Il servo inutile

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MAURO SALVADORI

Il servo inutile Romanzo

SocietĂ

Editrice Fiorentina



Mauro Salvadori

Il servo inutile Romanzo

SocietĂ

Editrice Fiorentina


© 2017 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-416-0 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Il disegno a p. 1015 è di Francesco Salvadori Copertina Mauro Salvadori, La corte, olio su tela, 2009


«C’è un tremulo confine lungo i margini di questa incantevole vallata; un confine brumoso, distante dai nostri occhi, dove i raggi del sole sembrano a malapena arrivare. Presso questa incerta frontiera si erge una collina che incute da sempre sconcerto e timore. Un luogo dove nessuno vuole avvicinarsi. Lassù, sulla cima dell’altura, si trova un misterioso paese, fatto di piccole case senza specchi, dove vivono persone che parlano una lingua incomprensibile. Si narra che questo paese non abbia neppure strade e che i prati siano infestati da macchie di rovi ed ortiche. Una voce bisbiglia all’altra che quel luogo debba essere tanto triste e dimenticato da Dio, perciò nessuno riesce ad immaginare che le persone che vi abitano abbiano il grande privilegio di poter vedere quel che si cela oltre l’orizzonte». Mauro



PARTE PRIMA



CAPITOLO PRIMO

~1~ Da tanti anni in Italia il quattro di novembre era stato proclamato giorno di festa nazionale; Festa dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate. Tutte le volte pareva una domenica regalata a questo mese, saturo di incessanti piogge, velato di nebbie e tradizionalmente definito triste e grigio, anche se i boschi e le campagne in questo periodo ci stupiscono sempre con i loro infuocati colori. La storia di Fabio ha inizio il 4 novembre 1949, ed era di venerdì. Durante la notte un breve acquazzone aveva copiosamente bagnato tutta la campagna intorno a Quarate. Sul fare del giorno però il cielo si era mostrato sgombro di nuvole e il blu dell’infinito brillava di luce accecante. Le foglie gialle e rosse del vigneto disteso sul pendio accanto alla Corte tremolavano stizzose nella pungente brezza mattutina. Lungo la strada e presso la chiesa di San Bartolomeo anche i gelsi e le antiche querce sfoggiavano con armonia i loro caldi colori autunnali. La prepotente bellezza di quei toni ineguagliabili, così sanguigni e spennellati d’oro, sembravano però non esercitare alcun fascino sulle persone che si erano raggruppate all’interno delle mura scalcinate della Corte. Si erano soffermate anche tre anziane donne che avevano partecipato di buon mattino alla celebrazione della Messa del primo venerdì del mese. Ognuna col messale nero e bordato di rosso tra le mani, insieme al velo ben piegato, si erano sistemate sulla panchina appiccicata al pozzo. C’era poi chi si contentava di rimanere in silenzio, stando appoggiato nella striscia di muro dove arrivava uno spicchio di sole, mentre alcuni avevano preferito formare uno scarno e disordinato cerchio impegnato a parlottare soffusamente, tanto da intrecciare le loro parole in modo impalpabile, così da confonderle e renderle simili ad un inespressivo mormorio. Nell’appartamento in cima alle strette scalette di mattoni, proprio di lato alla suggestiva entrata ad arco della Corte, sovrastata

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da un’antica tettoia, abitava la famiglia Casali. La signora Franca, appena trentenne e già madre di due bambine, si preparava a dare alla luce un altro figlio. Suo marito Nicola, che aveva compiuto da qualche giorno trentadue anni, aveva già fatto più volte degli sconsolati saliscendi, mostrando ogni volta gli occhi lucidi e le labbra tremanti dal batticuore che lo aveva attanagliato. A sua moglie rimanevano ancora dieci giorni per raggiungere il settimo mese di gravidanza e da ben tre settimane si era messa a letto a causa delle frequenti e allarmanti perdite di liquido amniotico che avevano preso ad affliggerla. Il fatto che da quel momento in poi il bambino non si era più fatto sentire nel suo grembo, aveva perciò fatto scendere sull’intera famiglia un triste presagio. La sorella di Nicola, Carlotta, quasi quarantenne e ancora signorina, si era preoccupata di far trovare pronto tutto il necessario per il parto alla levatrice di San Polo, che era accorsa prontamente dopo che l’anziano ma ancor vigoroso padre di Nicola, il baffuto e simpatico Nello, era andato a rintracciarla pedalando di lena con la sua fedele e arrugginita bicicletta. La sorella di Nello, Armida, rimasta vedova qualche decennio avanti e senza figli, già sulla via della vecchiaia, un po’ sorda e mezza cieca, si era invece interessata con fare afflitto delle due bambine, Annamaria di sei anni e Flavia di quattro, portandole via da lì per intraprendere una lunga e mesta passeggiata senza mèta. Al loro ritorno, poco dopo le undici e mezza, c’erano rimaste solo tre persone a far compagnia a Nicola, che avendo terminato i suoi saliscendi lungo le scale si era inchiodato a sedere sull’ultimo scalino stando a testa bassa e con le braccia incrociate. Le bambine s’imbronciarono nel vederlo tanto preoccupato, ma subito spalancarono la bocca e alzarono gli occhi verso il terrazzino. La loro zia Carlotta si era affacciata all’improvviso. «Ci siamo! Il bambino sta per nascere!». In meno di pochi attimi tutti coloro che abitavano all’interno della Corte uscirono nuovamente dalle porte come se fossero stati richiamati dallo squillo di una campana, per radunarsi con trepidazione intorno a Nicola che nel frattempo si era drizzato al pari di una impeccabile sentinella. L’uomo pareva trattenere il fiato, da come costringeva gli occhi a rimanere sgranati e puntati sulla porta di casa che da lì appena s’intravedeva. Quando il suo respiro tornò ad essere più tranquillo incrociò nuovamente le braccia e

