Carlo Villa
L’incontro delle parallele Carlo Villa L’incontro delle parallele
Carlo Villa da anni per sopravvivere alle dispe- eccoli lasciati languire, secondo l’orrida sentenza ranti notizie che subisce dai giornali d’ogni valen- adeguatamente parafrasata, proveniente dall’auza e redazione, senza potervi porre altro rime- tore d’una “Gerusalemme” che non verrà mai del dio, va dedicando le sue ultime energie alla stesu- tutto liberata: perché il reo si salvi, il giusto pera. ra d’un diario d’indignato contenimento, rispetto Detto ciò, sia devoluto, se non all’autore d’un a un così pesante giogo fallimentare; e in questo così inumato percorso, qualche conforto almeno “Incontro delle parallele” ci offre un’ulteriore dia- alla giovane sigla editoriale che da più d’un decengnosi sull’essudativo delle arroganze politiche nio s’è generosamente impegnata a sostenerlo, provenienti dalla Prima fino alla Terza Repubbli- contro ogni barricata contraria d’una critica che ca e dalle intolleranze religiose di nessun rispetto ne mina l’instancabile laboratorio testimoniale, da per le più elementari esigenze dell’uomo nel suo Villa condotto sempre dal di dentro d’una scrittubisogno di conoscersi meglio, il repertorio utiliz- ra d’incalzante plasticità: com’ebbero a segnalare zato dallo scrittore avvalendosi d’una vibrante di lui oltre mezzo secolo fa Vittorini e Calvino: espressività che analizza le patologie dei molte- che lo vollero per questo all’Einaudi degli anni plici assunti presi in esame, familiari e sociali che eroici, data la parola utilizzata dallo scrittore semsiano, con graffiante immaginazione. Solo avesse pre con identica responsabilità, in prosa come in l’opportunità d’essere letto, e com’è successo già poesia: lo stesso titolo presente indicando con le per le sue precedenti puntate, non fosse invece aberrazioni delle “larghe intese” politiche, anche soffocato da un’ostracismo recensorio incom- quelle altrettanto inquietanti dell’odierna critica e prensibile, di non minor cruccio per il nostro au- quella della più accreditata editoria.. tore, che da almeno tre generazioni ormai si vede così tagliato fuori da ogni possibile incontro Carlo Villa coi suoi potenziali lettori, privo com’è stato ri- esordisce in poesia con l’avallo di Sinisgalli e Pasolini dotto d’un’adeguata forza contrattuale per farlo, ed è nei Coralli Einaudi coi romanzi “La nausea media”, “Deposito celeste”, “I sensi lunghi”, “L’isola in bottiglia”; ostacolato da scelte editoriali pilotate ad arte inaugura la collanina bianca di poesia con “Siamo esseri verso centoni e manicaretti culinari producenti antichi”, ed è in quella di Munari con “Le tre stanze”. quel lucro incessante volto a un abbassamento Con gli Editori Riuniti pubblica il romanzo “Muore il padrone”, con De Agostini “Morte per lucro”, con delle coscienze al livello vegetativo più squallido. Stando così le cose e considerata la bibliografia Feltrinelli “Pan di patata”, mentre Guanda con “La maestà delle finte”, Scheiwiller con “L’ora di Mefistofele” del Nostro e la strenua fedeltà dimostrata nel e la Società Editrice Fiorentina con “Eclisside” accolgono proseguirla, bisognerà pur chiederselo come mai le sue ultime raccolte poetiche. al di là della risposta purtroppo scontata, un auto- Per la Società Editrice Fiorentina edita “Agrità”, “Sotto re di così risentita sensibilità fin dal suo esordio nel la cresta dell’onda”, “Quel pallido Gary Cooper”, “Caro, descrivere le infelicità dell’uomo – come attestano dolce nessuno”, “Dripping”, “Impronte”, “L’ospite sgradito”, “Pieni a perdere”, “Keatoniana” e “Pensieri panici”. Nel le prestigiose firme, non a caso perlopiù d’altri 2012 ha pubblicato “Donne che avesse amato” con tempi, riportate in appendice al libro – possa, Liberodiscrivere e “Sorpassi” con Greco e Greco. Per giunto alla fine dei suoi giorni, restare ancora rele- la Rai e la Radiotelevisione Svizzera ha collaborato a gato in un limbo tanto inconsulto, nonostante la lungo con originali radiofonici e televisivi. In “Lector in militanza d’indubbia scienza e riconosciuta perizia tabula” raccoglie una scelta di quanto nel tempo ha prodotto come critico presso quotidiani e periodici in accademica che popola gli odierni spazi destinati anni ancora fruttuosi per la letteratura. alla disciplina dello scrivere: singolarmente tutti (carlovilla.altervista.org; virconlala@virgilio.it) concordi ad ogni nuovo titolo dello scrittore nel In copertina collage dell’autore non notiziarlo affatto, benché puntualmente raggiunti allo scopo, assediati come sono da pressioni diversamente vantaggiose. La cosa facendo sorgere il sospetto che, com’è nella politica quando ci si adoperasse a suscitare nuova sensibilità nell’individuo, anche nelle lettere gli organizzatori di parole inesigibili nei sempre più imperversanti drugstore,
