CIFO

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Marzo 2025

LA REDAZIONE

Mario Benhur Tondini

presidente Edizioni Catering srl

Imprenditore nel settore della distribuzione alimentare, gestisce con il fratello Oscar l’azienda di famiglia a Cavriana (MN), dove ha svolto anche l’incarico di sindaco.

Le competenze maturate sul piano professionale e su quello amministrativo lo hanno portato alla convinzione che il principio della condivisione sia la miglior modalità di crescita. Molte sue iniziative, anche all’interno del gruppo Cateringross (che detiene la titolarità della casa editrice), di cui è consigliere d’amministrazione, vanno in questa direzione. A questo affianca una forte sensibilità per ogni azione che dia valore al suo territorio.

Marina Caccialanza

Milanese, un passato come traduttrice, da diversi anni giornalista e redattrice per riviste del settore alimentare rivolte al mondo dell’artigianato e all’industria, in particolare nel campo della ristorazione, del dettaglio specializzato e della ricerca. Contribuisce alla realizzazione di importanti libri di comunicazione gastronomica in Italia e all’estero diretti ai professionisti e ai consumatori. Collabora con le redazioni di sala&cucina, Ecod e Trenta Editore.

Luigi Franchi

Direttore responsabile

Prima fotografo di cibo e territori, poi comunicatore, autore di numerosi libri di enogastronomia e di turismo enogastronomico. e infine giornalista di enogastronomia. Tra le sue principali pubblicazioni, scritte e/o coordinate: La prima edizione della Guida al turismo del vino in Italia, per conto del Movimento Turismo del Vino, (1997), I parchi e il turismo enogastronomico (2004), Il marketing delle Strade del Vino edizioni Agra – Rai Eri (2005), Atlante Alimentare Piacentino, con Valentina Bernardelli (2007), “cuo chi, due anime in cucina”, con Alessandra Locatelli, GL.Editore (2009), Dalle Terre Traverse al Po, GL.Editore (2010), ideatore e coautore dei Maestri del lievito madre, Edizioni Catering (2014), coautore della guida online dedicata alla ristorazione Meglio Prenotare, Edizioni Catering, Le interviste (2018) editore Mediavalue. Co-direttore di Food & Book, festival nazionale di editoria enogastronomica luigifranchi@salaecucina.it

marina.caccialanza@salaecucina.it

Giulia Zampieri

Ricorda con esattezza il profumo del primo pane preparato all’età di sette

Forse il suo primo traguardo e, soprattutto, l’inizio di una grande passione: per le cose semplici, per la genuinità, per gli alimenti che crescono e prendono forma. Dopo la Laurea in Scienze Gastronomiche, la specializzazione in comunicazione enogastronomica, e un periodo di alternanza nelle cucine, ha chiara la missione: scrivere per comunicare. Come? Utilizzando gli strumenti di oggi e la curiosità di sempre. Gionalista pubblicista, collabora anche con la guida di

Simona Vitali

Redazione

Laureata in filosofia, ha lavorato nella comunicazione e organizzazione di grandi eventi a Parma.

Ha ricevuto una prima inconsapevole educazione al gusto per il cibo grazie all’ indimenticato oste dell’Osteria della Stazione di Felino (PR), il nonno materno Massimino. Con gli studi umanistici è poi arrivata una seconda, consapevole, educazione al gusto per l’utilizzo delle parole secondo il loro significato. Poi sono seguiti un corso di Alta Formazione alla scuola Holden e un master in Filosofia del cibo e del vino. Della ristorazione l’affascina il pensiero e la componente umana. Della formazione di settore segue movimenti ed evoluzioni.

giuliazampieri@salaecucina.it

Gabriele Adani

Grafico

Modenese, appassionato di arte figurativa, fotografia e linguaggi di comunicazione visiva.

s.vitali@salaecucina.it

Nel 1992 inizia il suo percorso professionale presso una casa editrice. Lavora poi in uno studio grafico e fonda una piccola agenzia di comunicazione in cui ricopre il ruolo di direttore creativo per 18 anni. Viaggiatore, utilizza i frequenti viaggi a Londra e nel Sud Est asiatico per arricchire il suo bagaglio culturale e placare la sua innata curiosità per le altre culture.