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appoggiandosi al muro riabbassò lo sguardo. Provando un certo disagio nel notare tutte quelle persone che gli stavano intorno, si voltò verso l’arco e vide che stava avvicinandosi di passo svelto l’anziana Lina, la fedele perpetua di don Romualdo, il parroco. La donna calzava le sue logore pantofole e stringendosi nel solito golfino grigiastro che teneva appoggiato sulle spalle senza aver infilato le maniche, dava l’impressione di essere uscita furtivamente dalla canonica. Appariva addirittura più magra di quanto lo fosse realmente. Facendosi incontro a Nicola dipinse sul suo volto un raggiante sorriso. «Allora come va? Non è ancora nato il bambino?». Nicola aveva sempre nutrito tanta simpatia per Lina, trovando in lei una vera fonte di bontà e un infinito calore umano, così di slancio scattò in avanti per prenderle una mano tra le sue. «Oh Lina!» singhiozzò. «Ho tanta paura che questo figlio debba nascermi già morto! E se ce la fa a venir fuori vivo sicuramente morrà prima che si arrivi a sera! Chiamate don Romualdo, vi prego! Se almeno facesse in tempo a battezzarlo!». Lina lo abbracciò e subito si scostò per allontanarsi di fretta. «Vado ad avvertirlo! Adesso si trova nella sala grande in compagnia dei bambini che quest’anno faranno la prima comunione. Ogni tanto ritiene giusto intrattenersi un po’ con loro per capire bene a che punto sono con la dottrina e stamani li ha voluti riunire tutti insieme per un’adunanza, ma vedrai che lascerà stare tutto e correrà qui all’istante». Lina si chiuse ancor di più nel suo scialbo golfino e muovendosi svelta e leggera come una libellula prese a sgambettare con brio verso la chiesa. Nicola la seguì d’istinto con lo sguardo e poi, mettendo nervosamente le mani in tasca si lasciò andare di schianto a sedere sullo scalino. Qualcuno gli pose una mano sulla spalla nella speranza di potergli infondere almeno una briciola di conforto e da quel momento in poi il tempo parve fermarsi. Quando don Romualdo entrò nella Corte tutti gli puntarono con riverenza gli occhi addosso. L’anziano e corpulento prete sembrava stranamente più alto e imponente del solito. Sulla lunga tonaca nera aveva indossato la sua bella e candida cotta, tutta adorna di trine, sulla quale spiccava la stola viola. Teneva le mani acchiap-

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pate l’una nell’altra per le dita e sul suo viso paffuto non mancava la solita bonaria espressione che sempre lo aveva caratterizzato. Accanto a lui, uno a destra e l’altro a sinistra, c’erano due chierichetti, che con le mani perfettamente giunte, quasi intirizzite e composte di taglio sulle labbra, si pigiavano la punta del naso con le dita. Erano seguiti da un folto gruppo di bambini sorprendentemente silenziosi. Sembravano addirittura spauriti e camminavano appoggiando piano i piedi per terra, attenti di non fare rumore, come se si sentissero calati nella veste di pargoli ladruncoli. Nicola, al contrario, li paragonò ad uno stuolo di piccoli angeli e trovandosi investito da una inaspettata ventata di gioia sorrise contento. Tutte le persone si fecero da parte e gli uomini si tolsero il cappello di testa. Don Romualdo si avvicinò allora liberamente a Nicola, rimasto seduto, per accarezzargli paternamente la testa. «Non aver timore figliolo, andrà tutto bene» disse liberando appieno il suo possente timbro di voce, abituato com’era a non parlare mai piano. Entrò anche Lina nella Corte. La donna aveva messo il velo in testa e teneva in mano un piccolo vassoio con due minuscoli contenitori schiacciati ed una elegante scatolina decorata. Don Romualdo stuzzicò il mento di Nicola. «L’acqua che hai in casa è di quella buona?». «Sicuro. L’abbiamo attinta proprio ieri al pozzo che sta dietro di voi, signor Priore. Non andiamo mai a prenderla da altre parti. È fresca come quella di una fonte del bosco e l’abbiamo sempre bevuta senza paura». Don Romualdo tornò ad aggrovigliare insieme le mani e poi se le portò al petto. «Bene; non ho portato l’acqua benedetta perché non si può lasciarla andar via, giù per l’acquaio». Nicola ebbe appena il tempo di aggrottare con stupore le sopracciglia. «L’acquaio?» chiese, ma di scatto si alzò in piedi, richiamato da un improvviso e debole vagito. Di seguito ne giunse un altro, forse più fiacco del primo, eppur capace di sovrastare su ogni altro rumore, smaniosamente raccolto dalle sue orecchie frementi e attente. «È nato!» gridò portandosi le mani sul viso.

