«Ancor che tristo ha suoi diletti il vero»

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quaderni aldo palazzeschi

Martina Romanelli

E 16,00

«Ancor che tristo ha suoi diletti il vero» Martina Romanelli

Carte alla mano, con un gruppo sparuto di testi e un ultimo, tormentatissimo abbozzo abbandonato alle soglie del 1820, è difficile parlare di un Leopardi drammaturgo. Ma se il teatro resta ai margini della sua esperienza letteraria, a differenza della prosa filosofica delle Operette morali e della poesia dei Canti, è anche vero che il lettore dello Zibaldone si imbatte spesso in appunti, postille e digressioni che danno origine alle pagine più importanti del suo pensiero. È il caso di una nota come quella del 21 luglio 1823: un promemoria, pressoché insospettabile, sul teatro del tardo Cinquecento che nasconde in realtà i primi passi di una rivoluzione teorica destinata a cambiare radicalmente la poesia leopardiana. A partire da questo insolito spunto di lettura, che anche a distanza di anni continuerà a guidare i percorsi dello Zibaldone, Martina Romanelli rilegge una fase cruciale della riflessione leopardiana sul senso e sulla legittimità della poesia all’indomani della crisi testimoniata dalle Operette. Sulla scorta di testi e strumenti raramente messi in gioco anche a proposito dell’ultima produzione leopardiana, i termini e i problemi su cui a partire da Zibaldone 2999 si sviluppa la critica al genere teatrale assumono un nuovo significato, fino a rivelarsi un’occasione di fondamentale, e forse irripetibile, riflessione sulla letteratura che trova nella poesia l’ultima forma di riscatto di fronte al dramma dell’esistenza.

Una lettura di Zibaldone 2999

«Ancor che tristo / ha suoi diletti il vero»

Martina Romanelli è dottoranda in Filologia, Letteratura Italiana e Linguistica presso l’Università degli Studi di Firenze e si occupa prevalentemente di prosa settecentesca. A Giacomo Leopardi ha dedicato, sotto la guida di Anna Dolfi, una serie di ricerche in parte confluite in questo libro. Ha pubblicato saggi anche su poeti e narratori della terza generazione (Piero Bigongiari, Giuseppe Dessí…); collabora con il “Laboratorio OA” del Dipartimento di Lingue e Letterature interculturali dell’Ateneo fiorentino ed è membro dei comitati redazionali delle riviste «LEA – Lingue e Letterature d’Oriente e d’Occidente» e «Luziana».

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centro di studi ÂŤaldo palazzeschiÂť UniversitĂ degli Studi di Firenze Dipartimento di Lettere e Filosofia

quaderni aldo palazzeschi nuova serie

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La collana ospita ricerche di area italianistica compiute da allievi dell’Ateneo fiorentino, giudicate meritevoli di pubblicazione dal Consiglio Direttivo del Centro di Studi «Aldo Palazzeschi». L’Università di Firenze intende in questo modo onorare la memoria e la patria sollecitudine di Aldo Palazzeschi, che l’ha costituita erede del suo patrimonio ed esecutrice della sua volontà.


Martina Romanelli

«Ancor che tristo ha suoi diletti il vero» Una lettura di Zibaldone 2999

Società

Editrice Fiorentina


Il volume beneficia di un contributo a carico dei fondi del Dipartimento di Lettere e Filosofia, Centro di Studi «Aldo Palazzeschi», Università degli Studi di Firenze

© 2018 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-463-4 issn: 1721-8543 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina: Alvaro Cartei, Cinciallegra su piastrella di maiolica, 1979 ca., collezione privata


indice

INTRODUZIONE 11 Ragioni dell’«esprit du siècle»: l’esempio arcadico come pretesto 1. La scena fra abbozzi poetici e meditazione critica 1.1. L’anti-dialogo e l’anti-monologo 1.2. Le tre variabili drammaturgiche 1.3. Il rapporto di solidarietà col Cinquecento 2. L’utopia pastorale fra Sannazaro, Tasso e Guarini: quale magistero? 2.1. L’«affaire» pastorale e la prima non-dimensione poetica 2.2. I «possibilia» come linearità e alterazione 2.3. Un’Arcadia costruita «molli in limo et instabili arena» 2.4. «Sia pur quanto volete ridente»: la scommessa antipascaliana

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«E se tra questi rami il vento per aventura movendoti ti donasse spirito, non far mai altro che gridare, mentre quel fiato ti basta» 1. Prosa, monologo e appunti letterari 1.1. Gli anni Venti fra volgarizzamenti e trionfo dell’editoria 1.2. Coordinate della prosa teorica 2. «Duplex libelli dos est»: dalla poesia alla prosa 2.1. Quasi all’altezza dei «templa serena» 2.2. La pietà delle «meteore spaventevoli» 2.3. Frenesia bacchica e nosologia: puntualizzazioni 2.3.1. «Musa quies hominum divumque aeterna voluptas». L’inganno e la consapevolezza degli antichi 2.3.2. Problemi di lessico: evasione metafisica? 2.3.3. Problemi di lessico: una bellezza filosofica 2.4. Postilla quasi intermedia. Un appunto (breve) sul riutilizzo della drammaturgia

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3. Entusiasmo, ispirazione, «labor limae»: novità e tradizione in campo lirico

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Et in Arcadia ego 1. Maniera antica, poetica, filosofica 2. Casi di bifrontismo: dalla lettura di Wolf all’insostenibilità linguistica della sfera razionale 2.1 «Vivido impetu et ardore animi». Persistenza diacronica delle occorrenze lessicali 2.1.1. “Antistoricismo” della poetica e abolizione della teoria tripartita nell’idea di ispirazione 2.1.2. Idee, oggetti e stile 2.2. Dal giardino ridente alla «morta zolla e incenerita» 3. Lo stasimo

