Programma Elettorale CNSU

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Premessa Quest’anno in Italia, per la prima volta, i comunisti saranno candidati alle elezioni nazionali per il rinnovo del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari. La candidatura è possibile grazie al supporto di più di 5000 studenti che in tutto il paese hanno deciso di sottoscrivere la lista del Fronte della Gioventù Comunista. Quest’appoggio è sintomatico di qualcosa di importante che si sta muovendo. Un’inversione di rotta, che dimostra che dopo anni di immobilismo gli studenti e la gioventù stanno mostrando nuovamente la loro volontà di attivarsi, partecipare e lottare per cambiare radicalmente le cose. Il significato della candidatura dei comunisti non risiede che in questo: farsi portavoce e promotori di questa volontà radicale di lottare. L’università non è accessibile a tutti. L’autonomia universitaria, unita ad anni di definanziamenti e tagli strutturati attuati da qualsiasi governo, ha trasformato le università italiane in aziende, dotate di bilanci da gestire e conti da far quadrare. Nel mezzo di tutto ciò gli studenti, che oramai sono per gli atenei la principale fonte di finanziamento con le proprie contribuzioni, ed i lavoratori, vittime di esternalizzazioni, licenziamenti e gare a ribasso. Nel nome dell’autonomia finanziaria delle università si consuma il dramma dello smantellamento del diritto all’istruzione. Sempre più giovani delle classi popolari rinunciano ad iscriversi perché non dispongono dei mezzi economici per sostenere gli studi. A coloro che ce la fanno si frappongono ostacoli enormi: tasse, caro-libri, caro-affitti e molto altro. Davanti alla mancanza di un reale diritto allo studio, sono sempre più quelli costretti a lavorare per potersi mantenere, sottopagati e sfruttati, con il ricatto perenne di poter essere in qualunque momento licenziati e simultaneamente dover rinunciare alla possibilità di laurearsi. Dentro agli atenei gli unici interessi che contano sono quelli dei privati, delle multinazionali e delle banche, puntualmente rappresentati negli organi che contano ed in prima fila per deviare le scelte e le politiche di indirizzo delle università a proprio piacimento. Aprono e chiudono corsi di laurea, stabiliscono linee di ricerca, guidano i finanziamenti nei settori di loro specifico interesse e a proprio specifico vantaggio. Questo e molto altro si consuma con la complicità di una rappresentanza interessata unicamente alla propria poltrona e alla replicazione strutturale di sé stessa ad ogni elezione. Svincolati dalle necessità reali degli studenti e dei giovani delle classi popolari, la rappresentanza studentesca eletta, tanto al CNSU quanto negli organi centrali dei singoli atenei, ha assistito impassibile alla distruzione dell’università italiana, quando non ha direttamente appoggiato tale processo. Non ci si potrebbe aspettare nulla di diverso. Carrierismo ed arrivismo politico sono le parole d’ordine di moltissimi di questi personaggi, interessati unicamente ad andare avanti nelle gerarchie delle proprie organizzazioni e dei propri partiti di riferimento. La maggior parte dei partiti politici, dal PD alla Lega, passando per Forza Italia e Fratelli d’Italia, armano organizzazioni giovanili e carrieristi di professione per queste elezioni. Sanno bene che davanti ai giovani non hanno alcuna credibilità, dunque si mascherano dietro ai più vari nomi col solo scopo di ricostruirsi una verginità politica perduta da tempo. L’obiettivo rimane sempre lo stesso: i loro uomini dentro agli organi della rappresentanza studentesca sono la garanzia che le loro politiche antipopolari sull’istruzione non incontrino ostacoli. La nostra candidatura è la dimostrazione che esiste una parte consistente della gioventù non più disposta ad accettare tutto ciò. Dentro e soprattutto fuori dalle aule della rappresentanza, i comunisti hanno lo scopo di dare voce a quei milioni di giovani che lottano per un’istruzione pubblica e accessibile. Il nostro obiettivo non è quello di far eleggere un personaggio piuttosto che un altro. Non abbiamo cariche da replicare o carriere da far decollare. Avere la possibilità di rappresentare gli studenti in CNSU, piuttosto che in un Senato Accademico o in un Corso di Laurea, non è che un passaggio, ma in alcun modo può costituire il fine ultimo della nostra attività politica. La rappresentanza costituisce invece un mezzo, e non l’unico, con cui rimettere nelle mani degli studenti e della gioventù le redini del proprio futuro. Siamo convinti che, dentro e soprattutto fuori dal mondo dell’università, solo la lotta partecipata, cosciente ed organizzata dei giovani figli della classe lavoratrice sia la reale arma in grado di cambiare in maniera definitiva lo stato di cose presenti.

