I racconti di un Arabo

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Il ritorno a casa Naser Ghazal

Stavo in ufficio da mio fratello quando mio padre telefonò per dirmi che mio zio Abu Taher stava in coma e che dovevo partire presto per la Palestina. Mio padre, come tutti gli altri della famiglia, non poteva ritornare al proprio paese dopo che fu cacciato fuori insieme ad altri milioni di palestinesi a causa dell’occupazione israeliana per la Palestina, e l’unico della famiglia ad avere un passaporto europeo ero io. Mi ricordo bene la voce vibrante di mio padre che quasi piangendo mi disse: domani all’alba partirai per Safarin, tuo zio sta morendo. Mia madre mi svegliò alle cinque del mattino, mentre stavo facendo colazione il clacson della macchina che mi doveva accompagnare svegliò tutto il quartiere. Stavo salendo in macchina quando mio padre si avvicinò a me, mi abbracciò forte e con le

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parole impastate con le lacrime mi disse: salutamelo tanto, bacialo anche per me e digli che avrei voluto esserci anche io, però non ho le ali per violare i confini. La macchina cominciò ad allontanarsi lasciando immobile mio padre davanti gli scalini di casa nostra, mentre nel cuore cresceva un odio che non si era mai valorizzato per l’ingiustizia degli uomini che abitano questo mondo. E’ giusto che la morte separi due fratelli senza nemmeno potersi fare l’ultimo saluto? Con le tante domande che mi facevo alle quali trovavo e non trovavo risposte arrivammo dopo due ore ai confini con Israele. Dissi all’autista di aspettarmi perché avevo paura che non mi facevano entrare, neanche adirlo e dopo pochi minuti stavo di nuovo in macchina perché quest’ingresso era solo per gli Arabi, mentre per i non Arabi l’ingresso per Israele é da Aqaba, quattro ore di macchine dal punto dove stavamo. Dissi all’autista di portarmi gentilmente là. Con il caldo bruciante del deserto e la musica d’Um Kalthum arrivammo ad Aqaba, da là fu facile anche perché di turisti c’erano solo quattro persone ed io. La procedura

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dell’interrogatorio, però, era una cosa indispensabile per gli israeliani: “Di dove sei?” “Italiano d’origine Palestinese ” “Dove vai?” “A Safarin ” “Cosa e’ Safarin?” “E’ un piccolo villaggio in ...” “In ..dove?” “Non so se dopo questi negoziati di pace posso chiamarla Palestina o in ogni caso devo dire in Cis-Giordania?” “Chiamala come vuoi, non importa il nome, cosa vai a fare?” “Ho tanti parenti ancora a Safarin ” “Porti con te qualcosa d’illegale?” “No, assolutamente ” “Ok, prego ” Entrai ma non seppi cosa fare, in pratica cinque metri prima c’era la Giordania, passati questi pochi metri mi trovai già in Israele, non importava se adesso si chiama Israele e prima si chiamava Palestina quello che m’importava è come dovevo fare per uscire fuori da quel deserto ed arrivare a Safarin.

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Dopo mezza ora d’attesa arrivò un taxi, salii e senza dire una parola mi lasciò al centro della prima città israeliana che é Elat. Elat e’ una città moderna, nuova e molta bella però non e’ una città del mio popolo. Ebbi molta difficoltà a comunicare con la gente che non e’ la mia gente, anzi e’ il mio occupante da più di quarant’anni, ma tutto questo non aveva importanza alcuna visto che a pensarla in quella maniera c'ero solo io, le forze mondiali o meglio le super potenze (meglio chiamarle cosi se no qualcuno si offende) la pensano diversamente! Non vedevo l’ora di lasciare la bella città delle costruzioni enormi, delle macchine lussuose e della gente elegante, volevo arrivare a Safarin dove le costruzioni sono ancora di terra cotta, dove le macchine sono meravigliosamente gli asini e dove la gente indossa ancora il Kumbaz1 e la Kufia2. Agli orecchi dei passanti Safarin sembrava una parolaccia, nessuna mi sapeva dire come potevo fare per arrivarci, povero villaggio mio non ti conosce più nessuno o forse ti hanno 1 2