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BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE CONSULTATE

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ELENCO dei passi leopardiani richiamati a testo

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Indice dei nomi

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προσέχετε τὸν νοῦν τοῖς ἀθανάτοις ἡμῖν, τοῖς αἰὲν ἐοῦσιν, τοῖς αἰθερίοις, τοῖσιν ἀγήρῳς, τοῖς ἄφθιτα μηδομένοισιν Aristoph., Av., vv. 688-689 L’erreur de la plupart des moralistes fut toujours de prendre l’homme pour un être essentiellement raisonnable. L’homme n’est qu’un être sensible qui consulte uniquement ses passions pour agir, et à qui la raison ne sert qu’à pallier les sottises qu’elles lui font faire. J.-J. Rousseau, Fragments politiques [Des mœurs – Hist. De mœurs] […] l’on se fuit ordinairement, parce que chaque homme est malheureusement dans le cas de ne point trouver de plus mauvaise compagnie que soi-même. Vittorio Alfieri, Giornale [23 novembre 1774]


La mia gratitudine ad Anna Dolfi.


INTRODUZIONE

Che cos’è un poeta? Un uomo infelice che nasconde gravi pene nel suo cuore, ma le cui labbra sono conformate in tal modo che il sospiro e il grido all’uscirne le rende squillanti come una bella musica. La sua sorte è simile a quella degli sciagurati che nel toro di Falaride furono tormentati a fuoco lento, e le cui grida non potevano giungere all’orecchio del tiranno per turbarlo, giacché per lui avevano il suono di una dolce musica. Ora gli uomini si affollano intorno al poeta e gli dicono: «Canta presto di nuovo, cioè che nuove sofferenze torturino presto la tua anima, e che le tue labbra seguitino a essere conformate come prima, poiché le grida non farebbero che inquietarci, ma la musica è soave». E i critici si accostano dicendo: «Va bene, così deve essere secondo le regole dell’estetica»1.

Anche estrapolato dal contesto della filosofia kierkegaardiana, il primo aforisma dei Diapsalmata (che non citiamo tuttavia nella sua interezza) conserva un potenziale evocativo strettamente legato all’ambito letterario. Vi si possono intuire in modo chiaro e diretto problematiche strutturali, che ci fanno pensare sia ai possibili sviluppi di una teoria del linguaggio poetico (con la tradizionale discrasia fra significante e significato2) sia a un forte richiamo alla responsabilizza1

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Sören Aabye Kierkegaard, Aut-Aut (Diapsalmata), in Opere, a cura di Cornelio Fabro, Firenze, Sansoni, 1988, p. 7. Questo, per la “costituzione ontologica” del linguaggio, cioè per il suo potersi presentare soprattutto in poesia non come cristallizzazione semplice dell’idea, bensì come oggetto verbale incapace di limitarsi alla definizione, a quella determinazione circostanziata che rischierebbe di sacrificare la vita del discorso, la vita della parola, ai princìpi di scientificità, esaustività e chiarezza. Esiste, a questo proposito, una bella immagine nell’epistolario dell’Algarotti e che riassume un ideale poetico non distante, in linea teorica, dalla sensibilità linguistica: nell’epistola diretta al Voltaire (testo che si prefigge di attaccare il servilismo accademico), si parla niente-


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zione della scrittura (con una risultante estetica che rischia di entrare in aperta collisione con la realtà effettuale e speculativa). A fronte delle molte tematiche che la nota può suggerire, dal solipsismo dell’Io poetante alle ricerche tecnico-strofiche o al rapporto con il patrimonio condiviso della lingua poetica, è evidente che il suo primo significato ruota attorno a un problema essenziale: sono antinomie, insiemi disgiunti, che nascono quando una venatura inquieta si insinua all’origine dell’evento compositivo. È il vuoto, o l’impotenza, della scrittura di fronte a un reale povero e negativo che, come nel caso della poesia leopardiana, si divide fra l’annullamento della tensione lirica e l’effetto (miracoloso, paradossale, contrastivo, adialettico…) di una poesia che rinasce sul crinale di simili aporie; ed è, dopotutto, la più alta acquisizione dell’intellettuale moderno; una coesistenza di opposti, un azzardo escatologico attuato nel nome del «paradosso supremo del linguaggio poetico»3. Il biennio 1823-1824 segna una profonda frattura nella vicenda letteraria di Leopardi, concretizzandosi nella definitiva (e altresì irreversibile) presa di coscienza del vero: un generale stato di indigenza esistenziale che si rivela essere l’unico principio posto a fondamento della realtà. Le conseguenze di un presupposto di tale portata, in cui tutto dipende da un male endemico e da un’ontologia difettiva, agiscono in maniera profonda certo sul piano speculativo ma, soprattutto, colpiscono ogni prospettiva poetica. In questo momento di grave involuzione, cui fa comunque da contraltare un approfondimento filosofico straordinario e destinato a imprimere nuovo valore alla scrittura e allo status di intellettuale, comincia per Leopardi un lungo periodo altalenante fra auto-esegesi e recupero di una cronistoria compositiva tutta individuale; operazione che si protrae quasi per un quinquennio e che insieme alle forme analitiche, severe, impoetiche, della prosa delle Operette (che si sostituiscono all’euritmia

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meno che della necessità generale (in Italia come in Francia, per quanto le situazioni linguistiche siano piuttosto diverse) di «un nuovo genere di poesia, che sotto i fiori delle parole asconda frutti di cose» (Francesco Algarotti, lettera a Voltaire del 10 dicembre 1746, in La letteratura italiana, storia e testi. Illuministi italiani. Opere di Francesco Algarotti e Saverio Bettinelli, a cura di Ettore Bonora, MilanoNapoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1969 [vol. 46, tomo ii], p. 550). Adelia Noferi, Frammenti per i Fragmenta di Petrarca, Roma, Bulzoni, 2001, p. 204.