Dal 2019 lavora in proprio, occupandosi di fotografia, grafica e consulenze nel campo della comunicazione.

grafica@salaecucina.it

benhurtondini@salaecucina.it

SOMMARIO

7 LA LETTERA APERTA

Succede!! | Luigi Franchi

9 L'EDITORIALE

I pensieri sparsi di un dopo fiera | Benhur Tondini

10 IL CONFRONTO

Vanessa Melis | Luigi Franchi

14 LA RIFLESSIONE

Far quadrare i conti | Giulia Zampieri

18 IL RISTORANTE

L'Aurum è fiorito | Simona Vitali

22 IL PRODOTTO

Si fa presto a dire carne | Marina Caccialanza

26 L'IDEA

La mitica bottega dell’Antica Locanda del Falco di Rivalta (PC) | Simona Vitali

30 IL VINO

Al di là del fiume | Giulia Zampieri

34 LA FORMAZIONE

R-INNOVARE l'Ospitalità | Simona Vitali

39 I CUOCHI

Lavoro usurante e cuoco “certificato”: la voce di FIC

lanciata anche da Rimini | Rocco Cristiano Pozzulo

41 LA NEUROVENDITA

Il caso dell’Eleven Madison Park, tra dettagli della sala e psicologia del cliente | Lorenzo Dornetti

44 DOGUSTO

Gli oli monovarietali DoGusto | Guido Parri

46 LE CONTAMINAZIONI

Gelatai veneti alla conquista della Germania | Federico Panetta

50 LA STORIA

El Practicón di Ángel Muro | Alessia Cipolla

54 AMODO LA RETE DEI RISTORANTI ETICI

Cibus a Ceglie Messapica | Giulia Zampieri

56 L'INNOVAZIONE

Ossola salumi e formaggi | Luigi Franchi

59 L'ETICA

Le filiere alimentari sono sempre accompagnate dalla buona fede? | Francesco Parrotta

61 L'OLIO AL CENTRO

Tornare a scuola per imparare | Luigi Caricato

63 LA DIGITAL TRANSFORMATION

Snellire e semplificare i flussi per liberare risorse preziose | Claudia Ferrero

64 LA PIZZERIA

Officine del Cibo, inno alla pizza | Marina Caccialanza

68 LA DISTRIBUZIONE

Degustare Champagne in compagnia di un francese | Luigi Franchi

71 L'ANALISI

Cresce il biologico in Italia | Guido Parri

76 LA PRODUZIONE

Innovazione e tradizione nel segno del rebranding | Marina Caccialanza

80 I LIBRI

Non c’è più gusto- Storia dell’alimentazione | Luigi Franchi

N° 92 marzo 2025

EDITORE

Edizioni Catering srl Via Margotti, 8 40033 Casalecchio di Reno (BO) Tel. 051 751087 – Fax 051 751011 info@salaecucina.it - www.salaecucina.it

PRESIDENTE

Benhur Mario Tondini benhurtondini@salaecucina.it

DIRETTORE RESPONSABILE

Luigi Franchi luigifranchi@salaecucina.it

COLLABORATORI ESTERNI

Luigi Caricato, Alessia Cipolla, Lorenzo Dornetti, Rocco Pozzulo, Claudia Ferrero, Elena Monteverdi, Federico Panetta, Guido Parri, Francesco Parrotta.

FOTOGRAFIE

Archivio sala&cucina, Lido Vannucchi, Valentina Sommariva, archivio depositphoto.com * L’editore è a disposizione per eventuali crediti fotografici di cui si ignora la fonte

RIVISTA PARTNER di AMODO

PUBBLICITÀ Tel. 331 6872138 marketing@salaecucina.it www.salaecucina.it

PROGETTO GRAFICO

Gabriele Adani - www.gabrieleadani.it

STAMPA

EDIPRIMA s.r.l. – www.ediprimacataloghi.com

TIRATURA E DISTRIBUZIONE – 28.900 copie

Ristoranti, trattorie e pizzerie 20.700 – Bar, pub e birrerie 4.000 – Hotel 3.100 – Grossisti e distributori f&b 1.100

Costo copia mensile: 4,00 euro abbonamento annuo 40,00 euro Per abbonarsi: info@salaecucina.it

Vanessa Melis Donna di sala, intelligente, capace

LA LETTERA APERTA

Succede!!

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Scena uno: ristorante segnalato sulle guide, decidiamo di provarlo.

Io c’ero stato molto tempo fa (forse vent’anni prima) e non mi ero trovato benissimo ma è cambiata la gestione e ci riprovo.