È È un abito caratteristico lungo che indossano i contadini palestinesi

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cancellato dalla loro mappa. Pero neanche questo importava che vuoi che sia cancellare il nome di un villaggio in confronto della cancellazione d’identità dei popoli interi! Allora provai a chiedere di Nablus, almeno questa e’ una gran città dove risiedono ancora palestinesi sotto il dominio israeliano, anche questa importava poco, se é sotto il dominio Israeliano o un altro dominio, l’importante era arrivare a Safarin, purtroppo i miei tentativi erano tutti inutili, perché anche Nablus l’hanno cambiato il nome. Mi dissero alla fine, e dopo quattro ore di girare, che l’unico modo era arrivare a Gerusalemme e poi da là potevo trovare il modo per arrivare a Safarin. Il viaggio con il pullman fu comodo e piegò quattro ore. Arrivai a Gerusalemme Est (dove gli abitanti sono tutti israeliani) anche qua non fu emozionante per niente, era un’altra città moderna e basta. Fermai un taxi e gli dissi di portarmi a Gerusalemme Ovest (dove sono i palestinesi), per la mia fortuna questo parlava l’arabo, quindi mi spiegò a lettera quello che dovevo

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fare per arrivare al villaggio dimenticato dal tempo. Quando il taxi si fermò ed i miei piedi toccarono per la prima volta la terra più amata, dai miei occhi scorreva un fiume di lacrime. Fu un’emozione terribile, unica, indescrivibile ma bella. Non avevo mai visto la mia Palestina, perché quando gli israeliani con l’aiuto della potenza prima e della super poi ci cacciarono fuori dal nostro villaggio avevo gli occhi ancora chiusi. Mia madre raccontò che quando ci cacciarono via dal nostro villaggio, non portammo con noi nulla se non quattro figli il più grande di quindici anni e il più' piccolo stava ancora nella culla e quest'ultimo ero proprio io, quindi non ebbi mai la possibilità di rivederla, ma questa volta grazie al mio passaporto italiano mi fecero entrare. Grazie Dio, grazie Italia, pensavo di morire senza nemmeno vederla! Asciugai le lacrime e recai al primo albergo più vicino, il tempo di farmi la doccia che stavo già per le strade di Gerusalemme malgrado la tardi ora.

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La mattina dopo mi svegliai e subito a prendere un taxi insieme ad altri quattro passeggeri, spostarsi da una città all’altra si faceva con questi taxi che chiamavano macchine di servizio, arrivammo a Nablus dopo quasi due ore. Presi un altro taxi sempre insieme con altri passeggeri, e la cosa bella che il tassista partiva solo quando stava al completo, vale a dire cinque passeggeri, e quando gli altri passeggeri non arrivavano mi veniva di pagare per cinque persone cosi partiva, però avevo il dubbio che poteva essere un gesto offensivo. Arrivammo dopo quasi quaranta minuti a Tulkarem, e’ il capoluogo del mio villaggio. Chiesi, allora, dai taxi che portano a Safarin e mi affermarono che non c’erano. “Nel piazzale dietro trovi alcune macchine ferme forse qualcuno di loro ti può portare ” disse uno di loro. In quel piazzale trovai delle persone unite dalla disperazione e dalla disoccupazione e delle loro macchine fanno una specie di taxi. Il taxi che accettò di portarmi era una pegeut 405 station wagon anni cinquanta, fu un viaggio divertente e bellissimo. Sulle strade

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asfaltate (ed erano contate) andavamo a 30 km l’ora, mentre su quelle non asfaltate (quasi tutte) andavamo a 10 km l’ora ed ogni volta che beccavamo una buca si apriva lo sportello vicino a me, e con il disaggio dell’autista che mi diceva, ogni talvolta, che si apriva: guarda che non hai chiuso bene lo sportello. Arrivammo finalmente a Safarin, e quando l’autista mi chiese dove mi doveva lasciare, Non sapevo che rispondere, che gli dicevo lasciami in Oxford street o in Via Roma, ma se non ci sono le strade come fanno ad averne i nomi! Cominciai a chiedergli se conosceva qualcuno dei miei parenti e gli dicevo i loro nomi, alla fine mi portò proprio a casa di mio zio quello che stava in coma. Quando la macchina cominciò ad attraversare i vicoli del villaggio tutta la gente si chiedeva che fosse questo straniero, non mi conosceva nessuno e non conoscevo nessuno se non un cugino che studiava in Italia anche lui. Mio zio stava proprio agli ultimi sospiri, mio cugino mi presentò, e sdraiato a letto mi abbracciò forte, sembrava la forza per

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aggrapparsi alla vita, le mie lacrime si confondevano con le sue e quelle di mio padre, solo allora capii quelle lacrime del mio papà. Quando con la voce quasi inesistente provai a dirgli che mio padre gli mandava tanti saluti e abbracci e che malediceva il mondo che gli ha impedito di vederlo, coprì con le mani quel viso pieno di tante rughe, che sembravano volere designare la mappa della Palestina che il mondo cancellò ma non dal suo viso, e scoppiò un pianto doloroso al punto che cercavano di calmarlo piangevano anche loro, soprattutto quando mi disse: non vedrò mai più tuo padre, è vero? Per alleggerire un po’ l’atmosfera, mio cugino mi portò fuori casa, e mi fece vedere in mezz’ora tutto il villaggio: Sono passati trent’anni da quando fummo cacciati ma la nostra casa è rimasta in piedi fedele per il nostro ritorno, i campi d’oliva, di frutta anch’essi sono rimasti a difendere il nostro villaggio dall’occupazione, tutti i parenti rimasti là con il gran coraggio di sopravvivere per conservare l’identità di un popolo che il mondo cattivo vuole cancellare e