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e alla sperimentazione del verso, oramai insostenibili4), approda a un silenzioso lavoro sotterraneo. Spinto da un interrogativo ancora irrisolto sulla paventata archiviazione dell’impegno poetico (ora che le nuove acquisizioni filosofiche hanno di fatto invalidato le caratteristiche estetiche e i presupposti onto-nosologici della poesia), ha inizio un ripensamento complessivo di temi, mezzi e finalità della letteratura, una serrata ridiscussione delle posizioni teoriche fin lì considerate incrollabili e certe, una manovra di riassestamento o di restauro ideologico che non si può definire in altro modo se non estrema. Ed è in questo preciso frangente, mentre ogni tensione poetico-evocativa si svuota e il suo linguaggio è annientato dalla forza depressiva della ragione, che Leopardi raggiunge, sorprendentemente, un punto di altissima conciliazione fra il terribile del vero e la riabilitazione piena della poesia. Nasce così una nuova letteratura, una nuova esperienza del linguaggio che è, soprattutto, una riappropriazione di forme e di suggestioni liriche; e anche se gli esiti di questa rivoluzione saranno evidenti soltanto a ridosso del Trenta (come dimostrano il “risorgimento” poetico del 1828 e la disgregazione dell’originaria teoria dei generi dovuta all’incontro con gli studi wolfiani), indizi e prime teorizzazioni di questa rivoluzione linguisticopoetica si affacciano con largo anticipo nella prosa dello Zibaldone. Il primo dei luoghi leopardiani a registrare il cambio di rotta, il bisogno di ripensare in toto la letteratura. È il 21 luglio 1823: senza alcun preavviso se non un rimando macro-tematico, il dramma pastorale irrompe nello Zibaldone. Prima 4

Il piacere formale (sonoro) dato per esempio dalle liquide, soprattutto nel loro alternarsi, tornava già nel Rousseau della Lettre sur la Musique Françoise; testo che può considerarsi nel suo insieme attento alla ricerca della musicalità del dettato poetico, testo nel quale egli scriveva: «il faut remarquer que ce qui rend une langue harmonieuse et véritablement pictoresque, dépend moin de la force réelle de ses termes que de la distance qu’il y a du doux au fort entre les sons qu’elle employe» (Jean-Jacques Rousseau, Lettre sur la Musique Françoise, in Œuvres complètes, tome v [Ecrits sur la musique, la langue et le théâtre], Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1995, p. 297); un’affermazione che precede l’elogio del verseggiare tassiano come coulant, una qualità che lo rende capace di trasmettere il senso dell’idea poetica proprio attraverso la scelta del suono (ivi, p. 298). Anche in questo senso è da notare l’uso di “pictoresque” (sulla cui incidenza nell’ambito dell’estetica settecentesca potrebbe essere utile la panoramica offerta dal Dictionnaire européen des Lumières, sous la direction del Michel Delon, Paris, puf, 2007, in particolare pp. 1004-1007).


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di allora, e nelle pagine successive, la variabile boschereccia si aggira attorno a una percentuale di frequenza talmente esigua da farne sospettare, in concreto, l’assenza: un Guarini citato per via volterriana nel corso di una discussione sulla «mia teoria che distrugge il bello assoluto»5, quindi un Poliziano richiamato solo per una particolare variante grammaticale attestata a inizio dell’Orfeo6. All’apparenza, anche il passo di Zibaldone 2999 sembra destinato a inserirsi perfettamente, come tessera ben levigata, in un mosaico che nasce – se proprio se ne volesse ricostruire a ritroso una qualche ascendenza teorica, ricercandone una paternità giustificata dalle indicazioni dello stesso Leopardi – da uno dei percorsi “particolari” del grande libro; ultima tappa, in altre parole, di un approfondimento contrastivo sulla drammaturgia antica e su quella moderna. Eppure, più si osserva la noterella, più si percepisce che sarebbe bene andare oltre la superficie. La pagina, nel suo isolamento grafico e tematico (non fosse per il già ricordato appunto retrospettivo, che la classifica come postilla di una ricognizione sulle pratiche drammaturgiche antiche, e soprattutto sullo scarto “di natura” fra attanti singoli e coro), è prettamente monotematica ed esclude appunti a latere; è sintetica, riprende in compendio e con sicurezza le tesi esposte nel mese precedente, sottolinea passaggi-chiave o, se si preferisce, una formulazione storiografica ed estetica di compendio. Un punto di arrivo dal quale, vale la pena anticiparlo, non si tornerà più indietro nonostante le migliaia di pagine di cui ancora lo Zibaldone dovrà arricchirsi, prima di terminare nel dicembre del 1832. Di per sé, non conta tanto il fatto che in un tentativo di lettura lineare dello Zibaldone (ma forse il principio vale per altre modalità di lavoro) si incroci all’improvviso un giudizio sull’effetto “bello” (poetico) delle partizioni corali dell’Aminta e del Pastor Fido. L’incontro, la deviazione da una linea guida, quasi fosse la variazione a-narrativa dell’entrelacement, rientra nella costituzione del grande libro leopardiano. Scrittura stratificata negli anni, realizzata su una linea progres5

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Zibaldone 1425 (la nota è del 31 luglio 1821). Segnaliamo fin da questa altezza che ogni riferimento all’opera sarà fatto avendo come testo-base lo Zibaldone di pensieri nell’edizione critica e annotata, in tre volumi, a cura di Giuseppe Pacella, Milano, Garzanti, 1991. Rispetto alla trascrizione di Pacella, sciogliamo tutte le abbreviazioni non strettamente tecniche e riportiamo in carattere tondo la numerazione autografa. Zibaldone 4121 (17 novembre 1824).