Arriva uno dei piatti ordinati – plin con ripieno di pecora e con una crema di cavolfiore – che la persona che mi accompagnava lascia lì dopo un paio di forchettate. Arriva il patron del locale e chiede se qualcosa non va. “La crema è arrivata fredda e su un piatto come questo non aiuta”.

Risposta del ristoratore: “È una precisa scelta della cucina. E comunque succede che a qualcuno non vada bene”.

Succede!!!??? È una risposta da dare? Fa il paio con l’arroganza di quello stesso giorno, quando, al congresso di Identità Golose, ho ascoltato Ferran Adrià sferzare il pubblico con domande tipo: “Chi di voi sa dirmi quanti tipi di cucina esistono?”, poi la risposta che arriva da lui stesso: “A oggi abbiamo individuato un centinaio di categorie che avrei bisogno di quattro ore per spiegarle tutte”.

Quello di un ristorante dove “succede”, in quale tipo di cucina lo collochiamo, caro Adrià?

E, in ogni caso, non esiste una classificazione scientifica che elenca i vari tipi di cucina, tranne quello che lui stesso ha definito una ricerca durata quattro anni, fatta da lui e dalla sua fondazione, che ha stabilito il verbo!

“Ho una scommessa per il futuro e si chiama minimalismo. Io penso che il futuro dell’alta cucina creativa sia minimalista” ha continuato, dopo aver detto a tutti che “oggi il 90% dei ristoranti non fanno un budget

Luigi Franchi direttore responsabile

economico annuale, è assurdo, e il 28% di questi chiude entro due anni. Tanti di quelli che rimangono aperti non generanno redditi profittevoli. Oggi è urgente più che mai parlare di economia perché non esiste un business più difficile di quello della ristorazione. Va benissimo il piacere ma bisogna possedere una visione economica. È un cambio di paradigma urgente”. Avevamo, ovviamente, bisogno che arrivasse Adrià per capirlo!!! Fiori di indagini, come quel Rapporto Ristorazione di FIPE che da anni pone il problema e come se non fosse servito a nulla.

Basta con questo modo di intendere la ristorazione, basta con gli show! Basta!!

Per fortuna che, da quello stesso palco, qualcun altro ha detto cose serie. Il suo nome è Niko Romito.

““Abbiamo finalmente imparato a guardare indietro, alla tradizione, come una base non statica, ma dinamica. Un modo nostro, italiano per guardare avanti. Tutti parlano della fine del fine dining… non ci credo, non è cosi… penso sia invece questo l’inizio di una cucina di ricerca che guarda al passato e alla tradizione come base e stimolo per inventare la cucina del futuro… Il problema è che abbiamo sbagliato: abbiamo copiato, nel fine dining, quello che fanno gli altri, all’estero. Non abbiamo usato il bagaglio enorme delle nostre tradizioni per disegnare il futuro… Basta scena, basta abbellimenti e frivolezze: viva il nostro messaggio gastronomico, la nostra identità territoriale e identità personale”.

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L'EDITORIALE

I pensieri sparsi di un dopo fiera

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Le fiere del cibo sono ancora il momento più efficace di comunicazione! Pensavo questo tornando a casa da Hospitality, la fiera di Riva del Garda che, quest’anno, ha registrato un vero e proprio boom di presenze. Anche nello stand dove eravamo noi abbiamo avuto la possibilità, in tre giorni, di incontrare, a ciclo continuo, alcune migliaia di persone che hanno potuto conoscerci meglio, degustare i nostri prodotti per la ristorazione, confrontarsi con altri loro colleghi in un dialogo estremamente proficuo.

Perché è vero, i social ci tengono collegati con il mondo ma una stretta di mano vale, a volte, di più di mille follower che mettono un “mipiace” senza ricordarsene più dopo un minuto. Coltivare rapporti non è una cosa semplice, necessita di un tempo che, spesso, vogliono farci credere che non esiste più, che non è mai abbastanza per fare tutto quello che si vuole. Ma non è così, non credete a chi vi racconta questa frottola gigantesca; il tempo va dedicato, per le persone più importanti per voi, siano esse suddivise in rapporti personali o di lavoro non importa; va dedicato alle cose che contano davvero.

