La misura della perdita

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Carlo Villa

LA Misura della perdita

SocietĂ

Editrice Fiorentina


Dello stesso autore Agrità Sotto la cresta dell’onda Quel pallido Gary Cooper Caro, dolce nessuno Dripping Impronte L’ospite sgradito Pieni a perdere Keatoniana Pensieri panici L’incontro delle parallele A pensarci bene L’esperienza del nulla


Carlo Villa

la misura della perdita

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Editrice Fiorentina


© 2017 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-434-4 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Le opinioni espresse nel presente volume non rispecchiano necessariamente quelle dell’Editore


Si è giunti dove si poteva arrivare. (Oscar Wilde, L’eterno marito).

Se lo stile mostra i propri pensieri leggendoli, è nello scriverli che vi si può trovare ancora qualcosa da dire che non sia stato vano nel farlo, in quanto l’arte s’avvale della vita, quanto questa dello scrivere scientificamente. Anche se devo premettere che non l’ho mai praticata con gaudio la scienza come madre di tutte le tecniche. E questa ignoranza la debbo soprattutto alle ridicole lezioni di fisica impartitemi al liceo, avendole vissute piuttosto come delle beffarde ventate d’incomprensibilità; intanto per com’ero costretto a inerpicarmi, per sostenerne le sterili formule, lungo i percorsi curiali d’un Collegio Romano, che in quanto primo corso superiore del neo Stato italiano, aveva ridotto una capitale già squallidamente decotta a causa del plurimillenario appretto papale a un’infetta parabola protodemocristiana; di lì a poco perfetta per accedere alla Grande Bruttezza odierna a causa d’un’intera mafia di mezzo, sfattasi in un sordido imbroglio partitico, periodicamente scissionista fino allo spiaggiamento d’un populismo generalizzato. Costretto per l’ora di fisica a un arduo inerpicarmi fino al sottotetto d’un Liceo Visconti, che negli anni Quaranta del secolo scorso presentava in ogni suo cantuccio degli antri affollati di fantocci primitivi sommariamente impagliati, parziali scheletri umani, residui di scimmie, pennuti mummificati e strumentazioni d’ottone millimetrate col meridiano di Greenwich per un museo Kircher ripieno di insetti trapassati, soggiacendovi altrettanto gravato anche dai soprassalti delle bombe “alleate”. Nell’Istituto, specializzato nel classico, forte d’un trascorso seminarista, vi si affrontava qualsiasi cosa come concernesse la questione omerica, sfoggiando insegnanti in carattere, ricordando con inesaurito orrore una micidiale Moscarini, che ci costringeva l’intera “Ecuba” d’Euripide a mandarla puntigliosamente a memoria nella lingua dell’epoca, verificandone con martirio individuale la scrupolosa effettuazione delle pause


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metriche, quanto degli aoristi più dispettosi, con un nozionismo avverso ad ogni possibile profitto che non fosse svalutativo. E qui mi permetto una seconda digressione scolastica, giustificata dal fatto che nel liceo in questione, proprio in quegli stessi anni vi avevo anche recitato, se così posso esprimermi, con Aldo Fabrizi, nei panni d’un rubizzo bidello, con De Lullo che vi esordì insieme a Soldati in cammei a fianco delle sciocchissime sorelle Nava che vi si diffondevano in carattere addirittura con un Ennio Flaiano, altezzosamente impacciato: l’indimenticabile film intitolandosi “Mio figlio professore”, da Renato Castellani fu girato nel 1945, miscela di comico e di patetico d’un affettuoso sollievo per un quattordicenne afflitto dalla solenne tetraggine respirata in famiglia. Sul set attivo durante tutta l’estate, respiravo una sorta d’appartenenza fin dal mattino presto, presentandomi puntualmente al giornaliero appello delle comparse, in fuga da mio padre, per mercede un prezioso sfilatino, considerata la fame contrassegnata ancora da tessere annonarie a foggia di lenzuoli enigmatici circa le derrate parcellizzatevisi in una cabala a dir poco enigmistica. Ma tornando a una scienza al dunque impartitami da una titolare male in arnese, si può capire come ne abbia sempre attraversato le risorse senza entusiasmo, per quanto oggi mi potrebbero essere di qualche vantaggio nelle pratiche mediche che mi trovo costretto a frequentare, subendovi tutte le vergogne legate ai camici impropriamente bianchi, nonostante un giuramento d’Ippocrate, indecorosamente esibito giusto sotto vetro, insieme a diplomi, quante volte spacciati per buoni soprattutto se riferiti agli studi specialistici, dove l’inganno resta anche più corrivo, fatte salve le doverose eccezioni e senza riandare a “Il medico della mutua” e al derivato “Prof. Dott. Guido Tersilli”; fino al madornale, “Bisturi, la mafia bianca”, che già nel ferocissimo titolo non ha bisogno d’ulteriori spiegazioni. Eccomi dunque costretto a condannarlo sempre di più ogni apparato della scienza, ogni giorno apprendendovi malanni ben peggiori degli stessi mali che invece dovrebbero essere curati, imperversandovi soprattutto cellulari a tampinare le visite anche più delicate, negli stessi interventi chirurgici sparandovisi musica icastica, non mancando le incursioni nel jazz, nel blues e nelle danze più accaldate. E sarà perché Apollo, dio della musica era anche protettore della medicina, che alcune nuove sale operatorie ormai vengono costruite con dispotici diffusori incorporati


