Le verità del velo a cura di M. Ferrara A. Saggioro G.P. Viscardi
euro 24,00
www.sefeditrice.it
Le verità del velo a c ura di Marianna Ferrara, Alessandro Saggioro, Giuseppina Paola Viscardi
Società
Editrice Fiorentina
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Le verità del velo
‘Alti Studi di Storia intellettuale e delle Religioni’ Series The volumes featured in this Series are the expression of an international community of scholars committed to the reshaping of the field of textual and historical studies of religions and intellectual traditions. The works included in this Series are devoted to investigate practices, rituals, and other textual products, crossing different area studies and time frames. Featuring a vast range of interpretative perspectives, this innovative Series aims to enhance the way we look at religious and intellectual traditions.
Series Editor Federico Squarcini, Ca’ Foscari University of Venice, Italy Editorial Board Piero Capelli, Ca’ Foscari University of Venice, Italy Vincent Eltschinger, École Pratique des Hautes Études, Paris, France Christoph Emmrich, University of Toronto, Canada James Fitzgerald, Brown University, USA Jonardon Ganeri, British Academy and New York University, USA Barbara A. Holdrege, University of California, Santa Barbara, USA Sheldon Pollock, Columbia University, USA Karin Preisendanz, University of Vienna, Austria Alessandro Saggioro, Sapienza University of Rome, Italy Cristina Scherrer-Schaub, University of Lausanne and EPHE, France Romila Thapar, Jawaharlal Nehru University, India Ananya Vajpeyi, University of Massachusetts Boston, USA Marco Ventura, University of Siena, Italy Vincenzo Vergiani, University of Cambridge, UK Editorial Coordinator Marianna Ferrara, Sapienza University of Rome, Italy
Introduzione
LE VERITÀ DEL VELO a cura di Marianna Ferrara Alessandro Saggioro Giuseppina Paola Viscardi
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Le verità del velo
Società Editrice Fiorentina www.sefeditrice.it This edition first published in Italy 2017 by Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Florence, Italy Tel. +39 055 55 32 92 4 | Fax +39 055 55 32 08 5 info@sefeditrice.it
Questo volume è stato realizzato con il contributo di
Unità di ricerca di Catania Modelli e interazioni di genere nei gruppi religiosi antichi: il caso dei gruppi protocristiani coordinata da Arianna Rotondo
© 2017 Società Editrice Fiorentina individual chapters © individual contributors The moral right of the authors has been asserted. Cover photograph courtesy of www.danieleroccabianca.it All rights reserved. Without limiting the rights under copyright reserved above, no part of this publication may be reproduced, stored or introduced into a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means (electronic, mechanical, photocopying, recording or otherwise), without the prior written permission of both the copyright owner and the above publisher of this book. ISBN-13: 978 88 6032 427 6 (Hbk) ISBN-10: 88 6032 427 6 (Hbk)
Introduzione
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Indice
Alessandro Saggioro Premessa
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Marianna Ferrara, Giuseppina Paola Viscardi Introduzione 11 Uno Sguardo teorico Massimo Leone Homo velans: Paradossi del velo nella semiosfera contemporanea
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Sguardi sul mondo antico Pietro Giammellaro Velo si dice in molti modi. Coprirsi il capo nell’epica greca arcaica
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Giuseppina Paola Viscardi Verità e rappresentazione. Logiche discorsive e pratiche performative del dis/ velamento nell’antica Grecia 59 Francesca Romana Nocchi Obnubilatio capitis: simbologia sacra e profana del velo nell’antica Roma 89 Cristina Simonelli Tertulliano e l’obbligo del velo
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Caterina Moro Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo
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Il velo nell’islam plurale Alessandro Vanoli L’invenzione del velo. Alcune considerazioni su colonialismo, moda femminile e identità islamica 149 Sara Hejazi Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente 167 Claudia Porretto Il velo risonante. Una lettura critica della rappresentazione del burqa in un film di Samira Makhmalbaf 187 Claudia Mattalucci Modernità e politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia
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Emilia Lazzarini La questione del velo islamico tra Francia e Italia: profili giuridici 239 Casi studio dal Sudasia Carmela Mastrangelo La donna s-velata. Nudi femminili nel Veda
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Mara Matta Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi
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Introduzione
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Premessa
Questo volume scaturisce da un progetto che è stato al tempo stesso didattico, di ricerca e infine editoriale e si è sviluppato nell’arco degli ultimi dieci anni. Assume, giungendo a compimento, anche un coté o un intento intellettuale e, per certi versi, politico. Le verità del velo vuole significare due cose: da una parte riconoscere ad un oggetto —il velo che copre e dissimula le identità dei volti, dei corpi, degli individui— una certa unità di funzione, quale che ne sia la specifica declinazione spazio-temporale e culturale; dall’altra accettare, appunto, che tale oggetto sostanzialmente univoco abbia di fatto una varietà di espressioni, ricezioni, interpretazioni che lo rendono polisemico. Non solo, dunque, in contesti diversi può essere prodotto, commercializzato, indossato, rappresentato, descritto e interpretato in maniere diverse, tutte vere, a seconda dei punti di vista, ma esso anche nel medesimo contesto, anche nella stessa realtà circoscritta, anche nella stessa specifica oggettualità può avere più significati e conseguentemente ottemperare ad esigenze di produzione di valore simbolico o di verità in maniera massimamente soggettiva. Contemporaneamente è un oggetto che produce discussione, dibattito, agonismi: ciascuno può cercare di dire la sua rispetto ai motivi per cui è indossato, per cui è imposto, per cui è scelto; ma anche rispetto ai motivi per cui è tolto, per cui è sottratto, per cui è abbandonato. Le stesse persone possono farne usi diversi in contesti diversi, attribuirgli un significato diverso a seconda delle situazioni, sfruttarlo, financo, in base ad istanze e aspettative variabili. Dunque non esiste solo la verità di chi lo indossa, ma anche di chi lo fa indossare; ed esistono le verità di chi interpreta questo atto e lo considera ora simbolo di emarginazione e sottomissione, ora di emancipazione e libertà.
