Prefazione
Non è un caso che l’italiano regionale, la «lingua letteraria provincialesca che ogni provincia ha», come scrive Francesco D’Ovidio nel celebre saggio sulla lingua del Promessi sposi (1878), cominci a destare interesse solo dopo l’unità d’Italia. Non si trattava certo di qualcosa di nuovo: già in passato, che l’italiano nelle diverse aree del paese fosse influenzato dai dialetti locali lo si sapeva, ma non ci se ne preoccupava troppo. Anche perché la parlata regionale la si considerava qualcosa d’approssimativo e d’ibrido e dunque da disprezzare, come fa Giuseppe Baretti nella lettera Della corrotta lingua che si parla ne’ varj Stati d’Italia, dove ne tratta come di una “linguacciaccia” arbitraria, «impura e difforme e bislacca, sì nelle voci, sì nelle frasi, sì nella pronuncia». A Milano, lo testimonia Manzoni, un tempo la si era chiamata “parlar finito”: «voleva dire adoprar tutti i vocaboli italiani che si sapevano […] e al resto supplire come si poteva, e per lo più, s’intende, con vocaboli milanesi, cercando però di schivar quelli che anche ai milanesi sarebbero parsi troppo milanesi, e gli avrebbero fatti ridere; e dare al tutto insieme le desinenze della lingua italiana». Francesco Torti nel Dante rivendicato (1825) la definisce «un abbozzo di lingua, un gergo provinciale». E la stessa specificazione di “provincialesca” usata da D’Ovidio non è di certo positiva. Con l’unificazione del paese, invece, le varietà regionali iniziano ad apparire nella loro piena sostanza agli occhi di tutti e non tutti le giudicano negativamente. I giornali, specie quelli provinciali, e anche non pochi scrittori, le vanno riecheggiando in modo più o meno largo e consapevole. Matilde Serao etichetta la lingua locale come “borghese”, a mezza strada fra quella letteraria e quella dialettale: una lingua «scritta dai giornali che ripulisce il dialetto sperdendone la vivacità e tenta imitare la lingua aulica senza ottenerne la limpidezza»: una lingua che con disinvolta finezza non esita a far sua. E in breve, sostituitasi al dialetto anche fra le mura domestiche, la si comincia a usare sempre più spigliatamente, secondo quanto dice De Amicis nell’Idioma gentile (1905)