L’antico e noi. Studi su Manara Valgimigli e il classico nel moderno

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STUDI TESTI&

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MARINO BIONDI

L’ANTICO E NOI STUDI SU MANARA VALGIMIGLI E IL CLASSICO NEL MODERNO



studi e testi collana diretta da Simone Magherini, Anna Nozzoli, Gino Tellini

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La collana «Studi e Testi» intende promuovere e diffondere, in campo nazionale e internazionale, studi e ricerche sulla civiltà letteraria italiana, nonché edizioni critiche e commentate di testi della nostra letteratura, dalle origini alla contemporaneità. La qualità scientifica delle pubblicazioni della collana «Studi e Testi» è garantita da un processo di revisione tra pari (peer review) e dal Comitato scientifico internazionale. La collana «Studi e Testi» prevede pubblicazioni in formato cartaceo e digitale con un modello di diffusione a pagamento o ad accesso aperto (open access).

comitato scientifico internazionale Andrea Dini (Montclair University), Marc Föcking (Università di Amburgo), Gianfranca Lavezzi (Università di Pavia), Paul Geyer (Università di Bonn), Elizabeth Leake (Columbia University), Alessandro Polcri (Fordham University), Pasquale Sabbatino (Università di Napoli “Federico II”), William Spaggiari (Università di Milano), Gino Ruozzi (Università di Bologna), Michael Schwarze (Università di Costanza).


Marino Biondi

L’Antico e noi Studi su Manara Valgimigli e il classico nel moderno Appendice di documenti Carteggio Valgimigli-Norsa (1933-1941) a cura di Marino Biondi e Roberto Greggi

SocietĂ

Editrice Fiorentina


Il volume è frutto di una ricerca svolta presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze e beneficia per la pubblicazione di un contributo a carico dei fondi amministrati dallo stesso Dipartimento

© 2017 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-445-0 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata


ai miei fratelli, Edgardo e Silvia



Indice

introduzione 11 Valgimigli la scuola temi di istruzione classica

una lunga storia

Un destino chiamato Adriano

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scritti valgimigliani

L’ultimo mantello «Colleviti». Biografia e letteratura All’ombra del grande fratello. Elzeviri sul tempo dei poeti «Inseguiva una patria». Il poeta il filologo il filosofo Valgimigli italianista Giorgio. Ricordo del figlio amico Dino Pieraccioni. Incontri nel tempo Valgimigliana. Nota bibliografica

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appendice di documenti carteggio valgimigli-norsa (1933-1941) a cura di Marino Biondi e Roberto Greggi

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Nota ai testi Carteggio Valgimigli-Norsa

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Indice analitico



Introduzione



Valgimigli la scuola temi di istruzione classica

Tanti giorni a Orazio, e tanti a Catullo. (Valgimigli, La mia scuola, lettura fatta in Pisa nell’aprile del 1921)1

Questo libro è dedicato all’antico e a Manara Valgimigli, uomo di cultura antica e moderna, classicista eminente e traduttore, nonché divulgatore d’eccezione. È un libro cucito intorno al suo classicismo e al suo carduccianesimo («come carducciano nella carne»)2, quindi rivolto al Valgimigli italianista, libero scrittore della letteratura italiana moderna e contemporanea. A Valgimigli, così come a critici e studiosi del suo rango (il Pasquali stravagante compreso), si deve anche una impronta di stile sulla prosa italiana del Novecento, una impronta-traccia del passato, della sua intelligenza e della sua coscienza, che ha contribuito a dare alla nostra saggistica un rilievo particolare e un longevo prestigio. I saggisti scrivono (talvolta) assai meglio dei narratori, ai quali è data anche libera licenza di mala scrittura. Ma il tema di questa Introduzione è la scuola, il ruolo che vi ebbe Valgimigli, e l’istruzione classica, di cui fu un protagonista in un’altra Italia e in un’altra cultura italiana, ma che è ancora una problematica attuale (oggi, mentre scrivo, 23 giugno 2016, leggo sulla stampa “Isocrate, Sulla pace”, fra i temi della maturità classica, scelta saggia secondo il commento a caldo di Luciano Canfora), irta e spinosa tematica, che è stata analizzata in modi non convenzionali in una cerimonia in onore del maestro sampierano, di cui diremo nel seguito di queste pagine. Grande uomo di scuola, dalla scuola media all’Università, dai Licei di Spezia, Massa, Messina (1922-1924), agli atenei di Pisa (1924-1926) e di Padova (19261948), e ai Lincei, prima di approdare alla scuola silente dei soli libri, la Classense di Ravenna, Valgimigli, allievo a Bologna del grecista e rettore a vita Vittorio Pun

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M. Valgimigli, La mia scuola, con una premessa di N. Bobbio, Bari, Levante Editori, 1991, p. 10. Siglato MS. Definizione tratta da una lettera di Luigi Russo a Walter Binni, 15 aprile 1950; in L. Russo, W. Binni, Carteggio 1934-1961, a cura di L. Binni e R. Ruggiero, Pisa, Edizioni della Normale, 2014, p. 121.


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Introduzione

toni, della scuola tracciò le vicende di decadenza per il periodo da lui precisamente indicato e accusato, che andava dall’ultimo ventennio del XIX secolo ai tempi della Riforma Gentile, ministro della Pubblica Istruzione il filosofo dal 30 ottobre 1922 al 1 luglio 1924. Quella riforma, nonostante i non pochi assalti e le modifiche subite, conservò una posizione centrale agli studi classici (e al greco, obbligatorio nel ginnaio-Liceo classico). Valgimigli fu critico acerrimo del positivismo e del positivismo filosofico. Negò in più circostanze uno statuto di filosofia e di pensiero a quel movimento di erudizione ed estrinseca classificazione dei saperi, che pure in una sua prima fase aveva avuto qualche merito. Era subentrato allo storicismo romantico, che aveva conseguito realizzazioni compiute e insuperabili (De Sanctis), e lo aveva arricchito inizialmente, potenziato sul piano dello scavo e della ricerca. Sotto questo profilo, di critica alle degenerazioni positivistiche, Valgimigli accolse le resultanze della riforma idealistica crociana e gentiliana. Si trovò a far parte di alleanze variabili con colleghi e amici, fra i quali Ernesto Codignola e Gaetano Salvemini, a discutere e a formulare ipotesi sull’esame di Stato, la qualità della formazione, la laicità della scuola italiana3. Quella della scuola, e in particolare della scuola media, fu una storia raccontata con lo sdegno dell’insegnante deluso ma mai domo, né rassegnato al peggio, e del polemista di razza, razza carducciana, vivida di mille colori e sapori del linguaggio, fatto diventare al momento opportuno un’arma per la battaglia delle idee e della cultura. Per fare polemica, e validamente sostenerla, occorre avere uno stile brillante, altrimenti si riesce solo ad annoiare. In una serie di articoli e saggi, spesso di occasione, sparsi su fogli dell’epoca e discorsi pubblici, raccolti nel volume La mia scuola (1924)4, Valgimigli con il piglio vitale e polemico del militante espose a grandi linee ma con un inusitato vigore un suo progetto filosofico di riforma, che poi si identificò in quella, effettivamente realizzata, del ministro Gentile, da lui accolta nella sostanza e giudicata la migliore possibile, ma scissa dalla matrice fascista (la più fascista delle riforme, secondo Mussolini, ma poi il duce ne diffidò), che a suo avviso non la connotava in senso stretto, e al contrario la avversava – punto quanto mai controverso – ma soprattutto una sua autobiografia della docenza, una idea forte e morale, sentitamente etica, assai più che tecnica né tanto meno tecnicistica, dell’insegnamento, di cosa significava essere insegnante, maestro, nella quotidianità della relazione con le scolaresche e, peggio, assai peggio, con le dirigenze burocratiche romane e loro propaggini ispettoriali. C’era in Valgimigli una vena gogoliana nel dipingere i quadretti dei burocrati in visita ai colleghi impegnati nella trincea delle classi, le genti meccaniche della docenza, tronfi della loro riconosciuta funzione. Da Valgimigli a Lucio Mastronardi, maestro e martire vigevanense, il personale dirigen-

