«Il filo della speranza» di Guia Risari, copertina di Elisa Talentino

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Collana

Narrativa


A chi – con un filo, una parola, un pennello, un suono – crea meraviglie, ricuce, decora, racconta, dà senso al mondo.


Guia Risari

Il filo della speranza


La vita è come una stoffa ricamata della quale ciascuno nella prima metà dell’esistenza può osservare il diritto, nella seconda invece il rovescio: quest’ultimo non è così bello, ma più istruttivo, perché ci fa vedere l’intreccio dei fili. (Arthur Schopenhauer, Il fondamento della morale)

La felicità è avere un filo a cui appendere le cose... Filo che, immerso nel tesoro di un’onda, tornerebbe alla superficie ricoperto di perle. (Virginia Woolf, Diario di una scrittrice)


I

Stamattina sono rimasta a lungo a guardarmi allo specchio. Ho avuto una notte agitata e ho sognato molto. I sogni sono sempre stati il mio problema. Al risveglio, non sapevo più se credere a loro o alla realtà. Comunque, stamattina avevo dimenticato il mio aspetto perché di notte mi ero rivista bambina, coi denti davanti a merletto: pieno, vuoto, pieno, vuoto. E così, per quanto strano possa sembrare, il mio viso, il mio collo, i miei capelli sono stati una vera sorpresa. La pelle è striata dalle rughe, come mossa dal vento, il collo è robusto, eppure sembra sciogliersi come un piedistallo di cera. I capelli, che avevo folti e neri, sono ragnatele ingrigite nei quali fatico a fissare le forcine tanto sono radi. «Fili di seta» mi dice Toni, quando vado a farmi pettinare da lui. Ma io so che sono parole da parrucchiere, che lui lo dice a tutte le vecchiette che spingono la sua porta a vetri. Tuttavia m’illudo che sia vero: i fili che ho per tanto tempo manipolato devono essere finiti da qualche parte. Perché non tra i capelli? Mi guardo fissa: gli occhi sono due lanterne pulsanti in mezzo al mare, il naso è piccolo e affilato e la bocca è attraversata da minuscole pieghe. Il mento 9


è rimasto aguzzo, baciato da una fossetta che quasi non si vede più. Ma io so che c’è: è sempre stata lì a ricordarmi che potevo fingere con tutti, ma non con gli angeli. Quella fossetta è il segno di un patto che mi lega a loro. Agli angeli dovrò comunque dire la verità, rivelare ogni cosa, confessare ogni debolezza. Non ne ho molte, ma qualcuna sì e me ne vergogno. Con queste cose funziona per accumulo: i primi inciampi paiono inconsistenti, fatti d’irrealtà. Si vive come se niente fosse, dimentichi di omissioni e bugie innocenti: l’esistenza scorre senza scosse e la coscienza brilla di luce. È dopo, strato dopo strato, che il silenzio comincia a pesare, a tirare giù, a piegare. E arriva un giorno in cui quasi non riesci ad alzarti, gravata come sei dal fardello delle tue piccole reticenze, quasi non ce la fai più a respirare. E allora devi chiamare gli angeli e raccontargli tutto.

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II

Mi sono ripresa. La mattina, all’alba, faccio sempre pensieri più pesanti di me, pensieri densi di sospiri che non so da dove mi vengano. A volte, la giornata mi sembra solo un tentativo di reagire. Non di rispondere, ma di arginare la perdita di equilibrio. Perché, a furia di pensare, pensare e ricordare, gira un po’ la testa. Per evitare di cadere mi aggrappo ai gesti quotidiani che, nella loro ripetitività, mi garantiscono che il mondo è rimasto uguale a se stesso, almeno un po’. So che tutto cambia, sono una divoratrice di cronaca, ma proprio per questo – credo – ho bisogno di sapere che qualcosa resta immobile, è un punto fermo. Mi sono vestita di rosso e grigio oggi e pettinata con cura quei pochi capelli che mi restano. Ho messo le verdure a bagno e più tardi preparerò una bella capunata. Ci vanno melanzane, pomodori, sedano, cipolle, olive, capperi, pinoli, basilico. Io ci aggiungo anche le carote e, quando mi gira, ci metto pure i peperoni. D’altronde ognuno ha la sua personalissima ricetta, la sua versione che si tramanda come un segreto di famiglia e batte tutte le altre. Io un marito e una famiglia con cui condividere pranzo e cena non li ho più. Il mio adorato Lele è morto qualche anno fa d’infarto. Mia figlia vive nel mio stesso quar11


