FGC - Il futuro della gioventù è fuori dall'UE

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ilfuturo della gioventù è

FUORI DALL’UE SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE CRITICA SULL’UNIONE EUROPEA E LE PROPOSTE DEI COMUNISTI


perchè questo opuscolo? La gioventù oggi è il principale bersaglio della propaganda europeista. Una campagna martellante che ha l’obiettivo di costruire nell’immaginario collettivo l’idea di una “generazione europea”, cosmopolita e progressista, da contrapporre ai “vecchi” che si oppongono al progetto della UE. Si giustifica l’attacco ai nostri diritti e al nostro futuro inculcando l’idea di una generazione “dinamica”, cioè felice di essere precaria e di passare da un lavoro all’altro. I numeri di questa propaganda parlano da sé. La UE ha elargito 15 miliardi per progetti come l’Erasmus nel periodo 2014-2020. L’Italia, che spendeva solo 510 milioni per il diritto allo studio per oltre 2 milioni di studenti nel 2017, ha speso per il solo progetto Erasmus, che riguarda il 2% degli studenti (circa 40mila, in maggioranza da famiglie benestanti), ben 131 milioni, praticamente un quarto di tutta la spesa per il diritto allo studio. Si nasconde sistematicamente l’impatto delle politiche della UE sulla nostra vita e sul nostro futuro; si annuncia continuamente l’arrivo di una “ripresa” che nella realtà esiste solo per le banche e le grandi imprese, ma mai per le classi popolari. Nelle dichiarazioni di politici, giornalisti, economisti i risultati catastrofici piuttosto evidenti delle politiche europee vengono al massimo definiti dei “difetti” da perfezionare, ma si presenta sempre il rafforzamento dell’UE e una maggiore integrazione sul piano continentale come l’unica via possibile. A livello mediatico, come unica alternativa a questo europeismo esasperato viene meccanicamente contrapposta la retorica delle forze “sovraniste”, che lungi dall’essere “antisistema” governano ormai in diversi paesi, Italia inclusa. Fino a qualche anno fa queste forze promuovevano l’idea del ritorno allo Stato nazionale, ma negli ultimi anni si sono tramutati in alfieri di una “rivincita” dell’Italia nella UE, in linea con le ambizioni di alcuni settori delle grandi imprese. In questo opuscolo troverai argomentazioni e spunti per un giudizio critico sull’Unione Europea, a partire dall’analisi concreta della realtà e delle politiche della UE in materia di lavoro, istruzione, immigrazione, guerra, economia e sui loro effetti sociali. Nelle ultime pagine vengono illustrate la proposta politica dei comunisti e le ragioni che la rendono irriducibile tanto al “sovranismo” della destra, tanto a quella delle forze filo-UE. Buona lettura!

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Lavoro, precarietà e disoccupazione al tempo della UE

UNA GENERAZIONE SENZA FUTURO Il sogno dorato che la propaganda europeista cerca di costruire si infrange dinanzi alla realtà in cui vive la nostra generazione. Nell’Unione Europea il 15% dei giovani è disoccupato. In Italia la disoccupazione giovanile è al 32,8%: un giovane su tre non trova lavoro (dati Eurostat 2019). Questo dato, che è oggi il secondo più alto in UE dopo la Grecia (39,9%), qualche anno fa raggiunse il 40%, mentre in Europa arrivava al 24%. L’Italia è al primo posto per il numero dei “Neet”, con il 24,1% di giovani inattivi che non studiano e hanno rinunciato a cercare un lavoro, a fronte del 13,4% in Europa. Il dramma della disoccupazione non riguarda solo i giovani. L’Italia è il terzo paese per disoccupazione nella UE con un tasso del 10,7%, dopo Grecia (18%) e Spagna (13,9%). Nell’Unione Percentuale di NEET nella fascia di età 15-24 Europea la meno del 7% disoccupa tra il 7% e il 10% zione generatra il 10% e il 14% le ammonta al tra il 14% e il 17% 6,5%, dato che più del 17% sale al 7,8% nei paesi che hanno adottato l’euro. Specialmente nel sud della UE cresce il dato sulla povertà assoluta. In Italia ci sono più di 5 milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà. Questo massacro sociale è anche e soprattutto la conseguenza diretta degli stessi principi fondanti della UE, oltre che del-

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UNA GENERAZIONE SENZA FUTURO le politiche promosse nell’interesse dei grandi monopoli bancari e industriali. La libera circolazione delle merci, cioè la creazione di una grande area di libero scambio, per sua natura aumenta la competizione fra le imprese di tutti i paesi europei, messe in diretta concorrenza fra loro, senza dazi e barriere doganali. La moneta unica, che impedisce di sostenere le esportazioni svalutando la moneta nazionale, accentua questa competizione. Conseguenza diretta del mercato comune è una sempre maggiore concentrazione della ricchezza: le piccole e medie imprese non possono reggere la concorrenza con il grande capitale e per questo falliscono o vengono inglobate. Il prezzo di questa competizione viene scaricato sulle spalle dei lavoratori e delle classi popolari con il grimaldello della “competitività”, invocata a gran voce dalle imprese e dalla stessa UE. In Italia i padroni hanno puntato sulla riduzione del costo del lavoro per aumentare i propri profitti, pretendendo cioè di avere lavoratori sempre più dequalificati, flessibili e ricattabili. Questo quadro è fortemente inasprito da un altro dei “pilastri” della UE, cioè la libera circolazione dei capitali, che permette a grandi imprese e multinazionali di trasferirsi da un paese all’altro in base alla convenienza. La logica della “competitività” investe gli stessi Stati, che promuovono misure che con la logica di “attirare” gli investimenti dall’estero attaccano i diritti dei lavoratori, aumentano la precarietà e lo sfruttamento, o riducono la tassazione per le imprese. Fu richiesta dalla UE la riforma del lavoro votata dal governo Renzi, il Jobs Act, che in linea con le precedenti riforme ha incremen-