G. Pecora, La scuola laica. Gaetano Salvemini contro i clericali, Roma, Donzelli, 2015. MS.

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te e di controllo sulla scuola e gli uomini di scuola ha goduto di una pessima stampa. Ma qui in questione era l’insegnamento delle lingue classiche, greco e latino, ma non solo5. A Firenze si era costituita nel 1897 l’Associazione Italiana di Cultura Classica (AICC), associazione privata in memoria e in difesa della cultura classica di cui facevano parte personalità quali Girolamo Vitelli (1849-1935) e Felice Ramorino (1852-1929). Con l’archeologo Amedeo Maiuri (1886-1963), nella nuova sede del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, l’Associazione, di cui fecero parte i massimi antichisti italiani, da Giacomo Devoto (1897-1974) a Giovanni Pugliese Carratelli (1911-2010), è stata attiva fino ai nostri giorni. Marcello Gigante (1923-2001), filologo classico della “Federico II” di Napoli, artefice di studi valgimigliani, fu presidente dell’Associazione promuovendone l’espansione internazionale. Lo statuto della società, pubblicato nel volume inaugurale della rivista «Atene e Roma», si faceva carico complessivamente dell’intera problematica della classicità dagli studi superiori alle manifestazioni letterarie e artistiche fino all’insegnamento delle discipline classiche nelle scuole secondarie superiori e nelle università6. A Firenze, soprattutto per merito di Vitelli, «il maggiore filologo classico tra gli Italiani viventi»7, la tradizione del greco s’impose, non solo nella realtà universitaria della docenza e degli studi papirologici (nel settembre 1908 si costituì la «Società Italiana per la Ricerca dei Papiri Greci e Latini in Egitto»), ma anche per una specie di mitografia la quale ottenne che letterati di nuova generazione si sentissero attratti nella sua orbita, da Serra a Cecchi a De Robertis, ricavandone e affinandone una propria tradizione, quella di un saper leggere che il papirologo irpino riservava ai pochi uditori dei suoi seminari in San Marco. Si creò pertanto una corrente calda fra gli studi di greco e la modernità letteraria e la stessa stravaganza letteraria e stilistica pasqualiana potrebbe attestarla. Il greco per la sua valenza ha sempre esercitato sui letterati una particolare fascinazione. Il greco, che, come scriveva Giorgio Pasquali (1885-1952) in Paradossi universitari («Pègaso», luglio 1930), per quanto ci fossero valenti grecisti, nelle scuole italiane non si imparava, o solo si fingeva di impararlo. Non era del resto solo una sua idea. Colpa delle traduzioni interlineari ma per il filologo romano e tedesco era anche una questione di età dei discenti. Curiosamente egli riteneva che il greco, lingua molto più difficile del latino, rappresentasse però una civiltà più giovane, e fresca, di

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Vd. il quadro storico e legislativo disegnato per il greco da C. Neri, in «Il greco ai giorni nostri», ovvero: sacrificarsi per Atene o sacrificare Atene?, e per il latino da G. Baldo, Gli studi di latino nell’Italia postunitaria. Dalla Legge Casati alla Scuola media unificata, in Disegnare il futuro con intelligenza antica. L’insegnamento del latino e del greco antico in Italia e nel mondo, a cura di L. Canfora e U. Cardinale, Bologna, il Mulino, 2012. sgg. Siglato DF. M. Capasso, L’Associazione italiana di cultura classica e lo studio dell’antichità greca e romana, in DF, pp. 193-195. G. Pasquali, Poesie greche e latine di un filologo [«Corriere della Sera», 11-8-1927], in Giorgio Pasquali nel «Corriere della Sera», a cura di M. Marvulli, con una nota di L. Canfora, Bari, Edizioni di Pagina, 2006, p. 64.


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Introduzione

quella latina. In altre parole Omero era più vicino, più accessibile, di Virgilio, e i dialoghi di Platone potevano appassionare ed entusiasmare assai più dei trattati di Cicerone. «Omero è più giovanile di Virgilio, la tragedia più di Orazio, Aristofane più di Plauto, anche Platone più di qualunque filosofo romano»8. Dunque, in sequenza, prima la Grecia e poi Roma, un insegnamento da impartire a ragazzi adolescenti di undici anni. Il greco era considerato un insegnamento speciale. Vi si poteva accedere per vocazione ma allora bisognava misurare la qualità dell’insegnamento impartito e la statura del docente. Ricordiamo qui un episodio della vita universitaria di Arnaldo Momigliano (1908-1987), all’Università di Torino. Desideroso di laurearsi in greco con una tesi su Menandro, si sentì dire da Gaetano De Sanctis: «Non faccia l’errore di laurearsi in greco; c’è un cattivo professore di greco»9. Sentenza eseguita senza appello. Chi il malcapitato, segnato per sempre? Angelo Taccone (Bosco Marengo 1848 - Torino 1952), allievo di Giuseppe Fraccaroli. Momigliano si laureò su La composizione della storia di Tucidide nel giugno 1929 con De Sanctis e fu il grande storico della storiografia che sappiamo. Sulla Grecia giovane maestra di vita si basava anche il vincente modello del filoellenismo humboldtiano che per tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento, fino alla riforma varata nel 1972 dal cancelliere Brandt, formò le classi dirigenti tedesche, dalla Prussia alla Germania10. Oggi della Grecia si è fatta la vittima sacrificale di un’Europa economica. L’ex ministro Giulio Tremonti, saggista non convenzionale, ha scritto che «Lord Byron non sarebbe stato dalla parte della Troika»11. A prescindere da queste tematiche, nell’ambito di una teoresi gentiliana, che pure aveva confermato in legge l’assetto della legge Casati (1859), restata in vigore fino al 1923, la prima a dare alla scuola italiana su una ispirazione unitaria liberal-piemontese, una decisa e decisiva impronta classicistica, con un dominio delle discipline classiche su quelle matematico-scientifiche, l’insegnamento, e l’insegnamento di materie umanistiche, era per Valgimigli una attività spirituale, un atto dello spirito, attività di una poetica agente e trasformativa, sempre rinnovata, e pertanto negazione della burocrazia e dei suoi apparati: «La scuola, come la poesia, è creazione ideale, non accomodamento e distribuzione meccanica di fatti e notizie preesistenti e per sé stanti; è unità e non molteplicità; è spirito, non materia; e insomma anch’essa, come la poesia, è forma, non contenuto»12. La scuola – se un uguale mito non fa uguale tragedia, al modo in cui un uguale contenuto di una lezione di storia o di greco non fa uguale lezione – non era, non è

