A chi serve l'alternanza scuola-lavoro?

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Fronte della Gioventù Comunista - Commissione Scuola -

COS’È L’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO E COSA CAMBIA CON LA “BUONA SCUOLA”? L’alternanza scuola-lavoro, introdotta in Italia nel 2005 con il decreto legislativo 77/05, sta entrando a pieno regime con l’attuazione della “Buona Scuola”, la riforma voluta dal Governo Renzi ed entrata in vigore nel luglio 2015 con la legge n°107. La riforma ha assecondato una serie di direttive e raccomandazioni UE che chiedevano l’applicazione di questo modello anche in Italia.

Alternanza, stage, apprendistato… di cosa si tratta? L’alternanza scuola-lavoro, per definizione, si articola in periodi di lezione in aula e periodi di lavoro in azienda. Il tirocinio curriculare (o stage curriculare: i due termini sono sinonimi) non è altro che il periodo di apprendimento che lo studente trascorre sul luogo di lavoro. In altre parole il tirocinio non è altro che la parte “pratica” dell’alternanza scuola-lavoro. L’alternanza si differenzia dall’apprendistato, che è un vero e proprio contratto di lavoro caratterizzato dall’accettazione da parte del lavoratore di minori diritti e di un salario inferiore in cambio dell’apprendimento di una serie di competenze professionali. Al contrario, il giovane che svolge l’alternanza scuola-lavoro rimane giuridicamente uno studente, poiché in questo caso l’inserimento in azienda non costituisce – dal punto di vista giuridico – un rapporto lavorativo. Il decreto 77/05 prevedeva la possibilità, per gli studenti di 15 anni, di assolvere l’obbligo scolastico con un contratto di apprendistato; il Jobs Act ha spinto ulteriormente in questa direzione con l’introduzione della possibilità di conseguire il diploma o una qualifica professionale (che in Italia sono qualifiche regionali che si possono conseguire al terzo anno di istruzione professionale) tramite l’apprendistato sperimentale. L’alternanza scuola-lavoro, invece, interessa la maggioranza degli studenti che sceglie di NON sostituire la propria formazione didattica con un contratto di apprendistato.

Cosa cambia con la nuova riforma della scuola? Prima della riforma, la progettazione dei percorsi di alternanza avveniva sulla base di una richiesta da parte degli studenti. Con la Buona Scuola (art 1, commi 33-43) questo principio viene ribaltato e viene fissato un monte ore minimo obbligatorio. Gli studenti degli istituti tecnici e professionali dovranno svolgere almeno 400 ore di lavoro complessive negli ultimi tre anni di scuola, durata che scende a 200 ore per i licei. L’alternanza potrà svolgersi anche in orario extrascolastico o durante la sospensione delle attività didattiche (esempio: in estate). A partire dal 2016 vengono stanziati 100 milioni annui per l’attivazione dei progetti di alternanza, che sono inseriti nei nuovi Piani Triennali previsti dalla riforma, ed entrano a far parte del curriculum di ogni studente. Gli studenti in alternanza sono affiancati, come già previsto dalla normativa del 2005, da un tutor interno scelto fra i docenti della scuola, e un tutor esterno, selezionato dall’azienda ospitante. A stipulare le convenzioni con le imprese è il Dirigente Scolastico (comma 40), che dovrà anche redigere una scheda di valutazione sulle strutture con cui sono state stipulate convenzioni, e sceglierà fra le imprese o le strutture iscritte ad un registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro, istituito proprio con la riforma.

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COMBATTERE LA DISOCCUPAZIONE O ASSERVIRE LE SCUOLE ALLE IMPRESE? L’idea propagandata dal Governo su tutti i canali di informazione è che l’alternanza scuola-lavoro serve a inserire i giovani nel mondo del lavoro, combattendo la disoccupazione. Già il decreto del 2005 parlava apertamente di “acquisizione di competenze spendibili anche nel mondo del lavoro”. La questione di porre un freno alla disoccupazione è certamente essenziale: oggi in Italia il 46% dei giovani non trova lavoro, e i Neet (not in education, employment or training), cioè i giovani che non studiano e non lavorano, sono il 26,09%. Si tratta però di capire in che direzione va realmente la riforma di Renzi.