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UNA GENERAZIONE SENZA FUTURO tato enormemente la libertà di licenziare e ridotto i diritti sul lavoro. Misure analoghe sono state adottate in altri paesi (si pensi alla Loi Travail in Francia). In una UE fortemente disomogenea sul piano economico e sociale, la libera circolazione dei capitali ha significato per i padroni la “libertà” di delocalizzare la produzione in quei paesi dove il costo del lavoro è minore, cioè dove ci sono meno diritti e i salari sono più bassi. Per migliaia di lavoratori in Italia, questa “libertà” si è tradotta nel ricatto: “o accettate di lavorare alle stesse condizioni della Romania, oppure l’azienda chiude e si trasferisce lì”. Infine, forse su nulla si è fatto più propaganda come per la tanto decantata libertà di circolazione delle persone. Eppure la verità è che dietro la possibilità di viaggiare senza passaporto verso altri paesi europei, che certo tutti apprezziamo, c’è in realtà la libera circolazione della forza lavoro. La propaganda europeista oggi ci racconta che grazie alla UE abbiamo “l’opportunità” di trovare all’estero il lavoro che vogliamo, se non lo troviamo in Italia. Ma questa “opportunità” si è tramutata per migliaia di giovani nella tragedia dell’emigrazione. I flussi migratori, tanto quelli interni alla UE quanto quelli che riguardano gli immigrati extracomunitari, acuiscono fra i lavoratori la competizione al ribasso che già esiste, dovuta all’alto numero di disoccupati. Gli emigrati italiani in Inghilterra o in Germania sono disposti a lavorare per salari molto più bassi rispetto ai lavoratori di quei paesi, esattamente come accade in Italia con gli immigrati provenienti dai paesi africani o dell’Est Europa. Questa situazione viene sfruttata dai padroni in tutta Europa, che utilizzano la disperazione di milioni di persone in fuga dalla povertà, dalla miseria o persino dalla guerra per cancellare i diritti che i lavoratori hanno conquistato in anni di lotte. Le forze di estrema destra, che soffiano sul fuoco del razzismo per fomentare una guerra fra poveri e assolvere i veri responsabili di tutto questo, sono le più funzionali a questo disegno.

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UN’ISTRUZIONE AL SERVIZIO DEL PROFITTO DI POCHI Le misure di contenimento della spesa pubblica nel rispetto dei vincoli imposti dall’Unione Europea in materia di bilancio si sono tradotte a livello nazionale in una serie di tagli scellerati all’istruzione pubblica, calcolabili in più di 22 miliardi dal 2008 al 2014. In seguito a questi tagli chi hanno abituati all’idea che i soldi per finanziare l’istruzione non ci siano, come pretesto per legittimare il pesante intervento delle imprese sul sistema educativo, nella veste di generosi benefattori disposti a salvare il sistema educativo dalla rovina. In realtà, le politiche sull’istruzione degli ultimi anni non sono frutto della creatività di qualche governo “riformatore”, ma rientrano in un disegno complessivo che scavalca i confini del nostro paese. Proprio così: tutte le politiche in materia di istruzione a livello comunitario prendono le mosse dalle indicazioni della Tavola Rotonda Europea (ERT) degli Industriali. Questo gruppo di rappresentanti delle più potenti multinazionali, tra cui spiccano Nestlé, Fiat e Thyssenkrupp, fin dai primi anni ’90 ha messo nero su bianco gli indirizzi che oggi vediamo realizzati in modo pressoché uniforme a livello europeo in materia di scuola e università. Con il Trattato di Maastricht del ’92, infatti, l’Unione Europea inizia ad avere competenza diretta in materia d’istruzione, dando pronta attuazione alle linee guida che questi padroni avevano elaborato. Gli interventi sono volti a imprimere da un lato una progressiva deregolamentazione del sistema di istruzione, verso una autonomia delle istituzioni scolastiche e universitarie, unita a un crescente disimpegno dello Stato nel finanziamento e nella gestione di queste strutture; dall’altro a promuovere una sempre maggiore connessione tra imprese e centri d’istruzione, che si traduce in forme di partenariato e finanziamenti diretti alle istituzioni scolastiche da parte dei privati. L’idea che sta alla base di queste indicazioni è la creazione di sistema di istruzione “competitivo”, correggendo innanzitutto il gap tra “offerta” delle scuole e “domanda” delle imprese, che chiedono un tipo di formazione meglio rispondente ai loro bisogni immediati. La riforma della scuola introdotta in Italia nel 2015 dal Governo Renzi si inserisce pienamente in questo solco, accelerando notevolmente il processo di asservimento