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DF, pp. 120-125. A. Momigliano, Pagine ebraiche, introduzione e cura di S. Berti, con un’intervista inedita ad A. Momigliano (marzo 1987), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, p. 295 (Conversando con Arnaldo Momigliano). G. Ugolini, Lo studio delle lingue classiche nel sistema educativo tedesco. Il modello Humboldt, in DF, pp. 287-289. G. Tremonti, Mundus furiosus. Il riscatto degli Stati e la fine della lunga incertezza, Milano, Mondadori, 2016, p. 45. MS, p. 6.


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mai la stessa, cangiante forma dell’anima: «nessuno mai torna alla scuola con lo stesso animo; come nessuno mai tuffa due volte le mani nella stessa acqua di fiume e dunque c’è sempre in questa diversità molteplice tutto un nuovo mondo da ricreare ogni volta in una nuova unità. Ripetere se stesso è non vivere. E gli scolari vogliono vivere»13. Anche se si è storicamente e ideologicamente estranei alla teoria filosofica di riferimento per quel tempo e in quel passaggio storico, pur perduta nella scuola la centralità dell’umanesimo, c’è una indubbia verità in questa concezione-idea e pratica dell’insegnamento. Non c’è bisogno di essere gentiliani o idealisti di ritorno, e neppure classicisti, per criticare aspramente la scuola già criticata da Valgimigli, e la nostra “buona” scuola e università altrettanto buona. È vero, che la scuola non la fanno i ministri, ma non la fanno neppure i maestri – e sì che ci vorrebbero buoni professori, studiosi, appassionati, non precarizzati e umiliati a vita, ridotti a macchine burocratiche14 – la fanno ormai gli amministratori delegati (dai ministri e dagli innumerevoli consigli e altri sinedrii direttivi sparsi sul territorio). Non c’è scampo per l’insegnamento e la sua anima, qui difesi da Valgimigli e da molti di noi condivisi. L’insegnamento di ogni ordine e grado è un atto umano, mentale, spirituale, psicologico, di contenuti e di forma, di esperienza e di memoria, di ricerca e di trasmissione didattica. È un complesso di funzioni e di mansioni, costruito nel tempo, che precipita ogni volta in una sintesi individuale, in quel momento del tempo comunitario che è la lezione. Gli studenti, anche i più distratti, i più cinici, vorrei dire, lo avvertono, talvolta in modi subliminali, se a parlare loro è un essere umano o un automa eterodiretto. Si svegliano dal loro torpore culturale (angoscioso e crescente), come ciechi nati che comincino a vedere baluginare i colori. Il male della scuola attuale (e dell’università) è la crescente burocratizzazione, la formalizzazione vuota quanto autoritaria della governance, che deve rispondere a criteri neopositivistici di classificazione e valutazione, costanti, incombenti, minacciosi, falsamente obiettivo-statistici. Il bravo insegnante non ha più voce in capitolo ed è emarginato a scuola e nei dipartimenti del XXI secolo. Il burocrate, padrone del gergo e della dura lex, per impadronirsi dei quali protocolli bisogna avere abbandonato per tempo gli studi, dominus dei regolamenti e delle clausole, MS, pp. 22-23. Vd. N. Ordine, La riforma della scuola è avere buoni professori, in «Corriere della Sera», 3 settembre 2017: «Dai professori bisognerebbe partire. Che fare? Come formarli? Come selezionarli? La nostra scuola non ha bisogno di ulteriori riforme. […] La peggiore delle riforme con buoni professori darà buoni risultati. E, al contrario, la migliore delle riforme con pessimi professori darà pessimi risultati». Ordine documentava la gratitudine di Albert Camus, appena insignito del Nobel (19 novembre 1957), per il suo maestro di Algeri, Louis Germain: «Caro signor Germain, ho aspettato che si spegnesse il baccano che mi ha circondato in tutti questi giorni, prima di venire a parlarle con tutto il cuore. Mi hanno fatto un onore davvero troppo grande che non ho né cercato, né sollecitato. Ma quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo».

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come certi sergenti nell’addestramento formale delle reclute nelle guarnigioni di pace (dove più del nemico contano gli anfibi lucidati), sale in gerarchia e dirige il lavoro altrui, come fosse un direttore d’orchestra, ma è talvolta un ex musicista, anch’egli un orchestrale, annoiato dalla musica (leggi dall’insegnamento) e stonato (l’orecchio ce l’hanno invece gli insegnanti che continuano a farlo, che continuano a suonare lo strumento ogni giorno, alcuni almeno, che però non contano nulla). Con i risultati che molti se non tutti possono constatare. La felliniana prova d’orchestra della scuola nazionale non finirà con un direttore, con una bacchetta hitleriana, né wagneriana, ma con l’ennesimo cambio di vertici politici e amministrativi. E nuovi protocolli e circolari. Nessuna tragedia all’orizzonte del nostro cielo di carta, ma la defatigante commedia che viviamo ogni giorno nel nostro mestiere. Se mi è consentita una battuta, la pensione, il trattamento regolare di quiescenza, è diventato per molti insegnanti come il paradiso di Maometto per gli islamici. Allora scuola, tornando in aura valgimigliana, come poesia (creazione) e come vita. La docenza – fatto spirituale – era altresì un’esperienza che si doveva ripetere ogni giorno, ma che non era ripetibile, né meccanica – questa la peculiare difficoltà e l’aporia-paradosso della professione – ripetibile come starebbe a indicare la sottesa inerzia della parola ripetizione o il meccanismo della replica quotidiana, per dovere di ufficio. Valgimigli negava il mestiere in quanto attiene alla parola, come rendita da una posizione di esperienza, appresa una volta e ripetuta. Il maestro era «il poeta della scuola»15. Chiamato a essere se stesso e ogni volta al massimo delle proprie potenzialità espressive oltre che comunicative. A Manara – crediamo – sarebbe piaciuto il film L’attimo fuggente, non a caso intitolato nell’originale Dead Poets Society, con quel funambolo della cattedra interpretato da Robin Williams. La docenza mutava di volta in volta, riplasmandosi sulle persone e sul tempo, non era mai la stessa, in questo senso era una esperienza unica e comunitaria, alla presenza di una comunità, di creazione-ricreazione dello spirito. Tutto, ogni forma di espressione, di attività mentale, poetica, intellettuale, era spirituale. Lo era il linguaggio, il verso, la metrica. Non esisteva tecnica, né dottrina, che fosse solo tecnica ed erudizione. Ogni poeta aveva il suo verso, esclusivamente proprio, anche se sembrava ereditarlo dalla cultura della poesia (dall’endecasillabo del Foscolo a quello leopardiano al pascoliano nei Conviviali). Quindi a rigore non esisteva una metrica e prosodia, in generale, protocollata come disciplina tecnica, cui attingere, ma solo una metrica peculiarissima per ciascun poeta, il quale la creava, sempre la ricreava, la generava dal proprio ventre, sia pure fecondato dalla tradizione («sia pur essa riespressione o ricreazione di altra attività creatrice precedente di altro spirito»)16, così come avviene per le nascite umane. L’idealismo gentiliano – l’attualismo – avevano lasciato il segno sul classicista 15

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MS, p. 6. Poesia e traduzioni di poesia, in MS, p. 193.


