SettentrionaleSicula _ anno 3_ numero 10 _ autunno 2013 free press
_CONFISCHE MAFIOSE _PRG DIMENTICATI _SPRECHI EDILIZI
Responsabile: Domenico Portaro Ufficio comunale Torregrotta, Via Giotto 39 tel./fax 090.9910632 e-mail: arketorregrotta@virgilio.it torregrotta@pec.italuil.it
CENTRO ASSISTENZA FISCALE
PATRONATO DELLA UIL
A.A.A. CERCASI SPONSOR c o l l a b o r a t o r i , i nv i a t i , g i o r n a l i s t i , g r a f i c i , fo t o g r a f i , p e r i l p ro g e t t o
SettentrionaleSicula
www.torregrotta.org
Autunno 2013
n° 10
Direttore Mauro Mondello Coordinatore editoriale Isidora Scaglione Redazione Antonino Giorgianni Isidora Scaglione Rita Lorena Paone Santo Gringeri Igor Cosimo Mento Dario Lo Cascio Emanuela Sciarrone Giuseppe Cassone Antonino Formica Giovanni Passalacqua Progetto Grafico Nunzio Gringeri Paolo Pino Daniele D’Agostino
Editore e Stampa Ass. Centopassi Arci Via XXI Ottobre 419 98040 Torregrotta (Me) Stampa flyeralarm SrL Viale Druso 265, 39100 Bolzano Contatti facebook: settentrionale sicula www.youtube.com/user/SettentrionaleSicula settentrionalesicula@gmail.com http://settentrionalesicula.blogspot.com infoline: 340 72 09 610 “Registrazione n. 11 del 05/12/2011 presso il Tribunale di Messina”.
“Ricordatevi che la rivoluzione è quello che conta, e che ognuno di noi, da solo, non vale niente.” Ernesto Che Guevara
L’editoriale
di Antoine Giorgianni
Questa volta sono stati troppi; centinaia di persone sono annegate, giovani, anziani, nonni, padri, madri, figli, troppe le bare messe insieme, troppi i dispersi inghiottiti dal mare. L’ultima tragedia di Lampedusa ha reso palese l’immane ecatombe di morti avvenute negli ultimi anni nel nostro Mar Mediterraneo, le vittime si contano a migliaia. Costretti dall’eccezionale visibilità mediatica, i governanti si sono precipitati sul luogo dell’evento per esprimere il loro dolore, il loro sconforto, ma erano lacrime di coccodrillo. Anche Angelino Alfano piangeva, peccato che lui stesso sia fra i responsabili della terribile legge Bossi-Fini, un testo indegno in cui viene decretato il reato di clandestinità e nei cui codicilli viene specificato che anche chi eventualmente presta aiuto, e quindi anche i pescatori in mare, incorre nel reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina. In verità, se i pescatori prendono cadaveri, invece che pesci, non é colpa di un destino beffardo, ma della politica miope, egoista, truffaldina, che non ha affrontato il problema epocale dell’immigrazione in tutta Europa. In un mondo“globalizzato”, post comunista ,post coloniale, fra rivoluzioni permanenti, dittature sanguinarie, paesi affamati ed in mancanza dei diritti più elementari, non é poi strano che scappino milioni di persone verso realtà considerate più vivibili. E cosa fa l’Europa ? Istituisce Frontex, un organismo di controllo inutile, anzi dannoso, mentre i vari governi europei restano liberi di legiferare a loro comodo in materia di migrazione, secondo le esigenze e/o le convenienze nazionali. Con questo meccanismo, é bastata spingere il pulsante della paura, del diverso, del musulmano, del povero arrabbiato e i voti sono arrivati a fiotti. I media hanno seguito il corso, spettacolarizzando casi criminali in cui erano implicati cittadini di origine straniera, veicolando lo stereotipo per cui ogni diversitá risulta criminale. Cosí abbiamo formato la tremenda opinione pubblica dello“stiano a casa loro”, dimenticando ogni cosa, le nostre radici di migranti prima di tutto. Sarebbe forse ora che ci calassimo nella realtà, che comprendessimo l´immigrazione per quello che é, vale a dire un problema complessivo che va affrontato insieme:società, politica, governi. Se vogliamo davvero vivere in pace e giustizia, se non vogliamo continuare a pescare cadaveri invece che pesci.
Sommario
Istruzioni per l’uso dei beni confiscati alla mafia pag. 4 di Isidora Scaglione Il mattone selvaggio pag. 10 di Dario Lo Cascio Tu chiamala, se vuoi, delegazione pag. 12 di Emanuela Sciarrone Quei bravi ragazzi: Giovanni Spampinato pag. 15 di Mauro Mondello Post-it pag. 16 Fotodrome pag. 18
Beni confiscati
Istruzioni per l’uso dei beni con
- Leggere con attenzione l’articolo illustrativo - Apprendere minuziosamente tempi e modalità di utilizzo - Fare attenzione agli effetti collaterali che la conoscenza e la cultura antimafia possono provocare nei soggetti mafiosi - Per maggiori informazioni rivolgersi al proprio Sindaco o a chi di competenza nella gestione dei beni di Isidora Scaglione Secondo i dati dell’ Agenzia del Demanio circa il 43% dei beni confiscati alla mafia è localizzato in Sicilia, di contro al 15% della Campania, al 14% della Calabria, al 9% della Puglia e al 20% complessivo di tutte le altre regioni. Ebbene sì, la regione del mare, del sole, del buon cibo e dell’arte detiene un altro importante primato, quello della maggiore concentrazione di beni immobili e aziendali un tempo in mano ai mafiosi. Certo, il dato non dovrebbe sorprenderci se pensiamo che la regione del mare, del sole, del buon cibo e dell’arte è anche quella meglio conosciuta in Italia e all’estero come mafiosa per antonomasia. Ma noi siciliani continuiamo a sorprenderci, a meravigliarci, a non riuscire a credere che proprio accanto a casa nostra è stato confiscato un bene appartenente ad un mafioso o ad una rispettabilissima persona che conoscevamo bene, che godeva di ottima reputazione, che magari si è solo macchiata del peccato di aver nascosto un latitante, giusto per non venir meno ai doveri della cortese ospitalità per la quale noi siciliani siamo universalmente riconosciuti, a proposito di stereotipi e luoghi comuni.