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Lina fu svelta a imboccare le scale ed egli la seguì senza cercare di passarle avanti. Dopo essere entrato nella grande cucina si fermò da una parte. Vide Lina appoggiare il vassoio sulla tavola per poi sgattaiolare in camera. L’uomo andò allora davanti alla porta rimasta socchiusa, ma non osò spalancarla per entrare. Dietro di lui cominciarono a raggrupparsi i bambini, guidati da don Romualdo, e anche alcune persone. Coloro che non riuscirono a passare la soglia rimasero sul terrazzino e lungo le scale. Ad un tratto Lina aprì la porta e Carlotta si affacciò guardando negli occhi suo fratello. «Nicola, è un maschio! Ma è uno scricciolo piccino piccino! E poi non piange più!» singhiozzò la donna scoprendo il bambino avvolto in un asciugamano di lino bianco, stretto a sé con un solo braccio. Nicola sgranò gli occhi e si portò una mano davanti alla bocca nel vedere quel minuscolo corpicino rossastro. La sua vecchia zia Armida gli si fece accanto e certamente non lo incoraggiò. «Gesù mio!» vociò senza accortezza la donna. «È proprio uno scarabocchio!». «Basta! Basta!» troncò all’istante don Romualdo portandosi presso l’acquaio. «Forza Carlotta, vieni qua. Sarai la madrina. Avvicinati anche tu, Marco» ordinò il prete indicando un uomo rimasto sulla porta. «C’è bisogno anche di un padrino e tu sei proprio il tipo adatto, ti conosco più che bene». Marco, attempato giovanotto dai capelli radi e brizzolati, obbedì all’istante e nell’imbarazzo che provò si ritrovò bambino. Don Romualdo si tolse il cappello a tre punte e lo consegnò ad uno dei chierichetti, poi fissò Nicola negli occhi. «Che nome è stato scelto per questo bambino?». «Fabio. È sempre stato detto che se nasceva un maschio si sarebbe chiamato così». Don Romualdo invitò Carlotta ad avvicinarsi e in men che non si dica, sciorinando frasi in latino, unse con l’olio dei catecumeni il petto del bambino, provando un’attenzione che non ricordava aver mai avuto, sconcertato dalla sproporzione del suo dito pollice, così gigantesco al confronto del neonato. Senza dilungarsi troppo il sacerdote si lavò le mani, le asciugò e si passò sui polpastrelli delle dita un po’ di mollica di pane. Con un gesto degli occhi fece

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capire a Carlotta di protendersi sopra l’acquaio e solennemente versò per tre volte sulla testa del bambino un po’ d’acqua, presa con la mano dal secchio lì accanto. «Fabio, ego te baptìzo, in nomine Patris, et Fìlii, et Spiritus Sancti». Tutti fecero il segno della croce e il silenzio si accentuò. Don Romualdo, continuando a borbottare qualcosa in latino, prese un pizzico di sale benedetto da uno dei contenitori sul vassoio e lo portò con delicatezza sulle labbra del piccolo Fabio. All’istante il bambino contorse in fuori la lingua, come fosse stata una molla, poi spalancò la bocca e cominciò a piangere a perdifiato. Carlotta sgorgò subito dei rivoli di lacrime dagli occhi. «Piange! Piange di nuovo!». Nicola si sentì afferrare da brividi che non conosceva e guardò con amore il suo figlioletto, ancora oggetto di attenzioni da parte di don Romualdo che stava procedendo all’unzione col sacro crisma sulla sua testolina. Infine il sacerdote voltò la stola dalla parte bianca ed elargì un caloroso gesto di benedizione. Si fece allora avanti la levatrice, che frettolosamente riportò il bambino in camera per pulirlo, e dopo che lo ebbe vestito e anche pettinato lo adagiò nel letto, accanto alla signora Franca, che nel sistemarlo amorevolmente sotto le coperte lo osservò incredula. Suo marito si sedette dall’altra parte del materasso e si allungò più che poté per darle un bacio sulla fronte. Poi ambedue si voltarono verso la finestra, attraverso la quale si mostrava il campanile della chiesa. Era mezzogiorno, e le campane stavano suonando festose.