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Smantellare l’autonomia universitaria, il primo passo per raggiungere un’istruzione pubblica e popolare L’autonomia di gestione normativa e finanziaria degli atenei italiani è da oltre vent’anni il principale strumento tramite cui si sta progressivamente smantellando l’università pubblica, espellendo gli studenti figli delle classi popolari e piegando il sistema formativo agli interessi delle grandi imprese italiane ed europee. Il funzionamento di base dell’autonomia universitaria non è complesso. Ogni ateneo deve gestire il proprio bilancio non per garantire la qualità del servizio ma solamente per assicurare che le spese non superino mai le entrate di fondi ministeriali e tassazione diretta degli studenti. Dal buon rapporto tra entrate e uscite dipendono i finanziamenti dell’anno successivo, soprattutto in termini di quota premiale e punti organico (necessari per scatti di anzianità e nuove assunzioni). Un ateneo che non risulti ‘virtuoso’ si troverà quindi in condizioni peggiori l’anno seguente perdendo anche diversi milioni di finanziamenti. Il pareggio di bilancio, e possibilmente un disavanzo notevole, diviene dunque il criterio fondamentale nella gestione delle risorse: un criterio da azienda che porta con se logiche da azienda. Insomma il ministero eroga i fondi, scarsi, e ne lascia agli atenei tutta la gestione, ma con vincoli che permettono di seguire un solo percorso. Ridurre al minimo la spesa per il personale è la prima preoccupazione di ogni consiglio di amministrazione. Questo perché è la voce più consistente e deve rimanere sotto l’80% della spesa totale per assicurarsi un saldo tra pensionamenti e punti organico assegnati che almeno non sia negativo. Si ricorre quindi a più ricercatori precari anche nell’insegnamento, questi infatti, a parità di ore di lezione svolte, costano meno e richiedono meno punti organico di un professore. Si tende anche ad accorpare corsi e ridurre la canalizzazione per mantenere l’offerta formativa impiegando meno risorse. Dove necessario si prova ad integrare con chiamate annuali di professori a contratto o con i ‘docenti in convenzione’. Il danno è evidente per gli studenti e per chiunque intraprenda la carriera accademica. Queste logiche, con il blocco delle assunzioni, hanno portato i ricercatori stabili e professori ordinari a diminuire quasi del 20% dall’anno 2010/2011 e contemporaneamente far passare i ricercatori a tempo determinato dal 3 al 23% del totale. Allo stesso modo si tende ad esternalizzare qualsiasi servizio diverso da amministrazione e docenza/ricerca. Questo perché sia possibile, quando necessario, tagliare agevolmente queste spese con gare d’appalto al ribasso o semplicemente non rinnovando i bandi. A tutto danno dei lavoratori e di chi usufruisce di quei servizi. Altra priorità è quella di attrarre studenti, sottraendoli alla diretta concorrenza degli altri atenei, insomma riuscire a ‘vendere il prodotto’ per incassare la contribuzione studentesca. In quest’ottica alle università non conviene allo stesso modo uno studente facoltoso rispetto ad uno che sia esonerato dalla seconda rata. Tutto questo all’interno di una continua riduzione dei fondi destinati alle università, che anche quando in aumento non si avvicinano mai a coprire le reali necessità o i tagli precedenti. Nel 2008 si stanziavano infatti 7,423 miliardi di euro, nel 2017 6,981. Un taglio continuo di oltre 40 milioni l’anno che ha visto il 2013 con 6,695 miliardi l’annata più magra. Questo definanziamento, se pur in parziale riduzione, ha lasciato carenze e danni preoccupanti negli atenei, e continua a farlo. Servirebbero nuovi finanziamenti, nell’ordine dei centinaia di milioni, solo per integrare e stabilizzare il personale docente e tecnico-amministrativo. Per un piano concreto di sussidi agli studenti ne andrebbero impiegati ancora di più. Oltre ad una riduzione complessiva il fenomeno più grave è la crescita, in parallelo, della ‘quota premiale’ rispetto a quella di base. Questa è stanziata nella sua interezza e poi suddivisa agli atenei sulla base degli indicatori di bilancio, della qualità della ricerca (o meglio degli indicatori con cui si pretende di stabilirla), del ranking, dell’internazionalizzazione. Insomma nulla che sia realmente legato alle reali necessità di funzionamento degli atenei, ma criteri che possono solamente dare un incentivo a chi sta già un pochino meglio degli altri. Nel 2008 questa rappresentava il 7,97% della quota di base, nel 2017 è stato addirittura il 33,43% con un miliardo in più a discapito

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della quota base. Insomma i soldi per far funzionare gli atenei si restringono sempre più (da 6,716 a 4,592 miliardi) e non garantiscono nulla, mentre la quota per le migliori università si espande (da 0,535 a 1,535 miliardi). La coperta è molto corta ed è evidente da che parte venga tirata. A questo si sommano finanziamenti milionari che vengono assegnati direttamente ai migliori 180 dipartimenti d’Italia mentre alcuni atenei continuano, anno dopo anno, a perdere iscritti e fondi in un circolo vizioso che li avvicina inesorabilmente al fallimento economico. È ben evidente come questo meccanismo incrementi il distacco tra università ‘virtuose’, che non a caso coincidono con i territori più ricchi del nostro paese, e quelle delle zone più povere d’Italia. Un meccanismo che porta a formare università di serie A e università di serie B, poli d’eccellenza da un lato e atenei destinati al fallimento dall’altro. L’intento è chiaro e corrisponde perfettamente alle richieste del mercato: incrementare il numero di lavoratori dequalificati e mantenere solo una ristretta formazione di tecnici altamente specializzati. Con l’autonomia si spostano sempre più le spese sulla tassazione diretta, quindi sugli studenti e le loro famiglie, tagliando la spesa pubblica. L’ultimo tassello sarà la rimozione del vincolo di mantenimento delle entrate dirette dagli studenti sotto il 20% delle entrate complessive, cosa di cui già si discute. I costi crescenti hanno contribuito a ridurre drasticamente la popolazione universitaria negli ultimi 15 anni. Ad essere espulse sono le classi popolari, quelle che rimangono sempre confinate alla manodopera dequalificata, sfruttata e ricattabile. Quanti studenti figli di operai o impiegati possono permettersi di studiare 5-6 anni da fuori sede in un polo d’eccellenza? Studiare in università di serie B non da speranze di competizione nel privato e, se verrà messo in discussione il valore legale del titolo di studio, neanche nel pubblico. Questo processo si acuirà con lo smantellamento degli atenei più in difficoltà, che comunque permettono un parziale accesso all’università anche nelle regioni più povere. Certamente i mezzi messi a disposizione dalle regioni per garantire il diritto allo studio non sono sufficienti e i piccoli incrementi dell’ultimo periodo sono a dir poco ininfluenti, rivelandosi solo fumo negli occhi. Le borse di studio coprono i costi solo se non si è fuori sede, per loro gli alloggi sono sempre un numero irrisorio e l’affitto costituisce una vera barriera economica, ma non permettono comunque ad uno studente delle classi popolari di mantenersi durante gli studi. Inoltre le assegnazioni avvengono sulla base dell’iniquo indicatore dell’ISEE, ampiamente gonfiato nella riforma del 2015, con soglie che non rispecchiano le reali necessità. Se un ragazzo non si iscrive all’università perché deve contribuire al reddito familiare con il proprio lavoro non sarà una misera borsa di studio, versata chissà quando, a cambiare la sua condizione. E anche potendo, con enormi sforzi, ne verrebbe la pena pur non studiando in un polo d’eccellenza? Le politiche dei governi che si sono succeduti negli ultimi 20/30 anni non hanno mai messo in discussione l’autonomia universitaria e questa linea di sviluppo. Passo dopo passo si è proseguito un percorso chiaro che punta alle privatizzazioni, a un’università per pochi e non di massa, all’università che serve alle grandi imprese e non alla larga maggioranza di questo paese. Questo governo, Lega-M5S, non pone certo una rottura: le briciole che sono state concesse sono tutte rivolte agli atenei virtuosi mentre confermano l’incremento delle spese militari da 23 a 40 miliardi l’anno. Una spesa quasi sei volte superiore a quella destinata all’università. È chiaro che gli interessi portati avanti non sono quelli della gioventù. L’autonomia universitaria rappresenta l’ossatura dell’università di classe, grazie alla quale i nostri atenei sono entrati definitivamente all’interno di ottiche di gestione aziendalistiche. Non può essere intavolato alcun reale progetto di cambiamento nel mondo dell’istruzione senza una gestione statale delle Università. E’ necessario che gli atenei tornino ad essere al servizio della collettività e della gioventù, diventando una risorsa per la società e non un’ azienda utile solo a generare profitto e guadagno per i solito noti. Per raggiungere questo obiettivo l’autonomia didattica, finanziaria e normativa di cui godono le università va abolita in maniera definitiva. Solo compiendo questo primo passo fondamentale, siamo convinti si possa ricominciare a discutere di diritto all’istruzione nel paese. Eradicare dal sistema uni-

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versitario italiano ogni traccia di gestione aziendalistica vuol dire porre le basi per un’istruzione popolare ed accessibile a chiunque.