La disoccupazione è colpa della scuola? Nel progetto della “buona scuola” di Renzi, presentato prima della stesura del disegno di legge, si affermava espressamente che la disoccupazione giovanile deriverebbe da un “disallineamento tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede alla scuola di sviluppare, e ciò che la nostra scuola effettivamente offre”. In altre parole, il lavoro c’è, ma è la scuola che non è in grado di formare gli studenti. La realtà però è ben lontana da queste affermazioni: tutte le statistiche rilevano il buon ruolo della scuola italiana nel dare competenze necessarie per il mondo del lavoro. Basti pensare alle migliaia di giovani italiani che ogni anno emigrano verso altri paesi e trovano lavoro anche in settori di eccellenza, come accade per gran parte dei ricercatori. Al contrario di quello che afferma il Governo, a mancare è proprio il lavoro, specialmente per le nuove generazioni.

Perché c’è la disoccupazione giovanile? Le vere cause della massiccia disoccupazione alla quale assistiamo in Italia sono da ricercare altrove. Ogni anno migliaia di imprese delocalizzano la produzione all’estero, in paesi a minor costo del lavoro (cioè con meno diritti rispetto all’Italia) e con minor carico fiscale, mentre lo Stato resta a guardare. Fra il 2001 e il 2011 le delocalizzazioni sono aumentate del 65%, con oltre un milione e mezzo di posti di lavoro persi dall’Italia. Dei circa 195mila dipendenti FIAT nel mondo, ben 135mila sono all’estero, e questo vale per migliaia di altre imprese. Le grandi aziende di telecomunicazione hanno delocalizzato i loro call center in Albania, Tunisia, Romania, India ecc. Di fronte a tutto questo lo Stato non dice nulla, anche perché i trattati europei sulla libera circolazione di merci, capitali e servizi lo impediscono. Il risultato: i posti di lavoro diminuiscono, aumentano i profitti per i padroni. Del quinto paese industriale del mondo resta un cumulo di macerie. I tagli alla spesa pubblica imposti da UE, BCE e FMI, inoltre, riducono il numero di giovani assunti in tutti i settori pubblici. Nel frattempo, l’improvviso aumento dell’età pensionabile è un ulteriore freno all’assunzione di giovani lavoratori. Con molta ipocrisia i governi parlano di aumento dell’età pensionabile come provvedimento per i giovani, ma anche un bambino sarebbe capace di comprendere il paradosso di questo ragionamento: meno persone che escono dal mondo del lavoro sono meno posti nuovi che si creano. In poco meno di quindici anni l’età pensionabile è aumentata di circa 10 anni, e chiaramente si riduce il numero dei nuovi assunti. Ma di tutto questo il governo non ne parla.

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In cosa si traduce realmente l’alternanza? Attribuendo artificialmente alla scuola la responsabilità della disoccupazione, si procede sostanzialmente con la modifica della didattica, e in particolare della formazione professionale, in modo che risulti il più conveniente possibile alle grandi imprese. Il governo parla di “formazione congiunta” tra la classe e il luogo di lavoro, tra la scuola e l’impresa: a parole è un quadro bellissimo, che nella realtà si traduce nel trasformare le scuole pubbliche in corsi di formazione professionale delle grandi imprese. Nella guida operativa diffusa dal MIUR per l’attuazione dell’alternanza scuola-lavoro si parla di una scuola che partecipi allo “sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio”, o che faccia fronte a quello che viene definito il “fabbisogno formativo del territorio”, espressione che potrebbe essere letta come sinonimo di “necessità delle imprese private presenti sul territorio”. Questo sistema ha bisogno di scuole che fabbrichino i futuri operai, tecnici e quadri per il suo mantenimento, e in questo processo elimina tutto ciò che è “superfluo” per il conseguimento del profitto. L’alternanza scuola-lavoro va letta alla luce dell’altro grande pilastro della riforma di Renzi: i finanziamenti privati alle scuole, che dovranno sostituire quelli statali, nel solco del progressivo disimpegno dello Stato dalla gestione delle scuole pubbliche portato avanti negli ultimi decenni indistintamente da governi di centro-destra e centro-sinistra. Nella “buona scuola” delineata dalla riforma, il Preside ha il compito di reperire i finanziamenti necessari al finanziamento della scuola da parte di imprese privati, che potranno godere di notevoli sgravi fiscali. Se si pensa che al Preside spetta anche la stipulazione delle convenzioni con le imprese per i progetti di alternanza, è chiaro come le due cose siano assolutamente collegate: la Buona Scuola di Renzi è una scuola sulla quale le industrie e le imprese private investono fornendo ingenti finanziamenti, in cambio di una didattica completamente asservita ai loro interessi. Questo è ciò che avverrà in tutta Italia con l’entrata a pieno regime dei progetti di alternanza (per cui bisognerà aspettare almeno tre anni), e che ha avuto un importante precedente.