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per requiem e musica sacra caritatevole. Ma se un brano a basso volume può essere piacevole e rilassante, dell’intervento allentando la tensione nell’equipe, come tralasciare tutte le tragiche conseguenze che possono avvenire durante l’intervento pei delicatissimi flussi dei respiratori, non sempre perfettamente udibili sotto l’urlo dell’Alleluja di Haendel. Due studi appena pubblicati sono giunti a conclusioni opposte. Secondo un’università del Texas i chirurghi se operano con un sottofondo musicale sono più rapidi nelle suture. E nei tagli? Come se l’operare implicasse delle gare lucrative per le più rapide effettuazioni. Il Journal of Advanced Nursing, al contrario sostiene che la musica rischia d’ostacolare la comunicazione fra chirurghi, anestesisti e infermieri, parecchie università avendo testimoniato che il personale assorbito dagli amplificatori continuava a farsi ripetere gli imperativi inerenti alle più elementari disposizioni sanitarie, più propenso a seguire il concerto for brass and string che il rantolo del paziente trascurato fin dall’ouverture de “La gazza ladra”. È curioso che la prima volta in cui le note intrusive entrarono in una sala operatoria sia stato nel 1914, quando al Pennsylvania Hospital dedussero che gli effetti benefici del fonografo istallato in sala operatoria per distrarre il paziente, notoriamente già privo di coscienza e d’una qualunque voce in capitolo su imposizioni simili, gli avrebbero favorito un dialogo con la morte. L’angoscia è la conseguenza d’un desiderio represso; come lo è anche il sogno. E mi fu medicina assunta per placare quell’insano corredo di negatività subìto a grappolo nei miei primi anni di vita: perché non c’è stato verso, ma dal seno di mia madre, una volta che mi fossi trovato nell’impegno, non usciva che del siero misto a sangue, restandovi fin da allora crocifisso; mentre i miei tre fratelli a seguire furono tutti allattati al meglio da quel nappo naturale: solo per me rimasto inspiegabilmente cruento. Per una così grande insolvenza, me ne derivò un freno a frequentarli costoro, appena presi coscienza dell’insolenza patita. A un primogenito del tutto privato d’un così elementare alpeggio dovutogli, non poteva col profumo del latte languire anche il tepore affettivo, costretto alla tettarella sostitutiva, nelle sinapsi del cervello avendone ancora gli orrendi effluvi d’una gomma sintetica a poliuretano espanso, in un processo di morte che vado covandomi su questi fogli dalla peggiore sorte. Ed ecco perché, fin dal mio primo pensiero d’ogni cosa che abbia vissuto, m’è rimasto indelebile codesto misfatto, nel convincimento d’es-


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sere sempre stato uno storpio bambino in viaggio alla volta di un’inabile madre, risultandovi sì scampato, ma giusto per testimoniarmi così seriamente danneggiato attraverso un’infausta privazione d’ogni succo vitale subìto fin dalla nascita. In quanto non dovevo andare a cercarla troppo distante una messe di simili attribuzioni negative: sempre solo e nocivo a me stesso, negatami ogni fiducia, personalmente eloquente giusto negli impacci perduranti fino ad un oggi non meno appestato da una cognizione di cause ed effetti irreparabilmente perdenti, sentendomela sul collo la frattura d’un qualsiasi riconoscimento da quando fui partorito perdente. Insomma sono sempre stato un vero e proprio escremento-bambino prossimo allo Zenit circa l’inferno di quel tronfio corpo materno di tartaruga esemplare che mi sospinse fuori una volta ultimato, senza nutrirmi, viste le terribili condizioni che mi segnarono per sempre, circa una qualsiasi carezza, anche a causa dell’assoluto ammanco paterno: ladrone su tutto ciò che di diverso avviso fosse potuto circolare nel fetido contesto familiare. Anche per questo frequentavo la scuola con un’inappetenza cattiva, aleggiandovi impunito e di corsa, in pieno rischio cercando pretesti dovunque, magari al fine di farmi bocciare, per dimostrarmela anche così l’ingiustizia patita con perverso decorso privo d’ogni decoro. E a mal partito anche in questa sequenza, ero sempre irreparabilmente acceso nel viso per fantasie oscure, infierendo ogni volta che mi fossi trovato su di un campo da gioco, dove con dispettosi effetti indiretti, clownesco sottraevo una palla che del resto non avevo mai ben giocato, togliendomi arbitrariamente fuori dal cerchio che mi fosse stato prescritto, impartendoli io semmai quei segnali d’indisciplina manifesta in tutte le partite in cui fossi incappato, venendo notato dare più calci possibili, magari a vuoto, mirando incongruamente in porta, senza mai considerarla la lontananza dalla rete, in un increscioso beneficio a tutto vantaggio della squadra avversaria, sfidando l’autorità dell’arbitro, sempre carico d’individuate punizioni da impartire alla mia insanabile natura. Non parliamo poi delle carte da gioco, che non ho mai capito come ci si possa infervorare impegnandovisi in agoni da mattanza, con la pretesa di guadagnarvi addirittura delle mercedi suppletive, quando da parte mia semmai avrei aspirato a gestirle per un fine conversativo, a scambio dialettico di idee per acquisire scatti maggiori di pensiero sull’assoluto: indimenticabile lo sconforto a questo riguardo, subito per l’esperienza gonfia d’avvilimento vissuta a ridosso del convegno indetto nel 1967 dalla