~2~ Le donne che abitavano nella Corte si diedero in un baleno un gran daffare per aiutare Franca. Si fece avanti chi era già madre o anche nonna, ritrovando ognuna il loro ardore materno nel prestare tutte le cure possibili verso quel bambino nato tanto prematuro. Dentro la culla Fabio sembrava sprofondato come all’interno di una buca, costantemente protetto da due copertine di morbida lana, e in girotondo alcune bottiglie avvolte con stoffa d’ogni

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genere piene d’acqua calda, cambiata frequentemente durante la giornata e anche di notte. Quella schietta solidarietà si manifestò subito di importanza vitale e il piccolo, che non sembrava mai sazio di succhiare il latte dal petto generoso di sua madre, cominciò a crescere a vista d’occhio. Esattamente due mesi più tardi, il giorno dell’Epifania, Fabio fu vestito di bianco e per la prima volta portato fuori di casa. Appena il tratto necessario per arrivare alla chiesa, distante da lì neppure cinquanta metri, dove don Romualdo lo stava aspettando per poterlo deporre alla fine della Messa sull’altare maggiore, adagiato sopra una soffice coperta candida come la neve, lavorata dalla caritatevole Lina in quell’ultimo periodo. Don Romualdo spiegò ai numerosi fedeli accorsi in quel giorno alla chiesa che con quel gesto egli intendeva non solo gratificare la nascita di Fabio, così battezzato di premura nell’acquaio di casa, ma allo stesso tempo cogliere l’occasione per ricordare la presentazione di Gesù al tempio. L’anziano prete si commosse nel contemplare quel bambinetto sgambettare sull’altare, sotto le luci tremolanti delle numerose candele accese di lato al tabernacolo. La sua attenzione era rapita da quei piccoli occhi spalancati a più non posso e già curiosi di scrutare intorno, e avanti di restituirlo alle braccia protese della sua mamma volle baciarlo sulla fronte e stringerlo al petto per un breve attimo. Nicola e Franca dopo la Messa ricevettero interminabili e calorosi auguri da parte di tutti. Quel giorno diventò per loro una magnifica festa e qualcuno esclamò con gioia che mai prima di allora una celebrazione dell’Epifania fosse stata tanto bella e significativa. Quando sotto il loggiato non erano rimaste che poche persone, Lina invitò l’intera famiglia di Nicola a passare nella sala grande della canonica, dove il fuoco ardeva scoppiettante nello spazioso camino per offrire cantucci di Prato accompagnati da vin santo. Inoltre, servito in un piatto ovale, c’era anche del prelibato panforte, che Annamaria e Flavia gustarono golosamente. Fabio fu pesato per la prima volta proprio in quella circostanza. Nessuno sapeva quanto poteva essere stato il suo peso alla nascita. La stadera fu posta per l’occasione vicino al focolare e arrivò a indicare due chili e novecentocinquanta grammi. Franca era soddisfatta e tranquilla.

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«Il mio tempo sarebbe terminato il dodici di gennaio, perciò se adesso rasenta i tre chili significa che è tutto a posto!». Fabio era vispo, traboccante di vitalità, perciò le preoccupazioni arrecate dalla sua precoce nascita da quel giorno in poi furono tutte accantonate.

~3~ Fabio era indubbiamente avido del latte materno e pareva dovesse non svezzarsi mai. A un anno si mostrava grassottello e con le guance tonde e rosse, al pari di qualunque altro bambino. In famiglia era coccolato e trastullato da tutti, ma più che altro da sua zia Carlotta, che nel vederlo tanto vivace e frenetico pensava sempre, ricordandolo al momento della nascita, che qualcuno dal cielo doveva averlo miracolato. Era lei che amava tanto prenderlo in collo per parlargli ad alta voce come se già potesse intenderla, ed era sempre lei che mugolandogli cantilene e filastrocche passava spesso tanto tempo a pettinargli i riccioluti e lunghi capelli castani, fino a raccoglierglieli in una morbida e fluente banana, allora molto di moda per i maschietti. Carlotta, inoltre, attribuiva proprio all’arrivo di quel nipotino l’inizio della sua inaspettata storia d’amore con Marco, l’improvvisato e confuso padrino affiancato a lei da don Romualdo. Quando Fabio cominciò a camminare, Franca volle smettere di allattarlo. Egli si adattò malvolentieri alle prime pappe e poi alle altre pietanze, ma nessuno badò alle sue ribellioni. Si trattava di un passaggio difficile per tutti i bambini di questo mondo, era cosa risaputa. E il tempo passava, silenzioso. Franca faceva la sarta ed aveva ripreso a cucire a pieno ritmo i vestitini da bambina per conto della crescente sartoria Pacciani di Grassina, mentre Nicola ogni giorno, a cavalcioni della sua bicicletta, andava a lavorare alla fornace della Capannuccia. Tutto pareva tranquillo, ma ben presto su Fabio cominciarono a presentarsi preoccupazioni a catena. Il bambino si ammalava continuamente. Durante la brutta stagione non si toglieva mai di dosso la tosse e il raffreddore, e poi crescendo divenne magro fino all’osso.