tiere, a trecento metri da qui, con suo marito e il secondo figlio. La primogenita, Nina, è andata a studiare al Nord e la sento per telefono. Per la verità, in questo periodo di virus e confinamento, sento tutti solo per telefono, ma con Nina è uno scambio forte, pieno di carezze. Con mia figlia, Filippa, c’è affetto, c’è comprensione, ma ho fatto troppi errori con lei – sono stata dura e rigorosa, non l’ho lasciata vivere – e ora lei mi controlla, mi riprende, m’istruisce. È una vendetta? No, Pippa è un pezzo di pane: la sua è una risposta, l’unica risposta possibile alla mia educazione fatta di rimproveri e doveri. Pippa si preoccupa per me. Chiama per sapere come sto, se ho mangiato e quando, se ho guardato la tivù e cosa, se ho sentito qualcuno e chi, se ho pianto o riso e perché. Ripeto: non lo fa con cattiveria, lo fa con bontà perché vuole essere sicura che io stia bene. E però ha questo modo di fare inquisitivo, autoritario. Sembra un carabiniere con un delinquente. Per cui, non so bene perché, vado in confusione e comincio a cambiar le carte in tavola, a mentire sistematicamente su piccole e grandi cose. Perché? Va trova stu lestu! Sì, vai a raccapezzarti. Quando si è trattato di lottare contro le prepotenze, ho combattuto. Con Pippa invece retrocedo. A sentirmi esaminata, controllata, costruisco un baluardo di bugie che mi mettono al riparo da ulteriori indagini. È questa la mia difesa. Non che io abbia qualcosa da nascondere, ma il mio istinto alla libertà si sente minacciato. Così a Pippa faccio fatica a raccontare: lei conosce già tante pieghe, svolte e fermate della mia vita. Il resto è una confessione estorta, tra piccole menzogne e omertà. Con Nina è tutta un’altra cosa: Nina è ignara, aperta, innocente, sfrontata. Le sue domande non conoscono vergogna, ma non m’impongono nemmeno una risposta precisa. Quindi, proprio perché Nina non si aspetta niente 12


da me, io riesco a dirle la verità con le sue infinite sfumature, i dubbi e le possibili interpretazioni. La mia verità. Tuttu ccà mi luci a fera. È l’unica cosa bella che ho, la sola che abbia valore, il mio orgoglio. La mia verità. Quella che accolgono gli angeli e le persone che amo.

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III

Quando ero ragazza, gli anni Sessanta stavano finendo e con loro terminava anche un’epoca di tradizioni rigide, di obbedienza, di onore sopra ogni cosa. Certo, qui questi valori non erano scomparsi, ma per continuare a farsi rispettare dovevano prendere un’altra strada, un cammino sotterraneo. Le norme tradizionali non erano più considerate come un comportamento universale, ma come un vizio necessario, una vecchia abitudine per far contento il parentame. E per compiacere genitori, zii, nonni, cugini si accettava allora di avere un solo fidanzato, quello buono, scelto per condurti all’altare e particolarmente attento a non lasciare che le effusioni si trasformassero in qualcos’altro, qualcosa d’irreparabile. Quindi scarpe basse, lunghezza delle gonne controllata, scollatura modesta e uscire solo con la luce del sole per non cedere alla tentazione dell’oscurità che, si sa, ha combinato più di un disastro. Capelli legati e trucco leggero, risata moderata e sensualità bandita, o la purezza della fidanzata sarebbe stata messa in dubbio, prima di tutto dal fidanzato. Lele era di Palermo e non era un siciliano tipico. Era un maestro elementare curioso e intelligente, immune da pregiudizi. Il Ministero l’aveva assegnato alla piccola 15


scuola di Santa Caterina Villarmosa e lui lì era rimasto, per star vicino a me. A lui le imposizioni della tradizione parevano medievali e calciava rabbioso una lattina mentre protestava. – Esseri friscu e tenneru. Questo voglio – diceva con la voce arrochita dal dispetto. – Ah, fregarsene di tutto e tutti. Capisco. Bella forza, sai? A ignorare le regole sono capaci tutti. E quando poi ti metteranno al bando, smetteranno di parlarti e di guardarti negli occhi? Così gli risposi, ma sbagliavo. Aveva ragione lui a ribellarsi. Eravamo una bella coppia, io piccola e scura e lui alto e biondo, e proprio per questo eravamo controllati a vista. Non potevamo fare niente che non arrivasse alle orecchie dei nostri genitori, che si affrettavano a informare i parenti stretti e gli amici. Io ero ancora illibata e su questo nessuno aveva dubbi. E lui era una testa calda solo a parole: nei fatti, teneva le mani a posto e «mi rispettava». La verità è che eravamo pazzamente innamorati l’uno dell’altra e non vedevamo l’ora di sottrarci al controllo delle famiglie. Eravamo impazienti di guadagnarci la nostra indipendenza. Quando lo avevano trasferito in un altro paese, lui aveva lasciato la scuola e aveva aperto un’officina meccanica: era bravissimo con motori e carrozzerie di ogni tipo. E non aveva rimpianti. – Pure così s’insegna, – diceva. E non mancava di regalarmi libri, giornali, riviste perché, secondo lui, una testa che funzionava l’avevo. Bisognava darle le parole adatte. Io, dopo una fallimentare esperienza come segretaria (non ero stata pagata per sei mesi), mi volevo dedicare a 16


ricamar corredi. A Santa Caterina Villarmosa c’erano diverse ragazze e donne come me. Oggi so che avremmo potuto scambiarci idee e consigli e unire le forze. Era meglio essere tante che sole. Se le condizioni di lavoro non erano ottimali, solo insieme avremmo fatto la differenza. Na nuci rintra u saccu unni fa scrusciu. Se una sola noce nel sacco non fa rumore, in tante avremmo cambiato le cose. Ma all’inizio della mia carriera da ricamatrice ero troppo giovane e fiera: volevo fare tutto da sola e capire col mio cervello. Il tempo mi avrebbe insegnato che occorre sempre confrontarsi e ascoltare per arrivare a qualcosa.

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