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per rimanere una spina nella gola degli occupanti. Passai una settimana nel mio stupendo villaggio, che non lo cambierei per nessun posto al mondo nemmeno per Roma o Parigi. Queste due bellissime città sono ricche di monumenti unici, di storia e civiltà a differenza del mio villaggio che non ha niente di tutto questo neanche la corrente e l’acqua però lì ci sono nato e lì ci sono le mie radici! E poi giunse il momento della partenza, salutai tutti con altre lacrime ancora e per ultimo mio zio, cosa che non avrei voluto fare mai, quando mi vide disse: pensi che vedrò tuo padre? Non avevo altre lacrime neanche la voce per rispondere, scossi la testa come per affermargli che l’avrà visto. Mi girai le spalle senza aggiungere una parola lo lasciai là sul suo letto senza nessuna speranza di vita ma con l’unica speranza di vedere il fratello. Mentre il taxi che attraversava molto lentamente i veicoli del mio amato villaggio,

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nella mia menta scorrevano solo le immagini di mio padre e di mio zio e tante domande. La Prima era cosa doveva raccontare a mio padre? La seconda era ritorneremo per sempre al nostro villaggio che non dimenticheremo mai?

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La Ragazza Del Treno

“L’intercity

delle 22.20 per Venezia Mestre

in partenza dal terzo binario ” rimbombò la voce dall’altoparlante nella incasinatissima stazione di Roma mettendo in agitazione la gente incrodata per fare il biglietto. Per la mia fortuna ero arrivato in anticipo e da vanti a me c’erano rimaste solo due persone. “Mi fa passare davanti a lei a fare il biglietto se no perdo il treno ” disse una ragazza rivolgendosi a me. Senza aspettare la mia risposta la trovai davanti: “Grazie mille, non conosco Roma bene e mi sono persa in mezzo il traffico ” aggiunse. Fece il suo biglietto e aspettò finché non feci il mio e camminando verso il terzo binario mi disse: “Allora anche lei sta andando a Venezia, ci va per lavoro o per altro? “Per lavoro ” le risposi Si fermò di fronte ad una cabina e disse: possiamo salire qui che é vuota. Volevo solo dormire, anche perché il viaggio era lungo ed il sonno mi bruciava gli occhi, era diventata un’abitudine dormire durante i

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lunghi viaggi nonostante l’insicurezza sui treni. “Ti ringrazio veramente, se non fosse stato per te sarei rimasta fino a domani mattina alla stazione ” disse la ragazza tirando fuori della sua borsa un libro. “Non mi devi ringraziare, ho fatto quello che mi sentivo di fare ” le risposi, pensando che s’era infilata davanti a me senza il mio consenso. “Adesso mi sento decisamente sicura nella tua compagnia sai cosa vuol dire per una ragazza viaggiare di notte da sola?” aggiunse. “Lo so, é dura, soprattutto in questi giorni, comunque se vuoi dormire stai tranquilla, é difficile che io mi addormenti ” le risposi. Mi veniva da ridere ricordando quel maledetto viaggio da Milano a Roma e coltempo non volevo raccontarlo a lei per non impensierirla. Quella

volta avevo preso il treno da Milano

verso le due del mattino, avevo lavorato tutto il giorno ed ero stanchissimo, però era l’ultimo del mese, avevo preso lo stipendio e non vedevo l’ora di vedere mia moglie e mia figlia che abitavano ancora a Roma.

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Salì sul treno, cercai una cabina vuota, tolsi le scarpe e dopo pochi secondi stavo già in profondo sonno. “Biglietto prego, biglietto prego ”. Con tanta difficoltà aprì gli occhi, glilo mostrai , e lui augurandomi un buon viaggio spense la luce. La stanchezza era tanta e così anche il sonno, pensando alle cinque ore rimaste per il mio viaggio tornai a dormire. “Svegliati, hei sveglia ”, questa volta la voce era roca, pensavo che stessi sognando, ma una mano mi scuoteva con una certa forza e la voce roca arrivò di nuovo “svegliati, siamo a Roma ”. Mi svegliai intontito, cercavo di alzarmi ma non avevo tanta forza, mi sentivo debole, e se non era per la mano del poliziotto che mi reggeva sarei caduto per terra. “Dove hai il portafoglio ” mi chiese un poliziotto. Allungai la mano alla tasca, ma non lo trovai, mentre le grida della gente riempiva il treno e mi svegliava dalla anestesia. Ci portarono in questura per fare la denuncia e ci spiegarono