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un’istruzione al servizio del profitto di pochi

dell’istruzione agli interessi delle imprese private. Con il pretesto della lotta alla disoccupazione e dell’aumento delle opportunità di lavoro vengono spalancate le porte alle grandi aziende, consentendo l’espansione di forme di lavoro gratuito imposto agli studenti (come previsto dal sistema di alternanza scuola-lavoro) e tirocini non retribuiti. In quest’ottica la dequalificazione dell’istruzione contribuisce in modo determinante a creare nuove generazioni di lavoratori precari ed estremamente ricattabili. Non solo: la didattica e la ricerca a livello universitario vengono modellate sulla base delle necessità delle imprese che investono sulle istituzioni educative; l’insegnamento è concepito come un mezzo per sostenere la competitività delle imprese. A tutto questo si sommano le numerose barriere economiche che precludono a sempre più giovani la possibilità di completare gli studi superiori (il 10% degli studenti europei abbandona la scuola prematuramente) e di sostenere il percorso universitario. Un’istruzione di classe a 360°, che esclude chi non può permetterselo e serve le esigenze di profitto dei padroni. Anche la didattica, tanto nelle scuole superiori quanto nelle università, risponde in toto alle logiche di questo sistema, tentando di giustificarne le insanabili contraddizioni. Siamo educati ad accettare un futuro di estrema precarietà senza alzare la testa in nome della capacità di adattamento. Ci viene insegnato ad ogni livello che questo è l’unico sistema possibile, che non c’è alcuna alternativa; l’esistenza stessa dell’Unione Europea è assunta come condizione imprescindibile, un vero e proprio dogma. Al fine di edulcorare le prospettive drammatiche dei giovani proletari si moltiplicano quindi le iniziative volte a promuovere principi quali la “cittadinanza europea” o la mobilità per l’apprendimento (fortemente sostenuta dal programma Erasmusplus). Un pesante attacco ideologico condotto quotidianamente durante le ore di lezione e i corsi, che può essere contrastato solamente a partire dalla realtà dei fatti, che nega un futuro dignitoso alla maggior parte dei giovani che oggi studiano nei paesi dell’UE.

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VINCOLI EUROPEI, SPESA PUBBLICA, PRIVATIZZAZIONI E DEBITO. Un pilastro fondamentale della politica economica dell’Unione Europa è certamente il Patto di Stabilità, una serie di accordi introdotti nel 1997 e rinnovati nel 2012 con l’adozione del Fiscal Compact da parte di 25 stati membri, tra cui l’Italia. Questi trattati non sono mai stati realmente spiegati, al contrario sono stati oggetto di una vera e propria propaganda da parte dei mezzi di informazione. Sono stati nel tempo presentati come una serie di “regole d’oro” indiscutibili da applicare in ogni paese con la finalità di rispettare dei piani di rientro dal debito pubblico. Il più recente Fiscal Compact prevede l’obbligo di raggiungimento del pareggio di bilancio da inserire nelle costituzioni di ogni paese firmatario e obbiettivi molto stringenti di riduzione del rapporto tra debito pubblico e PIL, oltre all’introduzione di sanzioni in caso di mancato rispetto di questi vincoli europei. Sebbene tutto questo sia stato presentato come necessario per garantire la “salvezza” del sistema economico italiano, il fine reale è quello di garantire la solvibilità dei titoli di stato e il pagamento degli interessi sul debito impedendo agli stati di andare in deficit di bilancio. Cosa ha invece comportato nella realtà delle politiche economiche in Italia? In primo luogo costanti tagli alla spesa pubblica che colpiscono, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, l’istruzione ed il lavoro, la riduzione di diritti e stipendi ed il blocco delle assunzioni in tutto il settore pubblico (misure che causano strutturalmente un aumento della disoccupazione tra i laureati), ingabbiamento della possibilità di spesa sociale per i comuni, innalzamento dell’età pensionabile, tagli alla sanità con chiusura di ospedali e la progressiva eliminazione di qualsiasi forma di politica sociale o assistenziale. In aggiunta massicci piani di privatizzazioni (in molti casi svendita) che colpiscono tanto aziende e immobili di proprietà pubblica quanto infrastrutture (tra le più clamorose in Europa possiamo citare la svendita della rete elettrica portoghese o del molo commerciale del porto del Pireo in Grecia). Oltre al fine immediato di monetizzare, spesso queste privatizzazioni favoriscono anche la possibilità per grandi imprese

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vincoli europei, spesa pubblica, privatizzazioni e debito di fare profitto in settori da cui dovrebbero stare molto lontane, come accade per esempio con la privatizzazione di interi ospedali o con la dismissione ed esternalizzazione di servizi prima forniti dalla pubblica amministrazione. Quello che però non viene mai spiegato quando si parla dei vincoli europei è che questa riduzione della spesa pubblica, funzionale a mettere la maggior quota possibile di fondi nelle casse dello stato a disposizione per il pagamento degli interessi sul debito pubblico, di fatto viene usata per trasformare indirettamente una parte del salario dei lavoratori in un guadagno nelle tasche dei monopoli finanziari che detengono l’80% del debito italiano, visto che la maggior parte delle entrate dello stato derivano dalla tassazione dei salari dei lavoratori che in questo modo non vengono più “resi” indietro come servizi pubblici. È evidente quindi come il Fiscal Compact sia necessario a garantire un passaggio sicuro della ricchezza dai lavoratori e dagli strati popolari alla parte sempre più piccola e ricca della società.

cosa è successo in Grecia?