In fiera, a Hospitality, il tempo lo abbiamo dedicato a chi aveva il desiderio di conoscerci da vicino, abbiamo accolto ogni persona, aiutati dai nostri partner, dalle aziende che hanno creduto in noi; gli abbiamo raccontato chi siamo e cosa facciamo; abbiamo ascoltato i loro bisogni professionali a cui, da oggi, cercheremo di dare risposta con il nostro servizio. Tutte cose impossibili da fare virtualmente, attraverso i social. Non è un caso che, nel 2025, in Italia si tengano 22 fiere dedicate al cibo, oltre alle innumerevoli manifestazioni locali, dagli appuntamenti formativi riservati ai ristoratori, che ogni azienda di distribuzione organizza alle sagre di paese. Ogni occasione è buona per

Benhur Tondini presidente sala&cucina

benhurtondini@salaecucina.it

parlare di cibo, degustare qualche specialità, conoscere nuovi territori. Infatti il turismo gastronomico sta crescendo rapidamente nelle classifiche dei turismi per cui si sceglie l’Italia come meta.

Sta crescendo anche la consapevolezza, a tutti i livelli, che la qualità ha un costo ma che quel costo vale la pena di affrontarlo, sia per un piacere maggiore sia per un benessere della propria persona anche in termini di salute, dal momento che mangiamo sempre più spesso fuori casa. Cosa c’entra tutto questo con il discorso sulle fiere? C’entra perché, ad esempio, quelle sono le occasioni più alla portata per capire i cambiamenti, anche dell’industria alimentare che sta rinnovando i propri prodotti puntando su piacere, salute e praticità, oltre a dimostrare concretamente che l’evoluzione delle imprese alimentari, in Italia, è influenzata da un’attenzione crescente verso la sostenibilità e la riduzione dell’impatto ambientale.

Sono questi gli aspetti che danno alle fiere un ruolo importante creando occasioni di confronto mille volte più significative che altre situazioni.

I rapporti umani, che dono straordinario, non perdiamolo mai di vista!

IL CONFRONTO

Autore: Luigi Franchi

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Vanessa Melis

Donna di sala, intelligente, capace e ottimista

Vanessa Melis con Gianfranco Pascucci

Ho conosciuto bene Gianfranco Pascucci, lo chef di Pascucci al Porticciolo di Fiumicino, quando, nove anni fa, andai con lui a passeggiare nell’oasi WWF di Macchiagrande, sulla foce del Tevere. Da quella passeggiata e dalla cena che feci nel suo locale nacque una bella intervista che parlava anche di Fiumicino (che io, come tanti, conoscevo solamente come importante hub aeroportuale), dei suoi pescatori, di pesci mai sentiti nominare prima, del suo impegno verso il mare. Nel corso della cena ebbi modo di conoscere anche sua moglie, Vanessa Melis, che governava la sala con uno stile inusuale. Da allora il Porticciolo ha conquistato la stella Michelin; Gianfranco è diventato molto noto per la sua cucina; hanno aperto, di recente, anche Bistrot Mare e Vanessa, grazie a quello stile già evidente nove anni fa, quest’anno, è stata insignita dalla guida Michelin del Michelin Service Award, cioè il riconoscimento del miglior servizio di sala d’Italia. Non potevamo che dedicare a lei la copertina di sala&cucina!

Da zero a miglior sala d’Italia, secondo la Michelin; come stai vivendo questo momento?

“È stato un premio inaspettato, uno splendido riconoscimento per tutto quello che abbiamo fatto in venticinque anni. Mentre ritiravo il premio mi sono passate in testa le immagini del nostro inizio: dell’unica persona che aveva varcato la porta del Porticciolo e noi l’avevamo fatta accomodare vicino alle finestre per far vedere che avevamo gente. Però non abbiamo mollato ed eccoci qui, a parlare di concetti che, all’apparenza, sono facili da capire: la parola accoglienza reca in sé il significato. Ma sono difficili da interpretare se non lo fai con un po’ di amore. Questo è quello che ho fatto per tutto questo tempo, ho accolto ogni nostro ospite dedicandogli tempo, attenzione, spontaneità e quel gesto d’amore che ci si aspetta quando si varca la porta di qualsiasi ristorante. Cucinare è un gesto d’amore e di benessere, lo stesso deve sempre valere anche e soprattutto in sala. L’ospite deve restare con un ricordo positivo per farlo tornare e, di conseguenza, tutto deve essere pensato e fatto per raggiungere questo obiettivo. Oggi si parla tanto di fine dining, se è morto oppure no. No è la mia risposta, anzi, è proprio lui che ci fa capire quando stiamo andando nella direzione sbagliata. In questo momento non c’è la giusta comunicazione di cosa significhi fine dining o alta ristorazione o chiamiamolo come vogliamo. Di un locale dobbiamo comunicare solo due cose: l’identità e la qualità. Dobbiamo essere sicuri di quello che offriamo all’ospite e lui deve percepirlo non appena varca la soglia del nostro locale. È qui che entra in gioco la sala; la persona preposta al tavolo deve saper raccontare l’identità, la cucina, la qualità, il luogo in cui si trova quel ristorante. La maggior parte degli ospiti ha fame di questi racconti, noi dobbiamo nutrire questa fame!”

