Blocchi di memoria

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Settimio Martire

BLOCCHI DI MEMORIA Viaggio nel Campo di Concentramento di Auschwitz - Birkenau


PREFAZIONE Il lavoro “Blocchi di memoria” ripercorre il viaggio esperienziale realizzato nel 2013 in uno dei luoghi più tristemente conosciuti del ventesimo secolo, ovvero il campo di concentramento di Auschwitz - Birkenau, a Oświęcim in Polonia. Un viaggio dettato dal richiamo di un luogo di cui tutti conoscono le tristissime vicissitudini ma che molto spesso viene percepito nell’immaginario collettivo per tramite dei ricordi trasposti dalla lettura di libri come: “Se questo è un uomo” di Primo Levi, il “Diario Di Anna Frank”, o dalla visione di film come “Auschwitz” o “La vita è bella” giusto per citare i più famosi e conosciuti. Trovarsi in prima persona in un posto come Auschwitz apre la mente ad un sacco di interrogativi.

Il titolo “Blocchi di memoria” può essere interpretato in duplice chiave di lettura, ovvero: come un richiamo ai tanti “blocchi” di edifici numerati che formavano il campo di prigionia in cui venivano alloggiati i detenuti (oggi aree del Museo della Memoria). In seconda lettura la parola sta a significare il possibile rifiuto del cervello, in una sorta di blocco mnemonico che scatta nel momento in cui si provi a pensare che sia mai stato possibile operare tale abominio sui nostri simili per questo lungo tempo. L’assordante silenzio che aleggia intorno ad Auschwitz, la sensazione di impotenza di fronte quello che è avvenuto e la speranza che ciò non si ripeta più, passa sicuramente attraverso il risveglio delle coscienze, un processo che può avvenire solo mantenendo vivo il ricordo, non dimenticando quello che è stato, solo così potremo evitare i “blocchi di memoria”. #ionondimentico


RICONOSCIMENTI

Nel mese di Settembre 2014 il progetto Blocchi di Memoria è stato esposto in anteprima a Tarsia (CS) presso il Museo Internazionale della Memoria Ferramenti di Tarsia. Una personale fotografica dal titolo “Percorsi della Memoria”, accompagnata delle splendide poesie di Anna Lauria e curata da Alessandra Carelli e Roberto Sottile, ha riscosso un notevole successo e molti apprezzamenti. Ecco cosa hanno scritto a riguardo: "Gli scatti dell’artista così diventano poesia, molto si gioca su effetti di luci e ombre e su una abile tecnica e capacità professionale. Osservando i suoi lavori lo spettatore riesce ad attraversare momenti di storia e di una realtà trascorsa in un tempo ormai lontano ma anche così tragicamente contemporaneo, la luce diventa così strumento dalle capacità quasi magiche, quelle di allontanare e nel contempo far rivivere immagini fissate nel tempo. L’immediatezza dell’immagine di Settimio Martire colpisce, emoziona e va a segnare l’immaginazione, imprigiona lo sguardo ed è diretta”


L’AUTORE Settimio Martire si è avvicinato al fantastico mondo della fotografia un po’ per semplice passione, un po’ per necessità visto che da tempo documenta la cultura e gli eventi d’eccellenza della sua terra. Ha iniziato a muovere i primi passi nella fotografia da ragazzino, con una Agfamatic 100 (1971) recuperata quasi per caso. “All’epoca ignoravo completamente la lomografia, mi bastava inquadrare la scena e scattare per essere felice. Poi portavo il rullino a sviluppare ed attendevo il risultato”. Successivamente è passato al mondo delle reflex digitali, dapprima come autodidatta e successivamente, frequentando workshop e confrontandosi con grandi fotografi ha approfondito la teoria e perfezionato la tecnica, avviando così il suo personale percorso fotografico che l’ha portato nel tempo ad esporre in diverse mostre e collettive. Negli ultimi anni si è anche guadagnato qualche articolo di carattere fotografico su siti web del settore. Ama fotografare a colori anche se per particolari foto predilige il B&N, poiché, come dice il grandissimo Steve McCurry, suo guru e fonte di ispirazione: ”Il bianco e nero va sicuramente bene, e in generale tutto dipende dalle situazioni, però c’è da dire una cosa: la vita è a colori e per questo la scelta del colore mi sembra più logica, molto naturale. Attraverso il colore restituisco la vita come appare”. (Steve McCurry)