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Dello stesso autore Agrità Sotto la cresta dell’onda Quel pallido Gary Cooper Caro, dolce nessuno Dripping Impronte L’ospite sgradito Pieni a perdere Keatoniana Pensieri panici
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© 2013 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-272-2 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Le opinioni espresse nel presente volume non rispecchiano necessariamente quelle dell’Editore
La geometria è per le arti plastiche quello che la grammatica è per la scrittura. (G. Apollinaire, Méditations esthétiques) Di tutte le scienze la più assurda, capace di soffocare un genio, è la geometria, ridicolo scherzo di linee e punti che in natura non esistono. (Voltaire, Jeannot et Colin)
La matematica, scriveva nel 1913 Robert Musil, abbraccia alcune delle avventure più appassionanti e incisive dell’esistenza umana. Affermazione che riprese poi nell’“Uomo senza qualità”, quando Ulrich s’appresta a questa disciplina appena nata come scienza indipendente dal clima fiducioso e ottimista dell’Esposizione Universale, e Parigi accolse il secondo Congresso internazionale dei matematici, orientando la ricerca dei decenni successivi, l’audacia del pensiero spingendosi oltre le colonne d’… Euclide. Solo il matematico può provare sensazioni così fantastiche, osserva ancora Musil, compenetrandovisi. In questa disciplina, com’è per la scrittura responsabile, ogni nuova scoperta s’intreccia infatti in un gioco di tessere in cui tutto ruota sui concetti e ciascuna teoria reca una prospettiva diversa: com’è nella poesia, formula anch’essa d’un’invenzione autonoma che obbedisce a un principio d’unità eterna, in cui ogni dimostrazione aggiunge altri quesiti. Ma se si può migliorare la geometria eliminandone il parallelismo, partendo dal fatto che in generale due linee rette s’intersecano in un solo punto, mentre le rette parallele rompono questo schema, l’idea ardita è quella che, aggiungendo sempre nuovi punti al piano euclideo classico, si possa creare un nuovo punto all’infinito per ogni direzione del piano, cosicché tutte le rette parallele convogliate in quella direzione, alla fine possano incontrarsi in un punto, sia pure infinitamente lontano: le larghe intese politiche dimostrandolo. Un evento da ritenersi del tutto assurdo invece in letteratura, quando una pagina che susciti sensibilità diversa, viene rifiutata proprio da quanti pure si spacciano per specialisti del ramo, barattandolo squallidamente un mestiere avvilito a tal punto a merce, da trovarvi facilmente i peggiori offerenti, dato un mercato globale sorretto dovunque solo da simili scorrettezze comuni, oramai. Ed è proprio del maggior letterato svedese, Lars Gustafsson, questa contraddizione quando tira le fila della sua finzione filosofica tra “Le
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bianche braccia della signora Sorgedahl”, instaurando una ricerca nordica sull’argomento, datandola addirittura estate 1954, attraverso un inverosimile percorso che almeno a lui accade al limite della sostenibilità, con un procedere digressivo sui temi della memoria, del tempo e del senso del vivere, chiamando in causa i lettori con giocosità riflessiva, senza mai annoiare, quasi si trattasse d’una conversazione leggera; fino alla conclusione, dove considera l’esistenza un gran volto vuoto che noi tutti siamo chiamati a far parlare. Gustafsson non è nuovo a simili percorsi stralunati, e nel ’72 ne recensii per il supplemento letterario del Paese Sera “L’autentica storia del signor Arenander”, ricevendo l’apprezzamento inaspettato dell’autore attraverso l’Ambasciata svedese a Roma per la commossa analisi partecipativa d’una dimensione spazio-tempo possibile solo in luoghi almeno allora del tutto intatti e non ancora contaminati dal disordine della società cittadina, immersi nel silenzio d’una natura rimasta primitiva. Arenander-Sorgedahl-Gustafsson nei suoi libri è solito, nel prepararsi la prima colazione, fare un balzo indietro negli anni, evocando luoghi e persone ormai andati, episodi e avventure trascorse, seguendo il pigro gioco di nubi, che a un tratto sembrano ripresentarglisi in quelle identiche figurazioni plastiche già viste anni prima. Quindi questo composito personaggio, egli