Abitazioni, terreni, aziende, sono tanti i beni ricadenti sul territorio siciliano sequestrati o confiscati e altrettanti o forse ancora di più quelli ancora da sottrarre alla criminalità organizzata. Secondo i dati del monitoraggio effettuato dall’ANBSC, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, nel 2012 sarebbero stati 143 i comuni siciliani assegnatari di beni confiscati. Circa il 55% dei beni loro assegnati risulterebbe utilizzato, mentre il 45% risulta ancora non utilizzato a causa di mancanza di risorse finanziarie, ipoteche, occupazione degli immobili da parte di terzi, difformità urbanistica, etc etc. L’Agenzia, istituita con decreto legge n.4 nel febbraio del 2010, convertito nella legge n.50 del 2010 poi recepita nel Codice Antimafia del 6.09.2011, è un ente dotato di autonomia organizzativa posto sotto la vigilanza del Ministro dell’Interno. Nell’ambito del percorso che va dalla sottrazione del bene alla criminalità organizzata alla restituzione dello stesso alla collettività, l’Agenzia interviene in due fasi: quella “giudiziaria”, che va dal sequestro alla confisca defini-
tiva, e quella “amministrativa”, che si conclude con la destinazione del bene alla collettività, fase dopo la quale comunque l’Agenzia continua ad espletare l’attività di monitoraggio per verificare che l’effettiva utilizzazione del bene sia conforme ai dettami legislativi. Questi ultimi sono rappresentati dal sopracitato Codice Antimafia e dal decreto legge 5/2012, ultime tappe di un lungo e travagliato percorso legislativo. Iter normativo in campo antimafioso Risale al 1965 la prima legge antimafia che mirava ad ampliare le misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità. La norma però non definiva ancora il fenomeno della mafia. Solo con la legge n. 646/82 veniva inserito nel codice penale l’articolo 416bis che definiva e disciplinava il reato di associazione di tipo mafioso, permettendo di perseguire non più solo i singoli, ma anche i soggetti affiliati all’organizzazione in qualità di membri di un’associazione di stampo mafioso. Inoltre la nuova legge includeva le misure
nfiscati alla mafia di prevenzione a carattere patrimoniale, ovvero il sequestro e la confisca. Con il Decreto Legge 230/89 per la prima volta si disponeva relativamente al patrimonio confiscato alla criminalità organizzata, attraverso l’inserimento della figura del giudice delegato alla procedura e dell’amministratore dei beni e attraverso la programmazione di un percorso per la destinazione degli stessi beni, stabilendone il mantenimento al patrimonio dello Stato o l’assegnazione ad un altro ente pubblico per usi istituzionali o sociali. Venne poi promulgata la legge 55/90 che prevedeva la possibilità di confisca per tutti i beni derivanti dal traffico di stupefacenti, estorsione, usura, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita e contrabbando. Sanciva, inoltre, la possibilità di applicare il sequestro e la confisca ai beni dei soggetti a cui non era possibile applicare una misura di prevenzione personale. Un’importante innovazione in tema di confisca è stata apportata dal decreto legge 306/92 che disponeva la sospensione temporanea dell’amministrazione di tutti i beni utilizzati nello svolgimento di attività economiche per i soggetti a cui era stata applicata o richiesta una misura di prevenzione personale o per i soggetti sottoposti a procedimento penale per i delitti di associazione di tipo mafioso, usura, ricettazione, riciclaggio, a cui non era possibile applicare una misura di prevenzione personale.
La legge 109/96 fu una delle forme di contrasto alla criminalità organizzata più importanti nell’ambito della gestione dei beni confiscati, giacché introduceva un’innovativa distinzione dei beni: vennero create le categorie di “beni mobili” (denaro contante, conto corrente, libretto postale e/o bancario, oggetti vari, animali, veicoli, brevetti, beni finanziari), di “beni immobili” (abitazioni, locali commerciali e industriali, terreni) e di “beni aziendali” (imprese e società). Per ciascun tipo di bene venne prevista una diversa
destinazione a seguito della confisca. I beni mobili non costituiti in denaro potevano essere venduti mentre i beni immobili potevano essere trasferiti ai comuni in cui erano siti per finalità istituzionali o sociali. Si decise che il comune avrebbe potuto gestire il bene in maniera autonoma o affidarlo a titolo gratuito a comunità, enti, organizzazioni di volontariato o comunità terapeutiche e centri di recupero. Se entro un anno dalla destinazione il comune non avesse provveduto all’attivazione del progetto di riutilizzo, il prefetto avrebbe potuto disporre la revoca della destinazione del bene e la nomina di un amministratore con poteri sostitutivi. I beni aziendali sarebbero stati trattenu-
ti direttamente dallo Stato che poteva disporne l’affitto a società pubbliche o private, la consegna a cooperative di lavoratori già dipendenti presso le stesse aziende o in alternativa la vendita o la liquidazione. Dall’entrata in vigore della legge 109/96 sono state emanate molte norme riguardanti l’utilizzo dei proventi delle confische e prevedendo, in alcuni casi, anche la vendita dei beni confiscati. Tra queste il decreto legge 8/91, che prevedeva che dai fondi relativi alle confische il Ministero dell’Interno, di concerto con il Ministero della Giustizia, stabilisse la quota dei beni sequestrati e confiscati da destinarsi per la protezione delle vittime di estorsione e sequestro di persona, dei testimoni e dei collaboratori di giustizia; la legge 44/99, che prevedeva la creazione di un fondo di solidarietà in favore delle vittime di richieste di estorsione ed usura; la legge 512/99, in cui venne inserita la possibilità di utilizzare le somme ricavate dalla vendita dei beni mobili e immobili per il risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso. Ma si è dovuto aspettare il 06.09.2011 per avere un vero e proprio Codice delle leggi Antimafia, che regolamentasse in modo più preciso e dettagliato soprattutto in merito alla gestione dei beni confiscati.