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Pur in presenza di un’apparente conflittualità di visioni o di un’ambiguità di fondo, resta un oggetto semplice: strumento antropopoietico elementare, è assimilabile sia alle minime e meno invasive forme temporanee di copertura del corpo, sia alle più complesse e stratificate modalità di mascheramento che pur essendo reversibili hanno invece tutto il tratto della permanenza. Per questi motivi, non pochi e qui solo accennati, è diventato argomento di una didattica che si è protratta per anni, nell’ambito dei corsi di Simbologia del vestire della Sapienza e altrove; è stato al tempo stesso argomento di un numero elevato di tesi triennali e magistrali e tema di alcuni progetti di ricerca; infine è diventato, per impulso di chi scrive, insieme alle curatrici e con la generosa disponibilità degli autori dei diversi saggi, anche un progetto editoriale. Questo insieme di fattori ne ha ritardato la scaturigine definitiva che tuttavia giunge finalmente a compimento oggi. Il volume non è una rassegna completa delle possibili riflessioni sulle verità del velo o sui veli, non ha ambizioni di completezza e di esaustività. Abbiamo insieme, curatori e autori, l’ambizione di affrontare diversi aspetti, in diverse epoche, in diversi contesti, guardando a diverse tipologie di fonti e infine anche con approcci diversi, in un intento interdisciplinare ma consonante in un obiettivo unico, che è quello di disvelare la complessità dell’oggetto e la sua polisemia, ma anche la sua rilevanza, in diversi contesti e diverse epoche —possiamo dire anche in diversi orizzonti culturali— così da sottrarlo alle banalità delle semplificazioni e alla rozzezza delle approssimazioni, alla volubilità delle generalizzazioni. In ciò risiede dunque l’obiettivo intellettuale e politico: contro usi, abusi, distorsioni, ma anche contro facili strumentalizzazioni, si rivendica la necessità della cautela, dell’attenzione al dato storico, alla precipuità delle varianti in gioco, ma anche della cura contro i rischi di deformazione, di forzatura, di violenza nel leggere la realtà e le realtà. Quando sono in gioco valori o verità degli individui o dei gruppi, l’accortezza metodologica, la decrittazione dei segni, il riconoscimento della diversità costituiscono un programma scientifico che si fa anche politico, nel senso di pretendere e avvalorare modalità condivisibili di descrizione e comprensione della realtà. Se abbiamo assolto a questo scopo con questo volume valuterà il lettore; se poi altri vorranno proseguire su questa strada e approfondire questa riflessione ampliando e moltiplicando i percorsi di studio, l’obiettivo sotteso a questo lavoro sarà compiuto. Numerosi ringraziamenti sono necessari per concludere e licenziare questo lavoro. Anzitutto sono debitore nei confronti delle due colleghe che con me firmano la curatela del libro, Marianna Ferrara e Giusy Viscardi: senza di loro non sarei probabilmente riuscito a portare a termine un coordinamento editoriale nato, appunto, circa dieci anni fa da discussioni con Marta Rivaroli, Mariachiara Giorda, Emanuela Prinzivalli, Diana Segarra, Federico Squarcini, Alessandro
Introduzione Premessa
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Vanoli. Un ringraziamento speciale va alla collega e amica Arianna Rotondo, che a lungo ha seguito il progetto editoriale, lo ha spesso discusso con noi e ora lo accoglie fra le azioni proficue del FIRB "Futuro in ricerca 2012" La percezione dello spazio e del tempo nella trasmissione di identità collettive. Polarizzazioni e/o coabitazioni religiose nel mondo antico (I-VI secolo d.C.). Nell'Unità di Ricerca di Catania, che si è occupata di Modelli e interazioni di genere nei gruppi religiosi antichi: il caso dei gruppi protocristiani, il tema del velo è tornato a più riprese e ritengo importante che questo volume possa in qualche modo riflettere quell'interesse scientifico, a maggior ragione per la prospettiva comparativa e ampia del progetto stesso. Devo poi ringraziare gli autori che hanno avuto la generosità di affidare le loro pagine a noi e hanno avuto la pazienza di aspettare la pubblicazione, contro la quale fattori di ogni genere si sono schierati, in stagioni diverse, fino al momento attuale: la revisione delle bibliografie, l’aggiornamento dei dati, il rinnovamento della discussione e della loro stessa visione, che hanno seguito questo iter di non poca durata, si aggiungono alla generosità iniziale. I cenni di questa premessa alla complessità di fondo non giustificano il ritardo, ma credo possano renderlo appena comprensibile. Alessandro Saggioro
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Introduzione
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Marianna Ferrara, Giuseppina Paola Viscardi Introduzione
Velo, velare, velarsi, ma anche svelare, svelarsi. Il velo quale oggetto che copre o nasconde è spesso di grande interesse agli occhi di un semiologo come di un antropologo o di uno storico dell’arte o delle religioni, di un sociologo o di un giurista che si addentra tra le pieghe delle pratiche e delle rappresentazioni, delle storie pubbliche e private, dunque tra i sistemi normativi e i campi semantici nei quali un oggetto apparentemente innocuo come il velo agisce come un’arma, trasmette un messaggio, esercita una forma di controllo, ma anche di resistenza o di ostensione. Velo si dice in molti modi, recita uno dei saggi qui presentati, ma il velo è anche molte cose: un copricapo, una veste, un accessorio, un oggetto di protezione. È un segno che non si limita a indicare. Il velo produce un’azione, appunto copre, nasconde, lascia intravedere, distingue, esibisce. Il velo talvolta è gender-oriented, ha una valenza religiosa, una funzione normativa, un significato identitario. La sua rimozione può dunque diventare un gesto di rottura, di ribellione, un affronto, uno smascheramento che getta luce e sguardi su quanto il velo intendeva tenere al riparo, in segreto, in disparte. Per tutte queste ragioni, il velo è innanzitutto un oggetto di studio che attraversa la storia e le storie. Ripartiamo dunque dalle possibili metodologie dello studio del velo nei sistemi religiosi. Nell’introduzione all’opera di Marcel Mauss Sociologie et anthropologie (1950), Claude Lévi-Strauss parlava, con riferimento all’analisi delle cosiddette “società primitive”, di significante fluttuante per indicare un significante che non designa niente di preciso, una semplice forma o piuttosto un simbolo allo stato puro, con una sorta di “valore simbolico zero”, che tuttavia è condizione necessaria del pensiero simbolico. Il significante fluttuante —tipicamente riferito a espressioni linguistiche intese come pure forme, che si riempiono di volta in volta di significati diversi— obbedisce a un regime ambiguo, perché