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Si era addirittura imbruttito. Il medico affermava ogni volta che essendo nato tanto prematuro non c’era da stupirsi che egli avesse una salute così cagionevole. Era l’inverno del 1957 quando a Quarate giunse l’ondata dell’influenza asiatica. Intere famiglie furono messe in ginocchio, soggiogate dalla grave epidemia. Fabio fu contagiato dalla vecchia Armida, che lui chiamava nonna, seguito a ruota dalle sue sorelle e la zia Carlotta. In paese tutti cominciarono a ricordare con terrore la famigerata “spagnola” del 1918, che aveva seminato milioni di morti in tutto il mondo. L’asiatica portò via con sé la povera Armida, che se ne andò in pochi giorni bruciata dalla febbre e soffocata dalla tosse. Il dolore portato dalla sua morte accentuò la paura in Franca e Nicola di perdere anche il loro gracile bambino, che piegato dalla febbre dormì per giorni interi senza mangiare quasi niente. Sua madre lo vegliò con le lacrime agli occhi per tante notti, sforzandosi di farlo bere di tanto in tanto. Sull’intera famiglia era calata una tristezza mai conosciuta prima di allora. Annamaria e Flavia erano già guarite, insieme alla zia Carlotta, ma Fabio continuava a rimanere a letto. Aveva il viso bianco ed i suoi occhi sembravano spenti. Trovandosi senza forze cadeva costantemente in quel pesante sonno che lo teneva prigioniero a sé giorno e notte. Non bastò un mese perché egli arrivasse a guarire e la sua mamma, nel vederlo talmente indebolito, si propose di accompagnarlo personalmente ogni giorno a scuola. Il suo tormento la portò a riversare sul figlio mille attenzioni. La strada in quel periodo era bagnata per le frequenti piogge e onde evitare che lui si ammollasse i piedi nelle pozzanghere si prodigò addirittura di tenerlo in collo durante l’intero tragitto. Quell’estenuante sacrificio non superò la durata di cinque giorni poiché Fabio fu immediatamente contagiato dall’epidemia di morbillo, che già aveva colpito tanti altri scolari. Ebbe così inizio un autentico calvario per il bambino, che avrebbe provato la prima rovente ferita della sua vita. Il letto accolse nuovamente Fabio e fin dall’inizio della malattia egli cadde ancora una volta in quel tenace sonno che sapeva di morte. Nei momenti in cui era sveglio sembrava in delirio ed i suoi respiri, brevi e pieni d’affanno, trafiggevano il cuore dei suoi genitori come fossero stati spine di rovo. Nel pieno della febbre Nicola si precipitò a chiamare don Romualdo. Era quasi l’ora di cena, ma il sensibile prete accorse subito al capezzale del bambino.

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Il rito dell’Estrema Unzione fece riunire ancora alcune persone che abitavano nella Corte. Tutti piansero e anche don Romualdo tornò verso la chiesa con gli occhi lucidi e rossi. Fabio però non morì. Passata la febbre si trovò più stremato che mai e mugolando chiedeva di stare al buio perché la luce gli faceva male agli occhi. Avrebbe voluto grattarsi con foga in ogni parte del corpo, per combattere il fastidio che gli procurava la sua pelle squamata, ma non aveva la forza di farlo e a stento riusciva in qualche momento a piangere con un fil di voce, ottenendo ogni volta un flebile e doloroso lamento. Infine tutto passò, ma Fabio sembrava più che mai un piccolo moribondo. Non riusciva più a stare in piedi e per tanto tempo si dovette contentare di stare seduto su una seggiola col cuscino, con la testa riversa sulle sue braccia incrociate e appoggiate sulla tavola. Franca e Nicola erano ormai certi che quel loro figlio sarebbe rimasto per sempre carente nel fisico. Troppo carente. Ora sembrava indubbiamente rachitico e provavano un immenso dispiacere solo a guardarlo. Fabio non ritornò neppure a scuola. Era scontato che avrebbe ripreso nuovamente la seconda elementare il prossimo primo ottobre. Uscì per la prima volta di casa, dopo avere avuto il morbillo, che il mese di giugno era già inoltrato. La luce del cielo ancora lo abbagliava e per questo suo padre gli aveva comprato un cappellino leggero, tutto bianco, con la tesa larga sul davanti. Era il giorno quindici, di sabato. Il pergolato di rose gialle, nella sua splendente fioritura, era assediato di api che aggiungevano il loro ronzio agli altri mille delicati suoni della natura. Il grano nel campo lì di fronte era maturo e ondeggiava mosso dal calmo e assopito vento caldo, mentre in cielo le rondini briose volavano in piena libertà. Marco, lo stagionato e robusto fidanzato di Carlotta, con fare scherzoso come se stesse giocando, portò Fabio a cavalluccio sotto la tettoia dell’arco, dove era stata posta una seggiolina imbottita. Lì c’era ombra e nell’aria aleggiavano i tanti profumi della campagna. Al pomeriggio era tradizione che i bambini e i ragazzi più grandi si ritrovassero a giocare negli spazi intorno alla chiesa. La scuola era finita, come pure il catechismo, e il sapore di festa sprigionato dalla bella stagione sembrava aver reso ancora più gioiose le voci dei bambini che si stavano rincorrendo quasi senza motivo. C’era