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siva che si combina di frequente con percorsi concentrici, itinerari a libera interpretazione diacronica, marginalia, riletture d’autore, sistemi di rimandi e decodificazioni interne: lo Zibaldone, come scenario della biografia intellettuale del suo autore, nasce su una vocazione principalmente amorfa e intradiegetica, senza che questo tuttavia ne pregiudichi la diretta contiguità (o interdipendenza, se si preferisce) rispetto agli altri testi del corpus leopardiano. Insieme alle Operette morali lo si può considerare il luogo d’elezione in cui si muove il Leopardi prosatore e gli va appunto riconosciuta non solo una precisa (a-sistematica) autonomia estetica, ma una reale funzione storicoesplicativa di fronte all’evoluzione della poetica leopardiana nel tempo; tanto che non sarebbe improprio definirlo base-semenzaio, da cui nascono “in levare” le esperienze dei Canti e della prosa filosofica, e persino il progetto editoriale delle due Crestomazie e i Pensieri. Della scrittura leopardiana lo Zibaldone condivide, di fatto, un fondamentale bifrontismo fra vero e illusione, fra poesia e filosofia, seppure articolandolo secondo i suoi percorsi dalle forme molteplici; e resta un dato di fatto che questa linea ideologica (o ideo-estetica) lo rende molto simile al percorso linguistico e nosologico della sua poesia. Lo stesso, insomma, che fa dei Canti un’operazione di continua ridiscussione di realtà logiche e forme espressive, quasi come se si trattasse di un esercizio di (seria, fatale) variazione sul tema. Perché lo Zibaldone parli al lettore dei Canti è certo utile approfondire le tangenze storiche fra i due luoghi della scrittura leopardiana, andando talvolta a riconsiderare sotto una luce diversa richiami onomastici o particolari semantici che, all’apparenza, potrebbero anzi risultare muti, chiusi nel loro isolamento tematico. Naturale che i parallelismi cronologici siano il più immediato terreno di riscontro per un lettore o per uno studioso (chi è che ignorerebbe, per far un esempio dei più noti, l’importanza documentaria del reportage sui Kirghisi a firma Meyendorff?); ma accade che, proprio nel rispetto dell’impostazione aperta, e libera, della scrittura, il principio di prevedibilità o deduzione debba trovare strade alternative, debba cioè acquisire una speciale capacità di adattamento alle tante e differenti biosfere che si dilatano, scompaiono e a tratti riemergono dopo lungo tempo nell’insieme delle pagine zibaldoniane. Casi di corrispondenze od occasioni-spinta che si sviluppano in via diretta, dunque, e casi invece di scritture “riempitive” o dall’effetto latente,


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che lasciano sedimentare nella storia intellettuale di Leopardi una serie di elementi che, da insospettabili quali erano, innescano meccanismi di sommovimento interno allo Zibaldone. Ed è questo il caso della poesia nata dopo il tempo delle Operette. Se l’ossimoro alla base della poesia leopardiana non è argomento di scoperte recenti, a nostro avviso resta da attraversare il suo percorso poetico a partire dalla messa in discussione del genere drammaturgico (altezza 1823, proprio quando Zibaldone 2999 inaspettatamente propone un giudizio folgorante sul dramma pastorale del tardo Cinquecento7). Le energie teoriche che Leopardi investe in direzione di una definizione di poesia che possa riscattarsi dalla trazione opposta del vero (soluzione assimilata poi all’esclusività della reductio ad lyricam) hanno un importante antecedente nella destabilizzazione del genere drammaturgico: di fatto, il primo atto della disgregazione di una parte del Sistema delle Belle Arti a ridosso delle Operette e degli anni di silenzio poetico. Non manca, e non è mancato negli anni, uno studio del Leopardi critico e scrittore per la scena. Nella sua vastità periodicamente accresciuta, la letteratura critica ha interrogato a fondo i processi che sono propri di questa vicenda artistica; una messe di ricerche le quali, nella loro pluralità, hanno risposto bene a una geometria poliedrica e liberamente estensiva che si riconosce anche solo seguendo i percorsi, parzialmente carsici, interni allo Zibaldone. Limitatamente al nostro argomento d’indagine, al di là quindi dei contributi scientifici che, nella loro complessità, certo concorrono a strutturare una base solida per l’apporto critico e scientifico essenziale, si trovano analisi capaci di esplorare un ambito letterario che ha effettivamente stentato, come genre, a spiccare fra gli altri. Tant’è vero che quasi sarebbe più onesto parlare soltanto di esperimenti o di prove rimaste sotto forma di studio, di imbastitura provvisoria non arrivata a vero compimento programmatico, tantomeno editoriale. 7

Dunque, una nota di questo tipo comporta la necessità di considerare il rapporto con uno specifico momento teorico-letterario (l’ultimo Cinquecento del Guarini e del Tasso, pur dovendo tener conto della conoscenza che Leopardi aveva della più ampia realtà culturale e della stessa storia che in fondo pone in essere lavori come il Pastor Fido e l’Aminta), ma anche nella sua sostanziale condizione di isolamento tematico invita, toccando più altezze compositive e opere diverse, a trovare risposta all’attenzione che Leopardi dedica al dramma pastorale.