Il primo libro del Codice, a partire dall’art. 35, regolamenta minuziosamente l’iter che va dalla confisca all’utilizzo del bene. Innanzitutto si procede alla nomina del giudice delegato alla procedura e di un amministratore giudiziario, il quale, entro novanta giorni dalla nomina, deve presentare al giudice una relazione contenente lo stato dei beni, il loro presumibile valore di mercato, gli eventuali diritti di terzi ai beni sequestrati, l’indicazione delle forme di gestione più idonee. Nella prima fase l’amministratore giudiziario è coadiuvato dall’Agenzia, alla quale l’amministrazione dei beni è conferita dopo il decreto di confisca di primo grado. Entro sei mesi da tale data l’Agenzia è tenuta a
pubblicare nel proprio sito internet l’elenco degli immobili. Essi possono poi essere mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, ordine pubblico, protezione civile e per qualsivoglia attività istituzionale di amministrazioni statali, università, enti pubblici, etc. In alternativa i beni possono essere utilizzati dall’Agenzia oppure trasferiti per finalità istituzionali o sociali al comune in cui l’immobile ricade o alla provincia o alla regione. Gli enti territoriali possono direttamente amministrare il bene oppure assegnarlo a titolo gratuito in concessione a comunità, enti, associazioni organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, comunità terapeutiche, centri di recupero e
cura per tossicodipendenti. I beni non assegnati possono essere utilizzati per finalità di lucro purché i proventi vengano poi impiegati per usi sociali. Se entro un anno l’ente non ha provveduto alla destinazione del bene, l’Agenzia può disporne la revoca del trasferimento. I proventi derivanti all’utilizzo del bene affluiscono al Fondo Unico Giustizia. I beni di cui non sia possibile effettuare destinazione o trasferimento possono essere venduti e in questo caso gli enti territoriali hanno diritto di prelazione. A seguito dell’entrata in vigore del Codice antimafia è stato pubblicato un nuovo provvedimento che incide sulla destinazione dei beni confiscati, il decreto legge 5/12. Tale norma, definita “decreto semplificazioni”, prevede, tra le politiche di accrescimento dello sviluppo delle attività turistiche sul territorio, la concessione dei beni confiscati a cooperative di giovani di età non superiore ai 35 anni per la realizzazione di attività imprenditoriali a fini turistici. In Sicilia si lavora e non solo… Le regioni Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, maggiormente caratterizzate rispetto ad altre regioni da problemi di sviluppo e sicurezza, usufruiscono di specifici interventi statali nell’ambito dei cosiddetti progetti PON, Programmi Operativi Nazionali a favore della “Sicurezza per lo Sviluppo”. Tra i vari interventi particolare rilevanza hanno acquisito nel corso del tempo quelli finalizzati al riutilizzo dei beni confiscati. Quest’ultimo aspetto è inoltre contemplato anche dai singoli
Programmi Regionali di finanziamento, tra i quali i principali sono gestiti direttamente dalle amministrazioni regionali e co-finanziati attraverso fondi FESR e FSE. Ulteriori interventi in merito al riutilizzo dei beni confiscati sono regolamentati dalle legislazioni regionali. In Sicilia, ad esempio, la Legge Regionale 6/01 elargisce contributi in favore delle associazioni antimafia mentre la 20/08 contempla le misure di contrasto alla criminalità organizzata, soffermandosi in modo particolare sul recupero dei beni confiscati, in merito alla partecipazione economica della Regione a favore delle associazioni e delle cooperative che gestiscono i suddetti beni. Tra queste ultime nel panorama siciliano un posto di rilievo è occupato dalla Cooperativa Lavoro e Non Solo che, nata da un progetto di Arci Sicilia e partner di Libera, gestisce dal 2000 un’azienda agricola che coltiva terreni confiscati a Cosa Nostra tra Corleone, Monreale e Canicattì. L’attività agricola, condotta interamente secondo i principi e i metodi della coltivazione biologica, consente alla cooperativa di porre l’attenzione anche su altri problemi sociali, impegnandosi a favorire inserimenti lavorativi di persone con problemi di salute mentale. Le attività della cooperativa hanno avuto inizio nel 1999 quando le è stato concesso il lotto di un terreno di dieci ettari confiscato a Giovanni Marino, nipote di Luciano Liggio, uno dei boss più potenti di Cosa Nostra, colpevole, tra le altre cose, dell’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto. Successivamente la cooperativa ha avuto in gestione altri terreni confiscati a Lo Iacono, mafioso di Partinico, e ai Grizzafi, mafiosi
corleonesi. Oggi la Cooperativa Lavoro e Non Solo gestisce 58 ettari di terra a Corleone, 72 ettari a Monreale, 19 a Canicattì, un laboratorio di lavorazione dei legumi e casa Grizzafi, alloggio estivo dei volontari che ogni anno decidono di vivere l’esperienza di lavoro nei campi antimafiosi. Il panorama messinese Secondo i dati forniti dall’Agenzia Messina si trova al quarto posto della classifica siciliana per presenza di beni confiscati nel proprio territorio, con un totale di 267 beni a livello provinciale, dopo Palermo (3.637), Catania (629) e Trapani (386). Con delibera del Consiglio Comunale n.72 del 19.10.2010, su proposta dell’allora assessore al patrimonio comunale e decentramento Franco Mondello, anche la città dello stretto si è munita di un apposito “Regolamento per l’uso e l’affidamento in concessione a favore di soggetti privati di beni confiscati alla mafia”. L’elenco dei beni confiscati nel messinese comprende numerosi immobili di diversa tipologia: ville, appartamenti, uffici, locali commerciali e box auto. La maggior parte degli immobili era di proprietà del boss Santo Sfameni (tre appartamenti, una casa, una cantina, un box e un lastrico solare), seguito da Letterio Sollima (sei appartamenti), Lorenzo Ingemi (quattro appartamenti ed un locale commerciale) e Michelangelo Alfano, riferimento di Cosa Nostra a Messina (tre appartamenti ed un terreno), Francesco Ingemi (due appartamenti ed un posto auto), Luigi Sparacio (una villa ed un appartamento) e molti altri ancora. I beni sottratti a Michelan-
gelo Alfano sono stati destinati ad essere utilizzati dal Comune per fini istituzionali, nella fattispecie per ospitare una stazione dei Carabinieri e la Compagnia della Guardia di Finanza. Negli ultimi anni è notevolmente aumentata la percentuale di sequestri, se pensiamo a quello da 25 milioni di euro all’imprenditore edile di Milazzo Vincenzo Pergolizzi, risalente al 2010, e ancor di più al maxi sequestro avvenuto proprio nelle ultime settimane alle famiglie Bonaffini e Chiofalo, alle quali sono stati sottratti beni per un valore di 450 milioni di euro, illecitamente derivanti dai rispettivi ma-
laffari in campo edile e ittico e sequestrati soprattutto grazie alla testimonianza del collaboratore di giustizia Salvatore Centorrino. Quest’ultimo avrebbe svelato i legami tra il boss di Mangialupi, Alfredo Trovato, e i Bonaffini, con la “gentile” collaborazione dei Chiofalo. Il 12.07.2012 è avvenuta la consegna da parte del Comune di Messina del primo bene confiscato, assegnato in seguito ad una gara di evidenza pubblica. Si tratta di un immobile sito in via Roosevelt, trasferito al patrimonio indisponibile del Comune nell’aprile del 2011 ed assegnato al Comitato Addiopizzo.