Il particolare aggravarsi della crisi economica in Grecia a partire dal 2009 è stato ed è tuttora al centro delle cronache e del dibattito politico. Capire cosa è successo può essere estremamente esemplificativo di quali sono gli interessi che si celano dietro le politiche economiche cardine dell’Unione Europea. Nel 2010 il governo greco si trova di fronte alla concreta possibilità di non riuscire a liquidare i titoli di stato in scadenza, a causa di un grosso aumento del debito pubblico contratto quasi interamente con banche private internazionali a tassi molto alti per coprire spese militari e soprattutto per ricapitalizzare le banche private greche in difficoltà. Per garantire alla Grecia la possibilità di pagare gli “investitori” Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale (la cosiddetta Troika) decidono di lanciare un piano di “aiuti”, che consiste

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cosa è successo in Grecia? nel prestito di 110 miliardi in 3 anni a condizione dell’applicazione di dure misure di “austerità” (primo memorandum). Da allora in Grecia governi tecnici, di centro-destra, di centro-sinistra ed anche il governo Tsipras non hanno fatto altro che applicare le misure imposte dall’Unione Europea per avere ulteriori prestiti (secondo memorandum nel 2012 e terzo nel 2015 accettato nonostante il risultato del famoso referendum). Le misure approvate in questi anni includono pesanti tagli alla spesa pubblica e quindi a scuola, università, sanità con chiusura di ospedali; taglio degli stipendi di lavoratori privati e pubblici, introduzione di nuove forme di contratti a tempo determinato, innalzamento dell’orario di lavoro, licenziamento di circa 50.000 lavoratori pubblici; innalzamento dell’età pensionabile e taglio delle pensioni, aumento di tasse sui lavoratori, sui contadini e delle tasse al consumo ( IVA al 24%); privatizzazioni, tra eseguite e previste, per oltre 50 miliardi, e si potrebbe continuare a lungo. Quali sono i risultati delle politiche dell’Unione Europea in Grecia? I prestiti della Troika sono serviti solo a liquidare praticamente tutti i titoli di stato in possesso di banche private garantendone i profitti, oltre a ricapitalizzare ancora le banche greche in difficoltà, il tutto senza diminuire minimamente il debito pubblico che è, anzi, aumentato. Alle classi popolari greche invece sono rimasti un tasso di disoccupazione oltre il 23%, disoccupazione giovanile attualmente al 45,7%, stipendi da 5/600€ al mese, pensioni da fame, accesso alla sanità e a servizi essenziali gravemente compromesso. In Grecia, in maniera più profonda ed evidente ma non diversa nella sostanza rispetto a quanto fa negli altri paesi, l’Unione Europea ha imposto un vero e proprio massacro sociale per garantire il profitto di banche e di grandi imprese, greche e di altri paesi, attraverso la compressione di salari e diritti dei lavoratori.

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nella UE poche società si arricchiscono

mentre cresce la povertà Mentre l’Unione Europea difende un sistema economico che si identifica nella teoria con la libera concorrenza e la lotta alle posizioni dominanti sul mercato la realtà è ben diversa. La creazione del mercato unico, la riduzione salariale, le politiche di delocalizzazione e i privilegi fiscali, hanno incrementato un processo di centralizzazione e concentrazione in poche mani della ricchezza. Un gruppo di poche decine di società controlla interi settori dell’economia con posizioni di assoluto dominio: dalle telecomunicazioni, all’energia, al settore agroalimentare, passando per l’editoria, il settore automobilistico, la logistica, fino ai big di internet (facebook, google, amazon). Oggi presso la Commissione Europea e le istituzioni della UE l’82% dei consulenti esperti rappresenta società e aziende private. Usufruendo di politiche fiscali favorevoli e potendo trasferire la propria sede nei paesi dove è più conveniente, queste grandi società pagano un livello di tasse assolutamente irrisorio rispetto ai profitti che realizzano. A questo si sommano i tagli alle politiche sociali, imposti con meccanismi di controllo internazionale sui bilanci degli stati, riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori. Il risultato finale è che nell’Unione Europea – secondo i dati Oxfam del 2016 – ci sono 342 miliardari a fronte di 123 milioni di persone a rischio di povertà assoluta ed esclusione sociale. L’1% più ricco della popolazione europea detiene oltre un terzo della ricchezza complessiva, mentre il 40% più povero, ossia oltre 200 milioni di persone, ne detiene appena l’1%. L’avvento della crisi ha allargato ancora di più la forbice sociale in tutti i paesi. l’1% più ricco Polarizzazione della ricchezza in UE Questo è accaduto della popolazione... in modo particolare ...possiede nei paesi più espo- il successivo 9%... il 31% della ricchezza sti, Grecia in testa, successivo 50% ...possiede dove gli effetti delle ildella popolazione... il 38% della politiche europee e ricchezza l’incremento della po...possiede vertà sono sotto gli il 40% più povero il 30% della ...possiede l’1% della popolazione... ricchezza occhi di tutti. della ricchezza Ma tutta la UE è stata interessata dagli stessi processi. In Germania la percentuale di persone a rischio povertà è salita nel periodo compreso tra il 2005 e il 2013 dal 12% al 16% mentre la ricchezza netta totale dei miliardari è aumentata da 214 a 296 miliardi di euro. Stesso avviene nei paesi del Nord Europa, noti per il loro sistema di welfare, dove si registrano incrementi del divario tra crescita dei redditi per top manager e operai, e si riduce la mobilità sociale.