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Valgimigli, già influenzato da Croce al tempo delle sue traduzioni dalla Poetica di Aristotele. Croce era stato fra i critici del filologismo positivistico ma non aveva mai abiurato la filologia come storia, retto binomio di critica e interpretazione. Ma in Valgimigli non era solo idealismo, un influsso filosofico ricevuto dall’esterno. Era piuttosto in lui, autonomamente, il senso profondo della parola, profondo e difficilmente attingibile, che imponeva in qualunque momento del linguaggio, in ogni atto dell’intelletto e della mente linguistica, una concentrazione vitale, costantemente rinnovata e tesa, portata al limite appunto della creazione-ricreazione (la mimesi di Aristotele). Era, o poteva essere, un tormento17. «Tu guardi dentro una parola, fissi e fermi il tuo occhio in quello che ti sembra il suo significato preciso; e dentro e dintorno vi scorgerai come un ondeggiare di innumerevoli altri significati, che sono appunto la germinazione perenne di quella parola in quanto la cogli nel suo pieno vivere. Se vuoi tradurre quella parola, devi pur compiere un atto di volontà»18. Ogni volta un atto di volontà e di creazione. «E dunque anche tradurre è mimèsi; e anche tradurre è, come far musica e poesia, come dipingere un quadro e scolpire una statua, sforzo e anelito di conquistare e di possedere la propria realtà. E la miglior traduzione sarà dunque la migliore mimèsi: come quella che attui e rappresenti, irraggiato in una centralità di visione e refluente di vita nuova, il suo nuovo mito»19. Si possono percepire in taluni accenti, descrittivi della obiettiva difficoltà di rendere la lingua greca (specie quella miracolosa di suoni, di immagini, di presenze interlocutorie, e di echi di Platone, «infinite luci in una celerità e vivacità di irradiazione che non è possibile fermare»)20 che Valgimigli sapeva di sfiorare la sensazione di impossibilità, inconoscibilità, pena da frustrazione, che tanto avevano connotato l’accostamento serriano al valore imprendibile dei Greci (un frammento serriano edito da Valgimigli su «La Critica» di Benedetto Croce nel 1924). Valgimigli, in fatto di traduzioni, e più largamente in fatto di conoscenza storica, non era per niente incline alla sirena dell’agnosticismo, della intraducibilità, del ponte crollato (Virginia Woolf), della inconoscibilità, se esaltava le traduzioni da Aristofane di Ettore Romagnoli e dalle Ecclesiazùse del Fraccaroli, oltre che spendersi nell’elogio della versione delle Ecloghe virgiliane, opera dell’amico Socrate Topi (1916). Credeva conoscibile la storia, praticabile l’umanesimo, trasmissibile la sua eredità. Il cammino non era stato interrotto. La nostra civiltà, che è poi come tutte le civiltà un sistema di idee e di valori, poteva continuare ad alimentarsi delle antiche energie dell’arte e della letteratura greco-romana. Si noti altresì che tra fine secolo e i primi del Novecento si erano cimentati con il problema della scuola e dei suoi programmi numerosi pedagogisti, e filosofi interessati alla pedagogia, o meglio alla rifondazione della filosofia nella scuola, impegnan 19 20 17

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MS, pp. 196-197. MS, p. 197. MS, pp. 198-199. MS, pp. 197-198.


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dosi in una serie di tentativi di riforma dei vari cicli di studio, sia dal punto di vista del metodo d’insegnamento sia dei contenuti specifici (oggi si userebbe il termine di “disciplinarietà”). Anche il positivismo era stato attivo nella scuola (Aristide Gabelli), ma i suoi metodi (sperimentali), il suo anche benefico insistere sulla lezione dei fatti, forse anche per l’idoleggiamento del fatto in sé, dei fatti per accumulo, erano caduti in disgrazia. Il conflitto si configurava così fra educazione e istruzione, formazione e riempimento quantitativo di fatti (nozioni). L’intento era quello di modernizzare la scuola, ma al contempo si verificava che era anche il contesto del Paese a essere arretrato e conservatore. Valgimigli, uomo di scuola, fu nemico giurato del triste andazzo scolastico, della rassegnazione di molti suoi colleghi, dell’arroganza e sciatteria di molte famiglie di alunni (una gran iattura per i maestri seri, e non familistici). Polemista valentissimo nei confronti degli emblemi e dei poteri della romana burocrazia della Minerva e della sua setta di dirigenti periferici, descritti come ottusi e qualche volta anche corrotti. Insomma una gran camorra la scuola ministeriale, la scuola dei ministri e dei burocrati. Quando anche i professori, l’anello sensibile ma anche spregiato della gran catena gerarchica, si burocratizzavano, allora il gran veneficio ordito ai piani alti dei palazzi romani si poteva dire che avesse raggiunto il suo effetto. Pochi grandi studiosi, alonati dal prestigio accademico, comprensivo di umanesimo e scienza, sono stati altrettanto attenti e sensibili alle problematiche e allo stato di abbandono della grande dimenticata, la scuola media. Oggi un discorso sulla scuola classica, all’apice della crisi dell’insegnamento della filologia e delle discipline classiche anche nelle nostre università, deve vedersela con un tempo di trasformazioni che hanno di fatto defenestrato il modello gentiliano, incentrato sull’asse prevalente delle lingue classiche e della cultura storico-filosofica, nonché sulla visione antagonistica delle due culture, con un primato assegnato all’umanesimo, al classico, alle discipline della mente contro le pratiche pseudoconcettuali del fare, del computare, del classificare. La situazione oggi è ribaltata. «Ma alla dissoluzione di quella architettura organizzativa che aveva retto per quasi cent’anni, sia pure con i giusti correttivi apportati dalle minisperimentazioni, ha prodotto qualche esito preoccupante»21. E si tratta di un eufemismo, probabilmente. La classicità, confluita e consolidatasi in una vera o presunta res publica litterarum (una idea-forza, oltre e più che una realtà), agì da fattore discriminante fra i colti (gli umanisti) e la massa (borghese e popolare). Come ha scritto Luciano Canfora, con il latino e il greco, fu dal tempo dell’Umanesimo chiara la distinzione di campo fra dotti e indotti, una separazione anche malvista, una reciproca classista avversione22. Il classicismo greco-latino designava una aristocrazia dello spirito, e i classicisti, che fossero filologi alla Pasquali, esteti e artisti come Fraccaroli e Romagnoli, storici di grandi personalità come

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C. Palumbo, Scommettere sugli studi classici nella società liquida, in DF, p. 14. Canfora, Prolusione, in DF, p. 26.