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non indica alcunché di preciso e individuato, ma ci permette di descrivere ciò che sfugge alla funzione semantica. Nel 1978 il filosofo portoghese José Gil —addottorato nel 1982 con una dissertazione sul concetto di corpo come campo di potere— ha individuato nel corpo il significante fluttuante per eccellenza. Sotto questo profilo, il corpo è “energia libera”, regione incodificabile che assume la funzione di scambio di codici. Il corpo si trova così «al limite della funzione simbolica, al di là della quale cessa di significare o di designare qualsiasi cosa».1 La funzione svolta dal corpo sarebbe dunque quella di emettere e ricevere segni, di iscriverli in se stesso, fungendo da infralingua, ambito che supera il campo semantico permettendo la generazione del senso. In tale prospettiva, il corpo rimane escluso dal semiotico e confinato, per così dire, all’ambito del presemiotico. Pur prendendo le distanze da orientamenti strutturalisti di stampo classico, l’idea del corpo come sostrato presemiotico della significazione è stata recentemente riproposta negli studi di semiotica corporale in cui si riconoscono al corpo due funzioni, quella di substrato della semiosi e quella di figura del discorso.2 La distinzione tra corpo come substrato e corpo come figura del discorso consente di tracciare un percorso generativo incarnato della significazione, cioè di accogliere un modello teorico che presuppone la dicotomia sensibile vs intelligibile: in quanto carne, il corpo è materia, sostanza estensiva, cosa tra le cose del mondo. Ma è possibile distinguere in modo netto il sensibile e l’intelligibile?3 È possibile pensare al corpo come a una datità? È mai il corpo una cosa indipendentemente dallo sguardo di qualcuno che lo costruisce? Domande come queste prestano il fianco a una visione, per così dire, ontologizzante del corpo e della corporeità, ma fanno anche da contrappeso a un’altra visione del corpo, elaborata nell’ambito degli studi di critica culturale, per la quale è impossibile pensare il corpo come un ente naturale indipendente dalla cultura che lo definisce. Proprio nel clima della contestazione dell’ontologizzazione del corpo insorge la riflessione foucaultiana sul corpo quale superficie dove si iscrive la memoria. Il corpo negli scritti di Michel Foucault è il luogo a partire dal quale si può ricostruire la genealogia dell’anima moderna, dalla sua nascita allo sviluppo nella società occidentale; attraverso lo studio delle discipline e delle tecniche corporali è possibile tracciare la storia dell’Occidente. Con Foucault s’inaugura dunque 1 J. Gil, s.v. “Corpo”, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1978, vol. 3, pp. 10961162. In ambito italiano, la definizione di corpo come significante fluttuante è ripresa e sviluppata in una serie di studi sul corpo post-organico, cfr. ad es. T. Macrì, Il corpo postorganico, Costa & Nolan, Genova 1996; G. Mura, R. Cipriani (a cura di), Corpo e religione, Città Nuova Editrice, Roma 2009. 2 Vedi soprattutto J. Fontanille, Soma et Séma: Figures du corps, Maisonneuve et Larose, Paris 2004 . 3 Sulla possibilità di distinguere in modo chiaro il sensibile dall’intelligibile, vedi ancora J. Fontanille, G. Zilberberg, Tension e signification, Madraga, Liège 1998.
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un paradigma critico che non solo contesta l’ontologizzazione del corpo, ma ne ribadisce la natura di costrutto, di oggetto culturalmente “costruito”4 e come tale costantemente investito dalla produzione discorsiva, regolato e manipolato dalle strategie ad essa sottese. Il tema della manipolazione, critico quanto scottante, acquisisce una maggiore eco nella critica femminista che insegue il modello foucaultiano di ricerca, ma si rinnova nella riflessione di Judith Butler allorché la studiosa denuncia il rapporto di causa ed effetto tra la capacità performativa dei discorsi e delle pratiche e la materialità dei corpi.5 Butler mostra come il corpo materico non abbia densità maggiore rispetto al corpo in quanto discorso costruito performativamente e, in tal senso, come non sia possibile pensare a un corpo come punto zero della significazione. Afferma Butler: «anche il non costruito (l’evidenza del corporeo) non può porsi come materia muta e ottusa, bensì come un confine delimitato a sua volta da una pratica significante: non c’è rimando a un corpo puro che non sia già una formazione del corpo».6 Tra la prospettiva strutturalista e ontologizzante e quella costruttivista delineata negli scritti di Foucault e Butler, è tuttavia possibile tracciare una terza via di riflessione sulla questione del corpo, che viene a porsi in una posizione intermedia, facendo leva sul carattere relazionale del corporeo. L’attenzione si sposta dal corpo quale esito di discorsi e pratiche al corpo quale oggetto del contesto semiotico, posizionato in uno spazio, in un tempo, in relazione ad altri corpi e, in modo più generale, al sistema di pratiche e rappresentazioni nel quale agisce ed è percepito.7 Questa terza via deve alla lezione costruttivista il diniego dell’ontologizzazione del corpo, ma al contempo riconosce al corpo la sua fisicità, non come carattere che lo essenzializza ma in termini di determinazione materica. Da una tale prospettiva, il corpo diventa superficie di iscrizione, luogo di trasformazioni e territorio di scambi di diverse articolazioni del senso, è posto come limen, come spazio transizionale,8 “casella vuota” o istanza 4 Ricorrente nella critica foucaultiana, il tema del corpo è centrale in Naissance de la Clinique: une archéologie du regard médical, PUF, Paris 1963; Id., Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975; Id., La volonté de savoir. Histoire de la sexualité, I, Gallimard, Paris 1976. 