Finanziamenti universitari, lottiamo per l’abolizione delle tasse universitarie Il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) è il finanziamento statale che costituisce la parte principale delle entrate per le università, sia pubbliche che private, e copre i normali costi di funzionamento e istituzionali, comprese le spese per il personale, per la manutenzione delle strutture e per l’attività di ricerca. L’FFO ha subito riduzioni costanti a partire dal 2008 con il “decreto Brunetta” che per primo apportò un taglio di 1,4 miliardi tra gli anni 2009-2013. Contemporaneamente, mentre si tagliavano i finanziamenti, si è arrivati ad un aumento considerevole delle tasse: dal 2005 al 2018 il gettito complessivo a carico degli studenti è aumentato di 400 milioni di euro. In Italia le tasse universitarie sono cresciute vertiginosamente, arrivando ad un incremento del 30% in 10 anni. Le contribuzioni studentesche sono una voce imprescindibile dei bilanci di ogni ateneo e senza di esse tutto il sistema universitario collasserebbe sotto la mancanza di fondi. Alla base della gestione del bilancio per l’università-azienda vi è un criterio cardine: il pareggio di bilancio. Se c’è un buco, che può derivare dall’applicazione della No Tax Area del 2017 o dai tagli all’FFO, in qualche modo va coperto, e non c’è metodo migliore di far tornare i conti se non chiedere a chi l’università la sostiene con le proprie tasche: gli studenti e le loro famiglie. Sperare che gli atenei non si rifacciano sugli studenti per coprire gli introiti che sono venuti a mancare tramite i tagli e la No Tax Area è errato. Misure che esentano le fasce di reddito più basse non bastano: il problema cronico del sistema universitario italiano sta nella sua libertà di gestione economica. Grazie all’autonomia universitaria, i CDA di ogni ateneo hanno la piena libertà di decidere le fasce ISEE (senza superare il 7% del totale ISEE per quelli compresi fra 13.001 e 30.000 euro), ciò fa si che gli studenti rischino di diventare preda di veri e propri salassi nei momenti in cui l’università si trova in difficoltà economica. Quando nel 2015 la riforma dell’ISEE rese tutti gli studenti più ricchi, la risposta del governo e della maggior parte delle associazioni studentesche fu quella di dire che le università avrebbero abbassato le aliquote che applicano alle varie fasce ISEE, per far pesare di meno sugli iscritti gli incrementi che quella riforma aveva generato. Inutile dire che ciò fu fatto in pochissimi atenei, che però dopo poco tempo sono tornati nella maggior parte dei casi alle aliquote precedenti. La progressività delle tasse sulla base di fasce ISEE è ben lontana dall’essere concreta. Il carico fiscale è tutto concentrato sui redditi più bassi, di solito tra i 13000€ e i 30000€. In questo range piccole variazione della fascia ISEE portano a significative variazioni nella contribuzione. Ad esempio, alla Federico II di Napoli, una delle più grandi del paese, tra una fascia ISEE di 19800€ e di 26600€ c’è una differenza di quasi 7000€ di ISEE e di 476€ di tasse. Se si prendono fasce più alte, come quelle tra i 45000€ e i 55000€, con uno gap di 10000€ di ISEE, c’è uno scarto di soli 150€ nelle tassazioni tra le 2 fasce. Inutile dire che su un ISEE inferiore a 30000€, quelle tasse di quasi 500€ in più pesano. Per capire il motivo, basta guardare la composizione della comunità studentesca: quasi il 60% degli studenti appartiene alle fasce più deboli con un reddito inferiore a 28000€ (con una fortissima discrepanza Nord-Sud). La selezione di classe nei nostri atenei è dunque realtà. Qui interviene però un altro fattore: la concorrezialità con gli atenei privati, che rientra perfettamente nello spirito dell’autonomia, delle privatizzazioni e dell’aziendalizzazione dell’università. L’autonomia finanziaria di cui sono dotate le Università le inserisce in una reale logica di mercato in cui esse competono fra loro e con le Università private. Se l’università pubblica imponesse la stessa progressività che impone per i redditi fino a 30000€ anche a quelli superiori, perderebbe ogni concorrenzialità nei confronti delle istituzioni private e vedrebbe un esodo dei figli delle famiglie più ricche. Questo sistema della progressività svela tutta la sua falsità: l’università italiana in questo momento è sostenuta dagli studenti con reddito medio-basso.