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Concetto Marchesi23, sostanzialmente si riconoscevano in questo primato della loro disciplina. Fra i classicisti c’era una convinzione che poi un critico nostro contemporaneo, celebre per le sue canonizzazioni occidentali, Harold Bloom, seguace dello Pseudo Longino, teorico del sublime, avrebbe tradotto in un aforisma: la letteratura o è alta o non è (oggi, molto contestata, con molta letteratura non alta, e il relativismo multiculturalista nell’epoca del risentimento). Canfora ha altresì sostenuto con l’acume e spregiudicatezza ben noti che «È una dialettica necessaria e feconda quella che nel campo della cultura e della scuola costringe ciclicamente gli antichi e i moderni ad affrontarsi. A prima vista sembra che si replichi sempre la stessa vicenda, ma essa è invece ogni volta profondamente diversa. E necessariamente lo spazio dei moderni aumenta, mentre gli assertori degli antichi sono chiamati ogni volta a chiarire innanzitutto a se stessi la fondatezza e la durevolezza delle loro ragioni»24. Quindi nessuna rendita di posizione viene, come un tempo, riservata ai classicisti. Ma il loro compito si è fatto più arduo, e tuttavia ugualmente e ancora più necessario, nella attuale desertificazione e schiacciamento sul presente di una valanga di saperi improntato a un disordine sincronico e a una preoccupante mancanza di controlli e verifiche. A ben guardare accanto ai classicisti dovrebbero collocarsi anche gli storici, i quali nell’attuale panorama dei saperi tecnico-scientisti di pronto intervento, sono vistosamente emarginati e sostituiti dagli operatori del presente, sociologi e politologi. Al termine della Prolusione al volume Disegnare il futuro con intelligenza antica, Canfora ha affrontato anche lo stato di degrado di una parte della nostra istruzione medio-superiore e dell’università: «L’abrogazione del valore legale dei titoli di studio sarà il coronamento di quella “rivoluzione fallita”, i cui incauti promotori tuttora circolanti scoprono tardivamente che il processo educativo dev’essere un punto d’incontro tra autorità e libertà»25. Il punto d’incontro tra autorità e libertà è una definizione icastica e illuminante di cosa sia e in cosa consista e sia consistito l’insegnamento, anche nelle modalità in cui lo concepiva Valgimigli, docente appassionato e severo, non disposto a transigere sul rigore, quella competenza di nozioni, di saperi acquisiti e poi messi a disposizione, che precedevano ogni discorso, e inglobavano in sé la stessa pedagogia (materia per lui autonomamente inesistente o assimilata alla disciplina), ma che non dovevano gravare con il solo peso isolato (positivistico) del dato, della nozione. Nell’incontro che si è svolto a Bagno di Romagna, in occasione del conferimento del Premio Valgimigli, alla sua prima edizione, a Luciano Canfora, il filologo e storico, emerito dell’Università di Bari, con una serrata critica del canone classicistico, ha sostenuto che l’enorme equivoco che ci ha allontanato da quel mondo classico a volte tanto retoricamente invocato e rimpianto è consistito nella imposizione di un canone (il classicismo). Non vi è dubbio che l’umanesimo Storia della letteratura, grammatica e filologia. Concetto Marchesi, in DF, pp. 177-180. DF, p. 29. 25 DF, p. 31. 23

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abbia sentito ciclicamente il bisogno di ricollegarsi all’antico, come a un’ancora, a una norma. Ma il registro archeologico della nostra specie (Specie imprevista, secondo il libro di Henry Gee; Specie imprevedibile, secondo l’altro libro di Philip Lieberman) descrive un fiume millenario di altra storia precedente l’avvento del temibile Sapiens, in transumanza verso Oriente, con il suo cervello, le armi, la fame, portando ma anche infliggendo la sua presenza nel conflitto con altre specie preesistenti (abolite dalla storia e dal tempo). Quindi non si è tenuto conto che c’è stato nel corso dei secoli chi ha già ragionato in termini di valore e ha già scelto per noi. Onde non ha senso idolatrare il valore classico in sé, dirsi classicisti, tornare al classicismo. Regredire a un valore fissato una volta per tutte. Canonizzarlo. Chiedersi anche che cosa sia il classico, chi sia un classico, al fine di adeguarsi a un modello, domanda che innumerevoli volte è stata posta da letterati, studiosi e scrittori (da Sainte-Beuve a Eliot a Calvino). Alla sola presenza del classico, rassicurante e normativa, ma anche inclusiva come riconoscimento e identificazione sociale, non si sarebbe verificata nessuna discontinuità creativa. Non sarebbero mai apparsi i visionari, che sono anche estranei, stranieri, alienati, quelli che Colin Wilson chiamò in un suo celebre libro The Outsider (1956). La classicità che ci è pervenuta, attraverso temporalità discontinue e spezzate, è anch’essa un mondo contraddittorio, e più o meno casualmente residuato, vite problematiche, vite aperte, drammi e tragedie. Il classicismo, nella sua versione normativa, ha estetizzato e anestetizzato l’eredità greca. Estetizzata perché dalla classicità greca e in genere dall’antichità siamo stati indotti a percepire ed enfatizzare quasi soltanto l’aspetto del bello (il patrimonio della bellezza, il codice Unesco), ma il bello è solo uno nella composita porzione di valori necessaria all’uomo per essere veramente tale. Chi ricordi di avere varcato, anche solo per turismo, la porta di Micene, ha sentito vibrare qualcosa di quella tragica epopea atridica: Agamennone che tornava dalla guerra al lume delle torce e il delitto coniugale ordito da Clitennestra26. Sembra che quelle fosche immagini facciano parte del nostro stesso passato, abbiano intaccato la stirpe umana, tanto forte è stata l’incidenza del mito. Chi era Ecuba per lui, si chiedeva Amleto vedendo il guitto che piangeva su quella antica madre mentre lui Amleto non riusciva a commuoversi come quel commediante neppure per la morte del proprio padre. Chi è Agamennone per noi? Questa empatia non comporta però nessuna nostalgia. Come scriveva Marguerite Yourcenar al nipote Georges (Natale 1966), nel passato, come sempre e ovunque del resto, c’è da prendere e da lasciare. L’Iliade, il poema della forza virile (Simone Weil), è puro agonismo e la guerra che vi si combatte non è solo di Troia ma dell’uomo con il suo destino. Ma si pensi anche ai diversi livelli di conoscenza, o di teoria della conoscenza, e alle diverse opposte procedure euristiche che ci vengono dalla Grecia. Basti riflettere sulla differenza tra il dualismo platonico, sul quale, sia per la potenza dell’artista Platone sia per il contributo del platonismo cristiano, abbiamo fonda G. Guidorizzi, Io, Agamennone. Gli eroi di Omero, Torino, Einaudi, 2016, «Nóstos». Il ritorno.

