Di Illustrazioni
Fulvia Degl’Innocenti Gioia Marchegiani Il primo voto di Matilde
©2021 Settenove edizioni Il primo voto di Matilde Di Fulvia Degl’Innocenti Illustrazioni di Gioia Marchegiani Progetto grafico di Tommaso Monaldi Settenove edizioni via Don Minzoni, 44/E 61043 Cagli (PU) www.settenove.it Isbn 9788898947690 Stampato per conto di Settenove edizioni presso Arti Grafiche Stibu, Urbania (PU) nel mese di aprile 2021 Anna Garofalo (1903-1965), citata in quarta di copertina, fu la prima giornalista a rivolgersi a un vasto pubblico femminile affrontando i nuovi temi dell’emancipazione. Fu curatrice della rubrica radiofonica Parole di una donna. Tutti i diritti riservati.
Ad Angelo, perché il suo voto sia sempre consapevole e convinto come chi lo ha esercitato per la prima volta.
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Capitolo 1 Due sorelle studiose
– Mamma, babbo, sono a casa! Luciana annunciava il suo arrivo gridando quando ancora era nell’aia. Da pochi mesi frequentava la prima media, e per andare a scuola doveva fare un lungo viaggio. Il casolare in cui viveva con babbo Erminio, mamma Armanda, i fratelli Carlo di sedici anni e Matilde di venti e i nonni paterni Cesarina e Neri, era isolato in mezzo alle colline toscane. Per andare a prendere la corriera doveva fare due chilometri a piedi in salita. La scuola media si trovava a sette chilometri dal paese, dove c’erano solo le elementari. La sua sorellona invece si era fermata alla quinta elementare, ma le sarebbe piaciuto tanto continuare a studiare. Babbo non aveva voluto. – Troppo lontano – aveva detto, – e poi sei una femmina. Nemmeno Carlo era andato alle medie, era scoppiata la guerra, c’era un clima di attesa e di insicurezza, il babbo sarebbe potuto partire per il fronte e si diceva che ci volesse un uomo in casa. E infatti a un certo punto il babbo era stata chiamato nelle file 9
dell’aeronautica. Quando era di stanza a Genova veniva qualche volta in licenza, ma poi era partito per la Russia e per quasi due anni non lo avevano visto. Da lui solo qualche cartolina, che arrivava a mitigare il clima di ansia in cui vivevano. Mentre il babbo era al fronte anche a loro non erano mancate preoccupazioni e paura: se non avevano mai davvero sofferto la fame perché avevano di che mangiare grazie ai campi e all’orto che curava la nonna, alle uova delle galline e ai conigli, da quando i paesi intorno furono occupati dai tedeschi erano cominciati i bombardamenti che li costringevano a correre nel rifugio, che poi altro non era che una buca scavata per terra lontano da casa. Sentivano gli aerei rombare sopra le loro teste e il rumore assordante delle bombe che cadevano. A volte rimanevano lì sotto rintanati per ore e ore, senza riuscire a dormire, nutrendosi di qualche patata bollita. La casa era rimasta miracolosamente intatta, mentre le bombe avevano causato macerie e distruzione nei paesi, e una compagna di scuola di Luciana era stata raggiunta da una scheggia in un braccio. Questo lo aveva scoperto dopo che i tedeschi se ne erano andati, e Luciana aveva potuto ricominciare ad andare a scuola. L’amica andava molto orgogliosa della sua cicatrice, e Luciana un po’ la invidiava, perché aveva qualcosa di speciale da raccontare. Lei non si era mai neanche rotto un braccio, ed esibire un infortunio o una ferita ti faceva sentire al centro dell’attenzione. Dopo la ritirata dei tedeschi la situazione non era tornata tranquilla: le campagne erano disseminate di ordigni inesplosi, come quello che aveva causato la 10
morte di tre bambini in una frazione a un chilometro da casa loro. Di quei giorni Luciana, però, ricordava soprattutto i soldati americani che con le loro jeep attraversavano le colline e quando vedevano bambine e bambini lanciavano loro latte condensato, biscotti e soprattutto cioccolata. Era la prima volta che la mangiava, aveva il sapore della liberazione e della pace. Poi il babbo era tornato: era stato fortunato perché al fronte stava nelle retrovie, aveva la mansione di aiuto cuoco, proprio lui che non sapeva cucinare nulla. – Ho pelato quintali di patate – aveva raccontato. Per il resto non aveva voluto dire granché di quel periodo, come se volesse lasciarselo in fretta alle spalle. Forse pensava a tanti suoi amici che non erano più tornati, chi disperso nella ritirata di Russia, chi morto in battaglia su altri fronti. Ma come sembrava lontana ora la guerra. Luciana era entusiasta della scuola, le piaceva studiare e non vedeva l’ora che tornasse Matilde dal maglificio in cui lavorava per raccontarle la sua mattinata di lezione. Era stata lei a insistere con i genitori perché Luciana andasse alle medie. E d’altro canto la guerra aveva ammorbidito le posizioni del babbo: se era sopravvissuta ai bombardamenti e alla sua lontananza, Luciana se la sarebbe cavata anche a viaggiare da sola. Anche mamma era contenta: lei che addirittura si era fermata alla terza elementare, lo aveva detto con l’aria un po’ dimessa, di chi è abituata a obbedire: – Facciamola studiare la bimba, così almeno lei non dovrà faticare come noi. Poi, rivolta a Luciana: – Tutto bene il viaggio? – le 11