che dei banditi erano saliti

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sul treno, avevano spruzzato un spray per drogarci. Malgrado questo brutto episodio non avevo mai rinunciato a dormire sui treni, l’unica cosa é che non portavo più soldi nel portafoglio. “Un bellissimo libro, l’ho appena finito ” disse riportandomi di nuovo nella realtà lontano da quell’incubo. E senza aspettare il mio commento aggiunse: “parla di una storia d’amore tra una ragazza italiana ed un immigrato arabo, lei lo ama alla follia anche se lui non la ama perché intende sposarsi una ragazza del suo paese ” . “Dovrebbe essere una storia interessante anche se credo che sia difficile che due culture diverse possano convivere sotto lo stesso tetto e soprattutto se non sono uniti da grande comprensione ” risposi. “Io sono convinta che quando c’é l’amore non ci sono ostacoli ”replicò. “Direi che il rispetto é la base di ogni rapporto, non vedi ”? le chiesi. Sembrava essere scottata dal mio parere e come se l’argomento la toccasse in prima persona allora disse: “sai anche se il ragazzo la maltrattava e la trascurava e soprattutto era

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intenzionato a sposarsi con una ragazza del suo paese, lei lo stesso non se era rassegnata perché lo amava veramente e poi al cuore non si comanda, no? L’argomento si fece sempre più sensibile, lei sempre più agitata. Allora cercai di attenuare la tensione dell’atmosfera e le dissi: “si, hai ragione al cuore non si comanda, però, non possiamo assecondare sempre i nostri cuori, bisogna usare anche la testa per avere un certo equilibrio ”. Gli occhi mi cominciavano a bruciare, il treno continuava la sua corsa rompendo il silenzio della notte, e mentre lei seguiva il filo di fumo della sigaretta le chiesi: “insomma, com’é andata a finire tra loro? “Per capire certe cose bisogna viverle, in ogni caso ti consiglio di leggere il libro ” rispose rassegnandosi ad un profondo sonno. Quando la voce si diffuse tramite gli altoparlanti annunciando l’arrivo alla stazione di Mestre, aprì gli occhi, ma la ragazza che non avevo neanche saputo il nome non c’era più, andò senza neanche salutarmi!

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L’ACHILE LAURO

Notte d’estate, notte di mondiale, pur di seguire tutte le partite indiretta mi ero addormentato sulla poltrona che insieme con un tavolo, quattro sedie ed un televisore anni 70 b/n faceva parte del molto modesto arredamento di un salotto adatto per una casa dove vivevano quattro studenti palestinesi al loro primo anno d’università. Quella notte mi sentivo particolarmente stanco, non so dire se a causa delle partite o l’ansia dell’esame del giorno dopo. La cosa certa che sono crollato su quella poltrona con tutti i miei pensieri che erano rivolti a Boccaccio, visto che l’esame del giorno dopo era proprio la storia contemporanea. Mentre mi stavo ripetendo l’anno della sua nascita sentii bussare alla porta di casa in modo molto violento, pensai per un istante che

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avessi sbagliato la sua data di nascita, invece i colpi violenti sulla porta di legno aumentarono sempre di piĂš. Mi alzai impaurito e andai verso la porta e dissi: chi ĂŠ? - Polizia apri Guardai dalla spia ma non vidi niente allora, sempre piĂš impaurito dissi: - Fatemi vedere qualcosa che lo dimostra I colpi sulla porta sono sempre piĂš forte - Apri subito Non aprii, andai da uno degli amici che abitavano con me e gli dissi: dicono che sono poliziotti che faccio li devo aprire? Con tutto il sonno del mondo negli occhi ed incoscientemente mi disse: apri, altrimenti che fai? Nel momento in cui aprii la porta mi buttarono per terra - Non ti muovere se no sparo! Disse uno di loro Accucciato come un gatto impaurito non ebbi nemmeno la forza di rispondere. Mentre entrarono altri ed altri ancora e svegliarono i miei amici ovviamente con le mitre rivolti su di loro.