5 J. Butler, Bodies that Matter: On the Discoursive Limits of Sex, Routledge, London-New York 1993; cfr. Ead., Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London-New York 1990. 6 C. Demaria, Generi e soggetti sessuali. Le rappresentazioni del femminile, in C. Demaria, S. Nergaard (a cura di), Studi Culturali. Temi e prospettive a confronto, MacGraw-Hill, Milano 2008, pp. 147-186, in particolare p. 167. 7 Cfr. F. Borel, Le vêtement incarné: les métamorphoses du corps, Calmann-Lévy, Paris 1992; P. Borgna, Corpo a corpo, in Ead., Sociologia del corpo, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 52-102; A. Busto (a cura di), Il velo: tra mistero, seduzione, misticismo, sensualità, potere e religione, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2007. 8 Per la definizione di “spazio transizionale”, inteso come spazio potenziale tra individuo e ambiente soggettivamente costruito e oggettivamente percepito in cui si modella ogni forma di processo mentale creativo, vedi i lavori del pediatra e psicoanalista
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dinamica in grado di attivare complessi processi di significazione, finendo per essere percepito come motore delle trasposizioni, risultato delle traduzioni, operatore e al contempo esito dell’enunciazione.9 In questa direzione si muovono anche alcuni tra i più recenti studi sul corpo nell’ambito della teoria della comunicazione. Una proposta interessante e fruttuosa è quella che opera il passaggio dalla visione del corpo come limen a quella del corpo come medium. Lungo un percorso d’indagine per molti versi contiguo e consequenziale, si passa dunque dal concetto di corpo come spazio transizionale a quello di corpo come elemento mediatico, basilare dell’interazione umana. Un tale sguardo teorico, se da un lato focalizza la rilevanza e il significato assunti dal corpo come medium nei sistemi di comunicazione socio-culturale —con particolare riferimento alla religione, qui intesa, appunto, come sistema di comunicazione altamente simbolico ed efficace—,10 dall’altro mette in rilievo lo statuto del corpo —cosa dovrebbe essere fatto con o per il corpo— e il ruolo da attribuire ai piaceri corporali. Il corpo è qui un elemento centrale che agisce ed è agito nel sistema di regole e di significati attivati nelle molte tradizioni religiose, le quali, nel tempo, hanno elaborato e sviluppato un linguaggio sofisticato e fortemente specializzato per comunicare idee, valori e norme. Da questa prospettiva il corpo non è mero oggetto di protezione o di devozione, idealizzato o normatizzato, “genderizzato” e inserito all’interno di complessi modelli di rappresentazione. Ciò che spesso viene trascurato, infatti, è che questo corpo idealizzato o immaginato produce, a sua volta, dinamiche apparentemente autonome all’interno delle quali il corpo stesso diventa un mezzo a sé britannico Donald Woods Winnicott, in particolare Transitional Objects and Transitional Phenomena – A Study of the First Not-Me Possession, in «International Journal of PsychoAnalysis», 34 (1953), pp. 89-97; Playing and Reality, Penguin, Middlesex, England 1971. Rinviando alla realtà dell’in-between (space), la visione dello spazio transizionale evocata dalla definizione di intermediate o third area proposta da Winnicott risulta strettamente complementare all’idea di Zwischenmenschliche elaborata dal filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano Martin Mordechai Buber, cfr. spec. Die Gesellschaft, Sammlung sozial-psychologischer Monographien (“Society. A Collection of SocialPsychological Monographs”), 40 voll., Rütten & Loening, Frankfurt am Main 1906-1912; Between Man and Man, Macmillan, New York 1965. 9 Cfr. F. Marsciani, Il corpo, in C. Demaria, S. Nergaard (a cura di), Generi e soggetti sessuali, cit., pp. 187-221. 10 Nell’ambito di tali studi va segnalato il progetto di ricerca internazionale e interdisciplinare Commun(icat)ing Bodies (Researching Body & Religion communicatingbodies.net, URL: <http://communicating-bodies.net>) connesso allo studio su Religiöse Kleidung und vestimentäre Religion. Wechselwirkungen aus religionswissenschaftlicher Sicht condotto per l’Università di Zurigo dalla Dr. Anna-Katharina Höpflinger sotto la supervisione della studiosa svizzera Daria Pezzoli Olgiati. I temi della ricerca coprono un ampio spettro d’indagine, spaziando dalla mitologia antica ai più moderni rituali Parsi, fino ad affrontare il discorso sulle frontiere tra corpo e tecnologia. Cfr. M. Glavac, A.-K. Höpflinger, D. Pezzoli-Olgiati (a cura di), Second Skin. Körper, Kleidung, Religion (“Research in Contemporary Religion”, 14), Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2013; A.D. Ornella, S. Knauss, A.-K. Höpflinger (a cura di), Commun(icat)ing Bodies. Body as a Medium in Religious Symbol Systems (“Religion – Wirtschaft – Politik”, 11), Pano Verlag, Zürich 2014.