chiese, come ogni giorno. – Sì, certo, ho una fame. Che si mangia? I genitori, Carlo e i nonni avevano già mangiato. Giusto il tempo per un saluto e sarebbero tornati al lavoro nei campi. Solo nonna Cesarina rimaneva a casa. Aveva i suoi acciacchi, l’artrite le aveva deformato le mani, e con la schiena non ce la faceva più a stare china sulla terra. Luciana si avventò sul piatto di zuppa lombarda, pane ammollato nel brodo e fagioli che di lombardo non aveva nulla e chissà come mai si chiamava così. Poi accese la radio e si mise a fare i compiti sul tavolo della cucina, che era anche l’unico di tutta la casa, mentre la nonna sonnecchiava vicino al caminetto. Doveva approfittare del fatto che era ancora giorno. Quando il sole tramontava, visto che laggiù la corrente elettrica non c’era, doveva ricorrere al lume a petrolio, e faceva più fatica a scrivere. Non ci vedeva tanto bene e sperava che presto mamma l’avrebbe accompagnata a passare la visita dall’oculista per mettersi gli occhiali. In paese c’era solo il medico condotto, e per andare nell’ambulatorio più vicino, nella stessa cittadina dove c’erano le sue scuole medie, mamma doveva rinunciare a un giorno di lavoro e non aveva mai tempo. Luciana era sdraiata sul suo letto con il gatto Ferdinando acciambellato sul petto quando rientrò Matilde. – Ecco la mia tatina – le disse appena entrata nella camera che condivideva con lei, andandole a scoccare un sonoro bacio sulla guancia. 12
– Su, forza raccontami tutto. – Matilde pretendeva un resoconto dettagliato di tutte le lezioni. Le sembrava così di essere anche lei a scuola. – Nell’ora di matematica abbiamo fatto il compito in classe sulle frazioni. Non era difficile e sono stata tra le prime a consegnare. – E brava la mia «genietta». – Nell’ora di latino la professoressa Mattei ha spiegato la quinta declinazione. Che è facile da studiare perché ne fanno parte solo due parole, res, rei, che vuol dire ‘cosa’ e dies, diei che vuol dire ‘giorno’. E poi nelle due ore di disegno abbiamo copiato una natura morta fatta di frutta che poi dobbiamo finire di colorare con le tempere. – Che belle cose che fate! Lo sai, vero, che sei fortunata? – Sì sì, lo so, grazie a te. – Ho anche io una cosa da dirti. Oggi dopo il lavoro sono passata a trovare la maestra Lucia. Sai quanto ci tenesse a farmi continuare gli studi. Era persino venuta qui a casa per parlare col babbo, ma non era riuscita a convincerlo. Tu eri piccola e non te lo ricorderai… Dice che visto che ora tutto è tornato alla normalità, lei sarebbe disponibile a darmi lezioni per preparare l’esame da privatista di terza media. E io ho detto di sì! – Ma è fantastico! Sono proprio contenta. Così studieremo insieme! – In verità io devo fare il programma di tre anni. Sono un po’ preoccupata – fece Matilde – perché con il lavoro non avrò tanto tempo per studiare. 13
– Ma tu sei bravissima. Vedrai che la farai! – Ce la metterò tutta. Guarda, mi ha già dato dei libri. – E puoi usare anche i miei, almeno per il programma di prima. E a mamma e babbo gliel’hai detto? – chiese Luciana. – Non ancora, ma sono grande, ho un lavoro, e il prossimo anno divento maggiorenne. Non credo che si metteranno di traverso. – Lo penso anche io – annuì convinta Luciana. – Caspita, sono le diciotto! È l’ora del mio corso di inglese alla radio. E così dicendo, Matilde accese la rudimentale radio a galena, un apparecchio che non aveva bisogno di batterie o altra fonte di energia a eccezione delle onde radio ricevute grazie a una lunga antenna esterna. Funzionava a dovere, a parte quando una gallina si metteva a razzolare proprio sul filo, e allora bisognava correre fuori per rimediare a quel guaio. – Good evening dear students… It’s time to improve your English. Listen and repeat: «Please, open the window!». E, come se Ferdinando avesse capito che stava iniziando la lezione, si liberò dalla stretta di Luciana e corse in cucina per balzare sul tavolo.
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