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In quel periodo ci fu il sequestro dell’Achille Lauro, noi leggevamo sempre ogni evento che riguardava i palestinesi o gli arabi in generale, ed era ovvio se prendevi qualsiasi giornale lo trovavi aperto direttamente sulla cronaca estera. Quando loro hanno trovato questi giornali e tutti sullo stesso argomento; “L’Achille Lauro”, pensavano di aver trovato i responsabili ossia l’indizio che gli portasse ai responsabili di quell’operazione che in ogni modo io condanno. Avevano cercato tutta casa, l’avevano messa sotto sopra e alla fine non trovando niente che ci possa condannare ci portarono via con loro. Abitavamo dentro una palazzina dove c’era un cortile largo per le macchine degli abitanti, e quando siamo scesi da casa due di loro mi presero a parte dove era parcheggiata una macchina BMV e mi dissero di aprirla, e io gli risposi che non era mia, a quel punto uno di loro mi disse: si, ma tu sai come fare per aprirla. Gli risposi che non so niente di niente, poi mi chiese se ero io il capo

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gruppo, e gli risposi che non esisteva nessun gruppo. Alla fine ci portarono alla questura centrale, ogni uno di noi dentro una macchina di polizia, a dire la verità in quel momento mi ero sentito un vero terrorista ma non avevo minimamente paura. Arrivammo alla questura e ci fu un piccolo interrogatorio: chi vi paga? A quale gruppo terroristico appartenete? Dove nascondete le arme? E non trovando risposte che potessero soddisfare i loro dubbi e condannassero noi, ci portarono nelle celle buie e brutte ovviamente ogn’uno dentro una cella e non tutti insieme come avremo tanto preferito per essere la prima esperienza! Quando sentii le sbarre a chiudere dietro a me allora mi resi conto che avevo molta paura, uno perchÊ, appunto, era la mia prima e unica volta dentro una cella, due perchÊ era troppo buia, tanto Ê vero che quando i mostri della mia cella mi saltarono a dosso chiedendomi una sigarette non ebbi il modo di vederli ma solo di sentire le loro voci.

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I miei compagni di cella, scoprii dopo essermi abituato al buio, che erano quattro, qualcuno fu arrestato per motivi di droga, altro per armi, ecc. ed il piccolo io, lo studente universitario arrestato per motivi sconosciuti, anzi per motivi d’identità, motivi di nazionalità pericolosa e per essere nato nell’amata Palestina! In un secondo solo avevo programmato un piano e cioè di far impaurire loro per non far capire a loro la mia fottuta paura, allora nei due metri di cella arrivai al muro e gli diedi un cazzotto, ritornai all’altro muro gli diedi un altro cazzotto e quando uno di loro mi chiese il perché mi avevano portato lì, gli risposi subito di non capire il suo dialetto essendomi palestinese e credo che in quel momento mi sono sentito molto orgoglioso di essere palestinese perché ha funzionato per fargli paura. Passai tutto il tempo sveglio, loro erano abituati a dormire su quel cimento armato avvolti con una schifosa coperta. All’improvviso sentii il rumore del cancello della cella ad aprirsi, mi svegliai dal sonno tutto impaurito mi alzai, guardai l’orologio,

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andai a lavarmi il viso e mi resi conto di aver dormito male su quella poltrona. Fece colazione e mi recai all’università per fare il mio primo esame in ogni caso fu bocciato non so dirvi se era l’incubo o perché non ci ero proprio andato a fare l’esame!

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L’idraulico La mattina dopo sarebbe venuto l’idraulico per sistemare le ultime cose nella sua nuova abitazione. Era il primo giorno dentro una casa indipendente, tutta sua "Finalmente posso fare ciò che voglio senza chiedere permesso a nessuno” si diceva. Con tutta la felicità della nuova casa era caduto in un profondo sonno con un sorriso vittorioso e un pensiero rivolto all’idraulico. Fu lo squillo del telefono a rompergli i primi secondi di un felice sonno: - Pronto - Ciao Marco, sono la mamma, ti ricordi che domani mattina deve venire l’idraulico? - Si mamma ricordo bene, mi vuoi lasciare in pace a godere la mia casa! - Si amore di mamma,buonanotte. Ritornò a dormire pero’ il telefono squillò di nuovo: - Si sono Marco e tu chi sei? - Scusami se ti ho svegliato, sono Marta - No, non preoccuparti - Volevo invitarti a colazione, che dici? - Ok, una buon’idea. Ci vediamo fra un’ora Marta. E’ stato solo il tempo di mettere la cornetta a posto ed ecco un’altra voce femminile che gli disturba il sonno e gli rallegra l’animo: - Chi e’? - Ciao Marco, sono Elena, come va? - Buongiorno Elena, che bella sorpresa! - Volevo sapere se possiamo pranzare insieme, oppure hai altri impegni? - No affatto, nessun impegno,una ottima idea, ci vediamo alle due.