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l’UE ha davvero portato la pace? Spesso si parla della pace raggiunta in Europa come uno dei principali risultati della UE, ma è davvero così? In realtà non solo è fuori luogo attribuire questo “merito” alla UE, ma neppure l’idea di una Europa pacifica corrisponde alla verità. Quasi tutti i paesi membri dell’Unione Europea sono membri della NATO, un’alleanza militare (teoricamente difensiva) che negli ultimi decenni si è distinta per una aggressività e una ferocia senza eguali. Negli anni ’90 la NATO, con la complicità politica della UE e degli Stati membri, fu artefice di un’aggressione militare nei confronti dell’allora esistente Jugoslavia, in aperta violazione del diritto internazionale e contro la stessa ONU. Il bombardamento della Jugoslavia, nel pieno cuore dell’Europa, fu appoggiato in Italia dal Governo d’Alema (centro-sinistra). Quasi tutti i paesi UE, inoltre, erano membri nel 2003 della “Coalizione dei volenterosi” che ha affiancato gli USA nell’invasione dell’Iraq, una guerra per il petrolio priva anch’essa di ogni parvenza di legittimità. I paesi UE sono fra i principali artefici delle aggressioni imperialiste nei confronti dei governi di Libia e Siria, mascherate da “rivolte popolari”, in realtà orchestrate con la complicità e l’intervento sul campo dei servizi segreti europei e nordamericani. La Libia, in particolare, è stata un terreno di scontro fra i monopoli europei (ma non solo) dell’energia come Eni, Shell, Total, BP; uno scontro che ha visto la Francia uscire vincitrice a scapito di altri paesi (fra cui l’Italia), nel quadro di una vera e propria “spartizione della torta” cui ha partecipato anche il colosso russo Gazprom. In Siria, i paesi UE hanno apertamente sostenuto gruppi di estremisti islamici, spacciati per “ribelli democratici”, mi-

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l’UE ha davvero portato la pace? rando a destabilizzare Principali interventi imperialisti Ucraina il paese; ancora oggi i e/o ingerenze della UE Afghanistan paesi UE commerciaIraq 2001 Kosovo no con l’Arabia Saudita che Bosnia è uno dei principali finanziatori dell’ISIS. Nel caso dell’Ucraina, invece, l’UE e in partico- Mali Libia lare la Germania hanno giocato un ruolo fondaNiger Ciad mentale nel sostegno al colpo di Stato che nel 2014 ha destituito il presidente Janukovich e ai successivi governi Congo Somalia golpisti, giunti al potere 2010 con il ruolo fondamentale di milizie paramilitari legate ai partiti di estrema destra, che tutt’oggi fiancheggiano l’esercito ucraino nella guerra in Donbass. A tutte queste vicende si somma l’attività della Forza di Gendarmeria Europea (EGF), intervenuta in Bosnia e Afghanistan, e le missioni guidate dalla Francia in Mali e Repubblica Centraficana. Nel complesso non esiste nessun fantomatico ruolo di mantenimento della pace da parte dell’Unione Europea, che al contrario sin dalla fine della Guerra Fredda ha non solo assistito a diverse guerre nel continente europeo, ma è anche intervenuta attivamente. Esiste al massimo un affievolirsi delle frizioni interne alla UE (che come si è visto non scompaiono del tutto) dovute al compattarsi di uno schieramento imperialista proiettato sull’intervento esterno piuttosto che sul conflitto interno, ma nulla che si possa lontanamente chiamare “pace”. E anzi con l’acuirsi della crisi, e dunque dello scontro fra i grandi monopoli finanziari per la spartizione dei mercati e delle aree di influenza, i conflitti sono sempre più numerosi, anche nel continente europeo. Diretta conseguenza delle politiche imperialiste e guerrafondaie di UE e NATO sono i flussi migratori provenienti dalle zone teatro di guerra, con migliaia di profughi che giungono in Europa specialmente attraverso la rotta balcanica. Per centinaia di immigrati, arrivare in Europa significa essere precipitati in una spirale di sfruttamento e diventare uno strumento con cui i padroni impongono una competizione al ribasso su salari e diritti sul lavoro. 2014