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Rai ad opera di Federico Doglio, con una dozzina di narratori esordienti in quegli anni, tra i quali Bevilacqua, Bonura, Spatola e D’Agata, che provenienti tutti da fuori Roma, fatta sufficiente conoscenza, mi parve doveroso invitarli a casa per una serata diversa; precipitata, non ricordo ad opera di chi, ma subito accettata da tutti con entusiasmo in un’avvilente partita di poker. Dalla quale, forniti gli astanti di sufficiente corredo, sbigottito lasciai che proseguissero da soli in un crescendo di tenzoni fin oltre le quattro del mattino; quando, levatomi secondo un mio immodificabile tempo interno, preparai loro una corroborante colazione, riaccompagnandoli ai rispettivi alberghi, in tempo perché si facessero la doccia e la barba per rivederci di lì a poco in viale Mazzini, a sorbirci riduzioni e sceneggiati da Bolchi e Camilleri: più che convinti, Granzotto e Bernabei d’aver trovato nuova linfa per le sciagurate operazioni aziendali; da parte mia, inoltrata “Una terra emersa”, speculativa su una rinnovatasi corsa coloniale a ridosso d’un neo continente manifestatosi oltre Capoverde, per un sommovimento tellurico dovuto alla deriva della placca continentale africana, per quanto suonasse d’assoluta anticipazione sulle minacciose trivellazioni attuali, non mi fu mai trasmessa fino a oggi. Nè l’originale televisivo “Cambio di canale”, spassoso e surreale prodotto stavolta da Leto, vulgo “Nonna papera”, per quanto sorretto dal compianto Giolitti, ha mai varcato neppure lui la soglia dei piccoli schermi, per la sopravvenuta plumbea inintelligenza rispetto alla gestione Guglielmi: penose le inutili trasferte ingaggiate in anticamere stressanti nell’ascoltare rinvii e giustificazioni da parte d’incredibili personaggi d’infima tacca, sopraggiunti con l’avvoltoio Craxi, dovunque venisse speso il suo nome. Dall’aridità d’una madre non sono mai stato in grado di succhiare che capovolgimenti simili, non avendo ottenuto che sfide e risposte disperatamente improntate a quel peggio che m’ha costretto a condurre sempre un’opposizione alla figura d’ogni autorità che mi si fosse frapposta, presentandomisi affatto materna, ma frutto, quando si viene al mondo d’ingannevoli itinerari d’una mosca cieca che si staglia in sempre ulteriori penalizzazioni. L’amore materno è un profondo mistero suicida, non a caso potendosi rubricare in un omicidio differito e nel migliore dei casi le cronache nere restano piene delle peggiori semenze circa questo settore tanto ferale ai fini dell’amore. Ci si appella ai richiami della natura, restando la bestialità più grande per la cosiddetta intelligenza, dove c’è l’amore


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mestando sempre dell’odio sufficiente a invertirne le carinerie, magari diffondendole sui cani, come avviene assai spesso: rimedio allo strappo subìto dal primo vagito. Dopo averlo strenuamente voluto, da un figlio si resta menomati per così tante possibilità perdute da impazzire, solo si fosse appena sani di mente. Eppure è così palese la demenza una volta subìto l’inganno, non tornando mai indietro la coltura d’una terra promessa; né è stato mai sufficientemente analizzato il fenomeno delle nausee incoercibili legate anche alle gravidanze più felici: è il corpo in questo caso ben più saggio d’ogni tradizione, che strattona e chiede giustizia, da contenitore violato da un contenuto infiltratovisi, volendosene liberare. Non cambiando affatto argomento, quanto spesso codesto pargolo voluto con un realismo d’estremo abbrutimento sfocia nelle leggende dei vampiri, tenendo presente a cosa si va incontro a proliferare con tanta leggerezza una pratica affettiva mai sufficientemente esorcizzabile: ripercorrere per crederci il film di Murnau col temibile omino filiforme, che si nutre del sangue delle vittime, in tutto e per tutto perfetto Brad Pitt, in “Ti presento Joe Black”. Per quanto la credenza dei vampiri nasce soprattutto da un equivoco, in quanto da cadaveri venendo sotterrati non ci si decompone subito e soprattutto non si sta mica fermi: di qui la leggenda dei mai morti. Il corpo infatti si disidrata e da ciò dipende l’impressione che le unghie, i capelli, i denti si stiano allungando. Non sono loro ad allungarsi, ma i tessuti che si ritirano e i gas derivati dalla putrefazione gonfiano le cavità corporee, tanto che da cadaveri si può raddoppiare in meno d’un giorno e spostarsi nel sepolcro, recati da batteri luminescenti che colonizzano i tessuti, dando loro un aspetto fosforescente. Madri risolute e padri accondiscendenti, non avvertite un brivido di pentimento a figliare? Vogliamo evitarlo un simile sgangherato finale ai desiderati pargoli ancora del tutto incoscienti e vilmente mai interpellati su un così sozzo teatro tombale. Perché se un cadavere gonfia e si decompone in un modo tanto scomposto, sta a significare che paga le malefatte dei suoi genitori compiute nel metterlo al mondo, ripagandoli con un simile scempio, dopo anni vissuti in maniere non meno avvilenti. Che cosa ne pensate? Perché infliggere anche ad altri una condanna così severa, già subita dalla propria persona. Diamoci un taglio a un simile vampirismo, risolvendo al pianeta i molteplici problemi che nessuna politica potrà mai sanare ai viventi.