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“ Sembra che la casa nuova mi porti fortuna e tante donne” si diceva,e neanche il tempo di pensarlo che sentì bussare alla porta. - Chi e’? Apri, sono Marta, visto che hai fatto tardi al nostro appuntamento ho pensato di passare direttamente a portarti la colazione e così tifaccio gli auguri per la casa nuova. - Sei gentilissima, vieni dentro. - Ti vedo imbarazzato Marco o mi sbaglio? - No, assolutamente - Meriti tutto il mio amore, vieni vicino a me che ti coccolo un po’. Lei si avvicinò e mentre stava per baciarla i colpi sulla porta aumentarono per svegliarlo impaurito dal suo profondo sonno. - Chi é? - Apri sono l’idraulico!

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I ricordi di un pollo Caro mio fratello professore, La Makluba é quel timballo di riso con pollo e melanzane rovesciato sul grande piatto d’alluminio, decorato con pinoli e mandorle tostate, senza l’aggiunta del prezzemolo, che a te fratello, non piaceva. Era il piatto tipico palestinese più amato dai nostri stomachi. Caro mio fratello professore, Ho scelto te per le mie parole perché nessuno meglio di te può ricordare quei giorni, ed a nessuno più di te piaceva mangiare la Makluba i cui ingredienti variavano secondo la tua presenza. Quando il silenzio regnava dentro casa ciò significava che avresti pranzato con noi e la Makluba si presentava con il riso, il pollo, le melanzane, niente prezzemolo, niente cavolfiore e con le tante mani che si allungavano per prendere il riso con buone maniere e tanta educazione. Caro mio fratello professore, Ti confido che le nostre buone maniere e l’educazione alle quali tu severamente ci tenevi, venivano a mancare quando ritardavi per il pranzo. Passavamo tutto il tempo a giocare fuori nel cortile e non a studiare come ti dicevamo, finché non ci giungevano gli odori della Makluba quasi contemporaneamente alla voce di nostro padre che, per elogiare l’arte culinaria di nostra madre, le cantava le serenate d’amore. Allora capivamo che la Makluba ci stava aspettando, così ci affrettavamo avidamente ad occupare posti attorno al delizioso piatto.

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Sotto gli occhi orgogliosi e felici dei nostri genitori cominciava la battaglia della Makluba; si alzavano nove mani e, con la velocità di un falco lanciato per afferrare la sua preda, così le nostre mani raggiungevano il piatto di Makluba nel tentativo di catturare il pezzo di pollo preferito. Tutto questo, ovviamente, dopo che nostra madre aveva liberato dalla nostra fame il petto di pollo e lo aveva nascosto per te, mentre la battaglia diventava rovente. Qualche fratello gridava addolorato per una spinta o per un pizzicotto, un altro rubava il pezzo di pollo all’altro, mentre si alzava la voce di nostro padre che c’invitava alla calma assicurandoci che il cibo era sufficiente per tutti. I nostri genitori non partecipavano con noi, ma aspettando il tuo arrivo, si limitavano a guardarci con tanti sorrisi che forse per loro avevano un certo significato! Poi arrivavi tu e la battaglia della Makluba cessava, con tanta calma prendevi posto e con la stessa cominciavi a mangiare in compagnia dei nostri genitori, e così cominciava un’altra battaglia tra te e loro; quando tu cercavi di dividere con loro la tua parte del pollo e i tuoi tentativi fallivano di fronte all’insistenza di nostro padre che ti diceva: che Dio ti benedica figlio mio, tu sai bene che io non mangio del pollo se non il collo e le ali. Invece con la sua voce fine nostra madre ti diceva: che Dio ti protegga figlio mio, tu sai bene che non ho i denti buoni per mangiare il pollo, mettimi solo due chicchi di riso! La vostra battaglia cessava con la tua rassegnazione di fronte alla loro insistenza e con il tuo rifiuto di mangiare da solo tutto il petto del pollo, perciò, ti alzavi

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lasciando più della metà sopra il piatto del riso. Caro mio fratello professore, Ti confesso che io rimanevo indifferente a quelle loro parole soprattutto perché il mio pezzo di pollo l’avevo ingordamente mangiato, Però non rimanevo altrettanto indifferente quando vedevo che quello che lasciavi del tuo pezzo di pollo era più di quello che mangiavi e nello stesso tempo non trovavo nessuna spiegazione! Caro mio fratello professore, La situazione dei palestinesi, come dicevi, era molto difficile e la povertà dominava tutte le loro case, forse per questo che tu lasciavi il tuo pezzo di pollo, con la speranza che uno dei nostri genitori lo mangiasse? Forse per questo nostro padre ci diceva che gli piaceva solo il collo e le ali del pollo? Forse per lo stesso motivo nostra madre ci diceva che non aveva i denti buoni per mangiare il pollo? Caro mio fratello professore, La situazione difficile e la povertà, della quale mi parlavi, adesso è cambiata, almeno possiamo mangiare quanto ne vogliamo di pollo! Caro mio fratello professore, Che gusto ha, però, mangiare il pollo se non c’é più nostra madre! Caro mio fratello professore, Scusami se non provavo le cose che provavi tu! E solo perché non le capivo!