2003

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2003

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2011

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Territori Palestinesi 2005

Repubblica Centrafricana 2014

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Tanzania 2012


nessun errore di percorso:

l’UE fa ciò per cui è nata Da quanto esposto nelle pagine precedenti verrebbe da chiedersi cosa sia andato storto nel processo di integrazione europea e quali siano state le cause di tutto ciò, se nel corso di questo processo non ci si sia pian piano allontanati dall’ideale e dai principi che hanno ispirato la nascita dell’Unione Europea. Bisogna però ribaltare questa prospettiva: quella di un’UE sorta da nobili ideali e oggi costretta in modo forzato nelle anguste visioni tecnocratiche e finanziarie di Bruxelles è una visione comune, fatta propria da tanti sedicenti riformatori, che rappresenta in ultima analisi una difesa dell’UE stessa e di quanti nell’Unione Europea continuano ad avere interessi e fare profitti a scapito delle classi popolari. La realtà è che l’UE non funziona male, al contrario, fa esattamente ciò per cui è stata progettata: servire gli interessi del grande capitale europeo. Il mito dell’Europa nata sulla spinta ideale progressista va respinto e questa analisi deve cedere il passo alla realtà delle cose. Il processo di costruzione del mercato comune, che è la base economica dell’Unione Europea che conosciamo oggi, è ancorato saldamente alla volontà delle classi dominanti europee di dotarsi di uno strumento utile alla difesa e all’incremento dei propri profitti, sia internamente alla stessa Europa che nei confronti dei concorrenti esteri, nel contesto della guerra fredda, della divisione del mondo in blocchi e con i processi di decolonizzazione in atto. L’abbattimento delle barriere doganali tra i paesi avrebbe permesso alla grande produzione di vendere le proprie merci al di fuori del proprio mercato nazionale senza più ostacoli, schiacciando i piccoli produttori. La tariffa doganale estera comune, d’altro canto, avrebbe difeso quegli stessi mercati dal grande capitale straniero. La libera circolazione di capitali avrebbe consentito ai monopoli di trasferire i propri capitali e la produzione da una zona all’altra scegliendo quella che avrebbe garantito maggiori profitti. Queste premesse guidarono tutto il processo di costruzione dell’UE ed i risultati erano ampiamente prevedibili già nel 1957, quando con la ratifica dei Trattati di Roma venne istituita la CEE che sanciva la nascita del MEC, il Mercato Europeo Comune. Il PCI espresse da subito il suo voto contrario in parlamento e la sua netta opposizione ai trattati, come altrettanta opposizione avvenne da parte del PCF in Francia e dai principali partiti comunisti dei paesi coinvolti. I comunisti, infatti, compresero da subito e svelarono nelle pagine de L’Unità la natura intrinsecamente reazionaria del progetto di integrazione

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l’UE fa ciò per cui è nata europea all’interno del modo di produzione capitalistico: «Il coordinamento economico di cui si parla nel trattato si risolverà in pratica in intese sempre più strette tra i vari monopoli per la spartizione del mercato a scapito dei piccoli e medi produttori sostituendo così alla protezione doganale una spartizione delle sfere di influenza tra i grandi monopoli» e ancora «Non ha senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un’altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico». Il carattere di quella che sarebbe diventata l’Unione Europea era chiaro fin da subito, le evoluzioni successive, la strutturazione di un livello esecutivo come la Commissione Europea e la creazione della Banca Centrale Europea, che con il FMI formano la cosiddetta Troika, non sono state altro che gli strumenti di cui il capitale si è servito per condurre un gigantesco attacco ai diritti dei popoli e dei lavoratori e per difendere i propri interessi in piena continuità con ciò per cui il processo di integrazione europea era cominciato. Per quanto si possa affermare il contrario, l’Unione Europea non ha nulla a che vedere con la fratellanza fra i popoli. L’Unione Europea nasce come creazione di un grande mercato continentale, fondato sulla libera circolazione di merci e capitali, funzionale esclusivamente alla difesa degli interessi dei grandi monopoli.

I Trattati di Roma (1957)

Compongono i Trattati di Roma due distinti trattati che istituirono la CEE (Comunità Economica Europea) e la CEEA o Euroatom (Comunità Europea dell’Energia Atomica) ratificati nel 1957 da sei paesi aderenti (Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo). I trattati prevedevano, tra le altre cose, l’eliminazione dei dazi doganali tra i Paesi membri e una tariffa doganale estera comune, l’introduzione di politiche comuni nel campo agricolo e dei trasporti, coordinamento e condivisione nei programmi energetici nucleari. I Trattati di Roma ampliarono gli accordi raggiunti con la ratifica della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) e furono i primi passi verso la costituzione dell’UE.