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stante. Come medium, il corpo s’impone come un testimone privilegiato di esegeti e tradizioni religiose che cercano di inscrivere i propri sistemi di credenze sul corpo e nel corpo, rendendolo contenitore di informazioni, messaggero e messaggio.11 Ma in virtù di uno statuto così privilegiato nella comunicazione, il corpo impone anche negoziazioni che incidono sulla produzione semiotica. In altre parole, se la concezione e la percezione del corpo sono esiti delle pratiche collettive e degli immaginari socio-culturali, al tempo stesso e per riflesso, il corpo, quale materia viva e vivente che occupa e si muove nello spazio, contribuisce a dare ordine e senso alle pratiche e agli immaginari attraverso le prestazioni —ad esempio, definendo i limiti tra pubblico e privato con le diverse declinazioni operabili sul piano economico, sociale, ma anche tra natura e cultura, puro e impuro, profano e sacro, nudo e vestito, materiale e immateriale, femminile e maschile, in definitiva tutte quelle categorizzazioni attraverso cui si costruiscono le visioni del mondo, del suo ordine e della sua alterità.12 Questo per dire che la concezione, la qualificazione e il controllo dei corpi in termini culturali si conformano a schemi dicotomici e a strategie di comunicazione che si pongono come naturali, quando invece sono puramente arbitrari.13 Ma i corpi, nella tripla funzione di messaggio, messaggero e supporto del messaggio, sono più che la somma di tali distinzioni, anzi sfidano qualsiasi facile forma di categorizzazione. Proprio per questo i corpi sono in grado di generare, veicolare e mediare relazioni semantiche e sociali che trascendono le semplici dicotomie: i corpi sono “naturali” e “culturali” allo stesso tempo, sono individuali e collettivi, sono un “affare privato” della persona e insieme ricoprono un interesse pubblico. I corpi vanno oltre la semplice somma di opposizioni binarie, benché tali opposizioni rinviino alla dimensione corporea dell’essere umano per la loro costruzione e la riflessione che ne consegue, finendo per costituire la base delle attività e della cognizione umana.14 I rituali legati al corpo sono pratiche basate sui sistemi di norme e rappresentazioni comuni e condivise ma sono anche in grado di riprodurli e di crearne nuovi. Tali pratiche si pongono, al contempo, come risultato, come marcatori e meccanismi costitutivi di visioni Cfr. F. Borel, Le vêtement incarné, cit. Per le costruzioni corporali dell’“altro”, vedi S. Hall, The Spectacle of the “Other”, in S. Hall (a cura di), Representation. Cultural Representations and Signifying Practices, Sage, London 1997, pp. 223-290; S. Lanwerd, Die Repräsentation des Anderen. Bemerkungen zu Bild, Geschlecht und Religion, in S. Lanwerd, E. Márcia (a cura di), Frau, Gender, Queer. Gendertheoretische Ansätze in der Religionswissenschaft, Königshausen & Neumann, Würzburg 2010, pp. 163-183. 13 Cfr. P. Bourdieu, Les rites comme actes d’institution, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 43 (1982), pp. 58-63; Id., Ce que parler veut dire: l’économie des échanges linguistiques, Fayard, Paris; Esquisse d’une théorie de la pratique, Droz, Genève 1972. 14 Cfr. T. Eagleton, The Idea of Culture, Blackwell, Oxford 2000, pp. 2-3. 11
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del mondo collettive. Considerati “naturali” e, insieme, irriducibilmente connessi alla visione personale e all’esperienza soggettiva, i corpi sono caratterizzati da un’“aura di fattualità”15 e associati a emozioni e motivazioni profonde e radicate. I significati connessi ai corpi e il corpo stesso come entità materiale non sono mai “pura natura”, ma categorie culturalmente costruite, polisemiche, dinamiche, caotiche, a-strutturate, sfuggenti, “fluttuanti”. La definizione e la regolamentazione dei corpi mediante le norme sociali, le relazioni interpersonali, le tradizioni religiose e le visioni del mondo sono dunque tentativi di stabilire un ordine a partire da una ben precisa idea di disordine, trasformando i corpi in portatori inequivocabili delle norme, delle relazioni e delle visioni del mondo che ne irreggimentano lo statuto.16 Date le premesse teoriche fin qui delineate, una riflessione sul velo e sul corpo velato nel campo delle scienze storico-religiose non può che muovere dal presupposto che non c’è velo chiamato a coprire il corpo o una parte di esso in modo innocuo, né atto di svelare che sia del tutto innocente. Le intenzioni e le implicazioni del velare e del disvelamento fanno parte dei codici istituiti nei contesti culturali e sociali e perfino della resistenza che talvolta insorge all’interno o all’esterno di essi. Pertanto la possibilità, talvolta l’obbligo, di mostrare il corpo e/o il viso, liberandosi della veste o del telo coprente, così come la necessità di sottrarsi alla sguardo dell’altro, possono dipendere da fattori normativi e assumere significati ideologici, sfumando fino all’identificazione dei confini tra politica e religione, tra sfera pubblica e sfera privata.17 Prendendo le mosse dall’esplorazione dei modi di rappresentazione concettuale all’interno di culture diverse,18 il presente volume mira innanzitutto a indagare i significati e le valenze profonde del velo nelle pratiche e nelle retoriche discorsive che si articolano intorno all’utilizzo o alla rivendicazione, al divieto o all’imposizione di questo indumento, ora simbolo, ora accessorio. 15 Riprendiamo la terminologia di Clifford Geertz, il quale, nel tentativo di dare ua definizione di religione, individua nelle emozioni e nelle motivazioni il mezzo più efficace per stabilire l’ordine e trasmettere i significati —attività che, secondo Geertz, contribuisce al funzionamento della religione nella società. Cfr. C. Geertz, Dichte Beschreibung. Beiträge zum Verstehen kultureller Systeme, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1987, p. 84. 16 Cfr. A.-K. Höpflinger, S. Knauss, A.D. Ornella, Introduction. Body, Communication and Religion, in Idd. (a cura di), Commun(icat)ing Bodies, cit., pp. 11-24, in particolare pp. 11-13; M. Combi, Corpo e tecnologie. Simbolismi, rappresentazioni e immaginari, Meltemi, Roma 2000. 17 Cfr., ad esempio, F. El Guindi, Veil: Modesty, Privacy and Resistance, Berg, Oxford-New York 1999; A. Galadari, Behind the Veil: Inner Meanings of Women’s Islamic Dress Code, in «The Journal of Interdisciplinary Social Sciences» 6, 11 (2012), pp. 115-125; K. Bullock, Rethinking Muslim Women and the Veil: Challenging Historical and Modern Stereotypes, The International Institute of Islamic Thought, Herndon (VA) 2002; R. Weitz, Women and Their Hair: Seeking Power through Resistance and Accommodation, in «Gender and Society», 15, 5 (2001), pp. 667-686. 18 Cfr. D. Sperber, Le symbolisme en général, Hermann, Paris 1974; Id., Explaining Culture: A Naturalistic Approach, Blackwell, Oxford 1996; Id., Metarepresentations: A Multidisciplinary Perspective, Oxford University Press, New York 2000.