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Avvicinarsi al teatro leopardiano è un’esperienza che consiste nella lettura di un numero di testi piuttosto ridotto. Certo, la quantità non risulterebbe esigua8, e questa stagione prevalentemente puerile non si collocherebbe integralmente in zone periferiche del corpus leopardiano9, nel momento in cui si considerasse quanto poco rispondente (in senso ufficiale) sia stato questo terreno per l’autore. In linea generale, la critica ha finora seguito due percorsi principali: la possibilità di considerare alcune tangenze che accomunano Leopardi a personalità storiche o mitologiche che gravitano attorno a opere drammaturgiche (pensiamo ad esempio alla figura di Bruto, che interpreta una tensione ideologica giunta a un culmine titanico che sta per essere «trasferito dall’azione al pensiero»10, ma pensiamo anche a quanta influenza generalmente teorica possono aver avuto gli scrittori per la scena); la strada, poi, di vagliare a fondo il Leopardi autore di testi pensati per la rappresentazione – o relativamente al contesto scenico – per rispondenza tematica, stilistica, formale. In quest’ultimo caso esistono interventi critici che hanno fortemente contribuito a far luce su questa fase compositiva. Va naturalmente citata l’edizione filologica e commentata dei testi per la scena realizzata da Isabella Innamorati con una preziosa pubblicazione del

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Vedremo poi, grazie al lavoro di Isabella Innamorati, quanto saldamente ragionati fossero i tentativi di scrittura scenica. Interessanti anche le (cronologicamente precedenti) ricostruzioni di Savarese, per cui cfr. Gennaro Savarese, L’eremita osservatore. Saggio sui “Paralipomeni” e altri studi su Leopardi, Roma, Bulzoni, 19952, pp. 253-283 (sulla Maria Antonietta) e 285-305 (sulla Telesilla, con appendice). I testi che rientrano in questa fase compositiva sono cinque: due (quelli più remoti, quelli che rispondono a esigenze dettate dai ritmi educativi di casa Leopardi) sono gli unici portati a conclusione e sono La virtù indiana del 1811 e Pompeo in Egitto del 1812; nei casi restanti, si tratta di abbozzi, stesure alle volte più che parziali o piani d’azione schematici e sinteticissimi (emblematico il caso della Maria Antonietta del 1816). Solo la Telesilla è al centro di interventi più ampi e continuati nel tempo, nonché è il testo più tardo; fra l’altro è un dramma (che forse sarebbe meglio chiamare pseudo-pastorale?) che propone un problema non da poco rispetto al genere cui tenta di richiamarsi, poiché sostanzialmente vi si infrangono le linee di progressione tematica e morale tipiche del dramma pastorale. Su tutto questo però rimandiamo, complessivamente, alla curatela di Isabella Innamorati, della quale tratteremo poco più sotto. Umberto Bosco, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, in Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi e altri studi leopardiani, Roma, Bonacci editore, 1980, p. 17.


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199911; ma vanno ricordati anche il convegno recanatese del 200412 e una serie alquanto nutrita di saggi che, pur non facendo della questione drammaturgica il cardine della propria ricerca, offrono interessanti contributi, input o angolature spesso nuove, sui rapporti tra Leopardi e la drammaturgia (pensiamo alle ricerche di Anna Dolfi in Ragione e passione13, a quelle di Franco D’Intino ne L’immagine della voce14 o di Massimo Natale, autore di un’ampia ricognizione sulla fortuna del coro tragico nella letteratura italiana15). Per ragioni strettamente tematiche, andranno certamente aggiunti quei contributi della critica che si sono dedicati al rapporto di Leopardi con la cultura letteraria del XVI secolo, essendo il Cinquecento dei drammi pastorali al centro della nota di Zibaldone 2999. Di per sé il rapporto leopardiano con l’arte drammatica assume i tratti di una relazione piuttosto complessa. I diversi interventi che, per esempio, hanno contribuito al sopracitato volume degli Atti, nell’insieme, riescono a descrivere la pluralità e il dinamismo che sono insiti nel modo che Leopardi ha di rapportarsi col problema del teatro (disposizione, questo è più che evidente, riscontrabile in qualsiasi altra occasione che vede l’autore confrontarsi con diverse tematiche affrontate; in ottemperanza al valore speculativo, fondamentale, del non-sistema). Generalmente la critica ha trattato la questione della drammaturgia leopardiana prediligendo studi che dessero o ricostruissero un contesto propizio al confronto stilistico-morale con gli scrittori che si sono dedicati al teatro16, ma non ha ignorato la 11

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Giacomo Leopardi, Teatro, edizione critica e commento di Isabella Innamorati, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1999. La dimensione teatrale in Giacomo Leopardi, Atti dell’xi Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 30 settembre – 2 ottobre 2004), a cura del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, Firenze, Olschki, 2008. Anna Dolfi, Ragione e passione. Fondamenti e forme del pensare leopardiano, Roma, Bulzoni, 2000. Franco D’Intino, L’immagine della voce. Leopardi, Platone e il libro morale, Venezia, Marsilio, 2009. Massimo Natale, Il curatore ozioso. Forme e funzioni del coro tragico in Italia, Venezia, Marsilio, 2013. Per esempio, Manzoni. Sulla drammaturgia manzoniana cfr. Gilberto Lonardi, L’esperienza stilistica del Manzoni tragico, Firenze, Olschki, 1965, pp. 101-103. La produzione drammaturgica di Alessandro Manzoni, se anche non del tutto coeva al lavoro del Leopardi (e ovviamente non responsabile di influssi sulle prove leopardiane per la scena) percorrerà, questo è noto, una scelta letteraria alquanto diversa:


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possibilità di leggervi una vera e propria pagina di sperimentazione stilistica. In quest’ultima direzione, oltre alla minuziosa ricostruzione di Innamorati che dei cinque testi leopardiani ha riassestato e contestualizzato il «vertiginoso intarsio» di fonti (il sintagma è di Stefano Verdino17), ha spinto soprattutto la ricerca di Violante Valenti, il cui contributo agli Atti del convegno del 2004 arriva dopo ben due libri del 1995-1996 e riporta una titolazione quanto mai eloquente. Il suo La riforma teatrale di Leopardi18 essenzialmente propone un’interpretazione dello stato dei lavori drammatici leopardiani in funzione militante, volendo cioè riconoscervi una precisa, programmatica intenzionalità di innovazione. Come, appunto, se Leopardi si fosse presentato a tuttotondo in veste di riformatore dell’arte scenica. Per quanto riguarda la nostra ricerca, vorremo far riferimento alla proposta di Valenti (che riprenderemo poco più avanti) perché mette in luce due elementi che ci sembrano fondamentali: lo studio infatti solleva un problema notevole (che va considerato anche nella sua possibilità di interazione con la questione linguistico-poetica19) e un’osservazione tematica utile all’interpretazione del rapporto di Leopardi con la drammaturgia. Da un lato, l’impraticabilità della scrittura per la scena tradizionale (perché, viene da domandarsi, è un «destino in-

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abbastanza precocemente – la difficoltà sistemica, concettuale, è evidente nella stesura e nella presentazione stessa delle tragedie – il Manzoni arriverà a sacrificare l’idea di immaginazione (la felicità creativa) al rigore o all’intransigenza dell’esattezza geometrica, vedendo nell’ipotesi ragionata l’unica ammissibile licenza (essa che è solo indirettamente logica). Cfr. quanto scritto da Lonardi sulla questione degli arcaismi: «Se l’arcaismo, e in genere la “parola” del Leopardi, pur nella sua decantata precisione, cerca l’indefinito, nel Manzoni definisce. Piegati unicamente a designare e a significare, anche l’arcaismo e la voce colta (quando non sia eliminata per via elaborativa) acquistano nel Carmagnola (e nell’Adelchi) una tonalità neutra, “disalonata”, liberandosi così d’ogni eco evocativa, e delle potenzialità melodiche che secoli di tradizione vi hanno sedimentato» (p. 103). Un tentativo di lettura incrociata si trova proprio nel volume degli Atti, per cui cfr. Giuseppe Sandrini, Leopardi e le tragedie di Manzoni, in La dimensione teatrale in Giacomo Leopardi, cit., pp. 341-360. Stefano Verdino, Voci e personaggi in versi, in La dimensione teatrale in Giacomo Leopardi, cit., p. 319. Violante Valenti, La riforma teatrale di Leopardi. Dal sistema drammaturgico dello Zibaldone al Teatro per frammenti (Maria Antonietta, Erminia, Telesilla), in La dimensione teatrale in Giacomo Leopardi, cit., pp. 509-526. Cfr. Zibaldone 4418-4419, su cui avremo occasione di tornare.


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terrotto fino a oggi», quello della modificazione della maniera teatrale? Lo è al di là di una prospettiva civile in quanto contesto artistico non pensato, non alto? Lo è quindi per sua strutturazione interna?20), problema che tuttavia si spiega per ragioni strettamente legate alla poetica leopardiana e non a causa della corruzione del gusto o per la mancanza di una letteratura nazionale21; dall’altro, la «fenomenologia» dell’individuo che stando all’importanza sempre più marcata delle individualità che compongono la tavola dei personaggi – e stando anche a specifiche note zibaldoniane, su questo chiarissime – spinge in ben altra direzione. Tutto questo non significa che a Leopardi sia mancata una spinta innovatrice o, meglio, che gli sia mancato un approccio lucido e critico nei confronti del canone drammaturgico già in tempi remoti. Basterebbe pensare al rapporto con modelli onnipresenti come l’Alfieri o alla costruzione stessa dei testi per la scena – soprattutto degli unici due portati a termine – per avere una prova tangibile della sua capacità di destreggiarsi con espedienti scenici e scelte strutturali. Ma è un gioco di rimandi imperfetti, quello fra i modelli di un passato anche recente e il giovane Leopardi; e l’immagine della dimensione scenica, delle caratteristiche proprie a un testo finzionale di questo tipo, gli arriva in modo altrettanto distorto. È come se non rispondesse alla sua forma mentis, come se risultasse geneticamente incompatibile con la sua sensibilità poetica. Senza cancellare il valore di una prima esperienza compositiva, ma 20

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Assieme a quanto denunciato dallo stesso Leopardi in merito a una prolungata decadenza del gusto – e della qualità intellettuale – dell’Italia non ancora resa unica nazione, assieme al problema del rapporto con la tradizione, è nella «fenomenologia del personaggio» che si va a realizzare in fondo l’analisi che può contenere il senso dell’impraticabilità drammaturgica, elemento che ricorre anche negli altri articoli presenti negli Atti. Precisiamo: la criticità “al presente” della rappresentazione drammaturgica (sterile, autoreferenziale, vuota, alle volte incapace di comunicare con lo spettatore, altre volte qualitativamente bassa) esiste, ma la questione sembra riguardare soprattutto una dimensione esistenziale, in cui la messinscena è copia di una realtà fondata su un apparente dualismo: la nullificazione dell’autodeterminazione o della centralità volitiva dell’individuo, il meccanismo formale del sistema-esistenza, per cui il teatro è una riproposizione ipocrita del reale, intellettualmente insostenibile. Se poi non manca finalismo alla meccanicità del sistema (basterebbero, a confermarlo, un’operetta come il Dialogo di Ercole e Atlante o il Dialogo della Natura e di un Islandese e qualche nota anche tarda dello Zibaldone), certo viene a mancare una teleologia antropocentrica. Cfr., in ogni caso, Isabella Innamorati, Introduzione a Giacomo Leopardi, Teatro, cit., almeno pp. 114-121, soprattutto verso la fine.