I casi ENEL e Schneider Electric L’ENEL è la più grande impresa di energia elettrica del paese. Un grande monopolio di natura statale, poi privatizzato mantenendo una grande fetta del mercato nazionale e società controllate in molte parti del mondo. Nel settembre 2014 in sette istituti tecnici italiani è partito un progetto dell’ENEL che ha coinvolto 145 studenti e che prevede 800 ore di lavoro in azienda, di cui 280 in laboratorio, e altre 800 ore di scuola. L’ENEL si è impegnata ad assumere gli studenti al termine del percorso di studio. Tutto ciò avveniva un anno prima dell’entrata in vigore della riforma del Governo Renzi, ed è ora destinato a replicarsi in tutte le scuole del paese, coinvolgendo tutti gli studenti del terzo anno di scuola superiore (per gli studenti che nell’anno scolastico 2015/2016 frequentano il quarto e il quinto anno, resteranno i progetti già avviati dalla scuola secondo la vecchia normativa). Proprio nel settembre 2015 abbiamo assistito ad una replica di questo modello messa in atto da Schneider Electric, gruppo industriale francese di dimensione internazionale che ha avviato un progetto pilota coinvolgendo alcuni studenti di un ITIS di Bergamo, provenienti da cinque indirizzi di studio differenti.

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Ma questo non va a vantaggio degli studenti? La formazione professionale svolta come manodopera all’interno di una singola azienda fa sì che il livello dell’istruzione fornita al singolo studente venga ridotto e legato alle esigenze immediate dell’azienda. Il guadagno dell’impresa è totale: si evita di dover successivamente creare corsi di formazione interni in quanto la scuola diventa il proprio corso di formazione aziendale e la programmazione è soggetta alle necessità dell’azienda. Per le grandi imprese è una soluzione estremamente vantaggiosa perché consente di eliminare i costi di formazione, avere un largo bacino d’utenza direttamente dalle scuole tale da poter liberamente licenziare lavoratori senza avere problemi. Per lo studente siamo sicuri che sia vantaggiosa come soluzione? Assolutamente no, anzi: in un mercato del lavoro instabile e precario come quello richiesto oggi, le conoscenze specifiche, settoriali, addirittura legate ad una singola azienda non sono in grado di assicurare un futuro stabile. Questo condiziona il futuro lavoratore legato sempre maggiormente all’azienda di cui entra a far parte fin dalla scuola. I suoi diritti, i suoi livelli retributivi ne escono condizionati in senso peggiorativo. Inoltre, i tirocini attivati dalle scuole in questi anni hanno già dimostrato di tradursi, specie se realizzati nei mesi estivi, nello sfruttamento selvaggio di manodopera pressoché gratuita o a bassissimo costo, senza nessun valore formativo. È il caso di migliaia di studenti degli istituti alberghieri che d’estate vengono convertiti in stagisti nel settore del turismo e della ristorazione, con orari di lavoro estenuanti e retribuzioni misere, senza nessun tipo di diritto. Uno strumento doppiamente vantaggioso per le aziende che sfruttano il lavoro giovanile a basso costo contro i lavoratori per abbassare i salari, doppiamente sconveniente per i lavoratori di oggi e di domani. È questa la buona scuola?