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I significati e le valenze sono essenzialmente determinati dalla triplice funzione connessa alla dimensione visuale, spaziale ed etica19 che condiziona l’uso del velo (islamico e non) quale “indumento” da un lato e prodotto e medium di una “ideologia” dall’altro. Il focus su questa triplice dimensione —visuale, spaziale, etica— denuncia la complessità semiotica che è alla base delle dinamiche di visibilità e invisibilità del corpo (o di alcune sue parti), che regolano la sferapubblica e privata della vita sociale non soltanto con le parole e la forza della legge, ma anche con quella delle immagini. Attraverso la costruzione e la percezione visiva dell’ordine attraverso il corpo, il discorso religioso sul velo e sul corpo velato si fa espressione della posizione di forza, dunque dell’autorità, del codice di norme, del sistema di valori, atteggiamenti, credenze comuni e condivise.20 L’esito, o uno degli esiti, di una negoziazione simbolica così articolata incide drasticamente sul ruolo e sulla funzione assunti dal corpo (e dal corpo velato), che viene codificato ora come oggetto estetico, ora come prodotto sociale, entrambi soggetti alle logiche che regolano la distanza tra i corpi, in grado di veicolare un messaggio culturale, dove il corpo stesso è concepito come luogo di negoziazione dei significati. Pensato come prodotto culturale —cioè come forma espressiva di un sistema di produzione di senso, articolato in significanti e significati, dunque, veicolo di informazione che rende tale sistema non solo aperto, ma più o meno “culturale”—, il velo, come l’abito, più in generale, rappresenta più di quanto la sola denominazione vestimentaria sappia indicare. In un discorso specificamente inteso in termini di processualità antropopoietica, si potrebbe dire che il velo, come l’abito, acquista una valenza comunicativa nella misura in cui funziona come linguaggio non verbale,21 asservito alle logiche di un’estetica corporale,22 dove l’ethos (il comportamento o l’attitudine) è direttamente funzionale all’esthes (l’abito o la veste) e viceversa, ossia dove l’abito è posto al servizio dell’abitudine e viceversa. Di qui, l’ipotesi di una reciproca inerenza tra abito e abitudine (sociale, religiosa, culturale). Nella continuità assunta tra abito e corpo —inteso come territorio fisico-culturale costruito, immaginato, vissuto con19 Cfr. S. Asha, Narrative Discourses on Purdah in the Subcontinent, in «ICFAI Journal of English Studies», 3, 2 (2008), pp. 41-51. Sebbene lo studio di S. Asha (Assistant Professor in Comparative Literature alla Central University of Kerala) verta sulla realtà ideale e materiale del purdah indiano, le sue riflessioni restano un adeguato punto di partenza per ripensare i vari dibattiti che ciclicamente si riaccendono intorno alla questione del velo islamico. 20 Cfr. P. Bourdieu, Remarques provisoires sur la perception sociale du corps, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 14 (1977), pp. 51-54; Id., Sur le pouvoir symbolique, in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 32, 3 (1977), pp. 405-411; Id., Les rites comme actes d’institution, cit. 21 N. Lindisfarne-Tapper, B. Ingham (a cura di), Languages of Dress in the Middle East, Curzon, Richmond (Surrey) 1997. 22 F. Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del potere, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
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formemente al genere, all’etnicità, alla religione, al gruppo socioeconomico di appartenenza ecc.—, se consideriamo il corpo come materiale scrittorio, possiamo immediatamente riconoscere nell’atto di vestizione o svestizione uno dei linguaggi possibili attraverso cui si realizza ciò che abbiamo chiamato “discorso incorporato”: cioè il processo comunicativo —la langue— in grado di attivare, mediante l’abito o la parole vestimentaria, la percezione del mondo che si esprime attraverso il corpo o sui modi di coprirlo. Alla base del presente volume vi è dunque il tentativo di raggiungere un duplice obiettivo: (1) fornire un’analisi storicamente e culturalmente contestualizzata del/i significato/i e delle implicazioni ideologiche e religiose, socio-economiche e politico-istituzionali inerenti l’uso di un indumento fortemente connotato dal punto di vista semantico; (2) considerare le strategie comunicative e le dinamiche culturali sottese al discorso del dis/velamento (di sé o di altri), dove l’atto di velarsi e svelarsi —inteso come demarcazione socio-culturale— assume un significato simbolico paradigmatico, cioè rappresentativo a livello sociale e collettivo, di un modo di porsi e di agire che è normativamente disciplinato e disciplinante. Ne consegue la riflessione sull’uso pubblico e privato, ritualistico e ritualizzato, politico e propagandistico del velo in diversi sistemi culturali e secondo logiche comportamentali precipue di gruppi sociali storicamente condizionati.23 Il nostro discorso tenta di focalizzare quegli aspetti prescrittivi e normativi, rituali e cerimoniali, sociali e civili, che si combinano con le funzioni metaforiche e reali del “velo” quale dispositivo semiotico. L’attenzione rivolta al potenziale semantico del velo e del velamento del corpo, o di una sua parte, induce a riflettere sulla capacità dell’“oggetto-velo” di (1) definire l’identità di chi ne fa uso; (2) tramandare una memoria sociale; (3) sancire uno status di appartenenza; nonché (4) legittimare un ethos culturalmente codificato, basato sul consensus. La pista di indagine che attraversa il volume è diretta a esaminare gli usi del velo, le sue valenze e i suoi significati espliciti e impliciti, ed è sviluppata a partire dalle pratiche religiose, qui intese come costitutive delle e funzionali alle politiche di definizione identitaria di un popolo o di una nazione. C’è un filo conduttore tra le ricerche qui proposte che consiste nell’obiettivo di analizzare, quando non smascherare, alcune delle strategie e delle logiche discorsive che sottendono la presenza del corpo e che ne attivano la percezione 23 Cfr. M.G. Muzzarelli, A capo coperto: storie di donne e di veli, il Mulino, Bologna 2016; D. Fraccaro, Veli: oltre la donna, oltre l’Islam: la comunanza del velo nella tradizione ebraica, cristiana, islamica, Irfan, San Demetrio Corone 2011; L. Babès, Le voile démystifié, Bayard, Paris 2004; M. Sunder, Piercing the Veil, in «Yale Law Journal», 112 (2003), pp. 1399-1472; K. Bullock, Rethinking Muslim Women and the Veil, cit.; M. Giolfo, Attraverso il velo: la donna nel Corano e nella società islamica, Ananke, Torino 2002.