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chi giocava a nascondino e qualcuno che gareggiava con i birilli di legno comprati da don Romualdo qualche mese avanti, mentre nel polveroso campino di calcio sul retro della chiesa i ragazzi più grandi stavano giocando col pallone. Piccoli o grandi che fossero sembravano tutti tanto allegri e spensierati, ma stranamente pareva che nessuno si fosse accorto che Fabio fosse seduto lì sotto la tettoia, così vicino a loro. Poteva darsi che non lo avessero visto, nascosto dalle donne della Corte che erano uscite dalle loro case per andargli intorno, sistemandosi a semicerchio a tempestarlo di caramellosi complimenti, affiancate dalla zia Carlotta e da sua madre. Gli occhi di Fabio erano però calamitati da quei bambini, poco distanti da lì, liberi di correre a perdifiato e di ridere a crepapelle. Rimase a lungo incantato a fissarli, fino a quando fu costretto a distrarsi dalle premure di sua madre, quando volle per forza abbottonargli il colletto della camicia e anche i polsini delle maniche. «Devi aver pazienza Fabio, dopo la malattia è la prima volta che esci di casa e devi stare ben coperto, anche se non fa freddo. Nelle tue condizioni bisogna stare attenti anche ad un filo di vento in più». Fabio, appena poté, cercò nuovamente di aggrappare il suo sguardo ai bambini che stavano giocando. Come li invidiava! Guardandoli meglio ebbe l’impressione che fossero tanto diversi da lui, e così lontani… Sentì un improvviso tonfo allo stomaco e riconobbe che non era per fame. Poi, con sua grande sorpresa, notò due bambine con le trecce e un bambino più grande che gli si stavano avvicinando di passo lento. Il maschio si chiamava Gianluca, aveva un paio di anni più di lui e soprattutto a scuola si era sempre divertito a schernire gli amici e a fare dispetti d’ogni genere. Indossava dei pantaloni corti e anche rimboccati, mentre la canottiera, troppo grande per lui, aveva una spallina completamente abbassata sul braccio. Sul suo viso era disegnato un ghigno senza pari. Le due bambine, entrambe compagne di classe di Fabio, indossavano curiosamente dei vestitini molto simili, graziosamente bamboleggianti, dalla gonna larga, col nastro infiocchettato in vita. Si chiamavano Maria e Paola.

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Paola aveva in mano un grosso biscotto farcito di marmellata e si avvicinò a Fabio dimostrandosi emozionata. «Il priore ha offerto a tutti una merendina e ha chiesto a noi di portarne una anche a te» disse come se stesse recitando una poesia. Fabio tese la mano e sorridendo afferrò piano il biscotto. Il suo viso, scarnito com’era, per effetto del sorriso si fece tutto grinzoso, velandosi per un attimo di sconcertante senilità. All’istante Gianluca scoppiò a ridere. «Disse giusto la vecchia Armida a chiamarti scarabocchio quando sei nato!». Carlotta, impulsiva com’era, fu svelta a tirargli uno schiaffo. «Brutto rognoso che non sei altro! Vattene via subito!». Gianluca non pianse e portandosi una mano sulla guancia scappò verso la chiesa. Prima di arrivare all’angolo della strada si fermò e voltandosi di scatto urlò con quanto fiato aveva in gola: «A Quarate lo sanno tutti che quella tua specie di nonna aveva detto che eri uno scarabocchio!». Carlotta fece allora per rincorrerlo ma lui si dileguò tra i filari della vigna. Fabio era rimasto a bocca aperta, senza più sorridere. Era meravigliato e si sentiva tanto confuso. Paola aveva abbassato lo sguardo e tutto il suo viso esprimeva un broncio che sapeva di vergogna, come se fosse stata lei a sbeffeggiare Fabio, però seppe subito trovare la forza di reagire e spalancando gli occhi cercò di sorridere meglio che poteva. «Non farci caso. Gianluca è dispettoso con tutti e si diverte a canzonare gli altri. A me dispiace che tu sia stato tanto malato». Fabio allora la fissò nel profondo dei suoi occhi celesti, dove sembrava celarsi l’infinito del cielo. Anche Maria, l’altra bambina, stava sorridendo, ma riusciva a notarla solo con la coda dell’occhio. Paola si voltò e diede uno sguardo verso i suoi amichetti rimasti a correre e a saltare. Non le rimase difficile immedesimarsi nello stato d’animo di Fabio. Tornando a parlargli si schiarì la voce. «A scuola eri il più bravo di tutti. Nessuno sapeva leggere bene come te. Finché non arrivi a guarire del tutto perché non leggi qualche storia? Io penso che il tempo ti passerebbe meglio».