PORTFOLIO


Il cancello di ingresso, con scritta “Arbeit macht frei” i d e n t i fi c a i n m a n i e r a inequivocabile il campo di concentramento di Auschwitz. Era il passaggio obbligato per i prigionieri ed è anche per per me è una sorta di “varco dimensionale” da seguire per iniziare questo percorso, perché non vi è religione o razza che non sia stata sbeffeggiata da queste 3 semplici parole.



Una casa, una carrozza abbandonata sotto un portico… potrebbe essere un’edificio qualunque, ma la dozzina di comignoli presenti sul tetto lasciano intendere che, purtroppo, così non è. Le porte sbarrate e le finestre chiuse non mi consentono di scrutare all’interno ma lasciano presagire con quanta abilità si poteva camuffare la cruda realtà.



Lo spazio su cui si estendeva il campo di Birkenau era vasto a perdita d’occhio. Per tale motivo le geometrie costruttive imponevano in maniera quasi ossessiva lo stesso rituale: edifico, recinzione, corridoio, torre di avvistamento, recinzione.



Cartelli di pericolo disseminati ovunque, muri invalicabili, recinzioni elettrificate e perfino edifici con le grate alle finestre. Una vera e propria prigione nella prigione, contribuiva a creare un senso di oppressione che facilmente annientava la mente umana. Ed ho notato che anche la neve ancora oggi ha timore a cadere in questo luogo‌



Lunghissimi corridoi sospesi tra i blocchi di edifici, interminabili sentieri in cui il pietrisco a terra faceva vacillare i corpi già stremati dei poveri detenuti costretti a marciare anche di sera, illuminati dalla fioca luce delle lampade. Un solo pensiero nella loro testa: resistere nonostante tutto e soprattutto mai avvicinarsi al filo spinato‌



La libertà era forse ad un passo, ai confini del campo, oltre quel filo spinato che arrivava a coprire perfino il cielo, dove gli occhi guardavano per cercare la cosiddetta “normalità”. Nessuno però riusciva a realizzare la fuga o tantomeno correre nella speranza di raggiungere quel cancello che, aperto, pareva porgere un’ultima change di salvezza.



24° Block, con dei semplici numeri venivano identificati i “blocchi”, ovvero gli edifici che ospitavano i detenuti. Come in una qualunque città urbanizzata in cui il numero civico serve a dare indicazioni precise sugli edifici presenti in una strada.



L’interno dei blocchi si commenta da solo, chi ha vissuto in questo posto era consapevole della propria sorte e, sebbene conscio dell’impossibilità di comunicare con i propri simili, ha scalfito nel muro le proprie urla di dolore… a distanza di anni qualcuno ha risposto…



Centinaia di migliaia di barattoli di insetticida, oggi esposti come reliquie nel museo della memoria di Auschwitz, testimoniano lo strumento di morte piĂš letale di sempre: lo Zyklon B soprannominato “il Cicloneâ€?.



Si arrivava ad Auschwitz in treno, con una piccola valigia che racchiudeva all’interno il minimo indispensabile e sul dorso esterno, impresso in bella vista il nome e cognome del proprietario. Nell’altra mano un cestino di vimini conteneva i viveri necessari ad affrontare il lungo e faticoso viaggio da ogni parte d’Europa.



Quando si lascia il campo di Aushwitz, l’immagine che forse rimane più impressa nella mente è questo muro, il muro del blocco 11. Non c’è bisogno di aggiungere altro, sono i fiori di commemorazione a parlare, è la bandiera che giace inerme sul palo a supplicarci di non dimenticare…



FOTO.SETTIMIOMARTIRE.COM

Io chiedo quando sarà che l'uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare e il vento si poserà. (Auschwitz - F. Guccini)

2017 © Testi e foto di Settimio Martire - Tutti i diritti riservati


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