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Disavvedute, potenziali madri, indotti padri alla stregua d’altrettanti Adami ancora una volta abbindolati dalla solita mela e dal corrivo serpente personificatosi nella ghiotta Eva, generosamente tutti condannati sul nascere da così tanta bontà divina. Avete considerato le pene cui un così ambìto prodotto finirà comunque al peggio, preceduto da un fatale invecchiamento generale, costretto a continui pronti soccorsi e a test neurologici, fino a raggiungere quel declino cognitivo preagonico penosamente puntuale per tutti, indipendentemente dai favori e dai successi ottenuti. Vogliamo considerarlo? Anche un Gassman non fu meno depresso prima di lasciarci, benché ne avesse raccolti di eccessi sulla scena e in celluloide. La lista degli avviliti malinconici, una volta alla soglia del tramonto è talmente lunga, quanto i soggetti stessi da considerare; e se si tramonta rapidamente come le foglie e gli insetti più infimi, possibile che un’afflizione simile non la si possa evitare, toppando la misericordia di Dio. E tutto a cagione d’una figliosità generica, quanto grama, dove il soggetto accudito rispecchia circostanze quasi sempre fortuite. E allora, sapendo bene un simile incongruo paradosso, finalmente distrarsi da tanta potenzialità negativa per la pauta di non essere esistiti affatto, nonostante le innumerevoli prove contrarie. Fellini giurava che il cinema fosse il modo più diretto per entrare in competizione con Dio, dimenticando di dire che Dio l’arroganza la perdona raramente e che la pietà, sotto le luci d’un set, è una svendita di stoppini per sentirsi appagati nell’imbroglio. Ha spiccato non pochi titoli, non molto tempo fa e sui maggiori quotidiani italiani, la proposta di rievocare Cesare Pavese attraverso la lettura del “Ritratto di un amico” di Natalia Ginzburg. Nulla di male, s’eccepì, non fosse stato per il luogo in cui la commemorazione avrebbe dovuto accadere: la stanza dell’Hotel Roma di Torino, allora numero 49 e oggi 346, in cui, nella notte tra il 27 e il 28 agosto 1950, lo scrittore si tolse la vita, dopo aver chiesto inutilmente aiuto e afflittiva compagnia salvifica a numerose sue amiche, intenzionato magari a superarvi la crisi: tra le prime Fernanda Pivano. Venute a conoscenza della commemorazione, le nipoti dello scrittore si sentirono in dovere di tutelarne l’eredità morale e contestarono l’iniziativa, definendola «piuttosto macabra e di cattivo gusto». Sulla stessa linea si pronunciò il critico Lorenzo Mondo, per il quale si sarebbe trattato di uno spettacolo abusivamente promozionale che avrebbe assassinato ulteriormente uno scrittore, ben altrimenti merite-


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vole. Di diverso avviso si espresse invece il giornalista di “Repubblica” Paolo Mauri, avendo affermato che sarebbe stato al contrario un omaggio non inutile che avrebbe potuto servire a richiamare l’attenzione sulla disperazione d’uno scrittore emblema di un’intera attualità editoriale. Fatto sta che un’iniziativa del genere avrebbe coinvolto un pubblico senz’altro prezioso per la lettura, animato più che da forme di feticismo e di morbosità, semmai da un interesse di natura storico-letteraria per la figura del defunto. Del resto da oltre 65 anni prosegue ininterrotto il pellegrinaggio nell’albergo torinese in questione non per le sue belle stanze affacciate sul giardino di piazza Carlo Felice, ma proprio perché ha ospitato le ultime ore di Pavese. Si può fare una colpa ai perché ci si dedica a leggere un autore approfittando delle vicende incresciose che lo riguardano? Quando avvenne il suo ultimo tratto di vita, lo ricordo bene, mi trovavo in un gabinetto dentistico situato a Roma in via Vittorio Emanuele, sopra al cinema Augustus e non mi parve riprovevole che, tornato a casa con un dente di meno, riprendessi a rileggere “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” e a integrazione propedeutica, “Il mestiere di vivere”, utilizzandolo a propulsiva spina per iniziare anche il mio di Diario. Nel rileggere le pagine del cofondatore dell’Einaudi, neppure ventenne intanto presi a frequentarne la sede romana che allora si trovava in via di Campo Marzio a cento metri da via de’ Cestari, facendomene la mia unica casa per gli anni a seguire; almeno fino alle numerose delusioni sofferte e gli stravolgimenti sopravvenuti nella torinese via Biancamano dal suo commissariamento fino a oggi. La prima volta che vidi Parigi, filmografia a parte, avevo diciott’anni e m’ero appena diplomato, concedendomela in un’avventurosa migrazione a latte e banane. Mi ci trovai che a Pigalle imbruniva ad opera dell’ultimo traghettatore che m’aveva preso su a Evry dopo una decina di passaggi d’autostop ingaggiati poco dopo Ventimiglia. Non fossero state le pale al neon del Moulin Rouge e le disseminate vetrine affacciatesi sulla piazza nell’esibire avanspettacoli provinciali, non avrei potuto orientarmi per imboccare il più vicino albergo della gioventù, non certo vicino al Village che occupava una stradina tra la fine di rue de Varennes, dov’è ancora, al civico 50 l’italiano “Istituto di cultura”, dove trent’anni più tardi avrei presentato di Montale l’apparato scaligero, soggiornando al “Montana”, prima di proseguire per i Documenta di Kassel. Fin dagli anni successivi alla Liberazione di Parigi, i locali del quartiere aprivano alle sette di sera, ma sino alle otto restavano quasi deserti.


