A pensarci bene

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Carlo Villa

A pensarci bene SocietĂ

Editrice Fiorentina


Dello stesso autore Agrità Sotto la cresta dell’onda Quel pallido Gary Cooper Caro, dolce nessuno Dripping Impronte L’ospite sgradito Pieni a perdere Keatoniana Pensieri panici L’incontro delle parallele


Carlo Villa

a pensarci bene

SocietĂ

Editrice Fiorentina


© 2014 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-319-4 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Le opinioni espresse nel presente volume non rispecchiano necessariamente quelle dell’Editore


Credo solo nella parola: ferisce, convince, placa. Questo è il senso dello scrivere. Che è diventato inutile, a meno di non renderlo indecifrabile. Per farlo bene, non bisogna essere contemporanei. (Ennio Flaiano “Frasario essenziale”).

Sono già passati dodici anni dalla prematura scomparsa di Giuseppe Pontiggia e più di cinquanta da quando lo conobbi a Reggio Emilia per la seconda tornata delle letture del Gruppo 63. Dopo le quali, per favorire la motricità delle cene francescane, con Spatola, Vittorini e Giuliani si tessevano lunghe camminate cerimoniali per la cittadina, spendendoci in confidenze più che altro su sconfitte private, concludendole magari in un cinema; la volta di “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone, imbarcando anche Manganelli e Massimo Ferretti, durante la proiezione compiacendoci del furbastro rilancio d’un genere di lì a poco prosciugatosi d’ogni ironia e fattosi sempre più sciagurato nell’accreditarvi l’oscuro gusto d’un pubblico ridottosi ormai alle mistificazioni più tristi al di là del mezzo impiegato. Col Peppo, dopo quel primo incontro ci si vide spesso, anche col fratello Giampiero e la Lucia, così allegra, non ancora afflitta per la sventura toccatale con l’Andrea; e si stette a lungo insieme in quella Focene che ho così a lungo narrato, nell’abbreviazione delle sue sole prime due lettere, in molti dei miei titoli einaudiani. E fu in uno di quei soggiorni estivi che condussi la revisione, da Peppo fiduciosamente affidatami, della sua “Arte della fuga”; che in data 23-11-1968 poi mi pervenne tramite Adelphi con l’affettuosa dedica: “A Carlo che ha aiutato e corretto la mia Fuga con profondo affetto, Peppo”. Una considerazione ribadita di lì a poco anche nell’intervento che tenne a Roma in un apposito martedì letterario dell’Eliseo. Fu inoltre proprio in quegli anni che scorrazzammo insieme, specialmente per tutta la Francia, spulciando soprattutto la piovosa Bretagna con partenze da Milano, imbarcati sulla Y 4, diretti alla volta di Tours, Angers, Nantes, Rennes, Lorient, Concarneau: dove, tra le quinte degli incolonnati rivenditori di sidro, la cattedrale romanica di granito azzurro, dopo ogni ulteriore assaggio effettuato nei vari spacci, ci ridava una


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prosecuzione sempre meno passabilmente eretta alla volta del suo antro tenebroso. Quindi fu la volta di Quimper, Douardenez, Morgat, Brest, e a Tregastel assistemmo alla più spettacolare delle mareggiate, tuonante durante tutta la notte sotto le nostre finestre a picco sulla scogliera in una tormentosa ninna nanna protrattasi fino all’alba; anche a causa d’una digestione elaboratissima per i molteplici plateau di ostriche ingurgitate in gare puntigliosamente portate a termine tramite uno Chablis gelato e così secco da potercisi limare anche il ferro. Ma tornando alla prismatica scrittura della “Fuga”, vi trovai evidente un’indagine espressiva di sostanza poliziesca, con cadenze d’un felice procedere in eleganti catalogazioni allusive, fluttuanti multiformi cellule linguistiche. Ricca di rincorse polifoniche gonfie d’allettamenti etimologici; ed hanno inizio di lì i compiaciuti aforismi e le citazioni mimetiche che poi resteranno care allo scrittore brianzolo fino alla loro dissacrazione, in andature spezzettate anche nelle sue opere successive, a causa di ritmi sapientemente dispettosi. Si tratta d’un poemetto che oggi non verrebbe mai editato, non mostrando alcun “rispetto” per chi legge, proprio a causa d’una temerarietà tecnica controllata fino all’autolesione, facendo nascere inconsapevolmente un attrito incolmabile col tragitto del fratello, di lì a poco esordiente con il lunare “L’aspetto occidentale del vestito”: poesia spolpata al suo massimo d’ogni residuo compiacimento lirico: tra i due fratelli instaurandosi proprio per questo un convulso ictus identificativo: Giampiero firmandosi da quel momento come “Neri”, in luogo di Pontiggia: quasi a significare, dove il fratello minore assurgeva a sempre più solari affermazioni, una sfortunata, incompresa ambizione dal cupo risvolto dissolutivo, da stagliarlo quale eroe negativo alla Riccardo III, ripiegato su se stesso nell’esprimersi all’ombra d’un così impegnativo termine di paragone. M’ha sempre stupito che ci si possa fare del male fino allo spasimo, volendolo fra l’altro evitarlo disperatamente; ed è stato un conflitto quello fra i due fratelli, sordo, oscuro, strisciante, che non veniva mai affrontato pubblicamente, risultando di conseguenza inaspettato per troppo amore represso; esploso solo di recente, quando Alessandro Rivali per la Yaca Book ha raccolto di Giampiero Neri tutti gli inediti, intitolandoli con struggente rassegnazione “Un maestro in ombra”. Tra i quali significativo questo chirurgico, impietoso ritratto del Peppo, che la dice lunga su un conflitto “fraterno” durato tutta la vita da parte d’ambedue gli