I Poli tecnico professionali e la spartizione delle scuole fra le imprese Quello che si delinea all’orizzonte è l’inizio di una vera e propria spartizione delle scuole pubbliche fra le imprese private. Questo processo viene ormai addirittura incoraggiato dal Governo, favorendo la costituzione dei cosiddetti Poli tecnico professionali (previsti da un Decreto Interministeriale del 2013), programmata a livello regionale. Il collegamento fra scuola e mondo del lavoro, stando a quanto si afferma nella guida diffusa dal Miur, “trova il naturale sviluppo nell’ambito dei Poli tecnico professionali, che connettono funzionalmente i soggetti della filiera formativa (le scuole) con le imprese della filiera produttiva”. Questi Poli vengono definiti anche come una “modalità organizzativa di condivisione delle risorse pubbliche e private disponibili a livello locale”, e sono formati da almeno due istituti tecnici/professionali, due imprese, un Istituto Tecnico Superiore e un ente di formazione professionale. Diversi Poli tecnico professionali già esistenti includono al loro interno le federazioni locali di Confindustria. Laddove non si formino i Poli, è compito delle scuole stipulare in autonomia i “necessari accordi per costruire partenariati stabili ed efficaci”. Un enorme passo in avanti verso l’asservimento delle scuole alle imprese, con la creazione di veri e propri sotto-settori legati a ciascuna azienda da cui la scuola sarà completamente dipendente: ci saranno scuole targate FIAT, quelle ENI, quelle Marcegaglia, Coca Cola e così via. È in questo processo più che in ogni altro, per quanto sia ancora tutto in divenire, che emerge il vero volto di una riforma varata dal Governo Renzi, ma imposta dai grandi monopoli industriali italiani ed europei.

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I primi flop dell’alternanza nei licei L’implementazione dell’alternanza nei licei resta ad ora un qualcosa di marginale, e ciò è testimoniato anche dalla ripartizione dei 19 milioni del Fondo per il funzionamento delle istituzioni scolastiche stabilita dal Decreto Ministeriale 435/2015: solo 1,9 milioni vanno ai licei, contro ben 17 milioni destinati complessivamente agli istituti tecnici e professionali. Se anni e anni di sfruttamento selvaggio degli stagisti sono serviti a “collaudare” i progetti di alternanza che entreranno a regime negli istituti tecnici e professionali, migliaia di studenti liceali si trovano attualmente dinanzi al netto rifiuto di musei, gallerie d’arte, biblioteche e istituti privati di vario tipo, che si trovano del tutto impreparati ad accogliere gli stagisti, né sembrano ricavarne particolari vantaggi che incentivino la disponibilità a questo tipo di progetti. Nell’attuale flop dell’alternanza scuola-lavoro nei licei si vede la reale funzione di questo progetto, che non a caso riesce ad ingranare soltanto laddove si rivela nell’immediato conveniente per le aziende.

“BUONA SCUOLA” PER CHI? ORGANIZZIAMO IL CONTRATTACCO L’alternanza scuola-lavoro, è ormai evidente, non ha nulla a che vedere con la lotta alla disoccupazione e con gli interessi degli studenti, ma serve a modellare una scuola fatta su misura per le imprese, che elargiranno finanziamenti in cambio di manodopera a basso costo, del tutto dequalificata e pronta ad assimilare unicamente le nozioni richieste dalla mansione che l’azienda avrà intenzione di assegnare. Una scuola di precarietà, che serve a formare i lavoratori sostanzialmente dequalificati (una formazione che andrebbe definita parcellizzata, piuttosto che specializzata) e privi di ogni diritto, adatti al mondo del lavoro costruito dal Jobs Act. Alquanto significativa è l’assoluta assenza di un minimo cenno al tema dei diritti, specie tenendo in considerazione che gli studenti in alternanza, per quanto restino studenti dal punto di vista giuridico, stanno a tutti gli effetti fornendo una prestazione lavorativa. La Carta dei diritti e doveri degli studenti in alternanza scuola-lavoro, prevista all’art 1, comma 37 della legge 107 (Buona Scuola) non è ancora stata emanata; tuttavia ovunque se ne parli si fa riferimento unicamente alla “possibilità per lo studente di esprimere una valutazione sull’efficacia e sulla coerenza dei percorsi stessi con il proprio indirizzo di studio”. Neppure al successivo comma 38, in cui si parla delle attività di formazione in materia di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, si fa alcun riferimento ai diritti degli studenti sui luoghi di lavoro e alla necessità che gli studenti siano consapevoli di questi diritti, né tantomeno se ne fa cenno nella guida operativa diffusa dal Ministero. Proprio considerando il tema dei diritti sul lavoro come elemento centrale è possibile individuare una serie di rivendicazioni immediate per organizzare una battaglia politica contro il modello di alternanza scuola-lavoro voluto da Renzi e dalla Confindustria, specie all’interno degli istituti tecnici e professionali, tendenzialmente meno coinvolti nelle mobilitazioni di questi anni che al contrario hanno visto in prima linea unicamente gli studenti dei licei.