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to la nostra tuttora perdurante opposizione corpo-anima, con la svalutazione della corporeità e l’identificazione del vero con il soprasensibile, e la scienza greca, o più precisamente le teorie biomediche che quel dualismo avevano già reintegrato in unità funzionali. Non una immobile sapienza, una e definita, nella quale specchiarsi per tramandarne canonicamente il modello, ma un sapere già allora diviso e antagonistico. Il classicismo ha reso unitaria e immobile quella sapienza. L’antichità può insegnare agli uomini di oggi un discorso duro (durus sermo), senza palliativi e scappatoie di senso. Ma anche un linguaggio ricco di tutte le sfumature dei significati del vivere (e del morire). L’Italia, come ha scritto Maurizio Bettini, è stata gettata per suo destino (meriti e demeriti a parte) nella speciale contingenza culturale del greco-latino. Siamo un Sito Unesco a cielo aperto, un sito greco (Agrigento, Selinunte, Paestum), romano antico (Roma, Pompei, Ercolano), per non dire del numero incalcolabile di artefatti greci e romani che popolano i nostri musei. Questo significa contingenza greco-latina del nostro Paese, il rilievo del tutto particolare che l’antichità classica occupa nella nostra storia e tradizione27. Nicola Gardini in un bel libro sul latino, Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile, ha riaffermato che noi siamo ciò che Catullo, Lucrezio, Cesare, Virgilio, Seneca, Tacito, Properzio, Petronio, Apuleio, e gli altri autori hanno scritto della vita, dell’amore, della materia, della storia, del potere28. È stato un bestseller, di quasi dieci edizioni, e nessuno, ma proprio nessuno, lo avrebbe detto prima. Indubbiamente ha agito l’effetto-traino, una specie di imitazione, imitare un nobile gesto, comprare un libro sul latino, e di eccellente qualità, mentre si dà il caso che le librerie, loro malgrado e data la produzione corrente, mostrino libri di pessima qualità (i libroidi li chiamò Gian Arturo Ferrari, patron Mondadori). C’è nell’aria e nella gente una voglia di cose buone, sane, profonde, che tali si immaginino, almeno. Perché c’è troppo trash. Ed è possibile che un libro che parla di latino e di alta letteratura, di bellezza sempiterna della lingua, una bellezza che dura nei secoli, crei comunque un bisogno di purificazione, anche se lo si leggerà appena o non lo si leggerà affatto. Esso ha funzionato come un contravveleno per l’ambiente inquinato. E ora veniamo a quello che ha scritto l’autore e a come lo ha scritto. «Le parole più antiche della nostra lingua – leggiamo in Il potere delle definizioni – sono come le case abitate dai fantasmi. Il nuovo padrone può sforzarsi quanto vuole di non salire in soffitta (o di non scendere in cantina), di non aprire quella porta e di tenere sempre accesa la luce di notte. I sussurri di chi è venuto prima attraversano i muri; non c’è lampada che disperda le ombre. O ricordano le scatole degli illusionisti. Aperte, sembrano vuote. Le richiudi, le riapri, e ti salM. Bettini, La contingenza greco-romana dell’Italia, in A che servono i Greci e i Romani? L’Italia e la cultura umanistica, ivi, 2017, pp. 36-37, sgg. 28 N. Gardini, Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile, Milano, Garzanti, 2016 (ivi, 2017). Vd. il commento di S. Settis, Salviamo il latino lingua della memoria, in «la Repubblica», 10 agosto 2016.

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ta fuori la colomba bianca con il suo caratteristico frullo d’ali». È fra le definizioni concise e brillanti di questo studioso, il quale sa trasmettere la felicità degli studi, il benessere che è insito negli studi, in chi ha il privilegio e la forza di svolgerli in un certo modo. Gardini ama lo studio (lo studio, studium, il lungo amore virgiliano-dantesco), non gli intrighi che ne strutturano la corporazione. Si parla anche di potere nel libro, del grande potere, e degli storici e scrittori come Cesare, Sallustio, Livio e Tacito che lo hanno descritto e rappresentato. E il potere diventa anch’esso letteratura. Gardini ha scritto un libro composito, molto personale, tutto da leggere, comprese le ampie citazioni dai classici, un libro che è un diario di letture, e sicuramente non una storia della letteratura latina ma un elogio, un inno che nasce dall’amore e dalla consapevolezza di avere imparato un codice di lingua che equivaleva a un tesoro, a un patrimonio: «Come nasce l’amore di una lingua? Del latino, poi? Io mi sono appassionato al latino fin da bambino. Non so esattamente perché». Ciò che è in contrasto con il latino-spauracchio degli scolari di ogni generazione, del compito di latino, la versione, dei casi, dei verbi, della grammatica, la quale è o è stata – lo si dice anche in queste pagine – l’ottusa custode che vieta l’accesso alla letteratura, ai tesori della lingua, e di fatto ha vietato ai discenti italiani la lettura (uno dei temi del libro). Poi l’inno si personalizza vieppiù. Il latino diventa l’agente di una liberazione personale, quasi un ascensore sociale che promuove. «Il latino mi ha aiutato a uscire dalla famiglia, a trovare la strada della poesia e della scrittura letteraria, ad avanzare negli studi, a innamorarmi della traduzione, a dare ai miei vari interessi un indirizzo comune e, alla fine, anche a guadagnarmi da vivere» (Una casa). Ma il latino è stato acquisizione di ricchezza, di plusvalore espressivo: «Grazie al latino una parola italiana valeva almeno doppio. Sotto il giardino della lingua quotidiana c’era il tappeto delle radici antiche». Il latino che viene insegnato è il latino letterario, quindi una lingua artificiale (ma come quella nella letteratura italiana di Petrarca e di Manzoni). La lingua letteraria è trasmessa dalla scrittura che è più conservatrice del parlato, e permette fedeltà, continuità, uniformità. Il classico, la classicità. Quando il latino diventa classico? «Il latino diventa “classico” nell’ultimo periodo repubblicano, quando si sviluppa tutta una cultura della parola regolata e della norma, una vera e propria “ideologia grammaticale”, che mira a darsi, in un clima di complessità politica e nella ricerca di un’ultima autolegittimazione culturale, statuti e credito in rapporto e anche in tardiva concorrenza con la tradizione della grande oratoria greca, quella rappresentata da Isocrate e da Demostene in particolare. Caratteristiche precipue di questo “latino nuovo”, che nell’arte oratoria si esprime nella forma più paradigmatica, sono la regolarità, l’uniformità ortografica, la chiarezza semantica e la complessità sintattica, la cosiddetta ipotassi, in cui il congiuntivo la fa da principe e gli utilizzi di questo sono dettati da criteri convenuti» (Un cielo pieno di stelle). Nell’ipotassi è la prosa italiana classica del Rinascimento. Segue, nello svolgimento dei capitoli, una serie di ritratti dei suoi autori più significativi nell’ambito dell’oratoria, della lirica, del poema epico, e della scrittu-