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Nello stesso orizzonte di competitività e di autonomia universitaria si inserisce la ripartizione dell’FFO, di cui le due quote più grosse sono quella “base” e “premiale”. Non solo a una diminuzione generale dell’FFO si assiste ad un aumento della contribuzione studentesca, ma alla riduzione della quota base dell’FFO, la quota premiale aumenta ogni anno, passando da 535 milioni (2008) a 1 miliardo e 693 milioni (2018). Quest’ultima è stata inserita proprio quando l’ammontare dell’FFO si è ridotto. I criteri di assegnazione della quota premiale, scelti in base ad un meccanismo articolato, sono mutati negli anni: tra il 2009 e il 2015 ne sono stati cambiati ben 22. Per il 2018, il criterio che incide di più (60%) è l’attività di ricerca: vengono utilizzati i risultati della Valutazione della qualità della ricerca (VQR), che valuta i progetti di ricerca in base alla loro originalità, alla metodologia utilizzata e all’impatto raggiunto o potenziale. Gli altri due criteri invece riguardano le politiche di reclutamento del personale per il trienno 2015/17, sempre basato sui dati della VQR, e i risultati relativi alla Valorizzazione dell’autonomia responsabile, ovvero dei parametri che le università scelgono da sole per poi farsi valutare. È evidente che questi criteri non rispecchiano una reale capacità delle università, ma dipendono da condizioni date dal contesto in cui è inserito un ateneo (disponibilità di attrezzature, di docenti per l’attività di ricerca, ecc), acuendo sempre di più le differenze territoriali. Nel 2018, le università che ricevono più finanziamenti sono anche quelle più grandi del paese, e la maggior parte sono al Nord: la prima è la Sapienza di Roma, con uno quota base di 318 milioni, seguita da Bologna (239 milioni). Se guardiamo invece l’assegnazione delle quote premiali, le università che prendono la maggior parte di quota base sono quelle che ricevono gran parte della quota premiale. Non solo: le università che ricevono maggiori fondi sono quelle che chiedono più tasse agli studenti, come l’ateneo di Torino, dove nel 2016 le tasse hanno inciso per più del 30% sulla totalità delle risorse, sforando il limite sull’FFO che per legge è del 20%. Su questa base si genera competitività tra le università, creando atenei di serie A e di serie B: se la quota premiale continuerà a salire e quella base a scendere, non bisognerà aspettare molto perché alcune università chiudano, mettendo gli studenti di fronte necessità di spostarsi per studiare. Nella logica della quota premiale, un ateneo è favorito dal cattivo comportamento di un altro, guadagnando in soldi e personale. Ma questa distinzione tra università “buone” e “cattive”, nata con l’autonomia universitaria, non deve ingannare: nessun ateneo è stato premiato. L’attacco all’istruzione pubblica arriva ad ogni università: la stessa miseria viene imposta a tutti gli studenti italiani. L’aumento della quota premiale ha un solo significato: deresponsabilizzare lo Stato dal finanziamento dell’università pubblica. Gli stessi criteri scelti per la suddivisione della quota premiale nascondono lo stesso messaggio: il ruolo dell’università non è quello di formare e istruire i futuri lavoratori, ma di portare avanti l’attività di ricerca, permeabile a soggetti esterni che impongono i propri obiettivi di mercato attraverso finanziamenti. La quota premiale, quindi, trasforma un ateneo in azienda produttrice di profitto, in perfetta linea con lo spirito capitalistico, valutandola non per la qualità della didattica ma per la competitività dei suoi progetti di ricerca e lasciandola libera di chiedere tasse agli studenti senza rendere conto a nessuno. Noi comunisti lottiamo per un’università pubblica ed accessibile a chiunque. Misure come la No Tax area, le revisioni delle fasce ISEE e altri interventi volti a modificare la mera questione fiscale non sono la risposta. È necessario lottare contro tutti gli ostacoli economici che oggi impediscono l’accesso all’università, come la mancanza di borse di studio per i redditi più bassi o alloggi per gli studenti fuori sede. La nostra proposta è chiara: serve un nuovo piano straordinario di finanziamento dell’istruzione in Italia, che rimetta al centro dell’agenda politica la necessità di garantire a tutti l’accesso ai più elevati gradi dell’istruzione senza distinzioni di censo. Quello di far cadere più del 20% del finanziamento all’istruzione universitaria nelle tasche delle famiglie italiane tramite le contribuzioni studentesche rappresenta una precisa volontà politica, e non il risultato delle necessità o della mancanza di fondi. La prima risposta per noi è molto chiara: l’abolizione delle tasse universitarie e del sistema di riparametrazione ISEE rappresenta un obiettivo strutturale per il quale è necessario lottare, primo passo per abbattere le barriere di classe che ora governano l’accesso agli studi. Per fare ciò è necessario implementare e accrescere la quota di finanziamenti derivanti dalla fiscalità generale e integrati nell’FFO, eliminando contestualmente tutti i sistemi di ripartizio-

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ne premiale che in questi anni hanno diviso gli atenei in istituzioni di serie A di serie B.

Diritto allo studio e studentati, per un’università gratuita ed accessibile a tutti I tagli progressivi e sempre più consistenti all’istruzione che tutti i governi di centro-destra e centro-sinistra hanno effettuato con perfetta costanza in questi anni, hanno minato il diritto allo studio causando l’esclusione di migliaia di giovani provenienti dalle classi popolari dalle università. Di fronte ai tragici risultati della crisi economica apertasi nel 2008 ogni coalizione ha scelto comunque di ridurre la spesa atta a garantire questo diritto, il risultato inevitabile è un crescente numero di famiglie che non possono più permettersi il peso economico dello studio universitario. E’ proprio dai fondi per il diritto allo studio su cui sono stati adoperati i principali tagli che hanno provocato nel giro di dieci anni un calo delle immatricolazioni pari al 17%. In Italia a fronte di 1,7 milioni di studenti universitari solo il 9,7% di questi ha diritto, per gli attuali criteri, alla borsa di studio. Infatti il sistema di riconoscimento dell’idoneità di accesso ai servizi di sussidio presenta gravi falle: il sistema del calcolo tramite l’indicatore ISEE non riflette la reale condizione economica delle famiglie. Includendo nel calcolo il valore degli immobili (compresa la prima casa) come fossero redditi familiari il risultato è ampiamente sovrastimato e impedisce l’accesso alla borsa a chi invece ne avrebbe necessità. A partire dal 2016, le soglie ISEE e ISPE (il secondo indicatore per valutare i criteri di accesso alla borsa che indica le soglie patrimoniali) sono aumentate rispetto a quelle degli anni precedenti arrivando rispettivamente a 23.000 e 50.000 euro. Ma questo non compensa i risultati della riforma del calcolo ISEE del 2015 grazie alla quale, senza reali mutamenti nella condizione economica delle famiglie, è drasticamente diminuito il numero di studenti esentati dalla tassazione diretta e quello degli idonei ai sussidi per il diritto allo studio. Per quei pochissimi che riescono ad ottenere la borsa, ciò che viene corrisposto appare poi largamente insufficiente ed inadeguato ai costi reali che lo studente deve affrontare. Poche migliaia di euro che se ne vanno per lo più in affitto e libri, spesso senza neanche coprirli interamente, lasciando al giovane ed alla sua famiglia il compito di riuscire ad affrontare tutto il resto delle spese. Ancora più grave è la situazione degli alloggi. Tra speculazione e affitti in nero, la situazione è drammatica. In tutta Italia esistono 42.451 posti alloggio. Solo il 33,6% degli studenti fuori sede idonei all’alloggio sono beneficiari, quindi solo 1/3 degli studenti richiedenti riesce ad avere una abitazione mentre oltre 80.000, pur avendo la medesima necessità, si vedono negare questo diritto. Questa condizione non si è creata da un giorno all’altro, ma si trascina negli anni nell’indifferenza di governi dediti solo a ridurre la spesa pubblica in favore di banche, grandi imprese e speculatori. Tutto ciò obbliga gli studenti e le loro famiglie a fare ricorso ai privati, a canoni di locazione proibitivi, spesso a nero. Nelle grandi città una camera vicino ai poli universitari supera facilmente i 400 euro al mese, mentre le sistemazioni più economiche sono lontane e mal collegate complicando non poco vita e studi di chi è costretto a scegliere queste soluzioni. La spesa dell’alloggio per i fuori-sede diventa dunque una delle principali barriere economiche che stanno espellendo i giovani delle classi popolari dai cicli di studio superiori. Nel mese di aprile il governo ha stanziato 140 milioni di euro per costruire e ristrutturare le residenze universitarie: si tratta dell’ennesima presa in giro nei confronti degli studenti, briciole rispetto a ciò che servirebbe veramente per sopperire al problema in modo definitivo. Una mancia elettorale in vista delle europee e delle elezioni del CNSU, nulla più. Borse di studio e alloggi sono solo un aspetto della questione. A fianco vi sono decine di servizi che costituiscono il diritto allo studio e che sono cronicamente sotto attacco. Mense, biblioteche, aule studio e spazi aggregativi sono sempre più spesso le vittime sacrificali all’altare dei bilanci. Continuamente vengono chiuse e/o depotenziate strutture vitali senza le quali parlare di diritto allo studio vuol dire fare semplice sofismo. Il diritto allo studio rappresenta l’insieme di tutte quelle misure che dovrebbero essere volte a garantire a chiunque la possibilità di laurearsi.