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Chi vi si fosse affacciato in quella prima ora, vi avrebbe visto comunque al banco di legno chiaro, almeno un paio di personaggi della rive gauche del tempo. Raymond Queneau con Calvino, che s’era installato nella città negli anni Settanta, fondando con l’autore di “Zazie nel metro” la società dell’Oulipo: officina di letteratura potenziale, sfruttando la scrittura veicolata dall’acrostico al lipogramma e al palindromo: veri e propri labirinti linguistici attraversati da una vena di follia, rivelandosi un punto di riferimento insostituibile per quanti fossero interessati alle esplorazioni spiazzanti e imprevedibili del linguaggio. Nel novembre del 2014, curata da Bloomfield e Lesage, è stata aperta sempre a Parigi una mostra di libri, manoscritti, disegni foto, lettere, progetti, appunti e giochi dell’associazione, scoprendo tutte le sfumature d’un’ingegneria poetica che ha trasformato la letteratura in ars combinatoria in nome della più grande libertà artistica, imponendosi delle regole per esserne totalmente liberi, come ha ricordato paradossalmente Perec, considerandosi un prodotto dell’Oulipo al 97%. Si pensi al romanzo intitolato “La scomparsa”, un lunghissimo lipogramma scritto interamente senza mai usare la lettera “e”. Per non parlare del suo capolavoro “La vita, istruzioni per l’uso”, immensa scacchiera sulla quale l’autore si muove elaborando regole e vincoli in una lingua personalissima. Calvino s’unì al gruppo nel 1972, proponendo diversi testi, tra cui il “Piccolo sillabario illustrato” e “L’incendio della casa abominevole”: un gioco poliziesco che doveva confermare nei romanzi di quel periodo: “Le città invisibili”, “Il castello dei destini incrociati” e “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, d’una poetica apparentemente artificiale e meccanica costruttivista, d’una libertà e ricchezza infinite. Scrivere tutto un romanzo senza utilizzare una vocale e una poesia con versi d’una parola sola sembrerebbe follia, ma a percorrere la mostra che ne valorizza lo spirito, ci si domanda cosa sarebbe accaduto se l’Oulipo non fosse esistito o fosse subito scomparso come moda del momento, senza lasciare traccia, come accadde per i “Cadaveri squisiti” dei protosurrealisti. Problema che a ben vedere vale anche per tutte le forme d’avanguardia, da quelle storiche al nostro Gruppo ’63 che, mutatis mutandis, l’Oulipo ha preceduto d’almeno dieci anni, praticato da autori non meno “impertinenti”, anche se non altrettanto doverosamente ricordati, dati i sopravvenuti interessi economico-finanziari. Nel sottoscala dell’“Hôtel Pont Royal”, al bar dove si riunivano regolarmente, a due passi dai loro uffici di rue Sébastien Bottin, i redattori di Gallimard, compariva spesso anche Marcello Pagliero, il protagonista di