stesso scrittore schivo a qualsiasi socialità, si scopre come fosse un altro, intento alla lettura d’un suo libro introvabile, stampato a suo tempo in un numero di copie limitatissimo, caricando l’episodio stralunato di significati eccezionali, in un intrigo vicino alla minaccia. Chi si serve di noi? È in questo laconico interrogativo la sostanza di tutti gli scritti del narratore svedese, dimentico d’ogni altro scopo che non sia quello di percepire dentro di sé una sensibilità nuova, fantasticando sul silenzio e la solitudine necessari a praticarla. Arenander-Sorgedahl-Gustafsson nel suo zigzagare tra presente e passato raduna e interpreta la propria esistenza, avvalendosi di punti di riferimento altamente poetici, in quanto imprevedibili e inusitati: cosicché, nel citare le orme sulla neve, la temperatura, la grana atmosferica, la sostanza biologica di quanto lo colpisce e circonda, si fa trasognato protagonista, analizzando se stesso in un accorato viaggio al centro dell’uomo, fattosi ben più prezioso d’un qualsiasi percorso alla Verne, banalmente condotto al centro della terra. È frequentando queste ieratiche letture che mi riduco sempre più escluso, dopo un’intera esistenza passata ad esserci stato nello strazio del-
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le frustrazioni più indocili che m’hanno sempre assediato: principiando dalle penne che non scorrono, ai nastri dattilografici che sbiadiscono e saltano dalle loro sedi e mancandomi irreparabilmente ogni occasione di sostegno, naufrago senza ritegno, agghiacciato da compagni di strada ingenuamente ritenuti ancora tali; e invece grami quanto gli altrettanto sparuti amici d’una vita, spariti miseramente con tutti gli affetti da me accuratamente mantenuti riposti invece senza riscontri: trovandomi al termine d’una simile notte ogni giorno più costernato. Cala dunque la notte su queste mie fatiche d’Ercole e quale cantante d’opera, mi rubano non solo il bis, quanti creduti al mio fianco, ma il triscotto, manco fossi un pellerossa delle riserve alla ricerca d’una faticosa mancia; schivata del resto ogni volta così bene, da venirmi sottratta senza il minimo cenno di penitenza circa i miei numerosi pieni tutti a perdere. Anche tra i bianchi purtroppo qualcuno è sempre più bianco degli altri, e sono questi che hanno in definitiva livellato le colline per dimostrarlo, sulle spiagge ottenute giacendo altrettanti calchi ottusi per il paradiso del più futile stato d’animo mai contraddetto, considerate le derrate dei rotocalchi a riguardo costantemente a strascico per l’ignavia dei molti: restando dimostrato che è il viatico e non il testo a far aggio sul sistema, in un’aspettativa a premio lucrativo. L’alba m’è ancora distante e a contare le ore che me la distanziano ho i brividi. Ma reclamarla con quale autorità? Prima di capirne il costrutto presenterebbe una perdita che non potrei mai pagare. Così riprendo ancora una volta ad illudermi con queste parallele che interseco sullo scrittoio solo per me in gara con lo spettro del mattino che sta tirandomi la giacca per quanti ne abbia già raggiunti di fogli per la medesima frustrazione già subita in precedenza. Basterà non ne faccia una questione di numeri, né di rimpianti. Sola amica dei miei parti difficili m’è sempre stata del resto la notte, che mi resta tuttora il meccanismo più tragico per sgravarmeli su di un tale letto di Procuste, così privo di pace da non ricavarvi mai delle risposte allettanti, disperdendomi con tutto il lavoro compiuto nella più singolare proprietà dell’acqua: quella di richiudersi subito su chi la riceva, annegandolo quale stoffa strettamente aderente. Ci diradiamo talmente anche per questo la notte, che fa chiudere le case, per esempio. Di giorno da qui a lì subito ci si andrebbe, di notte no. Mette le viscere in precariato la notte. La sua morbidezza appariscente ci vuol altro a nasconderla, ed è molto difficile non darsene pensiero. Ci tiene le mani sulle guance, e quand’è così è inutile dirle di no, fare