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“antagonisti”: “Non so perché non riesco ad essere un suo ammiratore senza riserve. Forse sarà perché in fondo non ha trovato un centro del suo scrivere, un motivo più profondo di tutti gli altri. Certo aveva diversi motivi, ma non c’era qualcosa che lo caratterizzasse più profondamente, una passione più divorante. Alla fine credo che sia stato uno scrittore a metà. Il suo errore è stato l’ambizione di scrivere. Aveva l’intelligenza per scrivere, ma non l’aveva abbastanza per creare un’opera d’arte. Per il resto è un grande letterato. L’arte è una cosa diversa dalla letteratura”. Scrive giustamente Paolo Febbraro del volumetto appena citato: “In letteratura l’innocenza non esiste: persino la semplice descrizione è una selezione, un taglio visuale, una metafora di quanto viene percepito o maliziosamente ricomposto dalla memoria. Solo in questo senso il poe­ ta Giampiero Neri è uno scrittore descrittivo o realista, nel senso del suo prediletto Machiavelli, che da parte sua imitava la natura anche nei giudizi nettissimi e sempre riaperti, nella curiosità inesauribile e nelle formule più stringenti”. Di Giampiero, non più rivisto dalla scomparsa del Peppo, ricordo con affetto struggente la dimessa persona, lenta nell’eloquio, fuggevole nei toni; preciso e autorevole come un’ossessione quando sentenziava: “Soltanto i laudatores temporis si aspettano dalla letteratura qualcosa di piacevole, ma io m’aspetto prima di tutto la verità, ossia una parola che c’informi sulla vita”. Un’attitudine, secondo Febbraro, a guardare il mondo come lo scruta un rapace notturno, con un’arte della vista affilatissima e intenzionale, partecipe e spietata, maturata nella parte rovesciata del giorno. Destini e violenza, agguati e sparizioni in lui sembrano lì da sempre, sorpresi in tante scene di vita animale che ammoniscono e interpretano quelle umane. E tre versi dedicati a uno dei personaggi del suo primo libro valgano come suadente autoritratto: “Lavorava come guardiano in uno zoo / assiduo alle incertezze del vivere / e il suo aspetto non era molto cambiato”. Per tornare alle inevitabili tensioni instauratesi tra il poeta e il letterato, come non condividere poi quel ch’ebbe a dire Elio Vittorini in un’intervista all’Espresso il 10 maggio 1964, quando all’Einaudi di via Veneto venne presentata da Davico, Bellonci, Bigiaretti e Siciliano la mia “Nausea media”: “Uno scrittore, per dovere di sincerità, può anche permettersi di essere disumano verso se stesso e i suoi colleghi. Non mi si parli di spirito di corpo: non siamo mica dei ragionieri e dei piccoli burocrati della letteratura, noi”.