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anche senza investirci entusiasmi eccessivi, gli sviluppi e i risultati della produzione leopardiana, del resto, sono stati altri e non hanno previsto la costruzione di un testo drammatico per quanto “numeri di scena” non siano estranei alla sua poesia o alla sua produzione in prosa (il dialogo, il monologo, quell’interrogazione falsamente dialogica che, verrebbe da dire, è «quella persona ad uso di drammatica o di epica poesia» per la quale s’intende la «figura chiamata “prosopopeia”»22). Per quanto la costruzione del libro di poesie possa di per sé arrivare a essere putativamente considerata – come forma, come oggetto letterario – portatrice di una vicenda che, lontanamente, ricorda le vicissitudini dell’eroe; ma urgeva, in sostanza, una prospettiva differente. L’assimilazione esclusiva dell’Io e della persona, unica norma che Leopardi sente di poter accettare nel campo dell’imitazione letteraria, supera di gran lunga l’auto-identificazione con il protagonista del dramma, perché è il contesto scenico a diventare insostenibile in senso poetico, frammentato com’è in identità multiple e fittizie. Su questa linea interpretativa, che tiene uniti gli interventi raccolti nel volume degli Atti (ci riferiamo soprattutto agli scritti di Gilberto Lonardi, Alberto Folin, al già ricordato D’Intino23), troviamo appunto la lettura positiva di un’unica componente drammaturgica, ossia il coro: attestato e riconosciuto come il «soggetto-moltitudine»24 massimamente poetico, secondo quanto indica Lonardi per il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie – e cioè per l’unico caso in cui la scrittura leopardiana si affida a questo nonattore «infinitamente e apocalitticamente totale»25 – e ultimo ponte di collegamento con la dimensione teatrale. È precisamente in quest’ottica che l’annotazione del 21 luglio 1823 acquisisce una centralità assoluta. Chiamando in causa le parti22

23

24

25

Battista Guarini, Compendio della poesia tragicomica, in Il Pastor Fido e Il compendio della poesia tragicomica, a cura di Gioachino Brognoligo, Bari, Laterza, 1914, p. 222. Nell’ordine, si tratta di: L’«attore ignoto»: verso il «Canto notturno» (pp. 57-65) per Lonardi; Suono voce e canto: il teatro dell’invisibile (pp. 67-78) per Alberto Folin; Il potere della voce. Per un teatro (anti)platonico (pp. 95-115; testo poi riveduto e ristampato alle pp. 133-159 in Franco D’Intino, L’immagine della voce…, cit., da cui si citerà). Gilberto Lonardi, L’«attore ignoto»: verso il «Canto notturno», in La dimensione teatrale in Giacomo Leopardi, cit., p. 64. Ibidem.


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zioni corali delle tragicommedie del tardo Cinquecento26, le riflessioni sul canto corale diventano uno snodo teorico di primaria importanza: sono suscettibili di più livelli di lettura (fra la critica letteraria e i prestiti testuali) e intercettano un momento cruciale per l’evoluzione della poetica leopardiana, tanto da condividerne quei basilari princìpi estetici che permetteranno il risorgimento poetico del 1828. Perché, infatti, scegliere come termine di paragone per l’antico (scil. per l’aspirazione poetica del Leopardi, poeta moderno) i dram26

Del resto, il XVI è descritto dallo stesso Leopardi come l’ultimo grande secolo della letteratura. Prolifico, teso all’innovazione e controversamente scrupoloso a un tempo, il che può certo contribuire a spiegare l’interesse, in senso strutturale, destato nel Leopardi, che nonostante qualche remora fu sempre piuttosto prodigo di elogi. E si evince facilmente anche quanto un contesto vivace come il Cinquecento abbia potuto rappresentare il punto di raccordo fra la sperimentazione poetica e la necessità di misurare e conoscere che da sempre, con curiosità (intendendola come «quel gusto […] quell’ansiosa tenerezza per il termine verbale che traduce fino in fondo e quasi dipinge in tutte le sue sfumature il moto dell’anima» di cui Garin parlava in relazione all’amore umanistico per la parola; cosa posta in essere anche da un forte imperativo critico), anche in questo ambito non si ferma per Leopardi a una considerazione parziale d’un determinato contesto storico o arco cronologico (per la citazione cfr. Eugenio Garin, La cultura fiorentina nell’età di Leonardo, in Scienza e vita civile del Rinascimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 19753, p. 62). Basterebbe considerare, a mero titolo d’esempio, la disposizione sempre aperta verso un intellettuale del calibro di Sperone Speroni che rimane una fonte più che mai indispensabile per questioni che abbracciano lingua, stile e addirittura problemi etico-antropologici; e questo nonostante critiche mossegli dallo stesso Leopardi sulla sua scarsissima originalità e nonostante fonti critiche, a lui note, che lo descrivevano addirittura come protagonista di uno scandalo critico-editoriale. Se difatti andassimo soltanto a considerare la prospettiva che ce lo presenta nello Zibaldone, vedremmo facilmente che nei suoi confronti si assume una disposizione complessa e per nulla unilaterale, assai differente dal commento (piuttosto risentito, urtato, insofferente) di un suo critico acceso come l’Algarotti – più che noto a Leopardi (pensiamo al suo ruolo di autore-passepartout – cfr. Isabella Innamorati, Introduzione a Giacomo Leopardi, Teatro, cit., p. 27 – ma anche allo studio comparatistico delle lingue, con metodologia contrastiva fra italiano e francese, risalente al 1820-1821). Algarotti, infatti, per esempio commentava: «Leggesi a tal proposito [sulla necessità dell’uso della rima in poesia] una assai strana dicerìa negli eruditi zibaldoni di un critico del secolo decimosesto, i quali furono novellamente dati in luce così alla rinfusa; e tal loro pubblicazione è forse uno degl’infiniti abusi che sonosi fatti dalla stampa» (Francesco Algarotti, Saggio sopra la rima, in Saggi, a cura di Giovanni Da Pozzo, Bari, Laterza, 1963, p. 284); ma si dovrebbero citare anche le Lettere di Polianzio ad Ermogene intorno alla traduzione dell’Eneide del Caro (del 1745). Nello Zibaldone lo Speroni viene criticato per la sua affettazione nella prosa (quasi centonaria) e ritenuto però una attendibile, illustre fonte sullo studio linguistico (anche in prospettiva storica).