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Rivendicare la gratuità dell’istruzione e l’abolizione delle tasse universitarie rappresenta un primo passo, fondamentale, per il raggiungimento di questo obiettivo. Ma non è sufficiente. Alloggi, borse di studio, servizi di ristorazione e biblioteche sono parte integrante di quel diritto e sono sotto perenne attacco. Noi comunisti esigiamo un nuovo piano estensivo di edilizia popolare, che punti a fornire un alloggio pubblico e dignitoso a quelle centinaia di migliaia di studenti fuori sede che sono costretti, spesso loro malgrado, a spostarsi di casa per potersi laureare. Lottiamo per una nuova strutturazione delle borse di studio che non si occupi semplicemente di dare un contributo ridicolo ai giovani provenienti dalle classi popolari, ma una stabilità economica dignitosa che sia in grado di metterli nelle migliori condizioni di studiare, strappandoli alla miseria e al lavoro nero. Più studentati, più biblioteche, più finanziamenti per il materiale didattico, maggiori possibilità di accesso ai materiali in formato digitale sono altresì fondamentali per combattere il caro-libri che in questi ha arricchito autori accademici e case editrici alle spalle degli studenti. È necessario nrovesciare l’attuale sistema di priorità, mettendo le necessità della gioventù davanti a quelle dell’autonomia, dei padroni, dei locatori di case che da troppi anni speculano e si arricchiscono alle nostre spalle.

Fuori gli interessi dei privati dalle università La strategia che sta dietro lo smantellamento dell’università pubblica non è solo quella di tagliare finanziamenti da usare per pagare gli interessi sul debito pubblico, i salvataggi delle banche, gli incentivi alle imprese o le spese militari, ma anche trasformare l’istruzione universitaria in un grandissimo bacino di opportunità di profitto per le grandi imprese, uno strumento direttamente al servizio delle esigenze del mercato. In questo modello di università, gli atenei non solo iniziano a funzionare in modo simile ad aziende, ma sono legati a doppio filo al grande capitale, strettamente dipendenti dai loro investimenti e costretti a offrirgli ricerca e conoscenza come strumento per i loro affari. I privati all’università hanno ormai potere su tutto: finanziamento e indirizzo della ricerca, assunzione del personale, gestione dei servizi negli atenei, acquisizione di giovane manodopera, apertura di attività commerciali dentro le strutture universitarie, creazione di startup e incubatori, presenza negli organi istituzionali d’amministrazione. I privati ormai governano direttamente le università pubbliche. Rappresentanti di banche e di Confindustria siedono nei Consigli di Amministrazione e nei Senati Accademici. Essi fanno direttamente gli interessi di tutte le aziende che lucrano sull’ateneo o che collaborano con esso, orientando le scelte dell’amministrazione verso l’asservimento su tutti i livelli; rappresentano la direzione che l’istruzione in Italia sta cercando di seguire il più velocemente possibile, ovvero la totale privatizzazione sul modello americano. Da questo punto di vista una menzione particolare merita il Decreto Brunetta (legge 25 giugno 2008, n. 112), il quale istituisce la possibilità che le università statali si trasformino in fondazioni di diritto privato, affidando ai privati gran parte delle attività e dei servizi necessari al suo interno, compiendo in tal modo un rapido passo avanti verso la totale trasformazione da luogo di studio pubblico a impresa privata. Nella ricerca e nella didattica l’ingerenza dei grandi padroni è a un livello avanzatissimo. Data la scarsità dei fondi statali, i privati possono finanziare progetti di ricerca, condizionarne gli obiettivi, gli strumenti e i risultati, con lo scopo di utilizzarli ai fini dei loro affari e dei loro profitti. Questo meccanismo nel tempo si è generalizzato talmente tanto che le multinazionali possono direttamente sollecitare la nascita di progetti di ricerca e interi corsi di studi, finalizzati alla produzione di conoscenze direttamente utili nel mercato per la massimizzazione dei profitti. Addirittura gli stessi criteri ministeriali di ripartizione dei fondi per le assunzioni nelle università danno per scontato che i finanziamenti per le spese di personale possano arrivare dai soggetti privati. Il risultato di ciò è un impoverimento della didattica e della produzione scientifica: un progetto di ricerca considerato poco remunerativo, seppur scientificamente valido, viene lasciato senza fondi a scapito di ciò che può essere interessante per il mercato. Questa dinamica non solo crea gravi disuguaglianze tra università di serie A e di serie B, ma tra interi settori di studio, come tra le disci-