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Concludendo la commemorazione affettuosa del Peppo, segnalo che se la penna è la lingua dell’anima, secondo Cervantes nel suo visionario “Don Chisciotte”, pochi libri come “L’arte della fuga” recano il sapore di un’epoca irripetibile, per com’era piena di speranze nella letteratura. Privo di trama, è un prontuario narrativo che si può leggere ad apertura di pagina, dato il suo carattere polifonico e l’alternanza d’accenti che hanno del raggelato metafisico. Testimonial di finzioni, utilizza la parola secca e accecante nello scrittore prematuramente scomparso, presente poi in tutta la sua bibliografia. È dell’estate 2013 invece la perdita del novantunenne padre dell’eretica rivista “Belfagor”: quel Carlo Ferdinando Russo, detto Lallo, che dedicò, dopo averlo ereditato dal padre Luigi, al bimestrale “solforoso” tutta la vita, affiancandovi l’insegnamento universitario, quale specialista del teatro d’Aristofane. Allievo di Giorgio Pasquali, la sua fine ha coinciso con la fine stessa della rivista, che dal 1946 ha raccolto la crema della cultura italiana scevra da ogni accademia, intrisa com’era d’infinita passione filologica. Un’attenzione che raggiunse anche me, quando nel 2003, attraverso Kerbaker vi trovai recensita “Sotto la cresta dell’onda”, poco dopo intavolando con Russo una corrispondenza infiorettata d’amabili telefonate, nelle quali Lallo si sfogava circa gli acciacchi d’una salute cagionevole e i fondi sempre meno a disposizione per la rivista: che sotto l’egida della Normale di Pisa, Russo essendone stato direttore, s’ispirava al pensiero di De Sanctis e di Croce, con collaboratori del calibro di Calamandrei, Cecchi, Menna, Pasquali, Salvatorelli, Togliatti e Garin: per dirne del periodico l’assoluta libertà di pensiero e lievito culturale. Belfagor, ricordiamolo, è stata una divinità moabita di stanza nel Mar Morto, nel Medio Evo assurta a leggenda diabolica, secondo la quale il Bafometto orientale volle incarnarsi, maritandosi per verificare, ispirando La Fontaine e Machiavelli, se la sventura dell’umanità risiedesse o meno nell’esistenza delle donne. Una misoginia che Carlo Ferdinando non smentì mai del tutto, pur negandola vigorosamente per tutti i suoi anni carichi di risentito coraggio: anche per aver ospitato dall’86 al ’94 sulla prestigiosa rivista le lettere di Giulio Ferroni, firmate Gianmatteo del Brica (il villano della favola di Machiavelli sull’arcidiavolo Belfagor): diabolici, irrispettosi pensamenti e risentimenti sulla cultura italica e non, quali proiettili contro le incongruità, le presunzioni, le illusioni e i


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miti esteriori che hanno affollato la scena di quegli e questi anni con la chiacchiera diffusa dei sempre più raccogliticci e inattendibili maîtresà-penser: sentine di menti prostituitesi nella distorsione pubblicitaria dell’orizzonte televisivo precipitato nel flaccido più indecoroso. Dagli “angeli necessari” di Cacciari ai berciare di un Berlusconi, passando per Eco, Citati, fino al corrivo Alberoni, questo machiavellico “villano” per la penna di Ferroni ha raccolto un vero e proprio bestiario, sostenuto da una giocosa rete di richiami letterari d’un aggressivo mimetismo linguistico. Le dieci lettere di Gianmatteo, partendo da un’ostinata fedeltà alla grande tradizione letteraria italiana ed europea, usata come metodo di conoscenza, registrano infatti esaltazioni, velleità, presunzioni, ridicolaggini in cui s’intrecciano grotteschi inferni e bislacchi paradisi, attraverso angosciose domande sul destino stesso dell’uomo odierno. E chi volesse godere della prosa sempre arguta del Gianmatteo, si legga, più puntuta delle altre, almeno quella sulle vanità e i giochi delle grancasse editoriali e l’VIII lettera, datata 30-4-’93, dedicata alle stalle di Augias, grondante riferimenti circa la nostra cultura tutta televisiva, d’effimera sostanza avventatamente pompata giusto dagli intrepidi uffici stampa, despoti da anni su tutto quanto si è poi costretti a leggere, allontanati dal meritevole puntualmente scoraggiato. Lettere ancora una volta benvenute nella raccolta curata dallo stesso Giulio Ferroni per Donzelli nel 1994. Non è la speranza, ultima a morire con l’età, ma l’età a non avere più speranza, giunta al suo ultimo tratto; e allora lasciatemi commemorare la simultanea scomparsa di Lallo e della sua creatura infernale, traendo qualche brano dal numero della rivista datato 31-6-2005 in cui il già ricordato Andrea Kerbaker dedicò al mio “Sotto la cresta dell’onda” alcune meste osservazioni: “Carlo Villa si ritrova postumo in vita a guardare il suo avvenire dietro le spalle. Sembra la trama d’un film agro della Hollywood semimpegnata: ed è la storia vera di questo scrittore dal destino sconfortante, che si vendica nell’unico modo che sa: scrivendo. Riempie le carte di prose autobiografiche che nessuno recensisce, destinate a non arrivare neppure in libreria. Ma tant’è, il gioco dell’editoria vuole così: con la scena culturale riservata ai soliti pochi, senza spazi ulteriori. Eppure, nel diluvio universale di testi senz’arte né parte, quelli di Villa si distinguono per una qualità della scrittura oggi più che rara, di un’attualità senza tempo… pagine e pagine d’un personalissimo narrare la vicenda