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L’Unione Europea è riformabile? A sinistra non si fa che parlare della necessità di “riformare” l’Unione Europea, di ridefinire i suoi obiettivi, le sue priorità e il suo funzionamento. All’Europa delle banche, della troika e dell’austerità si vorrebbe sostituire un’“altra Europa”, quella democratica, dei popoli e fautrice di politiche espansive e di cooperazione. Persino le forze che rappresentano nel modo più conseguente le politiche dell’UE, come il PD in Italia, hanno adottato alcune parole d’ordine critiche nei suoi confronti, sostenendo la necessità di un cambiamento. Oltre a dar voce agli interessi di alcuni settori delle classi dominanti, in particolar modo dei paesi del sud Europa, che rivendicano maggiore flessibilità nei vincoli e negli indirizzi economici europei, questa retorica rappresenta il tentativo di continuare a legittimare l’UE agli occhi della gioventù, dei lavoratori e degli strati sociali più duramente colpiti dalle sue politiche. Sostenere non solo l’idea, ma la necessità di una riforma dell’UE significa di fatto diffondere l’illusione che un suo cambiamento in senso democratico e popolare sia effettivamente possibile, e che le istituzioni europee siano imperfette ma di per sé neutrali e imparziali, volte cioè al soddisfacimento degli interessi di tutte le classi sociali, quando invece sono strumenti dei grandi gruppi economici e finanziari. Apparentemente più radicale è invece l’idea di ribaltare totalmente l’indirizzo politico della UE, trasformandola dallo strumento del grande capitale qual è oggi a espressione degli interessi e della volontà popolare. Questa visione, sostenuta principalmente da forze della cosiddetta sinistra radicale (in particolar modo quelle appartenenti al Partito della Sinistra Europea), per realizzarsi richiederebbe la vittoria elettorale più o meno simultanea di tali forze nei singoli paesi. Uno scenario che, nella migliore delle ipotesi, è utopistico in quanto il diverso grado di sviluppo delle contraddizioni sociali, il diverso livello di mobilitazione, coscienza e organizzazione delle masse popolari nei diversi paesi (si confronti, ad esempio, la Grecia con la Germania), generano processi politici spesso addirittura divergenti. Il risultato inevitabile sarebbe soffocare la lotta laddove la mobilitazione di classe è più avanzata, attendendo invano il risveglio negli altri paesi. In questo modo, si inducono le masse popolari ad accettare la battaglia democratica all’interno delle istituzioni europee come unico e inevitabile terreno di scontro, di fatto smobilitandole e conducendole verso un esito più che prevedibile: una battaglia combattuta sul terreno e con le regole stabilite dal nemico è persa in partenza. Questa idea di riformabilità dell’UE non è soltanto strategicamente utopistica e fallimentare, ma anche estremamente limitata in quanto si pone di eliminare le ingiustizie e le contraddizioni prodotte dalle politiche dell’UE

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l’UE è riformabile? semplicemente cambiando le forze al suo governo. In questo modo, si trascura il dato più importante e centrale: le politiche di austerità e le misure antipopolari portate avanti dall’UE in questi anni sono espressione degli interessi e del potere economico che le classi dominanti detengono in ogni paese in virtù del proprio controllo sui mezzi di produzione, sulle risorse naturali e su tutta la ricchezza prodotta. Sostenere l’idea di poter ribaltare l’indirizzo delle politiche europee semplicemente cambiando la direzione politica dell’UE equivale a sostenere l’assurda tesi che il sistema possa essere cambiato semplicemente sostituendone il manovratore. O peggio, significa accettare il ruolo di semplici amministratori di questo stato di cose.

La lezione di Syriza in Grecia Nel gennaio 2015 in Grecia SYRIZA, la coalizione della sinistra radicale, ha vinto le elezioni con il 36% dei voti, basando il proprio consenso proprio su parole d’ordine di rottura con le politiche di austerità della “troika” europea (nel tempo pesantemente attenuate o del tutto abbandonate) e di cambiamento dell’UE. Si forma così il governo di coalizione con il partito di destra nazionalista “Greci indipendenti” (ANEL) attualmente in carica. Nell’estate del 2015 Tsipras promuove un referendum sull’accettazione o meno del terzo memorandum imposto da BCE e FMI, che ha visto la vittoria schiacciante del “no”. Tale risultato viene di fatto utilizzato come una legittimazione popolare estorta per la proposta “alternativa” di Tsipras, ovvero un memorandum nella sostanza del tutto identico a quello della BCE, che prevedeva ugualmente riduzione dei salari, tagli su pensioni e sanità, privatizzazioni e un aumento generale della tassazione, con l’unica differenza di diluire queste misure in un periodo di tempo più ampio, e richiedere una parziale riduzione del debito (Syriza non ha mai sostenuto la posizione del ripudio unilaterale). Oggi il governo Tsipras impone le stesse misure antipopolari volute dalla troika e attuate nei vari paesi europei, attuando politiche sostanzialmente indistinguibili da quelle dei governi del PD in Italia. In molti tra quelli che sostennero Tsipras oggi lo accusano di “tradimento” del suo programma originario, ma a ben vedere la vicenda dell’esperienza di governo di Syriza è proprio la dimostrazione lampante dell’impossibilità di un cambiamento reale nel quadro della compatibilità con la UE. Il Partito Comunista di Grecia (KKE), che aveva rifiutato la partecipazione ad un governo insieme a Syriza, pagando questa scelta di coerenza e fedeltà alla causa delle classi popolari con un consistente calo di consensi e feroci critiche, oggi conquista larghissimi consensi ed è l’unica forza politica che, con coerenza, si oppone alle misure antipopolari di UE, BCE e FMI, e lotta contro il governo Tsipras esattamente come contro ogni altro governo.