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La Storia Di Roberta “Ti racconto una storia Shaden, così ti addormenti. E’ la storia di una ragazza che tu conosci”. “Chi è questa ragazza papà?” “Ti ricordi Roberta?” “ Quella che mi faceva i tatuaggi quando ero piccola?” “Si, é proprio lei Shaden…” “ Ebé che ha fatto?” “Ora ti racconto tutto, intanto dici alla mamma di farci una tazza di té alla menta e poi vieni a metterti vicino a me”. Lei obbidi. Nel frattempo mi ero sistemato il mio angolo notturno; il materasso e i cuscini sul tappeto, il posacenere e le sigarette, un libro che avevo iniziato a leggere, quaderno e penna per prendere qualche appunto. Amavo molto sdraiarmi per terra, ora a leggere un libro, ora a guardare la televisione oppure a giocare con la mia piccola Shaden, passavo le ore in quell’angolo. Era l’unico modo per sentirmi vicino alla mia terra, alle mie

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tradizioni e alla mia gente. Mi ricordo bene, vent’anni fa, il giorno in cui ero arrivato in Italia, avevo tagliato ogni legame con il mio vecchio mondo, e più anni passavano più mi trovavo lontano dal mio passato, dalle mie tradizioni e dalla mia religione ma soprattutto mi trovavo con una nuova identità. “E’ pronto questo té Shaden?” “Si, quasi pronto papà, un attimo e te lo porto”. Qualche anno prima che nascesse Shaden quest’angolo non esisteva, al posto del té alla menta c’era l’immancabile birra doppio malto ed una confusione mentale; non sapevo se ero ancora musulmano o altro, se ero ancora orientale o ormai occidentale, se mi dovevo comportare in una maniera o un’altra ecc..! Finché non arrivò lei e la mia vita fu travolta da un’ondata di coscienza; solo allora capì che non avevo mai negato la mia identità o le mie origini ma le avevo semplicemente sepolti, ed era giunto il momento di tirarli fuori. Era un dovere far capire a Shaden le sue origini e la sua religione in maniera che lei potesse scegliere

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quando crescerà. “Papà, non ti sei mica addormentato? Guarda che mi hai promesso di raccontarmi la storia di Roberta” “Versami una tazza di té che ti racconto tutto” Shaden versò il tè ed io cominciai: “Non so Shaden se tu sai che Roberta conviveva con un uomo da quasi quattro anni. All’inizio era tutto bello ed era molto felice, però negli ultimi tempi le cose erano cambiate; non si parlavano più e sovente litigavano per dei motivi molto banali e com.. ” “Quali sono questi motivi, papà?” “Per esempio l’ultima volta che sono stato a casa loro avevano litigato a causa della cipolla” “Cosa c’entra la cipolla? Mi chiese con un tenero sorriso “Hai ragione Shaden, sembra buffo ma è la verità, lui le sgridò: sono quattro anni che stiamo insieme e tu metti ancora la cipolla nel sugo! E lei con una voce ancora più violenta gli rispose: ma tu mi devi dire il ragù senza cipolla che ragù è?

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“Ti ricordi quando siamo andati al teatro, io ero venuto con te anche se non mi piaceva, l’avevo fatto solo per farti felice”. Lui replicò “E con questo?” commentò lei “Con questo voglio dire che tu non dovevi mettere la cippola” rispose lui convinto. Shaden scoppiò a ridere, io presì una sigaretta, la accese e versai un altro po’ di té. “Tu ridi Shaden ma è così quando manca il dialogo in un qualsiasi rapporto - una figlia con i genitori, un amico con un altro oppure un marito con la moglie- sarà molto facile che questo rapporto si rompa, hai capito papi?” “Vuoi dire che il motivo era perché non avevano più dialogo?” “Si, esattamente così, i loro problemi non li avevano mai risolti radicalmente ma si sono abituati a convivere con essi finché era arrivato il momento che nessuno di loro due poteva sopportare l’altro. Infatti, un giorno lei tornò a casa distrutta dal lavoro e trovò una bella sorpresa, un biglietto scritto da lui: addio Roby, é tutto finito, ti auguro tanta fortuna.”