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Fabio non pensava più alle parole di Gianluca. «Qualche storia?». Paola si sentiva benevolmente importante. «Sì. Io ho un libro e se vuoi te lo presto. Me lo ha regalato la mamma quando è finita la scuola. Lo sai? Sono stata promossa alla terza classe. Tanti bambini quest’anno sono stati bocciati e Gianluca è uno di loro. Ben gli sta!». Fabio abbassò lo sguardo. «Io dovrò ricominciare da capo la seconda classe, è andata così. Peccato che non saremo più insieme…». «Pazienza, non ci pensare. Adesso mangia quel biscotto, che è tanto buono». Detto questo, con un gesto della mano, Paola lo salutò e si allontanò svelta seguita da Maria, rimasta per tutto il tempo in silenzio. Fabio seguì con lo sguardo le due piccole amiche fino a che non le vide mescolarsi al gruppo di bambini che stavano organizzando il gioco del “ruba bandiera”. Era proprio sicuro: gli altri bambini erano diversi da lui. Dopo aver mangiato pian pianino il biscotto rimase a lungo con gli occhi fissi sulla Torre del Palagio di Quarate, che sulla collinetta di fronte si stagliava sul cielo azzurro. Sulla sommità di quell’antica torre scapezzata e tutta solcata di crepe, era cresciuto da alcuni decenni un ulivo, sempre attorniato da nugoli di rumorose cornacchie, ed era anche mèta preferita degli uccelli notturni della zona, come le civette e i barbagianni. Fabio rimase per un po’ a fantasticare sul mistero che ruotava intorno alla nascita di quell’ulivo e poi si voltò con aria sconsolata verso sua madre. «Mamma, vorrei tornare in casa. Sono stanco». Marco, che stava poco più in là appoggiato al muro, diede un’occhiata a Franca e si avvicinò premuroso. «Ci penso io Franca. Per oggi va bene così». Fabio chiese di essere portato sul letto e si addormentò subito pesantemente. Rimase molto sorpreso quando, poco prima di cena, la sua mamma andò a svegliarlo. Da tanto tempo non le vedeva sul viso un bel sorriso come in quel momento. Poi si accorse che tra le mani teneva un libro. «Hai visto? È venuta mezzora fa Paola a portartelo. Ho preferito non svegliarti, dormivi così tranquillo».

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Fabio faticò per portarsi seduto, poi prese il libro e lo guardò attratto. Si trattava del romanzo La tribù dei conigli selvatici, di Andrea Bruyère. Quella sera stessa iniziò a leggerlo ed ebbe immediatamente la sensazione di avere intrapreso un lungo e meraviglioso viaggio. Vivendo le spericolate avventure di alcuni ragazzi il suo animo si rinvigorì come mai avrebbe immaginato. Quando si metteva a leggere gli pareva di aprire ogni volta la porta per accedere in un luminoso mondo gelosamente suo, dove egli era libero di poter fare tutto quello che invece non gli era concesso nel mondo reale che lo circondava. In soli quattro giorni concluse così la lettura delle centocinquantuno pagine del vivace romanzo e subito lo cominciò nuovamente da capo. Vedendo che in lui si era accesa una vibrante e impetuosa fiammella di entusiasmo, sua zia Carlotta volle regalargli due romanzi per ragazzi, Il principe e il povero e Un capitano di quindici anni, e dopo questi ne arrivarono altri ancora, acquistati o avuti in prestito da ragazzi di solito più grandi di lui. Durante l’estate Fabio riprese lentamente a camminare, con tanta fatica. Spesso, come lui diceva, si sentiva piegare sulle ginocchia. Ritornò a scuola pieno di entusiasmo, ma nella pausa dell’intervallo preferiva rimanere in classe, piuttosto che scendere nel grande giardino che si apriva in fondo alle lunghe scalette di pietra, come facevano tutti gli altri. Ormai aveva la consapevolezza che la sua salute si reggeva ad un filo debole, sempre pronto a spezzarsi, perciò aveva il costante timore di sudare e di prendere poi un colpo d’aria. Un’attenzione, questa, derivata dal martellamento continuo che proveniva da Franca, ma anche Nicola non era da meno. Nonostante i suoi genitori fossero diventati superprotettivi nei suoi confronti e lo coprissero costantemente di attenzioni inimmaginabili, Fabio continuò ugualmente ad avere insistenti mal di gola e raffreddori, sempre con febbre che stentava ad andarsene, ma nonostante le numerose assenze fu promosso a pieni voti. La sua maestra, che ogni mattina arrivava per tempo da Firenze con la corriera, gli si era maternamente affezionata e tante volte lo aveva protetto e rassicurato, quando alcuni dei ragazzi più grandicelli, capeggiati dal solito Gianluca, si erano divertiti ad aspettarlo alla fine delle lezioni presso il portone per deriderlo in coro usando lo spregevole nomignolo di “scarabocchio”.