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umana dell’autore, in particolare con l’osservazione acuta della società: “La futile cerimonia dell’Oscar ha avuto ugualmente luogo, mentre macchine e uomini USA in Iraq s’intruppavano fra loro, distruggendosi impietosamente”; “La riforma paolina della messa ha appiattito la sacra rappresentazione latina in una fiera paesana e la formula liturgica secolare è finita sui banchi d’un mercato rionale nient’affatto per i poveri, semmai per i miserabili”. Ma dove il diario si leva sopra la media è nella narrazione del disagio quotidiano, fisico e intellettuale: “Ad ogni passo la gamba mi si sbilancia, quasi il pavimento mi si sottraesse… è il corpo che fa finta di niente e che emana sussulti in vista delle sue ultime tappe”; “Non essere recensito non m’avvilisce più, anzi m’inorgoglisce; ma non è vanità da volpe e l’uva, un frutto di cui non ho mai avuto desiderio né bisogno; è affinamento e purezza che proviene dalle sconfitte immotivate”. Il tutto con una prosa di qualità”. Per la mefistofelica accoglienza ricevuta, fattasi irripetibile per una motivazione tanto immotivata, concluderò l’affettuoso ricordo di Lallo Russo con un’invocazione alla volta d’un Belfagor d’aspirazione stavolta tutta domestica, sia pure sapendola anche questa inascoltata, ispirata a un sincero bisogno di sentirmi almeno così un tantino in vita nell’ambito delle lettere cui ho dedicato ogni ora della mia ancora attiva esistenza, senza mai un cedimento né una vacanza, immaginandomi l’ora in cui un mio personale Mefistofele potrebbe finalmente apparirmi proponendomi d’avere quello che in altri tempi e con altri compagni di strada avrei certo potuto doverosamente ottenere, con i medesimi numeri e la medesima disciplina mostrati. Rifiuterei sdegnosamente, intendiamoci, ben sapendo che neppure un personaggio così speciale ce la farebbe a sfangarla in un contesto tanto avvelenato dalle ingordigie e dalle arroganze competitive più vane: ma che cosa domandargli in cambio, dal momento che non vorrei perdermela quest’occasione? Dio com’è difficile domandare qualcosa quando non si è più dei bambini; e per fortuna Mefistofele non si scomoderà così facilmente, a parte la strizzatina d’occhi kerbakeriana, perché dovessi incrociarlo per davvero lungo il percorso per recarmi a letto, finirei per replicargli: “Ma dimmelo tu, non ti pare, che ti vanti di conoscere già tutto così bene, che cosa potrebbe giovarmi per ricevere un adeguato compenso a ciò che sempre sono stato inutilmente. Non verrà, ma dal momento che il calcolo delle probabilità indica questo come il momento più proprizio, cosa mi costa preparargli se non