Il caso torrese Anche a Torregrotta risuona famoso il nome del boss Santo Sfameni, soprattutto da quando, nel 2003, un provvedimento della magistratura ne ha eseguito la confisca di beni per un valore di circa 16 milioni di euro, suddivisi tra 48 terreni, locali pubblici, 15 appartamenti, 2 società immobiliari, una ditta individuale, 2 imprese di costruzione, 10 fabbricati rurali, decine di automezzi, conti correnti bancari e libretti di risparmio. Tra questi un terreno di 1680 metri quadrati ricadente nella frazione di Scala, del valore di circa 100.000 euro,
oggi restituito dall’amministrazione torrese alla collettività come parco giochi. Nell’ambito dell’operazione antimafia “Witness”, Sfameni era considerato la terza punta della mafia peloritana insieme a Michelangelo Alfano e all’ex boss Luigi Sparacio. Determinante fu l’inchiesta sull’omicidio di Graziella Campagna e le testimonianze di collaboratori di giustizia come Santi Timpani, il quale in una dichiarazione fece riferimento alla latitanza nella zona di Scala Torregrotta di Gerlando Alberti junior, dal 2008 all’ergastolo insieme a Giovanni Sutera per l’omicidio della Campagna. Il Timpani fece chiare allusioni ai rapporti dell’Alberti con il boss Santo Sfameni, che guarda caso possedeva degli immobili proprio a Scala Torregrotta. Dal 2006 a Torregrotta sono stati confiscai altri beni riconducibili allo Sfameni: un locale commerciale di circa 150 metri quadrati ed una mansarda sita nello stesso palazzo, in via Lungomare Livatino ad angolo con il Corso Sicilia. Negli ultimi anni diverse sono state le ipotesi in merito all’utilizzo dei suddetti immobili: centro ricreativo, colonia estiva, biblioteca, sportello donna a sostegno delle fasce più deboli. Con decreto assessoriale n.111 del 03.05.11 è stato concesso al Comune di Torregrotta un contributo straordinario di quasi 27.000 euro per i lavori di adeguamento dei beni confiscati così come previsto dalla legge n.375 del 31.05.65 e successive modifiche. In data 11.06.12 l’Area Territorio ed Ambiente ha provveduto all’affidamento dei lavori di ristrutturazione in seguito all’espletamento della gara
avvenuto il giorno 27.05.13. Alla ristrutturazione dovranno seguire la riqualificazione e la riconversione degli immobili confiscati, oggetto entrambi di un bando pubblico emanato dalla Regione Sicilia in data 29.06.2013. L’ a m m i n i s t r a zione comunale, con delibera di Giunta n.140 del 03.10.2013, ha approvato a tal proposito un progetto di pronto soccorso sociale da allocarsi nei suddetti beni, per un valore complessivo di 350.000,00 euro, da presentare, ai fini della partecipazione al bando, entro il 05.11.2013. Qualcosa si muove in territorio torrese? I beni confiscati saranno finalmente restituiti alla collettività ed utilizzati ad esclusivo uso sociale, per sottolinearne
l’immenso valore etico nell’ambito della lotta alle mafie? Soltanto il tempo potrá darci una risposta.
