessare che una volta un libro elettronico l’ho comprato anch’io, proprio per poterlo leggere in subway. Avevo già l’originale in carta, ma mi dovetti arrendere al formato virtuale visto che si trattava di tre tomi da oltre 600 pagine l’uno. Leggerlo in viaggio più che cercare di stendere la tovaglia al mare era come prepararsi ai mondiali di sollevamento pesi ed equilibrismo allo stesso tempo. A un certo punto però ho perso l’iPad (come ho fatto non lo so), e non ho più ricomprato né un libro elettronico né un nuovo iPad. Sono rimasto fedele alla carta, con tutti i sacrifici che comporta. By the way, se vi interessa la storia della guerra civile americana (difficile capire questo paese senza conoscerla) comprate l’opera di Shelby Foote. Tre volumi che di meglio non c’è. Spessi come mattoni, ma disponibili anche in formato elettronico. Quando scrissi Musica, parole e storie avevo fatto un breve cenno ad alcune fonti di ispirazione di quel mio scritto tra le quali primeggiava Vita e Destino di Vasily Grossman. «Non faccio per vantarmi, ma oggi è una bellissima giornata», come avrebbe commentato in un attacco di modestia il celeberrimo e pluricitato (nelle mie opere precedenti) Vilel10
mo Zazzeroni giunto a noi attraverso Gianco Edera (che sta a Vilelmo Zazzeroni come Platone sta a Socrate). Questa volta come fonte di ispirazione, tanto per continuare a volare basso, tiriamo fuori Moby Dick. Un capolavoro quello di Herman Melville, a cavallo (beh, animale sbagliato) tra un manuale di baleneria e una affascinante e misteriosa allegoria dell’avventura umana. Proviamo a fare la stessa cosa con la subway come se fosse il leviatano di New York City. Tanto per cominciare, chiamatemi Ismaele. Certo che se non avete letto i classici della letteratura metà delle battute se ne vanno “via col vento” (come scrisse Margaret Mitchell… o come diceva il mio amico Turoldo allora studente di medicina e vittima di precoce calvizie quando, trovandolo davanti allo specchio a contemplarsi il cranio sempre più lucido, lo si interrogava in merito allo stato dei suoi capelli – “via col vento”, appunto). Bene, adesso che vi siete sorbiti questa “ode al libro di carta” o “pagina di promozione libraria” degna dei gloriosi tempi del MinCulPop (ovvero il Ministero della cultura popolare nel Regno d’Italia ai tempi del fascismo), possiamo salire in carrozza. Train, treno. Noi il sistema della metropolitana lo chiamiamo subway, ma quelli che corrono in lungo e in largo li chiamiamo trains. Train è anche quella che chiamate “linea” e naturalmente un train è fatto di tante carrozze, cars. La car è la carrozza. Ecco, così vi convincete ancora di più che il passaggio dall’italiano all’inglese è tutta una questione di elisioni e troncamenti. Prima che la mia vita si colorasse di tutta questa quotidiana familiarità con la subway un treno era un treno e una carrozza una carrozza. Sempre rigorosamente sopra la superficie terrestre. Mi ricordo persino i vagoni di “terza classe” con i sedili di legno. Di treni normali ne ho presi tanti, soprattutto negli anni dell’università. Non che si tornasse al paesello tanto spesso, 11
ma quando si tornava si tornava in treno così come in treno si riandava a Milano finita la parentesi in riva all’Adriatico. Comunque molto “normali” quei treni non erano. I Milano-Lecce che mi toccava prendere non erano affatto treni normali. Magari tra la gente che ci saliva c’era pure qualche personcina normale (magari…), ma dal momento in cui si metteva piede a bordo il criterio della normalità si volatilizzava lasciando il campo ad altri fattori dominanti in un contesto molto colorful fatto di valigie di cartone legate con lo spago, caciotte appese ai finestrini, generi alimentari di ogni sorta avvoltolati in strofinacci da cucina, bottiglioni e fiaschi di vino (quelli con la paglia intorno) incastrati tra i bagagli, scarpe e calzette appoggiate da qualche parte a prendere aria. Soprattutto in estate la combinazione calore-fetore era veramente letale. Sovraffollati, sporchi e maleodoranti, quei treni si trascinavano attraverso la Pianura Padana e lungo la costa adriatica e sembrava non arrivassero mai da nessuna parte. Poi in qualche modo, e quasi sempre con abbondanti ore di ritardo, da qualche parte arrivavano, magari pure a destinazione. Adesso avete le “frecce” di tutti i colori che viaggiano da un capo all’altro del paese a velocità da formula uno. Basta pagare. Chiusa anche questa digressione. Un’ultima avvertenza prima di cominciare il viaggio: tenetevi. I viaggi in subway sono raramente smooth, delicati, dolci, lisci, senza scossoni. Se riuscite a trovare un posto a sedere, bene. Altrimenti, come ricordava san Paolo a quelli che prendevano la subway a Corinto, «Chi crede di stare in piedi badi di non cadere». New York, a.D. 2019
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