Sia tu che Gianfranco siete autodidatti: come si impara, come si cresce e come si trasmette questo mestiere?

“È vero, siamo autodidatti e non veniamo, nessuno dei due, da percorsi importanti fatti nella ristorazione. Gianfranco, come ben sai, era un surfista quindi… Però abbiamo fatto questa scelta, venticinque anni fa, di far si che a Fiumicino, la nostra città, avesse un luogo dove dar vita alle nostre idee. In Gianfranco il bisogno di interpretare il mare era molto forte e Fiumicino, borgo di piccoli pescatori, ci dava la possibilità di usufruire del pescato locale. Mangiare questi pesci, fino ad allora, significava proporli nelle classiche ricette – la frittura, con

Tartatella rapa rossa rafano ed acciuga

olive e pomodorini ecc… - mentre noi volevamo diversificare. I primi tempi sono stati durissimi, come ho detto, non veniva nessuno. È stata quella esperienza che ci ha fatto capire che l’ospite era come oro colato, farlo tornare era più importante di ogni altra cosa. E questo genera rispetto verso le persone! Devo ringraziare Gianfranco per questo: perché è da lui che ho imparato a credere nei progetti e questo ti fa star bene. Sono venticinque anni e sembra ieri. E lo devo ringraziare perché, senza la sua cucina, io non sarei mai potuta diventare quella che sono oggi!”

Qual è la tua visione, oggi, del servizio di sala?

“La prima cosa è scegliere il team. Scegliere, non prendere il primo che si propone solo perché c’è un problema di scarsità di personale. E, nello scegliere, dare piena fiducia ai giovani. Sono fondamentali, diventano fonte d’ispirazione. E, da parte loro, suggerisco di saper scegliere i luoghi che diano loro la possibilità di potersi esprimere. La sala di oggi non vuole gerarchie, non vuole imposizioni però questo non significa non essere perseveranti perché il raggiungimento di un obiettivo non avviene con il tutto e subito. Occorre tempo, memoria e determinazione; se si ha voglia di far bene i riconoscimenti arrivano. Infine è indispensabile dire alle persone che lavorano per noi quando fanno un servizio ben fatto, consente un clima più sereno che viene percepito dagli ospiti”.

Qual è il tipo di rapporto che instauri con i tuoi ragazzi? Che età media hanno? Perché hanno scelto di fare questo mestiere?

“Rispondo subito alla seconda domanda: l’età media è sui 24 anni. Un’età con cui è, a volte, difficile confrontarsi, come è sempre stato e sempre sarà tra generazioni che hanno età e visioni della vita tanto diverse. Però, anche se durante il servizio una parte di me deve diventare rispettosa delle regole, se vedo che un ragazzo o una ragazza del team ha una serata no chiedo di dirmelo. Questo lavoro diventa uno stile di vita che ti assorbe quasi completamente e, secondo me, tutte le persone che assumono impegni importanti devono mettere in conto qualche sacrificio. Però so anche che non posso chiedere di più del tanto che già mi danno, se vado a chiedere troppo potrei perderne qualcuno perché per loro questo è lavoro. Non posso usare il metro di misura basato sull’impegno mio e di Gianfranco, noi siamo imprenditori, il locale è il nostro. Io dico sempre che ristorante significa ristoro, in

Gambero rosso al cedro, salicornia e succo di melagrana

tutti i suoi aspetti, anche quello dell’organizzazione del lavoro”.

Qual è la cosa che ti sentiresti di dire a un ragazzo che intende percorrere questa strada?

“Gli direi che la cosa più bella è avere un sogno e che, se quel sogno fosse aprire un ristorante o dirigere una sala, può diventare realtà. Serve perseveranza e capire che ogni sbaglio non deve deprimerci ma diventare opportunità di crescita”.