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L’anno successivo Carlotta si sposò con Marco. I due attempati sposi andarono ad abitare nel paese di Antella, dove aprirono un piccolo negozio di frutta e verdura. Fabio all’inizio fu dispiaciuto di questo, ma si tranquillizzò ben presto, dato che sua zia non perdeva mai una settimana senza fare una lunga visita. Inoltre si era ritrovato ad avere una cameretta tutta per sé. Si trattava di una stanza molto piccola, un vero bugigattolo, e la finestrina si affacciava proprio sulla vecchia Torre con l’ulivo, che sempre più suggeriva in lui sensazioni affascinanti e misteriose. Verso la fine d’agosto se ne andò da Quarate anche la sua amica Paola, che con l’intera famiglia si trasferì nei pressi di piazza Gavinana, in Via di Rusciano. In quel periodo i traslochi erano molto frequenti e i due bambini si salutarono con un triste sorriso, con la rassegnata consapevolezza che non avrebbero potuto impedire in alcun modo quella divisione. Ambedue avrebbero coltivato per tanto tempo il desiderio di potersi un giorno rivedere, ma ben presto quella loro tenera amicizia si trasformò in entrambi in un bellissimo e dolce ricordo. Intanto trascorsero le stagioni, e più passava il tempo, più i problemi di gola di Fabio aumentavano, finché il medico di famiglia si convinse che andava operato di tonsille. Dopo l’intervento tutti convennero che quella era stata una straordinaria decisione, perché la salute di Fabio subito migliorò in modo evidente. Questo periodo significò per lui un’autentica rinascita. Gli sembrava che finalmente due mani possenti avessero rimosso un ostacolo che da sempre era rimasto di traverso davanti al suo cammino, simile ad un gigantesco e irremovibile macigno, che non gli aveva mai permesso di poter osservare bene tutte le cose meravigliose che si stendevano di fronte a lui. Pur continuando ad essere magro e stenterello, il ragazzo trovò con tanta gioia la capacità di andare a camminare per i campi, sui prati vellutati d’erba e lungo i viottolini che salivano tortuosi fino al bosco sotto Montemasso. In questo momento di fresco risveglio nel suo cuore si accese una sublime voglia di vivere. Tutto lo entusiasmava, ma in particolare le piccole cose della natura, come il canto degli uccelli, lo sbocciare dei fiori nei campi, lo spettacolo che tutte le sere il sole gli offriva scendendo dietro le colline, il gorgoglio dell’acqua piovana che dopo i temporali scendeva galoppante lungo la strada in discesa, il mutar della luna nel cielo stellato, e tutti gli altri miracoli che riusciva

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ovunque a scorgere intorno a sé, perfino negli angoli più nascosti, quelli ignorati dalle altre persone. Inoltre poteva finalmente aggregarsi ad alcune compagnie, ma non essendo per niente scalmanato si ritrovava spesso in disparte senza capire come mai. Trovava sempre il modo di tirarsi indietro se veniva organizzato un gioco per il quale bisognava spendere un po’ di forza in più. Alla proposta di saltare un fosso si bloccava temendo di non riuscire ad arrivare dall’altra parte e non tentava neppure. Non giocava a calcio per paura di farsi male e soprattutto per l’incallita ossessione di sudare e buscarsi uno dei suoi interminabili mal di gola. Paura; in ogni cosa che faceva c’era sempre di mezzo il freno della paura. I suoi genitori erano perennemente pronti in ogni momento della giornata ad elencargli tutto quel che non doveva fare e tutto ciò che doveva evitare. Nelle loro raccomandazioni rimaneva ogni volta ben nascosto quello che avrebbe potuto fare. Anche loro avevano paura, e forse più di lui, perché in fondo all’anima si agitava senza posa il timore che il loro vulnerabile figlio potesse prima o poi nuovamente deperire. Fabio intanto continuò a crescere, fino a diventare sorprendentemente un bel ragazzino. Il suo viso si addolcì nei lineamenti e non aveva più l’aspetto malaticcio. Appariva fisicamente piacevole, snello e asciutto, lontano dall’essere stato talmente smunto e allampanato da sembrare denutrito. Terminate le elementari egli cominciò a frequentare le scuole medie di Ponte a Niccheri prendendo ogni giorno la Sita, l’unico servizio pubblico di autobus che collegava la campagna alla città. Lo studio lo appassionava e in più trovava sempre il modo di dedicare un largo spazio della giornata alla lettura. Sulla mensola della sua cameretta cominciarono infatti ad accatastarsi in breve tempo romanzi di ogni genere. Franca e Nicola impararono a sentirsi in parte rassicurati, pur considerando ugualmente loro figlio debole di costituzione, tuttora di un gradino più sotto rispetto ai ragazzi della sua stessa età, quasi tutti pieni di forza, scatenati e scavezzacolli. Anche se magri, gli altri non apparivano stenti come lui, così pensavano, ma non potevano certo lamentarsi. Fabio era molto bravo a scuola e quando giunse alla terza media le prospettive sul suo futuro sembravano aperte a mille strade.

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Indice

Parte prima

9 25 97 130 164 193 263 341 390 429 469 500 563

Capitolo primo Capitolo secondo Capitolo terzo Capitolo quarto Capitolo quinto Capitolo sesto Capitolo settimo Capitolo ottavo Capitolo nono Capitolo decimo Capitolo undicesimo Capitolo dodicesimo Capitolo tredicesimo

Parte seconda

587 775 886 918 933

Capitolo primo Capitolo secondo Capitolo terzo Capitolo quarto Capitolo quinto


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