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come “oggetto” relazionale. Nel campo religioso così inteso l’agente sociale risulta egli stesso agito, fabbricato attraverso la manipilazione del corpo, con adeguate tecniche e modalità di velamento e disvelamento, dove il velo si pone e impone come oggetto d’abbigliamento profondamente connesso all’esercizio dell’autorità, del prestigio, della separazione, della segretezza, della segregazione —considerati sia dal punto di vista sociale sia da quello rituale, da cui proviene l’esigenza di distinguere il velo virginale da quello nuziale, funebre, sacerdotale, mistico ecc. Là dove la varietà d’uso del velo potrebbe disorientare il lettore, la direzione dello sguardo costante sulle logiche che ne sottendono la convenzionalità consente di apprezzare le riflessioni qui raccolte sul potere normativo e auto-legittimante dell’indumento e sulle derive simboliche e retoriche che sono connesse all’utilizzo cerimoniale e sociale dei veli. Obiettivo più generale è fornire un’analisi dell’“oggetto-velo” in termini di rappresentazione simbolica e sociale, tenendo conto, da un lato, della costruzione e percezione culturale del corpo come medium semiotizzato, nella misura in cui è usato e riempito di senso per mezzo dell’attributo vestimentario, e considerando, dall’altro lato, la semiotica del gesto, dell’atto compiuto e della distanza posta tra l’agente e gli altri corpi. Già negli anni ’60 del Novecento, l’antropologo americano Edward T. Hall aveva intuito l’importanza semiotica assunta dalla distanza che intercorre tra un agente e gli altri corpi nella comunicazione non verbale. Con un neologismo, Hall fondava la proxemics,24 una nuova disciplina semiologica che intendeva studiare il significato della distanza che un agente interpone tra sé e gli altri corpi nella comunicazione che passa attraverso il corpo e i sensi. Benché gli studi di Hall abbiano avuto sviluppi ben più incisivi nel campo delle scienze cognitive, qui ci interessa evidenziare come l’attenzione allo spazio e alla distanza consentano di ripensare il modo in cui gli “agenti religiosi”, storicamente e culturalmente condizionati, occupano uno spazio e situano il loro corpo rispetto ad altri corpi. La presenza del velo, qui inteso come corpo interposto tra sguardi sui corpi, rivela, di fatto, informazioni sullo status sociale del corpo coprente e di quello coperto, sulla loro personalità, sull’atteggiamento con cui si pongono rispetto a specifiche situazioni e, in termini più generici, con cui si relazionano al mondo, sono e agiscono nel mondo. Di qui si comprendono le dinamiche che segnano la necessità di definire i confini tra spazi pubblici e spazi informali o personali, spazi che circondano la persona e che si distinguono per dimensione intima, sociale o pubblica nei termini di minore o maggiore distanza posta tra il corpo “proprio”
24 E.T. Hall, The Silent Language, Doubleday, Garden City, NY 1959; Id., The Hidden Dimension, Doubleday, Garden City (NY) 1966; Id., Beyond Culture, Anchor Press, Garden City (NY) 1976.
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e quello degli “altri”. Le aspettative culturali riguardo a tali spazi variano considerevolmente.25 Pertanto, alla domanda «Perché espormi a scoprire il viso davanti a uno sconosciuto?», posta dalla Signora di Perfezione ne Il facchino e le dame de Le Mille e una Notte, la risposta va cercata nei segni che rivelano il rapporto con l’altro. Scoprire il viso equivale a esporsi, denudarsi, rendersi visibili e perciò potenzialmente vulnerabili. L’esposizione può diventare una debolezza quando delinea il rapporto con l’altro da noi, lo straniero, ciò che non si conosce e rispetto al quale, evidentemente, insorge sospetto, reticenza a mostrarsi, scoprirsi, svelarsi. La condizione di prestare il fianco all’altro sollecita la necessità di una regolamentazione dell’esposizione intesa come una consegna di qualcosa che si vuol tenere riposto e segreto —il corpo, la persona, l’identità, l’essenza stessa dell’individuo. La custodia del quid che non va condiviso è affidata al sistema del velo e alle dinamiche di occultamento e rappresentazione, sparizione ed esibizione ad esso correlate attraverso pratiche di rigida codifica e normativizzazione, di cui resta traccia nel codice assiro, nella legge coranica, nelle prescrizioni bibliche e nelle consuetudini rituali greco-romane. In ultima istanza, porre l’accento sul tema del velo nelle pratiche religiose e nelle corrispondenti retoriche costitutive26 delle culture sviluppatesi intorno a due grandi mari —il Mediterraneo e l’Oceano indiano— potrebbe rivelarsi un utile strumento di analisi delle dinamiche socio-culturali che, tanto nell’antichità quanto nella contemporaneità, si attivano intorno all’uso del velo, contribuendo alla nascita di una “questione del velo” posta in termini di accettazione o non accettazione di un indumento dal forte portato ideologico e dalla elevata pregnanza semantica. Se il tema del velo è entrato prepotentemente nell’agenda politica sull’ordine pubblico e sull’istruzione,27 guadagnando l’empatia
25 Le ricerche pionieristiche di Hall sull’antropologia dello spazio hanno spianato la strada agli studi successivi, influenzando non solo le più moderne ricerche antropologiche sul concetto di built environment come espressione di idee culturalmente condivise (cfr. D.L. Lawrence, S.M. Low, Built Environment and Spatial Form, in «Annual Review of Anthropology», 19 [1990], pp. 453-505), ma anche le indagini sulla comunicazione interculturale, nel campo della teoria della comunicazione (cfr. S. Niemeir, C.P. Campbell, R. Dirven [a cura di], The Cultural Context in Business Communication, John Benjamins Publ., Amsterdam-Philadelphia 1998), oltre ai lavori di geografia umana incentrati sulla nozione di spazio relativo e relazionale e sulle modalità in cui le diverse comunità umane creano e usufruiscono di tale spazio. 26 Per retorica costitutiva intendiamo, con le parole di James Boyd White, «the art of constituting character, community and culture in language» (Id., Heracles’ Bow, University of Wisconsin, Madison 1985, p. 37), pertinente alla capacità del linguaggio o dei simboli di creare un’identità collettiva, specialmente attraverso la condensazione di simboli, letteratura e narrative. Cfr. T.O. Sloane, s.v. “Constitutive Rhetoric”, in Id. (a cura di), Encyclopedia of Rhetoric, Oxford University Press, New York 2001, p. 616. 27 Cfr. R. Debray, Che cosa ci vela il velo? La Repubblica e il Sacro, Castelvecchi, Roma 2007 (ed. orig. Paris 2004).