Foto di Rita L. Paone
Torregrotta
Il mattone selvaggio di Dario Lo Cascio
Almeno una volta nella vita si sente nominare o si ha a che fare col cosiddetto “Piano Regolatore Generale Comunale”. Ma che cos’è? In buona sostanza il PRG (come lo chiameremo da qui in avanti per comodità) serve a regolare l’attività edificatoria all’interno del territorio comunale – o dei territori comunali – al quale fa riferimento. È fondamentale ovviamente, ma è bene specificarlo, ad evitare che chiunque possa costruire qualsiasi cosa dove gli pare. Se, ad esempio, avete un terreno che il PRG identifica come “verde agricolo” non potete di vostra iniziativa decidere di costruirci sopra degli edifici. Un esempio non inventato sul momento, dato che è accaduto di recente a Messina, esattamente a Fondo Cardia, dove un complesso di villette è sorto dove invece al massimo poteva esserci un uliveto. Una premessa doverosa per introdurre un problema attuale e mai risolto, tanto spinoso quanto avvolto nelle pastoie burocratiche: il Piano Regolatore di Torregrotta. Il PRG di Torregrotta, così come dovrebbe e potrebbe essere messo in attuazione già da domani, risale al 1996, quando venne approntato – e approvato – il progetto di massima del suddetto. Rimase però par-
cheggiato lì, tra le migliaia di delibere mai approvate in mezzo a cui ogni Comune italiano si trova a doversi districare, fino al 2004, quando l’Amministrazione Trifilò decise di riprenderlo in mano. Ma già a quel punto era evidente che qualcosa non andava come previsto: in quegli otto anni era capitato a Torregrotta un po’ di tutto, a livello edilizio. Ci spieghiamo meglio. Il già citato schema di massima del PRG prevedeva, entro il 2015, la realizzazione di una volumetria pari a non oltre 241.500 metri cubi. In soli 5 anni però, dunque fra il 1996 ed il 2001, la volumetria degli edifici realizzati nel territorio comunale era di 330.000 metri cubi. Quasi un terzo in più di quella prevista e quattordici anni prima del previsto. C’era palesemente qualcosa che non tornava. Ma andiamo avanti. Tralasciando i vani tentativi di dare concretezza al PRG portati avanti da parte del commissario Casarrubea, sembrò arrivare al Comune di Torregrotta, finalmente, il “salvatore della patria”: Antonino Caselli. Tra il 2006 e il marzo 2008 si definirono infatti alcune questioni che sembravano mettere il PRG sui binari giusti e consentirgli un sereno e tranquillo viaggio verso la meta finale: l’approvazione definitiva. Cosa che effettivamente avvenne. Il PRG venne infatti presentato all’Assessorato regionale competente a fine 2009, ottenendo “parere motivato favorevole” al
termine dello studio di valutazione ambientale strategica (VAS), il 26 novembre del 2010. A questo punto, direte voi, è fatta. Il PRG di Torregrotta può essere attuato. No, vi sbagliate di grosso. A questo punto è iniziato uno strano balletto, che ha visto coinvolti amministrazione comunale e Assessorato regionale Territorio e Ambiente. La Giunta Caselli ha continuato a proporre in Consiglio Comunale lo schema di massima del PRG, perché a quanto pare necessitava di ulteriori note da inviare ai progettisti, affinché fosse modificato. Peccato che ciò non sia affatto possibile, in quanto il progetto è già stato approvato in via definitiva a fine 2010. Negli ultimi due anni sono arrivate al Comune di Torregrotta almeno cinque diffide da parte dell’Assessorato regionale, che “suggeriva caldamente” di concludere il procedimento e rendere operativo il PRG. Diffide che, a conti fatti, hanno lasciato il tempo che hanno trovato. Le soluzioni a questo punto restano solamente due. La prima, più rapida ed economica, è quella di abbandonare ogni indugio e approvare il progetto così com’è. Oppure, e questa seconda soluzione comporterebbe sprechi e tempi ben più lunghi, si potrebbe stracciare il PRG e rifarlo totalmente daccapo. Significherebbe prendere schemi, valutazioni, consulenze e gettare tutto bellamente nel tritacarte.
Siamo realisti: una soluzione che accontenti tutti non esiste. Attuare il PRG così come si presenta è probabilmente ormai improponibile. Sarebbe un obbligo burocratico, ma non verrebbe a risolvere i problemi della città, che ovviamente sono mutati e muteranno ancora nel tempo. Un nuovo PRG rischierebbe di dover ridefinire il volto di Torregrotta, andando a pestare molti piedi e bloccando sul nascere molti progetti edilizi. Vi sarete chiesti, a questo punto della storia, se il procrastinare reiteratamente il PRG sia diventato a Torregrotta lo sport ufficiale. Inutile anche puntare il dito solo su chi c’è adesso. Rammentiamo infatti che, prima dell’elezione di Caselli del 2006, il progetto di massima esisteva già da dieci anni. No, non è solo un problema dell’istituzione comunale. Poco o nulla possono pochi consiglieri d’opposizione che provano a far valere le proprie idee. È un problema più ampio, una questione di cultura e coscienza territoriale e urbanistica che riguarda anche e soprattutto i cittadini. Un concetto forse un tantino troppo complicato per essere anche solo preso in considerazione. Il limbo burocratico nel quale è caduto il PRG di Torregrotta sembra quindi andar bene ormai quasi a tutti.
Rometta
Tu chiamala, se vuoi, delegazione di Emanuela Sciarrone
E’ una frazione all’insegna del paradosso quella di Rometta Marea: se da un lato si convive con abusivismo edilizio, penuria di infrastrutture, scuole in condizioni disastrose, strade dissestate e molto altro ancora, dall’altro si gode di uno degli edifici più eccentrici della zona, del valore di circa 2 milioni di euro. Si tratta del capolavoro situato nello spazio antistante Piazza Padre Pio, sul Corso della Libertà, destinato ad ospitare gli uffici del decentramento del Comune di Rometta ma che, dal termine dei lavori, avvenuto nell’estate di due anni fa, ad oggi, non serve ad altro se non a far storcere il naso ai passanti. La comunità romettese non riesce infatti a definirsi affascinata dal risultato finale: un avveniristico edificio color pappa reale che vanta curve sinuose, bagni in vetrina e uffici le cui forme farebbero invidia ai firmatari del Manifesto dell’Architettura Futuristica, ma che attanagliano di dubbi sia chi dovrà occuparsi dell’arredo che i comuni mortali romettesi. Dai commenti dei cittadini emerge un disgusto profondo per quanto concerne sia il lato estetico della struttura, sia quello burocratico. A desiderare l’apertura dei nuovi uffici non sono, d’altronde, soltanto