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mi pastorali?, perché proprio il tardo Cinquecento?, perché l’Arcadia, la mitica proiezione etico-intellettuale consacrata dal Sannazaro, fra l’altro con quell’insistita punta di lode per i testi guariniani? Quali le possibili interpretazioni di questo luogo che sembra acquistare un valore simbolico, essere un corrispettivo topografico della dimensione del testo, dell’atto stesso della scrittura? Le caratteristiche dell’Arcadia che fa da sfondo a Zibaldone 2999 – e che è appunto l’Arcadia dell’apolide Sincero, quella effimera di Tasso o quella attualizzante e istituzionalizzata di Guarini – fanno riferimento a un ecosistema in cui l’evasione, solo apparentemente utopica della dulcedo carminum (direttamente proporzionale all’amenità della fantasiosa regione), coincide con il senso e con la giustificazione della poesia leopardiana posteriore alle Operette morali. E a muoversi in questa regione, lo si desume in presa diretta leggendo il passo del 1823, non sono tanto i pastori coi loro canti amebei o le loro ecloghe, bensì è il coro: è quella moltitudine anonima, indefinita tanto quanto l’orizzonte e le costellazioni osservate in lontananza, padrona di una vocazione magistrale e morale superiore rispetto alle contingenze della trama in cui sono immischiati gli eroi, a portare la poesia (a rendere sostenibile il canto) in un mondo solo apparentemente dispensato dalla fragilità ch’è invece propria di ogni cosa esistente. E l’elemento importante è il fatto che il coro, cantore ex post nella sua più alta e realizzata condizione dello stasimo, trasmigra direttamente dall’uso antico al presente dei moderni (quello di Tasso e Guarini, che diviene poi quello della nuova poesia leopardiana): la sua “ontologia” (perché di questo si tratta: della sua essenza, dei suoi rapporti col reale e con lo spazio/tempo) acquisisce un valore estetico – aggiungeremmo escatologico – esemplare al di là del dramma tardo-cinquecentesco e al di là della drammaturgia stessa, la quale di fatto, nelle riflessioni leopardiane, proprio a partire dal 1823 decade (esattamente come l’epica nel 1828-1829) dal suo statuto di “genere letterario”. Il coro, in sostanza, è l’ultima grande prova dell’esistenza della poesia. Più che in una rilettura a posteriori del Leopardi drammaturgo, il caso di Zibaldone 2999 si traduce allora in una concatenazione quasi inarrestabile di spinte centrifughe. L’apparentemente circoscritta, breve, nota del luglio 1823, innesca un meccanismo di richiami interni, che spingono il lettore a calarsi all’interno degli itinerari con-


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centrici e dispersivi insieme dello Zibaldone, a ritrovarsi in una progressione di rapporti incrociati che si spostano ora sui Canti ora sulle carte autografe, che ripercorrono le voci dei lessici (il Lexicon del Forcellini in primo luogo) e le pagine dei libri conservati nella biblioteca paterna a Recanati, sino a formulare interpretazioni di un lettore-scrittore e di un poeta-filologo, arrischiandosi – con l’unico scopo del riscatto della poesia dal suo silenzio ipogeo – negli indici di frequenza dei corpora più diversi. Su quest’ultimo punto basterebbe pensare al fatto che perfino le due antologie del 1827 e 1828, se anche furono (riportiamo qui il giudizio di Bollati) frutto di una «libertà non pertinente alla seriosità dell’oggetto […] opera assolutamente personale»27, possono indicare una linea piuttosto rilevante, indizio perlomeno di scelte, predilezioni, ma anche di progettualità letterarie, di dichiarazioni poetiche dalla forma poco usuale, ma indicativa28. Questo, in conclusione, l’input di Zibaldone 2999: una nota in cui il “secentismo” (categoria o tara – questo certo dipende dalla sensibilità del lettore – che va colpendo anche i migliori), sulla scorta dei canti corali divenuti modelli propedeutici alla ripresa del canto a cavallo degli anni Trenta, lascia il posto alla lirica fino a riuscire, così, a salvaguardarla dalle ingerenze altrimenti irreparabili del vero.

27

28

Giulio Bollati, Introduzione a Giacomo Leopardi, Crestomazia italiana. La prosa, Torino, Einaudi, 1968, p. xvi. Per l’antologia, quindi, non si dovrebbe per forza parlare, stante l’insuccesso editoriale, di un effettivo decadimento “qualitativo” del progetto. L’allestimento delle Crestomazie resta dopotutto uno strumento fondamentale, una possibile strada da percorre laddove si intenda cercare di definire la personalità di Leopardi. Lo stesso «slancio» («Leopardi “stacca” e “straccia” brani di prosa da una montagna di libri tirati giù di furia dagli scaffali paterni […] [lavora compiendo] felicissime colpe, che gli fanno leggera la mano e innocente il cuore mentre attenta alla maestà della letteratura italiana e cerca di renderla facile, amena, intellettualmente eccitante e moderna»; ibidem) sembra quasi riproporre nella attentissima ricostruzione di Bollati il medesimo problema dell’entusiasmo, ovverosia di quello stato d’esaltazione che impedisce la creazione poetica secondo lo stesso Leopardi (si veda il caso, particolareggiato, in Zibaldone 257-259). Facile, allora, che le due antologie costituiscano un supporto critico prezioso, un caso di autocommento sui generis in grado di contribuire alla rintracciabilità di un itinerario intellettuale, coerente nel suo essere plurale e aperto, rispondente in altra sede ai percorsi dello Zibaldone.


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