Il vostro ospite si aspetta qualcosa dal servizio di sala, oltre a quello che già si aspetta dalla cucina?

“Il nostro ospite già ci fa tantissimi complimenti per il servizio quando finisce la sua serata. Si hanno sempre tante aspettative quando si sceglie un locale e sentirti dire che siamo andati oltre alle aspettative è sempre molto gratificante. Chi viene, invece, per la prima volta capita che non conosca l’esperienza che deve vivere ma questo è un posto che fa bene all’anima e, di conseguenza, mette tutti subito a proprio agio; è l’aria che qui si respira, ci dicono,

è non è più solo il piatto o il servizio di sala. Molte volte, penso per la vicinanza dell’aeroporto, entrano clienti soli, magari in viaggio di lavoro. Sono quelli a cui dedico più attenzione, voglio che stiano ancora meglio, vivano la stessa atmosfera; come se ci sedessimo al tavolo con loro. Voglio che, quando escono, pensino a noi anche solo per un primo piatto e un bicchiere di vino”.

C’è un tema che è al centro dell’attenzione in questi anni: la carenza di personale. Come si deve affrontare e risolvere questo problema?

“Dal punto di vista contrattuale adeguando le remunerazioni, anche con l’aiuto dello Stato che può agire sul piano delle detrazioni fiscali. È necessario trattare le persone in un certo modo, adeguando gli stipendi al costo continuo della vita, siamo l’unico Paese che non applica sufficientemente queste regole. In secondo luogo essere chiari sui diritti, sacrosanti, ma anche sui doveri. Il ristorante è un lavoro di grande sacrificio, è necessario che chi lo intraprende lo sappia ma non possiamo non tenere conto anche della vita privata delle persone. È quindi necessario trovare un giusto equilibrio”.

Come vedi il futuro prossimo della ristorazione in Italia?

“Di mio sono sempre molto positiva e mi piace combattere le giuste battaglie. Quella del nostro futuro è una di queste e voglio vincerla perché si può sempre fare meglio e, in questa fase storica, è giunta l’ora di farlo”.

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Far quadrare i conti

Un

quadro sempre più complicato porta i ristoratori a cambiare, chiudere,

reinventarsi

“Come stanno andando le cose?”.

Basta fermarsi qualche istante in più a tavola, aspettando a fine cena, quando le luci della cucina si sono spente, e porre questa fatidica domanda a un ristoratore, per capire che le cose nella ristorazione stanno cambiando davvero.

Non si tratta di pessimismo. Non siamo qui per demolire o scoraggiare chi ama questa professione, la difende, la trasferisce alle nuove generazioni, se la tiene cucita addosso. Semmai tutt’altro. Il nostro ruolo di comunicatori passa anche per la raccolta di informazioni, la mediazione, l’analisi dei dati, l’ascolto (mai compulsivo o finalizzato al gossip, ma questo lo sapete). E quindi siamo qui per confermare, sulla base anche delle nostre esperienze e di quanto intercettiamo ogni settimana, che gli equilibri si stanno spostando. Le condizioni che sussistevano nel 2019 ci paiono sempre più lontane. C’è un nuovo ordine - o meglio disordine - mondiale, dicono tutti. E riguarda anche questo settore.

La risposta a quella domanda, purtroppo, arriva più o meno sempre puntale: “è difficile stare in piedi”. Poi ci sono le attitudini, l’ottimismo, la capacità di trovare strade alternative, di reinventarsi, è vero. C’è chi organizza serate, trova nuovi format promozionali, propone menu calcolati al centesimo. Ma la costante che attraversa tantissime attività di ristorazione, in questa fase storica delicatis-

sima, è la complessità della gestione economica. È difficile far quadrare i conti. È un continuo esercizio di riassetto degli acquisti; di limare da una parte per non dover tagliare dall’altra. È difficile gestire la forbice, specie perché questo nodo convive con altre due insidiose appendici: il problema del personale e la disomogeneità settimanale delle prenotazioni. È difficile trovare personale capace, formato, che rimanga e che aderisca al progetto; è sempre più dura riuscire a garantire uno stipendio dignitoso a fronte di quanto sono elevate le spese. È estremamente complicato spalmare le prenotazioni su giorni che non siano venerdì, sabato, domenica e festivi. Quello della concentrazione delle prenotazioni è un tema che ferisce da tempo ma oggi sembra non esistano davvero altri momenti per uscire a pranzo o a cena, per godersi il piacere a tavola (fanno eccezione i pranzi di lavoro, che però giocano un’altra partita, e di certo non tengono in piedi i locali che nascono per offrire tutt’altra esperienza ai commensali).