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le discipline ingegneristiche e quelle umanistiche. Le università possono anche essere luoghi fisicamente utilizzabili da privati per lucrare sui servizi esternalizzati o per lanciare attività commerciali, tramite politiche di favore da parte delle governance d’ateneo. Sebbene la gestione privata dei servizi in appalto sia strutturale al sistema capitalistico, in molte università si verifica un abuso dell’apertura di esercizi commerciali, che poco o nulla hanno a che fare con la missione dell’università stessa (si pensi al caso del tentativo di apertura di un fast food presso l’Università di Torino). Situazioni simili rappresentano un vero e proprio tentativo di ingerenza da parte delle grandi aziende all’interno degli atenei, per trasformarli da luoghi di studio a mercati privilegiati su cui macinare introiti milionari. Il più grande progetto padronale degli ultimi decenni che segna il forte livello di privatizzazione, o più in generale di asservimento dell’università alle imprese, è Industria 4.0. Questo piano, che viene presentato come una “quarta rivoluzione industriale”, altro non è che l’esigenza di alcuni settori delle multinazionali di raggiungere una radicale svolta tecnologica digitale, al fine di raggiungere nuovi livelli di efficienza in termini di produttività e quindi di profitti. Uno dei punti centrali di Industria 4.0 è il cosiddetto “trasferimento tecnologico”, ovvero i legami con le università e la ricerca. Innumerevoli sono i piani di collaborazione tra atenei e imprese già messi in campo, con tanto di forti investimenti di queste, che indirizzano non solo il lavoro dei ricercatori, ma anche la creazione di corsi di studio, nonché i finanziamenti a quei settori della didattica considerati rilevanti per l’industria a scapito di quelli umanistici. Nonostante possa sembrare positivo per la collettività il fatto che la ricerca venga utilizzata per migliorare le tecnologie della produzione, è importante capire cosa questo significhi in questo sistema. Industria 4.0 è un progetto che mette direttamente la ricerca universitaria nelle mani di una parte di multinazionali che devono posizionarsi meglio sul mercato, mettendole in condizione di macinare ancora più profitti sulle spalle dei lavoratori, che in quei nuovi impianti digitalizzati continueranno a lavorare con orari massacranti, sottopagati, senza diritti e con contratti precari. Si tratta di un grande lavoro di ricerca in campo tecnologico che verrà adoperato per strutture spesso neanche presenti sul suolo italiano, ma nei paesi in cui le suddette imprese delocalizzano la produzione per sfruttare manodopera ancora più economica e priva di diritti. Industria 4.0 è inoltre un piano di ricerca orientato allo sviluppo dell’industria della guerra, strumento nelle mani dei padroni per massacrare i popoli del mondo in nome dell’accaparramento delle risorse e dell’esportazione dei capitali, e che mai potrà giovare ai lavoratori del nostro paese. È anche importante ricordare che questo piano verrà realizzato sulle spalle della precarietà che affligge il mondo dei ricercatori, cavalcando l’onda della divisione tra università di serie A e di serie B, concentrando i suoi progetti sugli atenei più ricchi o privati, esasperando ancora di più il definanziamento delle università più piccole, con meno risorse, lontane dai maggiori centri produttivi. La dinamica di questa “quarta rivoluzione industriale” è l’emblema di cosa rappresenti l’istruzione universitaria per le grandi imprese: una fonte di conoscenza da trasformare subito in profitti, sacrificando il sapere dei campi non remunerativi, annientando la funzione sociale della conoscenza, distruggendo il concetto stesso di istruzione come diritto per tutti. Le ingerenze dei padroni tuttavia sono arrivate anche più lontano. Le lauree professionalizzanti sono emblematiche di come lo smantellamento dell’istruzione pubblica non passi solo dai tagli ai fondi per scuole e università, ma anche da modelli di didattica orientati a profitto e sfruttamento piuttosto che alla crescita della persona e della società. Questo particolare tipo di lauree sono state ideate su perfetta misura per le imprese e hanno come obiettivo dichiarato quello di creare corsi brevi che permetterebbero ai giovani di trovare lavoro entro un anno dal conseguimento del titolo. I corsi, che sono attivati già da questo settembre su tre aree (Edilizia e Territorio, Energia e Trasporti e Ingegneria), hanno una durata di 3 anni e attualmente vedono coinvolti oltre 600 studenti di 12 atenei di tutta Italia. I tirocini costituiscono ben un anno del percorso di studi, durante il quale l’azienda ha un duplice guadagno: da un lato forma i propri lavoratori a spese dello Stato (e degli stessi studenti che pagano le tasse universitarie) e dall’altro guadagna un anno di lavoro gratuito. Inoltre la spendibilità del titolo è limitata alla regione o al territorio in cui questo viene conseguito: ciò risulterà estremamente vantaggioso per le aziende, le quali potranno imporre liberamente salari e tutele minime, consapevoli dell’impossibilità di questi ragazzi di muoversi altrove per ricercare so-

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luzioni alternative; in caso di rifiuto di queste condizioni, un giovane sarebbe infatti costretto a spostarsi in cerca di retribuzioni migliori, rinunciando però a un titolo che attesti le competenze acquisite nei tre anni precedenti. Tramite questo sistema, i padroni sono quindi riusciti nell’intento di trasformare l’istruzione non solo in un mezzo per risparmiare capitali sulla formazione della manodopera, ma anche in uno strumento direttamente coercitivo nei confronti dei lavoratori e dei loro salari. È poi fondamentale chiedersi chi si iscriverà a questi corsi: grazie all’efficace retorica dell’immediata occupazione (senza svelarne le condizioni ovviamente), diventeranno allettanti solo per quelle centinaia di migliaia di studenti che sono esclusi sempre più spesso dalla possibilità di proseguire gli studi dopo la scuola. Parliamo dei figli delle classi popolari, che rinunciano alla propria formazione a causa delle loro condizioni economiche, e che vedranno il corso professionalizzante come un buon compromesso fra le proprie aspirazioni formative e le proprie possibilità. L’avvicinamento del mondo del lavoro a quello dell’istruzione diverrà nuovamente strumento di divisione classista: da un lato studenti con maggiori possibilità economiche e una formazione migliore, dall’altro studenti che non possono permetterselo. Le ingerenze dei privati e la loro capacità di dirigere pienamente le politiche delle università in Italia sono figlie dell’autonomia universitaria, che stimola e favorisce queste combinazioni. Noi comunisti diciamo a gran voce che per la gioventù non c’è nulla da guadagnare in tutto ciò. Padroni, banche e multinazionali usano gli atenei come fonti di ricerca e manodopera a basso costo, generando introiti milionari e in cambio rigettando la gioventù nella miseria e nel precariato. Dietro allo specchio dell’allodole del rapporto con il mondo del lavoro e la terza missione, si nasconde una realtà ben diversa. Esigiamo che tali interessi vengano sradicati dai nostri atenei. Non è più tollerabile l’esistenza di interi corsi di laurea, linee di ricerca, assi di finanziamento unicamente eterodiretti e rivolti alla speculazione privata. Recidere ogni rapporto fra università e privati, sia di carattere formale che di carattere economico, significa obbligare gli atenei a render conto solo davanti agli interessi della gioventù e della collettività. Solo in questa maniera potremo garantire che le università tornino ad essere elementi propulsivi della società, volte a migliorare e ad implementare le competenze e la formazione a vantaggio di tutta la popolazione e non di pochi speculatori. Gli interessi della gioventù e degli studenti delle classi popolari non coincidono, e mai potrebbero, con quelli dei padroni e delle aziende. NATO, multinazionali e banche infiltrano gli atenei, scopo dei comunisti è lottare perché le loro ingerenze non abbiano più spazio e rappresentatività all’interno delle università.

Contro lo sfruttamento nei tirocini delle professioni sanitarie L’insieme dei corsi afferenti all’area di ‘professioni sanitarie’ presentano una parte non indifferente di ‘pratica’ da svolgere nel corso dei tre anni, quello che sulla carta è indicato come tirocinio formativo. È evidente che tali materie richiedano di accumulare esperienza a contatto con dei professionisti all’interno di quelle strutture pubbliche in cui si troveranno ad esercitare la professione, l’importanza della formazione pratica non è quindi da mettere in discussione. La necessità di formare gli studenti tuttavia ha permesso che il tirocinio fosse trasformato in uno strumento per coprire gratuitamente le carenze di un sistema sanitario con l’acqua alla gola. Le strutture ospedaliere hanno autonomia di gestione finanziaria (proprio come le università) e devono muoversi entro i limiti di bilancio con finanziamenti statali sempre più ristretti, questo porta a sfruttare come risorse quelle che non dovrebbero esserlo: gli studenti. La verità è che dopo poco tempo lo studente diviene completamente in grado di svolgere buona parte delle mansioni richiestegli, e da quel momento si trasforma in semplice forza lavoro totalmente gratuita e ricattabile. La regolamentazione dei tirocini è molto vaga e si trovano parecchie situazioni diverse, ma tutti iniziano fin dal primo anno con un monte ore che si aggira intorno alle 600 per collezionare, alla fine del percorso, almeno 1800 ore di tirocinio.Spesso queste sono mal rendicontate, nella migliore delle ipotesi, o vengono superate per sopperire alle mancanze di personale su