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uscire da UE, euro e NATO

per il potere popolare e il socialismo. La proposta dei comunisti è una proposta rivoluzionaria, che non ha nulla a che vedere né con l’illusione di poter semplicemente riformare la UE, né con l’idea del mero ritorno alla sovranità nazionale. La lotta per l’uscita dall’Unione Europea deve legarsi a quella contro il potere dei grandi monopoli finanziari, dei colossi dell’industria, delle grandi banche che oggi promuovono le peggiori politiche antipopolari. La lotta contro il capitalismo oggi è la lotta contro l’Unione Europea, e viceversa si può lottare in modo coerente contro l’Unione Europea soltanto se si mira a rovesciare il sistema che l’ha costruita. L’orizzonte di questa lotta non è la semplice sovranità nazionale, ma il potere popolare, cioè la costruzione di un’Italia diversa. Un’Italia socialista, che realizzi una vera democrazia dei lavoratori, e che non è possibile senza una rottura con l’Unione Europea e con questo sistema. Quali sono gli obiettivi per cui lottano i comunisti? Liquidare la disoccupazione, applicando il principio “lavorare meno, lavorare tutti” riducendo gli orari di lavoro e l’età pensionabile e fissando un salario minimo. Promuovere la gratuità a ogni livello di diritti fondamentali come l’istruzione e la sanità, garantire una casa a chiunque ne abbia bisogno. Procedere con la nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia e l’esproprio delle imprese che delocalizzano la produzione all’estero; stabilire la gestione delle imprese da parte dei lavoratori nel quadro di una pianificazione nazionale dell’economia di tipo socialista. Per realizzare questo sarebbe necessario, ad esempio, ripudiare il debito pubblico e rigettare i vincoli di bilancio imposti dalla UE, operare prelievi coatti sui grandi capitali per finanziare le politiche sociali necessarie. Un programma come questo è incompatibile con la permanenza nell’Unione Europea e con i principi del mercato comune, ed è impossibile senza una politica di rottura con un sistema fondato sul profitto di pochi realizzato sulla pelle della maggior parte della popolazione. La rottura con la UE non può non essere parte di un programma rivoluzionario, ma non è detto che questa debba per forza avvenire in una direzione favorevole alle classi popolari. E anzi, se fino a qualche anno fa veniva da chiedersi se fosse possibile uscire dalla UE, oggi la vera domanda da farsi è quali sono le forze che si porranno alla guida di questo processo: i lavoratori o i padroni? È una domanda fondamentale, perché oggi anche alcuni settori del grande capitale vedono con favore la prospettiva della

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uscire da UE, euro e NATO, per il potere popolare e il socialismo

rottura con la UE, come un’opportunità di realizzare maggiori profitti in altri mercati. Oggi le classi popolari non sono alla guida dei processi di frattura della UE che si stanno innescando, ma sono trascinati alla coda delle rivendicazioni di settori della borghesia. Non lo sono state nella Brexit, e non lo sono nell’avanzata dei cosiddetti “sovranismi” nei vari paesi. Sono la massa critica necessaria, il voto che fa la differenza, ma la direzione politica di questi processi appartiene ad altri. La proposta di un’uscita dalla UE in senso progressista e socialista, al contrario, parte proprio dalla questione della centralità delle classi popolari e dei lavoratori alla guida di questo processo, e questo non può avvenire senza coscienza e organizzazione. Un forte sindacato di classe e di massa, un forte un Partito Comunista, un’ampia alleanza dei lavoratori con tutti i settori popolari schiacciati dalla crisi (contadini, piccoli imprenditori, studenti, artigiani, ecc) sono le armi indispensabili per vincere questa battaglia fondamentale. È evidente che questa prospettiva non ha nulla a che vedere con le posizioni che premono per il ritorno alla sovranità nazionale e monetaria senza un cambiamento del sistema. Tra l’altro, se l’Italia uscisse dalla UE e dall’euro senza rompere con il sistema capitalista, il risultato sarebbe probabilmente un ulteriore impoverimento delle classi popolari dovuto all’inflazione; gli effetti “benefici” della svalutazione della moneta sulle esportazioni sarebbero vanificati dall’imposizione di barriere doganali da parte della UE; il tutto mentre i padroni potranno tranquillamente mettere al sicuro le loro ricchezze in valuta estera. Anche per questo non ha senso pensare all’uscita dalla UE e al ritorno alla “sovranità”, come alcuni fanno anche nella sinistra “radicale”, come a una “tappa” necessaria per un futuro avanzamento verso il socialismo. In parole semplici, per i comunisti non si tratta di uscire innanzitutto dalla UE per fare il socialismo in futuro, ma al contrario di uscire dalla UE col socialismo, cioè come misura necessaria nel contesto di un processo di trasformazione radicale della società che deve vedere protagonisti i lavoratori e le classi popolari. La proposta dei comunisti è legata ad una visione profondamente internazionalista, cioè all’idea della fratellanza fra i popoli, per l’unità dei lavoratori di tutti i paesi. Ma il nostro internazionalismo non ha nulla a che vedere con l’Unione Europea, un’unione internazionale delle banche e dei padroni, che in quanto tale sarà sempre nemica dei popoli e dei lavoratori. La disarticolazione della UE è un processo che passa per l’uscita unilaterale dei singoli paesi dalla UE e da ogni organizzazione imperialista, prima fra tutte la NATO. Questo non significa rifiutare l’idea dell’unità, della pace e della fratellanza fra tutti i popoli europei. Se un’Europa dei popoli potrà nascere, sarà socialista e nascerà solo dalle ceneri dell’attuale Unione Europea.

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IN EUROPA LA RIVOLUZIONE PARTE DA QUI

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