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dell’opinione pubblica e della readership italiana dei nostri tempi,28 è alla contemporaneità che bisogna porre le prime sfide dell’indagine. Grazie ai saggi di Massimo Leone (Homo velans: Paradossi del velo nella semiosfera contemporanea), Claudia Porretto (Il velo risonante. Una lettura critica della rappresentazione del burqa in un film di Samira Makhmalbaf) ed Emilia Lazzarini (Il tabu del velo islamico attraverso le leggi italiane), il velo diviene oggetto controverso di un’indagine a voci multiple: velo come oggetto da cristallizzare e museificare nell’arte (Leone) e da abolire o disciplinare con la forza della legge (Lazzerini), ma che, al tempo stesso, rimosso o riposto, rivela il suo fondamento antropologico. Lo mostra la disamina del burqa nella cinematografia dell’iraniana Samira Makhmalbaf (Porretto), dove l’oggetto coprente risponde contemporaneamente a questioni di uso quotidiano, di intento repressivo e omologante, di identità religiosa, con una funzione simbolica che agisce sul doppio, ma opposto, versante dell’uniformità vs la resistenza all’uniformità. Ne emerge l’idea del velo come indumentoelemento fortemente rappresentativo dell’ossessione scopica del nostro tempo, connesso alla vanità dell’apparire, ovvero all’illusorietà del consumo, e, al tempo stesso, all’aridità dell’immaginazione e alle storture etnico-religiose e di genere. Queste considerazioni ruotano intorno alla centralità delle donne nelle dinamiche di omologazione o di resistenza al corredo semiotico del velo, fatto spesso di gerarchie, subordinazione, costrizioni, marginalità. Di donne trattano i saggi di Sara Hejazi (Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente) e Claudia Mattalucci (Modernità e politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia), dove “identità” diviene una nozione polisemica, continuamente rinegoziata tra fenomeni di interazione, scambio, acculturazione. Dalle realtà metropolitane occidentali (Hejazi) alla Turchia dell’ultimo decennio (Mattalucci), il velo —precipuamente, il velo islamico— finisce per evidenziare il corpo di chi lo indossa, assumendo la funzione di facile strumento di generalizzazione: velo anti-democratico, anti-laicista, fortemente connotato dalla distinzione di genere e connotante la subordinazione delle donne nelle società islamiche. Ma proprio la storia della questione del velo in Turchia mostra come lo svelamento, spesso invocato come strumento di “salvezza” delle donne musulmane, possa essere altrettanto segregante e autoritario, in definitiva insufficiente a garantire pari opportunità alle donne musulmane. Se l’apparire segna fortemente il “consumo” del velo nelle società contemporanee, il raccontare diversifica le storie e aiuta a comprendere le specificità con cui il dibattito degli ultimi anni non riesce a mediare. Come cartina di tornasole che spiega le ragioni etno28 Cfr., tra i molti bestseller, L. Djitli, Lettera a mia figlia che vuole portare il velo, Piemme, Casale Monferrato 2005 (ed. orig. 2004); J.P. Sasson, Dietro il velo: la drammatica storia di una principessa saudita nella sconvolgente realtà del mondo arabo, Sperling Paperback, Milano 1993 (ed. orig. 1992).
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centriche dell’orientalismo indefesso, interviene Alessandro Vanoli (L’invenzione del velo. Alcune considerazioni su colonialismo, moda femminile e identità islamica) con una disamina del dibattito ottocentesco francese sul velo, quale dibattito non puramente estetico. Ritorna la questione del corpo femminile, fotografato e ritratto, rubato dallo sguardo occidentale e riconsegnato in una nuova luce, complice del rinnovamento delle società musulmane in dialogo con l’imperialismo europeo. Il velo appare ora come arma di lotta laica e democratica, ora come simbolo identitario di un mondo —quello musulmano— da preservare o da rinnovare, ma la questione del corpo velato non si esaurisce con le problematiche connesse all’applicazione della legge coranica. La manipolazione del corpo religioso, ora femmina, ora maschio, è un tema che coinvolge anche altri sistemi religiosi. Dei monoteismi storici trattano i saggi di Cateria Moro (Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo) e Cristina Simonelli (Tertulliano e l’obbligo del velo), con esiti affatto scontati. Benché, infatti, il mondo biblico richiami alla mente le costrizioni di una “società patriarcale”, nella Bibbia ebraica indagata da Caterina Moro non riscontriamo riferimenti inequivocabili all’obbligo sociale del velo, né motivazioni morali e religiose che ne imponessero l’uso da parte delle donne; piuttosto indizi di una progressiva enfatizzazione della velatura del capo, che raggiunge la sua acme con la lunga esortazione di Paolo di Tarso nel discorso ai Corinzi. Nel cuore del cristianesimo antico ci porta Cristina Simonelli, con uno sguardo acuto sull’opera di Tertulliano e le sue indicazioni sull’abbigliamento femminile e sulla relazione fra corpo femminile, velo e desiderio sessuale. Per quanto riguarda l’antichità, tre sono gli autori che approdano all’epica greca e alla letteratura latina: Pietro Giammellaro (Velo si dice in molti modi. Coprirsi il capo nell’epica greca arcaica), Giuseppina Paola Viscardi (Verità e rappresentazione. Logiche discorsive e pratiche performative del dis/ velamento nell’antica Grecia) e Francesca Romana Nocchi (Obnubilatio capitis: simbologia sacra e profana del velo nell’antica Roma). Fuori dalle griglie interpretative monoteistiche, questi tre saggi offrono un’articolata indagine sulle caratteristiche e le funzioni del velo nella cultura greca e romana. Il velo è qui frontiera, passaggio, limite che diventa il suggello delle situazioni di liminarità o un indicatore multifunzionale di identità (Giammellaro); ma è anche un elemento simbolico ad alto potenziale semiotico che marca i momenti di grande coesione della vita comunitaria (dalle nozze al lutto) e che controlla il funzionamento sociale attraverso il marchio della verginità, della castità, della bellezza e della purezza femminile (Viscardi). Ma il velo è anche un separatore, uno schermo, che isola da ciò di cui si ha paura, preservando al contempo l’oggetto “isolato” (Nocchi). Lo sguardo sull’antichità abbraccia le tradizioni al di là del Mediterrano, con il saggio di Carmela Mastrangelo (La donna s-velata.
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Nudi femminili nel Veda), che esamina la metafora del corpo velato in alcune delle raccolte più antiche del canone vedico nonché espressione della tradizione brahmanica che si riconosceva nell’autorevolezza dei Veda, e quello di Mara Matta (Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi), che mostra come l’atto di svelare un corpo possa diventare un gesto di resistenza all’ordine costituito e di ribellione alla violenza esercitata in nome della Legge. In entrambi i saggi è la nudità a captare l’attenzione del lettore, guidato dai movimenti provocatori e dissacranti del velo che cessa di coprire. Veli che si posano, dunque, ma anche veli che cadono. Alle storie che legittimano questi gesti dovremmo volgere lo sguardo con l’auspicio di un dibattito critico sulla libertà di dis/ velarsi.