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“Roma città aperta”, che viveva a Parigi già da una decina d’anni alternando la regia di film interessanti, ma commercialmente sfortunati con piccoli ruoli d’attore caratterista; ma era prima di cena l’ora migliore del “Village”, era quella tra le otto e le nove, quando vi approdavano anche i giornalisti dell’“Express”, che era allora, con la sua coraggiosa opposizione alla guerra d’Algeria, il grande giornale della sinistra non comunista. Il “Village” aveva due sale, una in fila all’altra, ma era la prima, quella del bar, dove s’affollavano gli autori d’una letteratura priva di regole certe, affiancati da mannequin, play boy più o meno famosi e critici d’arte in via d’affermazione. A partire dall’immediato dopoguerra, anche in Francia s’era preso a bere whisky, sino agli anni Trenta rimasto confinato nei bar di Montparnasse come il “Petit Dôme”, la “Rotonde” e il “Select”, dove si riunivano gli americani della lost generation. E in quell’ora prima che la gente si disperdesse nei vari ristoranti della zona, soprattutto al “Lipp”, dove nel 1964 mi sarei incontrato con Butor, reduce dal premio Formentor, dove si battè senza successo per “La nausea media”. Ma il più economico di tutti era il “Beaux arts”, dai cui banchi scorreva il primo fiume di whisky della serata, mentre l’assenzio era rimasto un ricordo più che altro pittorico, riferito alle opere impressioniste degli anni passati. Ma era dopo cena, dalle undici sino alle due del mattino, che i bar vivevano i loro fasti; e nell’appendice nottuma dei due celebri caffè poco distanti, il “Flore” e il “Deux Magots”, soggiornavano Sartre e la Beauvoir con i loro studenti impegnati contro De Gaulle e perfino Malraux, nonostante i loro meriti partigiani e per via dell’individualismo estetizzante professato dall’autore de “La condizione umana”. Ma erano i posti giusti per discutere dell”ultimo libro e dei film, per ricapitolare gli spunti dell”ultima polemica, o soltanto per far tardi nel fumo delle sigarette e con il conforto di qualche whisky aggiuntivo, perché tutti i personaggi del quartiere vi capitavano, prima o poi fosse pure per pochi minuti, ogni sera, insieme a non pochi curiosi che avevano sentito parlare del locale e venivano a dare un’occhiata come Peter Townsend, per esempio, il colonnello divenuto famoso per il suo flirt con la principessa Margaret d’Inghilterra, la bella Jean Seberg e il principe Mario Ruspoli, di casa a Parigi. Flaiano comparve al “Village” nell’inverno del ’60, su invito d’un produttore cinematografico che voleva affidargli un paio di sceneggiature, una delle quali doveva esser tratta da “La Permission”, il breve romanzo di Anselme che stava riscuotendo in quei mesi un grande successo.


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Si trattava d’una storia riferita all’esperienza d’un coscritto sullo sfondo della guerra coloniale con qualche somiglianza con “Tempo di uccidere”, romanzo d’esordio e premio Strega del ’47 di Flaiano. Neppure trentenne, l’autore de “La permission” era rotondo sino all’obesità, rubizzo, allegro e in più era nottambulo come Flaiano. Sicchè s’intendevano bene, e per un paio di mesi - tanto durò la permanenza di Flaiano a Parigi - si videro spesso vagare per i caffè e i ristoranti di SaintGermain parlando di Joyce con Nino Franc e Germano Lombardi, lo scrittore poi nel Gruppo 63, autore tra l’altro di “Cercando Beatrix” e che proprio a quel tempo stava terminando “Barcelona”. Lombardi ci ha lasciato nel ’93; era uno straordinario affabulatore quando l’alcool gli aveva scaldato la fantasia. Allora cominciava a raccontare storie intricatissime e affascinanti: il meglio che si potesse ascoltare ad un banco di bar. Diverso da lui, benché fossero amici, era invece Giancarlo Marmori, allora corrispondente a Parigi dell’“Espresso” di Arrigo Benedetti. Viveva nel quartiere ormai da molti anni, ed era il solo italiano che avesse rapporti con i veri villageois, come venivano chiamati i personaggi che s’aggiravano nei caffè e nei bar di Saint-Germain: francesi o stranieri che fossero. Un altro italiano che capitava ogni tanto al “Village” era Saverio Tutino, corrispondente dell’“Unità”, delle cui affaires sentimentali non si riusciva a tenere il conto, e forse perciò andava in giro sempre affannato. Flaiano aveva già conosciuto Lombardi e Marmori in Italia. Il primo da “Cesaretto” in via della Croce, la celebre trattoria romana dirimpettaia alla redazione de “Il Caffè” di Giambattista Vicari, che ospitò le mie prime poesie. Marmori lo aveva invece conosciuto nella redazione del “Mondo” di Pannunzio, agli esordi di quel giornale, quando Flaiano ne era ancora il caporedattore. Un gruppetto di scrittori che si avvicendavano ai tavoli di “Canova” a piazza del Popolo, e del “Notegen”, il caffè nottumo di via del Babuino, finendovi le scorribande notturne. Nella Parigi del dopoguerra, come autostoppista inquieto e curioso di tutto, sfruttavo specialmente i biglietti per gli studenti distribuiti in rue Souflot, appagandomi agli spettacoli di Jonesco, e di Marceau, di Carnè e di Vitrac, attivo a la Comedie coi suoi Corneille e Racine; poi calati anche in Italia di lì a poco in un Teatro Valle, ancora lontano dall’essere rumosamente occupato per anni nel più diffuso mercimonio capitolino. Ho conosciuto Guido Almansi nei primi anni ’80 in un’imprevista serata in casa d’altri: per dirla con Silvio D’Arso. D’una distanza ul-