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i disinvolti, raccontarle delle storie: sarebbero tutte imperniate su una notte, magari archeologica, pittoresca, scientifica e da laboratorio quanto si vuole, ma in ogni caso senza più luce, senza compagni e da starci soli a meditare in una macina di veleni da conclusione. Io poi che sono un soggetto fatto al massimo di quattro parole messe in fila anche di giorno, che dico in fretta l’indispensabile e per il resto zeppo di dubbi e di pudori, ho comoda la notte che mi raduna le voglie e condensa i timori. I peccati di pensiero hanno di che praticare le loro scorrerie più fervide in queste buie condizioni; e sono i peccati migliori, quelli più fitti e preferiti. Peccati che consumano e deludono; ma hanno di buono d’essere sbrigativi: con facilità si passa presto a quello successivo. Soprattutto sono economici, e il risparmio di qualsiasi consumo, a quanto pare è la mia inveterata spina dorsale: di forze, di tempo e di affetti. Sempre a studiare inorridito il mio tempo che passa e che sciupa energie, stretto come sono a una calda, insostituibile infelicità, coltivata in vitro per meglio raccontarmela poi senza mai un diniego. La notte dunque già da un bel pezzo. Ci si scoprono indosso a quest’ora solo i tentativi andati a vuoto, e pare tutto il tempo proprio sprecato e che scivola via senza costrutto, nel momento stesso perfino che lo si stia a consumare, mentendoci tristemente sopra per il non fatto o fatto male, quando domani pure ci si alzerà pieni di fretta per la barba da radere, i denti da lavare e i capelli da ravviare, ma non certo per i progetti non ancora portati a termine: manco si fosse immortali. Ci si scorda facilmente di questo tragico assetto, lo sappiamo bene, e nonostante le scadenze, le scuse che si frappongono sono così imperative, e si mantengono vive in modi così incredibilmente seri ed onesti, che ogni volta volentieri ci lasciamo convincere: domani, domani sarà diverso, in una litania gravida di rovesci. Tempo come materia grigia, indistinta; e quello passato su questa imperterrita carta suicida mi divarica talmente i pochi momenti di coscienza che alla fine rimango imbambolato a pensare a dov’ero rimasto la volta precedente, le labbra, nel ritornare ogni mattina al tavolo consunto, increspandomisi in un sussulto ironico già da trapassato, cui non sarà dedicato neppure un necrologio. Del resto di nessun conforto. Cosa non si vede volare di notte, in dieresi e parentesi di soggetti dall’apparenza di ricordi in accenti gravi appena imbrunisce, rinforzati
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in calcoli circonflessi. Oggi poi con un quarto d’ora di meno di luce, ecco presentarmisi già l’insetto proboscidato che pesca nel piattino dov’è rimasta la bruna traccia dell’indispensabile infuso usato per tenermi sveglio. Ha più d’una coda, dieci ali, una miriade d’occhi, ed io non ho nient’altro qui ora che una sfrenata immaginazione ad inserto, con gli accenti che mi sconvolgono le distanze e i contorni in un periodare rinforzato. Non è possibile che i più ignoti riferimenti appena al tavolo continuino che neppure è scesa completamente la notte, senza far danni. Ed eccomici già in una specie d’uniforme in cui mi rivesto quel tanto che possa darmi un minimo di coraggio, con tutti i galloni riscossi nel tempo a torto o a ragione. Sbarcato nella notte immane lo troverò stavolta l’uomo nero sprofondato in questo impasto d’antica vegetazione tutt’intorno elastica e paludosa fino ai piedi? Una statua dagli occhi pallidi, senza la stanchezza della carne, indeterminata, ma con una sua volontà invincibile, che s’approssima in mille spropositi a piedi nudi. E spossato dall’oscurità del luogo, il freddo della paura mi fa da nicchia sepolcrale foderata d’artigli sconosciuti, e contratto come mi trovo sulla pagina, me la racconto ancora una volta in precise resezioni d’anatomia, modellandomela in una materia incoerente e vertiginosa della quale si compongono i sogni e gli enigmi. La notte oscilla quale corda al vento, mentre l’enorme allucinazione del disco lunare perfettamente scialbato, secerne la sua gravezza grinzosa, svelandosi nella minaccia d’un pugno serrato color granata, che nella penombra s’alza e s’ingrossa schiudendosi a sesso enfiato negli umori della glassa notturna che abbottona una giornata all’altra. La casa scivola in un silenzio notturno in cui solo io resto acceso come un tabernacolo, incredulo per le troppe responsabilità che mi sono assunto senza che nessuno me ne abbia chiesto pegno; e lo spasimo dello star sveglio mi reca il prodigioso piacere di esserci e di non esserci al tempo stesso, nessuno potendomi contraddire, almeno in questo. La notte scorre come frotta di topolini voraci che non l’arresti né barriere né trappole, e finché dura m’industrio a costruirvi castelli muniti, assiepati di difensori instancabili. Torri e pinnacoli senza badare a spese, ma che finiscono però fragilissimi e che al solo guardarli precipitano, manco fossero di questa mia stessa sostanza effimera dispiegata in così tenebrose costernazioni.