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Le rivendicazioni della gioventù comunista sull’alternanza scuola-lavoro: SALARIO MINIMO ORARIO GARANTITO: Lo studente in alternanza vede aumentare le ore destinate al lavoro in azienda e la propria mansione adeguata alle necessità aziendali: si tratta a tutti gli effetti di un lavoratore produttivo. A ogni ora di utilizzo della forza lavoro dello studente va corrisposto un giusto salario che, considerato il carattere formativo dell’alternanza, può essere individuato nella misura del 60% del salario di categoria previsto dai contratti collettivi. Tale percentuale deve essere portata al 70% nel caso in cui lo stage avvenga in periodo extrascolastico e in particolare nel periodo estivo, per contrastare l’utilizzo sistematico e strutturale di stagisti nel settore turistico e alberghiero come personale sottopagato. ORARIO DELLA GIORNATA LAVORATIVA: Considerando la funzione formativa dell’alternanza scuola-lavoro, e la necessità per lo studente di proseguire gli studi, è ragionevole individuare limiti all’orario giornaliero e settimanale inferiori a quelli previsti normalmente per un lavoratore. Questi limiti sono individuabili nella misura di 4 ore giornaliere e 20 settimanali, innalzabili a 6 ore giornaliere e 30 ore settimanali nel caso in cui l’alternanza avvenga in periodo extrascolastico e in particolare nel periodo estivo. COMMISSIONI PARITETICHE PER LA VALUTAZIONE DEI PROGETTI DI ALTERNANZA: Con la riforma di Renzi tutto è lasciato nelle mani dei Dirigenti Scolastici, che stipulano le convenzioni con le imprese e hanno la facoltà di esprimere valutazioni in merito alla qualità del progetto realizzato. Al contrario a questa scelta devono poter partecipare anche gli studenti e gli insegnanti, per valutare l’effettivo valore formativo del progetto e della mansione assegnata agli studenti, bilanciare lo strapotere dei Dirigenti Scolastici ed evitare che gli accordi con le imprese siano stipulati in maniera arbitraria, senza alcuna forma di controllo collettivo. FORMAZIONE IN MERITO AI DIRITTI SUL LAVORO: finora si parla di corsi di formazione in materia di salute e sicurezza, senza nessun accenno ai diritti degli studenti sul luogo di lavoro. Al contrario, insegnare agli studenti ad essere consapevoli dei propri diritti rientra nelle funzioni educative della scuola, ed è la base per garantire un carattere realmente formativo ai progetti di alternanza. AUMENTARE I FINANZIAMENTI STATALI ALLE SCUOLE, per due fondamentali ragioni. In primo luogo, i 100 milioni stanziati annualmente sono assolutamente insufficienti per l’attuazione dei programmi di alternanza e la realizzazione dei corsi di formazione su salute, sicurezza e diritti. In secondo luogo, finanziare realmente le scuole con fondi statali è l’unica misura per impedire che le scuole siano dipendenti dai finanziamenti privati, e dunque disposte ad asservire la propria didattica alle richieste delle imprese.

per info:

www.gioventucomunista.it scuola@gioventucomunista.it

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