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“Quindi l’ha lasciata? “Si, si n’andato senza neanche aver parlato con lei per risolvere i problemi, ammesso che dei problemi seri ci fossero stati”. “ papà, non è meglio così, almeno non litigano più, no? “Si, anche io la penso come te Shaden visto che non hanno mai voluto parlarne” “Invece Roberta che dice? “Ho sentito che lei ha sofferto molto la sua lontananza e che ha capito di essersi innamorata solo dopo che lui si n’era andato. Ma secondo me lei non era innamorata ma semplicemente si era abituata a lui, quindi le manca la sua presenza, la vita che ha condotto per tanti anni con lui, la routine. Dal giorno in cui lui s’era andato che lei non andava più a lavoro, aveva pensato mote volte di uccidersi: “Se avessi il coraggio mi sarei tolta la vita” disse una volta a Sandra la sua amica del cuore e dei dolori. Poi aveva pensato di andare lontano, molto lontano magari in qualche isola dove non vive nessuno ma anche quest’idea fu scartata pensando alla paura di stare sola avvolta dalle tenebre della notte.

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In realtà lei cercava un’alternativa qualsiasi per uscire dalla sua solitudine. Non aveva mai pensato a quello che era successo o perché era successo. Lei in fondo non era triste perché il suo uomo l’ha lasciata, ma per il fatto che sta sola a vivere nel vuoto. “Volete vivere notte di mille e una notte, volete conoscere le emozioni di un amore platonico?Le nostre ballerine di danza del ventre saranno in vostra compagnia per la serata inaugurale del Falafel, il primo locale arabo a Mestre…Non mancate” Saltò dal divano con il giornale in mano, lesse l’annuncio ad alta voce come per convincersi dell’idea, chiamò subito Sandra, le disse dell’inaugurazione di questo nuovo locale e della sua intenzione di andarci. Davanti l’insistenza dell’amica sofferente, Sandra non ebbe il coraggio o il modo di dire no alla proposta di passare la serata al Falafel. “Ci vediamo sotto casa mia alle otto in punto” disse Roberta all’amica convinta che in quel locale avrebbe trovato l’amore perduto. Le attese di Roberta non erano tanto lontane da quello che ha trovato; locale bello e

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accogliente, personale simpatico e gentile ed una notte da mille e una notte, era così stupita e coinvolta dalla bravura delle ballerine che in fin di serata ballò anche lei. “Come ti è sembrato il locale Sandra? Sandra è una ragazza timida, molto equilibrata e difficilmente sbilanciata ma soprattutto amava stare sola a differenza dell’amica. “E’ un bel locale, abbiamo passato una serata diversa, ci ha fatto bene, soprattutto a te Roby, No? “Si, credo che tu abbia proprio ragione, ma poi hai visto come mi guardava quel ragazzo che ci ha servito il té! Mi ha chiesto anche il numero di telefono”. “Vai con cautela Roby che ancora lo devi conoscere”. “Guarda che è diverso dagli altri, è molto colto, mi ha già stregato con il suo modo di parlare del suo mondo e della sua cultura”, replicò Roberta “Stai attenta a quello che fai, non farti del male e pensa solo a stare bene”. Con queste parole Sandra salutò Roberta augurandole una buona notte e tanta fortuna.

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Un giorno telefonai a Roberta per sapere come stava, era passato tanto tempo senza sentire le sue notizie, dalla sua voce traballante capì che aveva superato quella crisi, m’invitò a casa sua a prendere un caffè ed io accettai volentieri l’invito. “Questo è Musa, il mio principe d’oriente ” disse presentandomi il ragazzo che quando arrivai a casa sua era abbracciata a lui. Era seduto vicino a lei sul divano, parlava piano e con buone maniere ed aveva veramente l’area del sultano o del principe, non certo per il suo modo di parlare ma per il fatto che non si muoveva, lei gli faceva tutto, gli sbucciava la frutta e gli la imboccava, gli accendeva la sigaretta e gli la metteva in bocca…ecc. “Mi ha fatto piacere rivederti Roby, spero che adesso stai bene!” le disse mentre la stavo salutando sui gradini della porta. “Si, sto molto bene, questa volta ho trovato l’uomo che fa per me, che mi ama, sono proprio innamorata” commentò lei con un sorriso timido “Roby, invece io credo che tu stia abituando di nuovo alla presenza di un altro uomo nella tua vita e non che ti stia innamorando ”, le

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dissi mentre salivo in macchina alzando la mano per augurarle la buona notte. “E’ rimasto del té Shaden? Guardai a Shaden e la trovai addormentata con un sorriso che le riempiva il viso, pensai che forse s’era addormentata quando le raccontai della cipolla, le diedi un bacio, spinse la luce e mi addormentai vicino a lei.

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