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ra storica. C’è un amore per la lingua letteraria, che per la sua vitalità artistica, non può in nessun modo essere considerata, come si tende a dire e a svilirla, come una lingua morta. A cosa serve il latino? Non serve. Non servono le questioni poste dagli utilisti e dagli inutilisti. Il latino è bello, il latino è potente. Il latino è memoria. Il latino, per chi lo possieda, è una vita linguistica in più, che precede e segue le altre lingue. Ovidio è tra gli autori prediletti e all’autore delle Metamorfosi è dedicato un altro libro di Gardini, Con Ovidio. La felicità di leggere un classico (2017). In quel libro è anche una sintesi degli intenti del primo e fortunato bestseller. Nel capitolo Il classico dei classici, Gardini scrive: «In questo libro, in sostanza, continuo e approfondisco il discorso che ho svolto in Viva il latino o in lavori precedenti: cercare il proprio e il necessario di un’immaginazione linguistica; entrare nelle ragioni di una scrittura; intendere l’originalità e la vitalità di un certo modo di rappresentare, individuando immagini e motivi ricorrenti, parole chiave, metafore fondanti; dimostrare il valore conoscitivo dell’invenzione letteraria; dimostrare la necessità dei classici». E Ovidio, il dio delle Metamorfosi, non è solo il nome di un poeta, di un individuo storico, ma «il nome di un universo verbale»29. Per noi come per loro, gli Antichi – la sostanza non è mutata – se solo guardiamo in faccia il tempo, l’avvenire, li vedremo inesorabili. Ma l’antichità – lo possiamo verificare anche nella prosa di vita e di memoria del nostro autore – non conosceva le ipocrisie del nostro linguaggio, le blandizie escogitate per attenuare le durezze dell’esistenza, la spietatezza non addomesticabile di certi suoi esiti (la sventura, il deficit e il decadimento fisico, la malattia, la morte). La morte (l’inesorabilità compiuta) che non vogliamo vedere alla fine del nostro tempo, cioè del tempo che è concesso agli uomini, alle civiltà. Qualche volta la morte ci parla dalle pagine rare di qualche libro (come quello del neurochirurgo americano di origine indiana Paul Kalanithi, morto a 37 anni per un tumore ai polmoni, che nelle sue pagine straordinarie, Quando il respiro si fa aria, scritte in presenza, o nell’imminenza della fine, ha scritto: «la morte ti disorienta, eppure non c’è altro modo per vivere»). L’antichità mostra, se si pensa al rapporto con la divinità, che si poteva ridere anche degli dei (Aristofane). L’infinita problematicità del tutto, un certo grado di insolubilità, della vita, dei destini umani, della storia, delle vite singole e collettive, il problema della felicità nell’esistenza del singolo e quello politico della convivenza nello Stato, la finitudine dell’uomo e la infinità del suo intelletto generatore di problemi e conoscenze. In questa dimensione la domanda, le domande della filosofia N. Gardini, Con Ovidio. La felicità di leggere un classico, Milano, Garzanti, 2017, p. 15. Di Gardini, vd. Il canto libero di Ovidio un classico del desiderio, in «la Repubblica», 7 maggio 2017, Robinson, Storie, pp. 10-11. Il latino ha avuto una grande stagione, e anche il greco (ma assai meno). Vd. ancora I. Dionigi, Il presente non basta. La lezione del latino, Milano, Mondadori, 2016 e A. Marcolongo, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, Roma-Bari, Laterza, 2016. Ancora Gardini, come curatore e traduttore, è artefice di una felice riesumazione umanistica: Ermafrodito del Panormita (Torino, Einaudi, 2017).

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– da Socrate a Platone ad Aristotele – questa un’altra lezione dall’antichità della Grecia, hanno una vitalità ancora inesauribile30. Luciano Canfora, rispondendo anche alle nostre domande, ha affermato inoltre, tornando alla dimensione della scuola e dell’istruzione classica, che il liceo che si è detto classico dovrebbe oggi chiamarsi liceo critico. La classicità come critica, esercizio della critica. Dopo un lungo tempo di classicità acritica e retorica, solo scrigno di memoria, che è tuttavia riuscita a dare un’impronta indelebile di vacuità a certo umanesimo italiano. In un suo libro sulla pedagogia critica in società democratiche, Martha C. Nussbaum ha descritto con passione ed estrema chiarezza, passando in rassegna Rousseau e Pestalozzi, Mill, Fröbel, Alcott, Mann, Tagore, John Dewey, Lipman, il metodo socratico (il “pungolatore socratico”) come metodo ideale per formare cittadini consapevoli (oltre che colti, critici, responsabili) in una moderna democrazia. Ha sostenuto anche che le democrazie muoiono di dedizione acritica alle mode e ai poteri, e che l’ignoranza, o anche quel tipo di ignoranza specialistica o specializzata, che annulla il ragionamento e spegne la visione delle cose, perfettamente si sposa a un pecorismo mediatico produttore di stereotipi che tutti ci contagia in Occidente: «La conoscenza non è garanzia di un buon comportamento, ma l’ignoranza lo è quasi certamente di uno cattivo. I più banali stereotipi culturali e religiosi abbondano nel nostro mondo: per esempio, la semplice equazione fra Islam e terrorismo»31. Il processo degenerativo di opinioni generalmente infondate, fomentate da un contagio acritico come una epidemia, la bulimica voracità di chiacchiere dei media, l’assedio dell’incultura di cui soffre anche la letteratura, hanno qualcosa di inarrestabile e potrebbero essere contrastati solo da una cultura vera, solida, difficile da impartire, e da un linguaggio degno e intelligente. L’addestramento alla cittadinanza, alla pratica della vita in comunità, non solo cittadinanza nazionale ma cittadinanza del mondo – per Nussbaum la storia può essere solo storia mondiale – soprattutto colpisce nella sensibilità pedagogica degli studiosi americani, pragmatici umanisti nel ritenere che la cultura critica (ma rispettosamente critica, non radicalmente distruttiva) non debba avvezzare solo a confliggere con l’esistente e il circostante. La critica non deve produrre uomini contro ma in dialogo fra loro. La critica viene associata alla cultura umanistica – storia, e non solo di potestà e di regni, ma storia economica e delle mentalità, filosofia, compreso il pensiero psicoanalitico (Winnicott), immaginazione narrativa, l’arte e la cultura del gioco, addestramento alla relatività delle valutazioni comparative anche e soprattutto nella storia delle religioni – la sola a potenziare e integrare la mera storia fattuale. Oggi se in tutto il mondo le materie umanistiche e artistiche sono sotto attacco, questo significa che sotto attacco è la forma M. Bonazzi, Con gli occhi dei Greci. Saggezza antica per tempi moderni, Roma, Carocci, 2016. M. C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, trad di R. Falcioni, Bologna, il Mulino, 2011 (ediz. originale, Princeton, 2011, nuova ediz. ivi 2013), pp. 96-97 (Cittadini del mondo), p. 126 (Coltivare l’immaginazione: la letteratura e le arti).