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richiesta del responsabile, arrivando addirittura al ricatto dello studente col mancato riconoscimento del tirocinio svolto. In queste condizioni alcuni studenti si vedono costretti anche a raddoppiare le loro ‘prestazioni’ o a rendersi disponibili per turni di notte e festivi, richieste che dimostrano la natura poco formativa dell’impiego dei tirocinanti nel SSN. Non si tratta di un fenomeno di nicchia, ma è la norma. Può capitare, di conseguenza, che ci siano interi reparti la cui gestione sarebbe insostenibile senza questa manodopera gratuita. Ciò non sorprende, andando a vedere la condizione del sistema sanitario e raffrontandola con il numero di tirocinanti. In Italia servirebbero 50.000 nuovi infermieri (dato dell’associazione nazionale di categoria), ma anziché incrementare i posti per questi corsi a numero chiuso e formare più professionisti il taglio alla spesa pubblica, portato avanti da ogni governo, impone un’altra soluzione: lo sfruttamento di oltre 25 milioni di ore di lavoro annue dei circa 45.000 iscritti a infermieristica, l’equivalente di oltre 10.000 infermieri che lavorano gratuitamente. Il discorso vale anche per altri settori del SSN che si stanno via via smantellando. Certamente sono carenti anche i tecnici radiologi, ma nonostante questo nel 2018 il ministero ha previsto 736 posti, nel 2009 erano 1377, meno 46%. Per gli infermieri il calo è meno evidente ma va comunque in controtendenza rispetto alle necessità, i posti per infermieristica pediatrica sono stati dimezzati dal 2009 e quelli per ostetricia sono il 27% in meno, solo per fare alcuni esempi. Insomma si formano sempre meno professionisti e si sfruttano al massimo gli studenti. L’università dovrebbe essere il luogo della formazione per i professionisti della sanità, ma oramai è diventata un’anticamera di sfruttamento che garantisce milioni di ore di ore di lavoro gratuito ad un sistema sanitario nazionale con l’acqua alla gola. Davanti alla cronica mancanza di personale migliaia di studenti vengono gettati nei reparti e nelle corsie d’ospedale e messi a fare ogni sorta di attività lavorativa, spesso non lontanamente inerente con il proprio corso di studi. A loro non vengono riconosciuti diritti di alcun tipo, né malattia né ferie. Laurearsi per questi giovani vuol dire prima di tutto offrire alcune migliaia di ore della propria vita alle strutture sanitarie, a titolo completamente gratutito. Il primo obiettivo che rivendichiamo è quello di implementare le risorse dell’SSN destinate all’assunzione di lavoratori. Più posti per formare più lavoratori e combattere la carenza di personale strutturale dell’SSN, a vantaggio di tutto il Paese. Gli studenti non possono essere utilizzati come manodopera gratuita. Rivendichiamo dei tirocini sanitari realmente formativi nei campi predestinati, in cui siano rispettate le tutele e i diritti di chi li svolge e soprattutto in cui venga riconosciuta una retribuzione per gli studenti, compatibile con le loro abilità e le ore lavorate. Una giusta retribuzione per il lavoro svolto durante gli anni della formazione vuol dire fornire ai giovani un diritto sia salariale che formativo, garantendo la qualità del loro percorso di studi e impedendo definitivamente che vengano usati quali argini alle carenze del sistema sanitario.

PER UNA NUOVA STRUTTURAZIONE DEI TIROCINI In tutto il Paese, e tra i vari corsi di laurea, esiste una grandissima eterogeneità di tirocini formativi curriculari, spesso obbligatori perché previsti dal piano di studi. Mentre tanti tirocini non prevedono lo svolgimento di vere e proprie mansioni, mettendo gli studenti a seguire da spettatori esterni in modo ravvicinato alcune attività lavorative, altri invece li fanno lavorare presso strutture private, svolgendo incarichi assimilabili a quelli dei normali dipendenti. Nella maggior parte dei casi questi tirocini non vengono organizzati in modo da conciliarsi con il resto del percorso didattico, mettendo lo studente in situazioni di difficoltà con la sua attività da studente regolare, come la frequenza delle lezioni o la preparazione di esami. Come se non bastasse, in Italia non esiste una normativa che tuteli gli studenti tirocinanti dal punto di vista dell’assicurazione sanitaria, dei permessi per situazioni urgenti di carattere personale o dei permessi speciali per casi di maternità o paternità). La grande maggioranza dei tirocini non appaiono vincolati in maniera reale con il corso di studi prescelto, ma spesso rappresentano più che altro un passaggio formale. La totale anarchia che vige nel mondo dei tirocini curriculari è dannosa sotto due distinti punti di vista.

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In prima istanza nella grande maggioranza dei casi tali tirocini non hanno un sostanziale ruolo formativo, gli studenti passano centinaia di ore a svolgere mansioni che non sono affatto correlate al proprio corso di studi, e nel migliore dei casi hanno perso il proprio tempo. Ma vi è un altro risvolto ben più pericoloso. L’esistenza nei piani curriculari dei corsi di laurea di tirocini obbligatori permette, potenzialmente, di rigettare migliaia di studenti a fornire migliaia di ore non retribuite per i più vari speculatori privati, che sono ben contenti di accettarli. Si tratta ancora una volta dell’ennesima commistura fra privati e università che sacrifica gli studenti alle necessità e ai profitti di aziende ed imprenditori, spesso a discapito dei lavoratori assunti presso quei luoghi. Sotto questo punto di vista non esiste alcuna tutela per chi svolge i tirocini, né tanto meno viene prevista una retribuzione qualora essi si svolgano a vantaggio di qualcun altro. Noi comunisti riconosciamo chiaramente il ruolo didattico dei tirocini e della formazione pratica in determinati ambiti lavorativi. Il tirocinio curriculare può e deve rappresentare un momento didattico di sviluppo dello studente, che durante esso acquisisce le competenze tecniche che poi gli saranno utili una volta laureato. Per questo motivo esigiamo che le università si impegnino in maniera sostanziale a istituzionalizzare e strutturare percorsi di tirocinio realmente formativi, che tengano conto delle necessità didattiche dei vari corsi di laurea. Non possiamo più accettare che ogni ateneo, se non ogni singolo dipartimento, si gestisca autonomamente la strutturazione dei della formazione pratica. Questa libertà decisionale è spesso inefficiente dal punto di vista formativo quando non direttamente complice con gli interessi dei più vari padroni e padroncini che ruotano attorno alle università. Nostro obiettivo è quello di promuovere una nuova carta didattica che ponga i confini formativi dei tirocini curriculari nei vari ambiti di studi dove essi sono necessari, garantendo contemporaneamente le opportune tutele agli studenti che sono chiamati a svolgerli e proteggendoli dalle ingerenze di chi è pronto a sfruttarne il lavoro.