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traperiferica, anche perciò fu del tutto sorprendente avercelo trovato, campendovi da jolly agguerrito d’istanze ariostesche, non ancora resa pubblica la sua antologia erotica “La passion predominante” (Longanesi 1986). Vi firmò una prefazione caracollante, l’argomento occhieggiando quello già affrontato dalla mia “Poesia erotica italiana del ’900” (Newton Compton 1981): del resto citata con onestà e ringraziandomi, comprendendo evocazioni in carattere d’un Belli, Porta e Zavattini. Ora con una tiratura di sole 2.000 copie, per la redazione di Diana Rüesch, a cura di Karin Stefanski e la volontà degli eredi, allo scrittore ticinese viene dedicata una bio-bibliografia iconografica. Nato a Milano nel mio stesso millesimo, Guido Almansi ci ha lasciato, dopo aver soggiornato a Mendrisio dal 2001 e la Svizzera Italiana l’ha voluto commemorare attraverso 448 pagine fitte di notizie e stimoli alla lettura, comprendendo nel repertorio una paginetta della figlia Daniela, più che altro di ringraziamento per l’impresa, mentre ben più interessanti sono la decina di pagine a firma dello scrittore, affatto compreso però nella Garzantina letteraria. A doverosa riparazione per l’occasionale lettore, ricordo che oltre alla “Passion predominante”, Guido Almansi ha editato, abbracciando quasi sempre l’argomento dell’eros “L’estetica dell’osceno” (Einaudi 1994); “La ragione comica” (Feltrinelli 1986); “Enrico Baj: ovvero “Amleto il lunatico” (Ubu libri 1987); “Maramao” (Longanesi 1989) e “La nuova Alice” (Marsilio 1998). Tralasciando le sue numerose collaborazioni, comparve in spiritose vignette sull’Espresso sotto il titolo “Tutti da Fulvia sabato sera”. Ideò inoltre per Nicola Crocetti con Arpino la rivista “Il racconto” e lo rividi al primo Salone del libro di Torino nel maggio 1988 in occasione del mio “Morte per lucro” per la De Agostini, mentre lui organizzava una tavola rotonda sull’editing e la critica, divenuta industriale dopo che Baudelaire l’aveva inventata nel XIX secolo, come racconto d’un’esperienza estetica conoscitiva. Da molti anni sto cercando di sistemare i ricordi del mio passato, per arrivare alla loro tabula rasa. Almeno sistemando i più molesti e nocivi dai quali bisogna pure che mi difenda con le unghie e coi denti: sono quelli dei primi anni d’una vita ancora oggi pari a un funebre fardello. “Com’è stata la tua infanzia?” chiedono a Clint Eastwood nel film “Fuga da Alcatraz”. “Breve.”, è la laconica risposta. Quella mia fu invece molto lunga e condotta in un ambiente evirato d’ogni vezzeggiamento, pieno di rancori, invidiandovi coloro che sembravano avervi invece


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una solidità perlomeno di vernice, mostrandovisi felici, con genitori non indifferenti né ostili. Nutrito d’una screanzata infelicità, fui un bambino che crebbe pieno di odio giustificato e di rancore di buona lega...”, talmente corrosivo che quello d’un Marcel Proust m’apparve un monumento grottesco dedito al culto dei ricordi compiacenti. La memoria m’è sempre servita per ricordare nelle poesie dei fatti importanti, avvenuti nei miei primi anni, quando scoprii che una serie di parole ritmate su un battito regolare e avvinte insieme dalla morsura della rima potevano suscitare un senso di sgomento di grande fascino al mio povero stato di cose. Se prendevo le parole una per una, non succedeva ancora niente, ma se le infilavo nell’ago d’un settenario o d’un endecasillabo, ecco che tutto cominciava a frizzare e a emettere scintille. Mi piaceva la parola che rischiava di cambiare significato nel gioco trasversale del linguaggio ed era ancora meglio quando tutta l’operazione avveniva all’interno della stessa lingua utilizzata, dove la parola cambiava di senso, perché accostata in rima con un’altra che vi si faceva invadente. Anche Dante conosce questi trucchi. Basta pensare al modo in cui la parola “cherci”, chierici, viene sconciata dall’atroce accostamento prima con “guerci” e poi con “lerci” (Inferno, canto VII) e con maggiore violenza nel canto XV sempre nella prima Cantica, quando la morsa della rima quasi la turba la parola, creando una connessione inscindibile con l’accostamento fonico potente e subito persuasivo”, illuminando le righe seguenti. S’è fatta asfittica la scrittura in Italia e quanto peggiore è lo scrittore, tanto più grande è il suo orgoglio, stipato dai consigli più traversi, perché spesso l’editing da noi significa tagliare cento pagine da un libro per abbassare i costi e fare un romanzo di trecento, invece che di quattrocento pagine per poterlo vendere a venticinque invece che a trentacinque euro. È sempre utile far leggere i propri libri alla moglie, per quanto scipita e al nemico e all’amico di turno per controllarne la preventiva reazione. Per isolamento, mancanza d’amici e d’una moglie sufficientemente adeguata, nessuno l’ha mai letto un mio testo prima d’essere stato edito, nessun editore avendomelo mai limato. Forse non mi sarei opposto, l’intervento fosse stato giustificato, fatto sta che non è mai successo, anche per dei tempi culturali al mio esordio del tutto diversi. Sarà stato un bene o un male? Non ho mai avuto lettori sufficienti per chiedermelo. né editori accoglienti per sperimentarlo. Anche per questo il coevo Asor Rosa, mi s’è fatto come un allattamento non goduto nella querelle seguita alla ristampa del suo “Scrittori e