gli impiegati, ma anche buona parte degli abitanti di Rometta Marea. Il perchè è presto spiegato: i consigli comunali, a cui molti parteciperebbero volentieri, si svolgono attualmente presso il Municipio di Rometta, a 15 km di distanza dalla frazione marittima. Certamente una passeggiata per raggiungere i 590 m s.l.m. per essere parte attiva del proprio paese può essere anche considerata piacevole, il ritorno, invece, un po’ meno, visto che la durata di un consiglio comunale, a Rometta, si aggira intorno alle otto-nove ore e le riunioni terminano quindi, quando va bene, alle 2 del mattino. La vicenda degli Uffici del Decentramento ha inizio ben oltre dieci anni fa, quando l’allora Sindaco Enrico Etna assegna al geometra Salvatore Grillo la responsabilità del primo progetto di massima, ovvero la realizzazione di un’idea generica dell’opera e dei costi di costruzione. In seguito al drastico deterioramento dei rapporti con l’Ufficio Tecnico, avvenuto poco dopo l’incarico ricevuto, il geometra Grillo viene però sostituito dall’Ingegnere Nicola Cannata, capo del suddetto ufficio, affiancato dall’ Ingegnere Salvatore Crinò, R.U.P. (Responsabile Unico del Procedimento), a cui viene richiesta la verifica
della regolarità nelle procedure amministrative e che, quando gli richiediamo un parere su tutta la questione relativa agli Uffici del Decentramento, ci risponde con un “Non spetta a me esprimere valutazioni di questo genere, anche perché non voglio rischiare che queste possano essere strumentalizzate”, specificando di essere soltanto un dipendente dell’Ingegnere Cannata all’interno dell’Ufficio Tecnico. Ad ogni modo, ottenuta l’ autorizzazione del genio civile l’1 agosto del 2007, i lavori vengono consegnati il 2 dicembre dell’anno successivo. Nei quattro anni che seguono il sindaco Enrico Etna non abbandona la sua linea politica del far nulla e lascia precipitare nel dimenticatoio il progetto. Abbadessa, subentratogli, non fa però certo di meglio... Il 29 novembre 2012 si insedia l’ultimo degli esperimenti del sindaco romettese, la quinta giunta comunale, una vera e propria esplosione di novità. L’Assessore Maria Catanzaro è la più anziana delle new entry, sebbene non abbia ancora compiuto 40 anni, e sembra essere anche la più caparbia. Le deleghea dell’Iron Lady della classe politica romettese sarebbe ai Servizi Sociali, al Personale e alle Pari Opportunità, ma è sotto gli occhi
di tutti come si ritrovi spesso a dover colmare le lacune della giunta di cui fa parte, per esempio occupandosi personalmente dell’assessorato ai Lavori Pubblici, che spetterebbe, nientepopodimeno che, al suo sindaco. Di conseguenza, la Catanzaro si occupa quindi, anche, dell’iter burocratico che dovrebbe portare all’apertura dei nuovi uffici del decentramento comunale. “In realtà” - sottolinea l’assessore Catanzaro quando ironizzo sull’operato del nostro sindaco - “mi ha chiesto lui di occuparcene insieme.” L’assessore, oltre a un’opinione non esattamente entusiasta riguardo l’estetica della struttura (la stessa opinione, quindi, dei suoi compaesani) dimostra di avere anche le idee piuttosto chiare riguardo alla vicenda. Le condizioni degli attuali locali di Via Mezzasalma, in cui si trova la delegazione del Comune di Rometta, sono piuttosto disagiate, ma l’amministrazione, per bocca della Catanzaro, ha garantito agli impiegati che non dovranno rimanerci ancora a lungo. Nel prossimo mese di dicembre si prevede il collaudo statico, che verrà poi seguito dal collaudo tecnicoamministrativo, ovvero le verifiche e le prove necessarie ad accertare la rispondenza tecnica delle opere eseguite alle prescrizioni del progetto e del contratto e delle eventuali perizie di variante approvate, la verifica tec-
nico-contabile delle misure delle opere e dei relativi prezzi applicati, l’esame ed il parere sulle eventuali riserve presentate dall’appaltatore, l’emissione del Certificato di Collaudo. Purtroppo i romettesi sembrano piuttosto scettici e il dubbio che il dicembre di cui l’assessore parla sia quello del 2038 è tra questi molto diffuso. Inoltre, tra i piccoli dettagli mancanti che emergeranno durante i suddetti controlli, ci sarà probabilmente l’illuminazione, esattamente 20 kilowatt. Per illuminare il nostro colosso serve dunque una cabina elettrica il cui costo si ag-
gira intorno ai 35.000 euro. In un comune che, da quanto appurato sino ad oggi, sembra essere il paradiso del politically correct, l’ unica giustificazione a tale mancanza non può che essere l’ormai inflazionatissimo “dissesto economico”. Eppure il canone semestrale dell’affitto degli attuali locali della delegazione equivale a 12.000 euro, tre semestri basterebbero quindi ad acquistare la suddetta cabina elettrica. Perché insomma continuare a pagare un affitto e non spendere, invece, quei soldi per risolvere gli ultimi dettagli tecnici? Ai posteri l’ardua sentenza.
Quei bravi ragazzi
Giovanni Spampinato di Mauro Mondello
Ragusa, 1960-1970. Il contrabbando di sigarette, di droga, di armi, in un canale che collegava Siracusa alla Grecia dei colonnelli tramite Xenofòn Mephalopoulos, il console greco in Sicilia buon amico del sindaco siracusano della Democrazia Cristiana, Antonio Giuliano. I campi di carrubi che diventavano terreni di addestramento per organizzazioni paramilitari. I raduni della destra eversiva e la presenza indisturbata, in tutta la provincia, di latitanti neofascisti del calibro di Stefano Delle Chiaie e Vittorio Quintavalle. Di tutte queste cose aveva scritto Giovanni Spampinato. Questo e tanto altro ancora accadeva, d’altronde, nella ridente provincia di Ragusa, quel pezzo di terra siciliana oggi diventato famoso grazie agli sceneggiati televisivi del commissario Montalbano. Non sembravano, questi fatti, creare alcun problema alla popolazione ragusana, anzi, tutto scorreva come sempre, inesorabile e felice. I ragusani non sapevano (e tantomeno volevano sapere...), ad esempio, chi avesse ucciso Angelo Tumino, ingegnere, ex playboy, ex consigliere comunale del Msi e commerciante di antiquariato, il cui cadavere venne ritrovato nel mezzo di un tratturo il 25 febbraio del 1972. I ragusani non volevano