Per un’università di qualità, garantiamo i diritti dei lavoratori Una delle conseguenze maggiori dei tagli all’università è quella della cronica mancanza di personale amministrativo. In questi ultimi dieci anni le politiche dei governi di centrodestra e centrosinistra hanno determinato un crollo del numero dei lavoratori dell’università, una maggiore precarizzazione dei posti di lavoro e un duro attacco ai salari di tutto il personale universitario. Dal 2012, in ottemperanza alle richieste dell’Unione Europea immediatamente accolte dal governo Monti, sono stati profondamente rivisti i criteri in base ai quali le università possono assumere personale. Questi vincoli, racchiusi nel decreto legislativo n. 49 del 2012, sanciscono che ogni università ha il permesso di assumere solo sulla base di determinati indicatori, ovvero le spese per il personale (che devono essere minori del 75-80%), il livello di indebitamento (che non deve superare il 10%) e il cosiddetto “ISEF-Indice di Sostenibilità Economico-Finanziaria”, un indicatore che valuta positivamente anche e soprattutto le tasse studentesche. La chiave è questa: meno spendi per gli stipendi del personale, meglio è; meno debiti hai, meglio è; più tasse prendi dagli studenti, meglio è. Se vengono soddisfatte queste condizioni aumentano i “punti organico” assegnati, e quindi ci sarà una maggiore possibilità di assumere. Tale logica è stata poi difatti sposata e consolidata dal governo Lega-5 stelle, che a dicembre ha varato un decreto proprio volto a determinare il personale assumibile da ogni ateneo in base ai criteri fissati nel 2012. Questa situazione ha contribuito a creare negli anni una vera e propria polarizzazione tra “atenei di serie a e di serie b”, in un circolo vizioso per cui gli atenei poveri e indebitati devono sopperire alle loro difficoltà dentro una logica di competizione tra le varie università, per accaparrarsi i fondi premiali garantiti dallo Stato per chi rientra nei criteri citati. Il quadro restituitoci da queste operazioni è allarmante: a soffrire maggiormente sono le università del Sud, dove nonostante la carenza di personale le assunzioni sono insufficienti o addirittura bloccate per la mancanza di risorse, con un netto peggioramento dell’offerta didattica complessiva di questi atenei e la conseguente maggiore propensione dei giovani a spostarsi al Nord per studiare. L’immagine nitida della povertà del sud-Italia non deve tuttavia essere un abbaglio. La distruzione dell’università pubblica, così come di tutti gli altri diritti, colpisce gli atenei di tutto lo stiva-

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le: ai giovani e lavoratori del nord vengono imposti gli stessi attacchi e la stessa miseria di quelli del sud. Al contrario di ciò che strilla la stampa, la divisione nel nostro paese non è tra nord e sud, ma tra classi sociali, tra usurpati e usurpatori. Nel corso del tempo la necessità degli atenei di abbattere i costi connessi ai principali servizi extra-didattici che devono fornire (mense, biblioteche, pulizie, segreteria etc) ha ben presto determinato l’esigenza di esternalizzare i servizi stessi: sempre più spesso i lavoratori non sono assunti dall’università, bensì da cooperative e aziende esterne che concorrono per la vittoria di bandi, di cui il vincitore riceve fondi pubblici, garantendo in cambio l’erogazione di uno o più specifici servizi. In questo contesto la concorrenzialità di una aziende è anzitutto determinata dalla sua capacità di comprimere i propri costi d’ingaggio e dunque i salari dei lavoratori, in modo da costituirsi per gli atenei la scelta più logica, in quanto più economica. E’ ormai un fatto diffuso che il rinnovo del bando sia accompagnato da ulteriori diminuizioni salariali, sempre in nome della competitività delle cooperative, che in questi momenti possono ricattare i lavoratori che si trovano a dover scegliere tra la perdita del posto di lavoro o condizioni di impiego ancora più misere delle precedenti. Questo meccanismo danneggia chi lavora in università quanto chi ci studia, poiché la compressione dei costi riguarda tanto i lavoratori quanto la qualità dei servizi. Tutto ciò è particolarmente emblematico di come l’autonomia universitaria e l’utilizzo del solo criterio della meritocrazia, tanto cari a certi partiti ma anche a parte della rappresentanza universitaria, siano in realtà funzionali allo smantellamento dell’istruzione pubblica, costituendosi come un nuovo attacco ai diritti dei lavoratori e degli universitari, che determinerà in futuro l’esasperazione di una situazione già intollerabile: va infatti sempre tenuto presente che l’università funziona in prima istanza grazie ai lavoratori, e che la tutela di questi è inscindibile dalla questione del diritto allo studio in Italia. Tutto ciò spinge ancora una volta verso lo smantellamento dell’università pubblica, con gli atenei che sempre più spesso cercano di sopperire alla mancanza di risorse economiche tramite la ricerca del finanziamento privato. Nel frattempo, sono lavoratori e studenti a pagare sulla propria pelle la volontà di plasmare l’università sulle esigenze della grande impresa e del libero mercato. Rivendicare una didattica di qualità significa rivendicare un’università dove il comparto amministrativo, dalle portinerie alle mense, sia slegato dall’esigenza di abbattere i costi del lavoro e dell’istruzione ma strutturato col fine unico di massimizzare l’offerta didattica e formativa dei nostri atenei. La garanzia del posto di lavoro è un diritto inalienabile per il quale è fondamentale che anche gli studenti si adoperino per lottare, unitamente con i lavoratori. Su questo tema le proposte dei comunisti sono da sempre chiare: la re-internalizzazione di tutti i servizi erogati dall’università, dalla portineria alle mense, dalle pulizie alla biblioteca, è l’unica garanzia per i lavoratori di non perdere il proprio impiego o di dover accettare salari sempre più bassi e l’assenza di tutele reali. I lavoratori sono la spina dorsale dell’università, non una variabile di bilancio da comprimere quando è necessario fare cassa. Bisogna strappare i dipendenti dalle logiche aziendalistiche che dominano gli atenei italiani, impedendo la possibilità di fare ricorso a cooperative, aziende interinali e altre forme di lavoro esternalizzato. Coloro che lavorano nelle università devono tutti integralmente essere dipendenti dell’università, tutelati e opportunatamente pagati, non vittime in balia di ogni nuovo rinnovo dei bandi. Solo smettendo di concepire l’istruzione in Italia come una spesa da ridurre ai minimi termini si potrà portare avanti un radicale cambio di rotta che permetta agli atenei di ritornare ad assumere secondo criteri legati alle esigenze reali di lavoratori e studenti. Difendere l’università pubblica significa anche e soprattutto difendere i servizi e i diritti di chi lavora per garantirli.

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