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l’anima, – questa regina delle evasioni, alla quale non credo affatto e che del resto non m’ha dato che grattacapi, con tutte le occasioni perdute proprio per causa sua, benchè mi fossero sempre state a portata di mano – perlomeno il riscatto finale d’una moneta che non ha mai ceduto a così perversi toni “culturali”, restandone continuamente avvilita. La difficoltà d’avere ottenuto qualcosa, il più delle volte preclude un’immutabile disfatta. Ci sarà sempre qualcuno che vorrà portarcela via, magari coadiuvando attivamente nel favorirne la perdita. E che fosse stato “Il principe delle volpi”, epopea posticcia di tale Rafael Sabatini sul Valentino, figlio degenere d’un’ancor più depravato Alessandro VI nel ’49 il banale pretesto per conoscere meglio la madre di quella che mi sarebbe stata nel ’58 la primogenita, col nome mutuato da Joyce di Annalivia Plurabella, ben cinquantasei anni più tardi non avrei mai immaginato che costei mi sarebbe stata da tramite per quest’altra narrazione sui Borgia. Dopo colpi e contraccolpi disseminati attraverso così tanti anni, la cosa dimostra quanto poco della propria vita resti alla fine in termini di fiducia: dei gusci vuoti, da poterci ripetere, senza tema di smentite, la desolante frase scontata: sembra che tutto mi sia passato accanto come fosse stato d’altri, io in effetti essendoci capitato come per caso nel tragitto fangoso: che intanto non mi lasciava mai respirare, risucchiato da una famiglia per la quale sono rimasto come un secondino di me stesso, nel vivermela in un quotidiano sconcerto. Alla grande, che m’ha rintracciato dopo tanti decenni per uno svincolo Imu, pure ho recato foto e disegnini d’un tempo così malamente trascorso, stipandoli nella ventiquattr’ore di camoscio color cardinale che mi colpì scioccamente in via Campo Marzio proprio oltre mezzo secolo fa. Costava moltissimo per le mie poche sostanze dell’epoca, ma chissà perché pure l’acquistai dopo giorni che golosamente l’adocchiavo in vetrina, recandomi quotidianamente alla sede romana dell’Einaudi, che allora si trovava al primo piano del palazzone d’angolo con via Uffici del Vicario. Devono essere state le borchie angolari in ottone lucido e le molteplici rifiniture sgargianti: fatto sta che una volta mia non l’ho mai adoperata, rimasta sepolta, come un po’ tutto questo questo mio passato d’affanni, non fosse stato per questa mia figlia, oggi responsabile della galleria comunale di via Francesco Crispi. Ha tenuto a farmela visitare, allettandomi con un barattolo di marmellata d’arance amare: si vede ricordandosi di quando gliene procuravo,


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raccogliendo i frutti che cadevano dall’Arancera del chiostro dei Filippini, in piazza dell’Orologio, sede del Centro Sistema Bibliotecario del Comune di Roma che dirigevo con Nicolini. Una figlia che mi si è parata dinanzi minuta, accattivante e affettuosa, addirittura come fosse stata ancora bambina, e non fosse passato affatto tutto questo irreparabile tempo; e mi pare impossibile che il corto circuito da lei rabberciato possa essere stato soltanto per un usufrutto da svincolare per l’abitazione che le acquistai quand’era ancora minorenne: ed oggi che di anni ne ha compiuti già 56, chiamandomi incredibilmente ancora papà, suscitandomi le stesse emozioni descritte non appena venne alla luce: “È nata alle 7 Annalivia; una testa di mela ranetta con gli occhi lucidi, quasi inginocchiata fra le mie mani; gote molli, i capelli corvini spioventi lungo la nuca e inanellati sul capo. Né lei né io per ora ci siamo riconosciuti, ma è intransigente ed occupa già dappertutto… Si sveglia puntualmente ogni tre ore e nella notte udirla mi fa pensare che sicuramente mi sopravvivrà… Le ho soffiato sulla pancia e rideva felice di gola… quindi le ho preparato il latte, che ha bevuto dal piccolo poppatoio, poi s’è rimessa giù tranquilla, bronzea… S’è azzittita subito: gli occhi in su, rasserenata dall’ombra familiare; la testa appena reclinata per delle piccole, grandi apprensioni… Già nel suo primo giorno così zeppa di scuse per me, adesso che le guance le spinge in su come due pere e si muove di continuo con la testa e con le mani; io non sapevo più come guardarla, coinvolto da una così articolata propensione madornale; e un silenzio è calato sulla casa; di là due corpi femminili sono distesi cercandosi e la piccola avrà sogni in cui la madre le sarà sicuramente rassicurante; è difficile immaginare i sogni dei neonati… Quando resto con la piccola il capo le ciondola incuriosito come una gengiva rossa e manda il profumo della paglia bagnata al sole; basta che senta parlare e i suoi occhi di marmo azzurro si muovono in gara con le palpebre cerulee. Per lei affetto non tanto paterno, quanto per la persona che immancabilmente già è, compagna insieme a me in silenzi apprensivi pure lei nei momenti di maggiore attenzione, comprensiva già dei miei problemi, come io immagino d’esserlo dei suoi, non appena mi sgattaiola accanto tutta felice, e si mette a guardare i miei segni, facendo anche lei i suoi disegnini, domandandomi qualcosa sulle matite che adopera, rispondendole da persona adulta, come appunto si merita, mentre neanche una striscia di luce districava un poco la mia solitudine di bambino chiuso come stavo sempre, avessi mai chiesto qualcosa a mia madre, o peggio ancora a mio padre”.


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