saperlo, si diceva, ma fra corrispondenti di cronaca della provincia c’era un ragazzo, un giovane studente universitario di 25 anni, che aveva un punto di vista diverso. Si chiamava Giovanni Spampinato e frequentava la Facoltà di Filosofia a Catania. Dal 1969 aveva cominciato a collaborare con L’Ora di Palermo, il leggendario quotidiano diretto da Vittorio Nisticò, il giornale che di fatto inventò l’inchiesta in Sicilia ed a cui la mafia assassinò tre cronisti: Cosimo Cristina, il 5 maggio del 1960, Mauro De Mauro, scomparso a Palermo il 16 settembre del 1970, e, appunto, Giovanni Spampinato. Spampinato era un ragazzo di buone letture e di solida formazione culturale. Suo padre Peppino era stato un comandante partigiano sui monti della Jugoslavia, decorato con due medaglie d’argento, e per anni era rimasto uno dei dirigenti più noti del Partito Comunista ragusano. Cresciuto in un ambiente dalla solida connotazione progressista, Giovanni Spamipianto era un intellettuale indipendente. Dai suoi scritti giovanili emerge forte la sua idea di una stagione, quella del ‘68, considerata ormai esaurita, e di quanto bisognasse concentrarsi sugli ideali di uguaglianza sociale, diritto allo studio, diritto al lavoro,
politica partecipata dalla base e volontariato sociale. Le sue non erano soltanto parole. Il suo impegno restava impresso sulla carta giorno dopo giorno, con le battaglie civili portate avanti grazie al giornalismo, la volontà di scuotere i suoi concittadini e di mostrare tutto un universo di ingiustizie a cui la popolazione si sottometteva in silenzio. Furono numerosi, ad esempio, gli articoli in cui si denunciavano le pratiche inumane e semifeudali con cui ancora nel 1970 venivano determinati nel ragusano, e in tutta la Sicilia, i rapporti fra contadini e proprietari terrieri. Fu in questa ricerca di verità, in questa ingenua convinzione che i ragusani potessero essere svegliati, che Giovanni si interessò dell’omicidio di Angelo Tumino, scrivendo quello che tutti i suoi colleghi giornalisti non solo non avevano scritto, ma che anche gli avevano consigliavato di non scrivere. “Chi te lo fa fare”, gli dicevano. Ma a Giovanni Spampinato sembrava una cosa tanto naturale, quella di scrivere i fatti nudi e puri, così come potevano essere visti da chiunque altro e nel modo in cui era giusto andassero raccontati. Successe così che il giovane giornalista fece notare una coincidenza a dir poco scioccante: fra i sospettati dell’omicidio Tumino vi era anche Roberto Campria, miglior amico di Tumino e figlio di Saverio Campria, presidente del Tribunale di Ragusa. Giovanni lo scrisse, si documentò
ed il suo giornale pubblicò il nome del sospettato eccellente. Giovanni chiese dalle pagine de L’Ora per quale motivo non si trasferisse l’istruttoria penale, stante un caso tanto solare di possibili influenze nelle circostanze dell’inchiesta giudiziaria. La risposta non tardò ad arrivare. Roberto Campria aveva 30 anni. Anche lui studiava all’università, ma a Palermo, le sue passioni erano le carte, le frequentazioni malavitose e le armi. Possedeva, senza permesso, un fucile e due pistole, altre due era andato a comprarle a Calragirone pochi giorni prima di uccidere Spampinato. Erano la Erma calibro 7,65 e la Smith & Wesson calibro 38 con cui sparò al giovane giornalista il 27 ottobre del 1972. Poi si costituì. I giudici gli diedero 14 anni e considerarono come attenuante la “provocazione”, così la chiamarono, degli articoli pubblicati da L’Ora di Palermo. Ovviamente di anni ne scontò soltanto 8, in manicomio giudiziario. Nel frattempo, il processo per il delitto Tumino è stato archiviato nel 2006: opera di ignoti, ha scritto il Tribunale per decisione di Agostina Fera, quello stesso magistrato che 34 anni prima si era occupato delle prime indagini e che nel frattempo è stato nominato, nel 1993, procuratore capo. La storia di Giovanni Spampinato è stata dimenticata per più di 30 anni. Nel 2007, insignendolo del premio Saint Vincent per il giornalismo alla memo-
ria, Giorgio Napolitano ha detto che con la sua vita e con la sua morte Giovanni
Spampinato ha onorato la storia del giornalismo italiano.
Post-it
IL FUTURISTA
di P. Daveru
Ve lo dò io il leader Il Caro Leader, nonchè Unto del Signore, il Boss, il Sogno degli Italiani, Papi, e via via idolatrando, dopo essere stato dato per morto numerose volte ed essersi salvato per una pistola che si inceppava nell’attimo fatale, pare si sia suicidato lungo il tunnel delle Larghe Intese o forse chissà. Investito da un’Alfetta (Alfano-Letta). Siamo senza Leader ed è improcastinabile trovarne uno altrettanto odiato e amato nel più breve tempo possibile, sennò si corre il rischio gravissimo di tornare alla normalità. La nostra agenzia sondaggistica, ipermatematica, iperaffidabile, iperfuturistica, LOISACHI, si è attivata all’uopo indagando a manetta, scandagliando, milioni, miliardi di dati, e analizzandoli fino alle feci per trovare l’elemento giusto. Abbiamo studiato tutti i lati oscuri della popolazione, tutte
le abitudini culinarie, erotiche, ludiche, sportive e psicotiche. Abbiamo visto ore e ore di intrattenimento televisivo, giochi, giochini, abbiamo spulciato nei carrelli del supermercato per carpire i gusti, abbiamo esaminato al lumicino i cartelli pubblicitari, ci siamo intrufolati nelle feste paesane, nei concerti, nelle curve degli stadi. Tutte queste vagonate di oggetti del desiderio, sono state buttate in grande testa di computer e dopo essere state mescolate per bene e avere fatto una buona cernita, ne è uscita con precisione quasi millimetrica la figura del Neo Leader. È giovane, vivace, ma non troppo, andante con brio. Capelli nero tavola, testa d’uovo, fronte campo largo, camicia a mezza manica, jeans con cerniera, mutande boxer scarpe della casa e calzini viola. Non parla mai a vanvera e dà sempre stoccate a qualcuno, così da sembrare il pù intelligente. Fa discorsi brevi e concisi e tocca solo argomenti polically correct: diminuzione delle tasse, tagli delle spese, green economy, ma stando attento a non addentrarsi troppo, per non incorrere nella problematiche di riconversione economica, parla poco di conflittualità sociale e redistribuzione del reddito. Per il Neo Leader tutto ciò che odora di socialismo e di ideologia novecentesca, è bandito, fuorilegge, fuori. Inoltre è leggero futile e dilettevole, senza pensieri profondi, senza Grillo per la testa, cattolico, nè con i gay, nè
contro i gay, antirazzista ma contro i clandestini, contro la corruzione, ma non contro l’affarismo. In politica estera è filoamericano anglosassone, filo israeliano anti arabo e nutre una discreta antipatia per i francesi. In estrema sintesi è: Reazionario, Effervescente, Nazionalista, Zelig, Invincibile. Siamo sicuri che il figliolo piace a molti, ma noi che siamo irrazionali, anticonformisti, sognatori e talvolta rivoluzionari, desidereremmo che un si fatto candidato non venisse votato.