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zione critica di un individuo consapevole e responsabile32. Al centro o all’origine di questo intensivo metodo critico era il Socrate ateniese, ragionatore indefesso, maestro nell’arte del ragionamento, e dell’empatia nel ragionamento, criterio che pure molto servirebbe a noi italiani capaci soltanto di ragionare a modo nostro e portati a delegittimare il ragionamento altrui, sia sul piano intellettuale sia su quello politico-ideologico. Il socratismo sembra l’antidoto migliore alla faziosità mentale. Canfora ha concluso sul punto fondamentale (e valgimigliano anch’esso) della traduzione. Traduciamo sempre – ha affermato – anche quando non ce ne rendiamo conto. La traduzione dalle lingue antiche comporta anche una costruzione-conquista di contesti, che ci sono lontani e talvolta estranei. Lo studio del classico è anche esercizio di pensiero. Come ha mostrato Giuseppe Cambiano, i pensatori antichi non hanno avuto timore di argomentare l’assurdo (il latino absurdus, il greco atopos), una sfida mentale e logica per chi si confronti con essi33. Per questo la traduzione è un esercizio intellettualmente “mobilitante”. Le lingue non si sovrappongono, come diceva Ortega, e il traduttore deve riempire i silenzi del testo («far parlare il silenzio»)34. Nussbaum ha affermato che senza il dominio di una lingua, ne consegue la traduzione come ripiego, la quale è sempre una interpretazione imperfetta. Tullio Gregory in un suo libro ha ribadito come la traduzione, la translatio linguarum, vivida e ininterrotta metamorfosi di forme linguistiche da un’epoca all’altra, da un contesto all’altro, antidoto laico alla maledizione babelica, sia all’origine di ogni tradizione di cultura (translatio studiorum), poiché garantisce, per innesti, contaminazioni e continuità ereditarie, traduzioni di traduzioni, pur tra ostacoli, imprevedibili contingenze, roghi, censure e salvataggi, il formarsi e il plasmarsi delle civiltà (anche l’aramaico del Cristo parla a noi in traduzione greca e latina)35. Una scintilla di tutto questo – è stata l’ultima affermazione di Canfora in una giornata di studio che non dimenticheremo – si trova nell’opera di Manara Valgimigli filologo e traduttore dall’antico36. Raccolgo qui le mie introduzioni alle edizioni e ristampe di alcuni titoli valgimigliani, curati insieme all’amico Roberto Greggi. Pubblico anche un profilo di Dino Pieraccioni, grecista allievo di Pasquali e amico di Manara. Segue e conclu 34 35 36 32 33

A. Schiesaro, Un futuro per il latino, in DF, pp. 279-285. G. Cambiano, Vivere senza i filosofi antichi?, in DF, pp. 33-42. DF, p. 143. T. Gregory, Translatio linguarum. Traduzioni e storia della cultura, Firenze, Olschki, 2016. La “buona scuola” di Valgimigli, a cura del Centro Studi valgimigliani, Bagno di Romagna, Palazzo del Capitano, 10 ottobre 2015. Insieme a Canfora, vi hanno preso parte G. Benedetto, M. Biondi, C. Ceccuti, M. Valbruzzi e R. Greggi. A Canfora è stato assegnato il premio Valgimigli alla I edizione (Bagno di Romagna, 10 ottobre 2015). Una Giornata di studio in ricordo di Manara Valgimigli si è svolta il 25 febbraio 2016, con interventi di G. Pisani, G. Baldassarri, R. Melis, G. Lugaresi (Padova, Accademia Galileiana di scienze, Lettere ed Arti). La seconda edizione del Premio è stata assegnata a Claudio Magris (Bagno di Romagna, 8 ottobre 2016). Vd. di Magris un ricordo di Valgimigli a Ravenna: I libri sono fratelli maggiori, in «Corriere della Sera», 4 dicembre 2016. La terza edizione del Premio è stata assegnata a Carlo Ginzburg (Bagno di Romagna, 13 ottobre 2017). Le motivazioni dei tre Premi sono riportate in Valgimigliana. Nota bibliografica.


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de il volume una Appendice di documenti, Carteggio Valgimigli-Norsa, allestita a quattro mani con Roberto Greggi, direttore del Centro studi valgimigliani. Alla quale ha contribuito con la sua dottrina e la sua amicizia il grande papirologo fiorentino, docente di Papirologia all’Università di Messina, Rosario Pintaudi, fama internazionale la sua, responsabile della collezione di papiri della Biblioteca Medicea Laurenziana e membro dell’Istituto papirologico “Vitelli” di Firenze, fondatore e direttore della collana di studi e testi Papyrologica Florentina, direttore della rivista Analecta Papyrologica, responsabile della collezione di Papiri Greci Wessely di Praga, redattore del Catalogo di Papiri Greci della Biblioteca Apostolica Vaticana. Siamo stati compagni di università fin dal primo giorno, e amici per la vita. San Piero ha riscoperto il suo avo illustre e tale riscoperta ha inciso sull’evoluzione degli studi sulla storia della comunità e del territorio. Anche il dialetto, il “dialettaccio” sampierano, dialettaccio che Valgimigli nominava e pronunciava con una sfumatura di affettuosità e di attaccamento, ha ricevuto una rinnovata attenzione e una sistemazione a stampa utile e proficua37. Nel frattempo è scomparso Giorgio Valgimigli, nostro carissimo amico, al quale quelle edizioni erano costantemente dedicate e indirizzate come al nostro primo destinatario. E a Giorgio si è ricongiunta nella morte Aurelia Valgimigli, scomparsa il 26 luglio 2015. Ringrazio gli amici sampierani del «Centro studi valgimigliani», gli ex sindaci Ferruccio Boghi e Lorenzo Spignoli. L’assessore Roberto Bassetti è scomparso nel maggio 2016. Desidero ricordare anche Piero Giovanni Greggi (Charlie), padre di Roberto, scomparso il 4 agosto 2017, ospite sempre generoso e cordiale in molti dei miei soggiorni sampierani. Saluto affettuosamente Paola, Renata ed Enrico Valgimigli. Il nostro comune intento e speranza erano stati e rimangono quelli di continuare nel lavoro di edizione delle opere di Manara Valgimigli. Ringrazio infine l’amico e collega Simone Magherini, che ha accolto il mio tra i volumi inaugurali della nuova collezione da lui diretta, insieme ad Anna Nozzoli e Gino Tellini, per la Società Editrice Fiorentina. Oggi, 8 aprile, Giorgio Valgimigli avrebbe compiuto cento anni. Voglio legare questo libro, che ha avuto fasi alterne di ripensamento e di stesura – e in momenti per me molto difficili – a questa data secolare. A mio fratello Edgardo e a mia sorella Silvia, vicini nei momenti in cui il libro in fieri fu interrotto, e sine die, è ora dedicato il libro a stampa. Firenze, 8 aprile 2016 – 2 ottobre 2017

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F. Locatelli, P. E. Spighi, I. Vicchi, Vocabolario del dialetto sampierano, prefazione di A. Giannini, presentazione di M. Baccini e D. Mosconi, premessa di R. Greggi, Associazione di promozione sociale e culturale Il faro di Corzano, stampato a cura della Banca di Credito Cooperativo di Sarsina, San Piero in Bagno, 2015.


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