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massa”, dalla mia prima infanzia, la prima volta ch’ebbi modo di sfogliare un volume, l’intesi come un testo di sorprendente chiarezza, e non riesco a ricordare una pagina a stampa che mi restasse muta: ma sfido, come a scuola vi leggevo ciò che più mi pareva. Le insegnanti, naturalmente, avevano buon gioco nel bocciarmi, ma io non lo sapevo mica d’essere un ribelle a quel tempo, e semmai sembravo una vittima sacrificale del tutto incosciente, non capovolgendo soltanto l’italiano, ma anche tutte le altre materie. Avevo un sistema speciale, ad esempio, per imparare la geografia, che ancora oggi mi pare insuperabile, e inerpicato su di una sedia con un foglio di carta e una matita, di lassù copiavo prima il disegno del tappeto sottostante, poi il giustapporvisi dell’arredo, quindi la pianta dell’intero appartamento, finché, pericolosamente sporto dalla finestra, riproducevo il tratto di strada fin dove potevo arrivare, mentre a scuola continuavano a ingiungermi fiumi e confini, monarchi e capitali, minacciandorni paurose sanzioni, non li avessi azzeccati. Ma questi particolari io li avrei concepiti solo una volta che avessi potuto visitarli davvero, perché avevo parecchi modi anche per leggere, a seconda dello stato d’animo del momento, e la malinconia che mi spingeva a una lettura simile dipendeva da una carica interna che mi si manifestava subito, ad apertura di pagina, solo in occasioni rarissime potendomi permettere di capire ciò che stavo leggendo, mentre di regola i vocaboli mi s’infiocchettavano in una lingua impossibile, che invece per me era l’unica conosciuta e la sola autentica, quella degli altri sembrandomi una sordida imposizione, come fosse una lingua già morta, per il solo fatto che mi veniva imposta. Solo la mia procedeva spedita, e talvolta mi ci soffermavo inorridito su questa maniera di barare e in definitiva di non capirci più niente, e allora mi costringevo al grandissimo sforzo di ricondurmi sul rigo. Ma era inutile, e restavo sempre stremato, giacché la vita è di chi righe a stampa e pensieri li sappia leggere di prim’acchito esattamente come sono ritenuti giusti, sapendone individuare anche le conseguenze e i relativi misfatti. Io invece, sempre scomodo a me stesso, diventavo scomodo anche per gli altri, e quelli per forza si discostavano, seminandomi puntualmente beffardi. A scuola ero un disastro, ed ero sempre l’ultimo a capire il perché di qualcosa. Frequentavo proprio un altro binario, e gli insegnanti, presi dal ruolo, vi si adiravano, impartendomi delle sberle da capogiro. Non si rendevano conto del perché qualsiasi testo io lo dovessi sempre rifare a modo mio. Non che avvertissi di averne il diritto, intendiamoci, la


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mia era ancora una dolorosissima colpa, frase per frase, che mi cuoceva, non raccapezzandomi che gli altri potessero invece capire già tutto così difilato. Eravamo nella stessa classe, ma solo loro trionfavano leggendo a perdifiato e per filo e per segno proprio in quel modo in cui stava scritto, io invece non ci capivo mai niente nonostante passassi sui libri pomeriggi interminabili: la convinzione d’essere un escluso l’ho avuta pungente fino da allora: mi piace pensare in quanto privato d’un latte e conseguente affetto materno. E questo valeva anche al di fuori della classe e aldilà della stessa scuola frequentata, se anche nei giochi partecipavo con uno sconveniente tremore, restandone stremato. M’intercettavano subito se allungavo loro il pallone, ma non appena nel chiuso d’un’aula veniva chiamato il mio nome, mi sentivo sopraffatto dalla domanda inquietante: «e adesso cosa rispondo?››. Sotto c’era sempre dell’altro, ed io vi precipitavo angosciato, provando solo un facoltoso movimento di porte aperte, dietro altre porte spalancate, e la foga di una simile corsa a vuoto non mi portava mai alla speranza d’un incontro: ma vivere secondo un esatto tracciato altrui avrebbe mortificato il mio, per quanto così indefinito. Con vasti occhi interrogativi restavo tra la gente sempre sul bordo, mentre dall’altra parte avevano già ritirato l’ormeggio. Io tentavo di propiziarmeli con attuzzi disossati, ma il collegamento era sempre friabile e febbrile. Allora ho cominciato a farla proprio fuori la gente dal mio campo visivo, con una sempre più avventurosa disinvoltura. Non ce la facevo proprio più entrare, e colpito da miopia progressiva, scomparivano tutti, facendosi assai meno pericolosi. Appeso a queste grandi distanze, ero convinto che taluni dovessero essere vittoriosi, mentre gli altri non avrebbero potuto crescere mai, e ammirando chi dietro a una sola parola ne infilava già più di tre e fino a dieci, tutte adatte, per quanto non vere, a incantare l’ascoltatore, ero certo che grande io non ci sarei mai diventato. Leggere solo ciò che sta scritto non mostra che ciò ch’è già noto, è dunque assolutamente inutile, mentre a stuzzicarle, le parole mi s’inalberavano e prendevano ad agitarsi repentine, con accenti ogni volta comici e rinforzati. Neppure le scorgevo, che già abbandonavano ogni loro vecchio significato, scrollandosi di dosso ogni carico fattosi troppo pesante. Era come se, per il semplice fatto che le avessi lette io, acquístassero il diritto a ritornare giovani in un loro vocabolario ristampato: e quanti piccoli conflitti bisognava che risolvessi ogni volta allora data la loro rigidità litigiosa.


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