Il Volo della Manta di Paolo Pino
Capitolo 6 (1) Esco dalla stazione, entro prima nel sottopassaggio, poi passo davanti all’edicola, e osservo con un certo disinteresse la quantità infinita di immagini raggruppate tutte in un solo punto, che producono in questo modo lo stesso effetto di un pugno nello stomaco. Non so perché, mi soffermo e preferisco osservare le copertine dei fumetti, più pastellate e meno dure delle foto dei settimanali, ma non ho alcuna intenzione di acquistare nulla. Sorrido all’edicolante - un grassone con una maglietta raffigurante due draghi che formano un cuore, baffi alti due dita, capelli lunghi fino alle spalle, e occhi piccoli come due spilli, che si perdono tra le
guance ricoperte da una patina di sudore - con l’aria di chi dice «sto meglio di te, ma ti compatisco». Sta per tramontare. I negozi del corso sono ancora tutti aperti, entro in uno di quelli dei quali il mio me precedente non avrebbe neanche guardato da lontano la vetrina, non devo più conservare liquidi per le vacanze in qualche atollo sperduto dell’Oceano Indiano, non devo pensare alle bollette, alle rate dell’auto, sono solo con i miei affezionati stracci che sanno ancora di città. Deciso, mi reco al reparto “mare”, e prendo dalle grucce tre costumi di dubbio gusto. Con gli stessi soldi coi quali mi permetto questi costumi avrei potuto comprare un palmare nuovo di zecca dell’ultima generazione, ma si sa, lo squallore in questo strano mondo lo si paga molto caro. Mi si avvicina la commessa, impaurita forse dal mio aspetto trasandato, e mi chiede se ho bisogno di qualcosa, anche se le leggo negli occhi che al mio primo passo falso o tentennamento non esiterebbe a chiamare l’iperpalestrato iperlampadato il-mondo-èmio che sostava davanti al reparto degli indumenti classici per uomo. Tento di rassicurare la commessa – una biondina che a giudicare dalla pelle liscia e dal portamento compito è una di quelle che vanno a farsi manicure e pedicure tutti i giorni in qualche beauty center per non sfigurare ai party di qualche Vip della zona, o semplicemente per non sfigurare davanti
al Sindaco della cittadina pronto ad elemosinare un posto pubblico in cambio di una sveltina – porgendole i costumi con naturalezza, chiedendole di mettermeli da parte mentre scelgo qualche altro indumento. Dopo mezz’ora in quell’atelier, ho messo da parte indumenti per ogni evenienza e speso circa due stipendi: oltre ai tre costumi, ho preso un jeans, quattro magliette, due a manica corta e due a manica lunga, un completo gessato, un paio di scarpe classiche, e svariati cambi di indumenti intimi di ogni tipo e colore. Prima di uscire chiedo alla cassiera – matrona uscita da qualche foto ingiallita del secolo scorso, con tanto di baffi e neo peloso su un angolo del mento – di indicarmi un hotel nelle vicinanze. Solo dopo avermi consegnato la ricevuta con flemmatica indifferenza, la gigantessa dice: «Hotel dei Limoni, cinquecento metri percorrendo il lungomare verso destra uscendo da qui». Uscito dal negozio mi reco sul molo, che è proprio lì di fronte, mentre scende piano quel sole che scalda ancora e non vuole rassegnarsi. Passeggiando sul molo, stracarico di buste – è l’unica cosa che mi crea un certo disagio ed impaccio – mi seggo su una panchina, osservo finalmente con soddisfazione l’orizzonte, reso ancora più netto dai colori creati dal tramonto, e porto alla bocca una sigaretta, spostando il mio sguardo sulle imbarcazioni ancorate al molo, che danzano con solerzia ac-
compagnate dalle onde lente della sera. Mi chiedo perché abbiano tutte nomi di donne che mi fanno tornare alla mente la matrona del negozio: Agata, Assunta, Carmela, Maddalena. Probabilmente il motivo è quanto mai ovvio: superstizione e religione. Distolgo lo sguardo dalle righe orizzontali multicolori che girano intorno alle barche di legno e mi godo la sigaretta. Non è un eufemismo. Me la godo concentrato sulla soddisfazione che mi dà. Niente di più rilassante. Sette minuti dopo - il tempo medio di una sigaretta marcio a passo spedito nella direzione in cui dovrei trovare l’Hotel dei Limoni. E così è. Una specie di casermone orrendo, di un marrone che fa a cazzotti con il resto delle abitazioni del paese - tutte bianche con rifiniture di un blu intenso ma non troppo scuro - costruito sicuramente a cavallo tra i ‘70 e gli ’80. Entro nella hall completamente deserta. Alla reception mi accoglie un giovanotto dall’aria simpatica, mi chiama «signore» nonostante a giudicare dalla sua calvizie incipiente non abbia molti anni meno di me, ma soprattutto nonostante il fatto che il mio aspetto non deve essere granché rassicurante. Mentre vengo delucidato su diritti e doveri del bravo cliente, e su ciò che viene indicata nel depliant come mezza pensione, penso già a quando sarò sotto la doccia, non ne posso più di questi vestiti, appartengono a una persona che ho dimenticato già com’era. Devo liberarmi del bozzolo.
Fotodrome
Elettrodotto, Valdina (foto di _Paolo _Pino)
Elettrodotto, Valdina (foto di _Paolo_Pino)