Ma gli aspetti più ostici, appare evidente, riguardano i costi delle bollette, delle materie prime, degli stipendi e la perdita di potere d’acquisto di giovani e famiglie. Sono proprio questi fattori che ridisegneranno, probabilmente, la geografica dell’ospitalità del nostro Paese. Anzi, lo stanno già facendo.

A fronte di tutto questo, come si può affrontare questo contesto così arido e imprevedibile?

Non lesinare sulla qualità

Come di consueto, abbiamo voluto coinvolgere alcuni ristoratori. Il primo è Christian Fava, del ristorante Tracina di Cesenatico. Christian, dopo essersi preso cura della sala, è rientrato in cucina. Ha il polso dei costi, dei flussi, e con molta fermezza sta attuando scelte oculate per far marciare senza ripercussioni la cucina - di pesce - del suo ristorante.

“Una delle voci di costo più rilevanti in Italia continua ad essere quella del personale. Rispetto a qualche anno fa è aumentato anche perché si sono azzerate le risorse di supporto (si riferisce a stagisti e tirocinanti, pagati sensibilmente meno rispetto a un dipendente ndr). Questi costi, uniti alle materie prime, ci obbligano a riformulare le spese per la cucina, tra le poche su cui possiamo davvero intervenire. Noi però non abbiamo mai nemmeno lontanamente ipotizzato di abbassare la qualità delle materie prime. Non fa parte del nostro modo di intendere la ristorazione. Abbiamo quindi percorso due strade: il menu giornaliero anziché il menu stagionale e la scelta di non concentrare la proposta su prodotti di lusso. Mi spiego meglio: se avessimo un menu sempre uguale per un periodo di tempo prolungato sarebbe difficile stilare un prezzo di copertura, cioè che copra tutte le oscillazioni di valore del prodotto. Lavorando con il fresco, e formulando le proposte in base a ciò che ci offre il mercato ittico, in cui mi reco personalmente ogni giorno, riusciamo

Lo spaghetto di Tracina

ad essere più elastici. Per quanto riguarda la tipologia di prodotti: non lesiniamo sulla qualità, quello mai, ma abbiamo eliminato o ridotto sensibilmente l’acquisto di alcune referenze di lusso, come caviale, ostriche o pesci di pregio. Ce li concediamo quando è possibile. Stando in sala, in passato, ho compreso che il cliente è in grado di percepire la qualità del prodotto qualunque sia la categoria o il livello merceologico. È soddisfatto se lo paga il giusto anche se dovesse avere un valore di mercato più contenuto”.

Christian si riferisce al cosiddetto pesce povero - sarde, alici, sgombri, totani - una famiglia che in realtà merita sensibilità, rispetto e può essere valorizzata in qualsiasi genere di cucina, dalla tradizionale alla creativa.

“Le persone scelgono un locale valutando sempre di più la capacità dell’insegna di far star bene l’ospite, non di esibirsi in voli pindarici. Questo implica che si dia più valore, guardando al mio, all’abilità di cucina, più che al contorno o all’esclusività del prodotto”. L’altra grande sfida a cui sono sottoposti Christian e Tracina riguarda l’ottimizzazione dei costi del servizio e del personale. Un fattore di cui abbiamo parlato con Marcello Trentini che da poco ha annunciato e chiuso il mitico Magorabin a Torino.

Le ragioni che spingono a chiudere o a riformularsi

Marcello ha annunciato la chiusura di Magorabin - locale che ha nutrito per 22 anni, di cui 13 insignito della stella Michelin - con un post sui social, a metà febbraio. Lo abbiamo sentito non per cavalcare l’onda, bensì per come si è espresso, con onestà e chiarezza, rispetto alle ragioni di questa decisione. La premessa è che in queste settimane non ha smesso di cucinare: conduce Casamago; locale inaugurato sei anni fa, dall’anima decisamente più funky, dove girano cibo, vino e musica su

binari più leggeri rispetto a Magorabin.

“Prima del 2020 in Italia si stava consumando un’epoca d’oro per la ristorazione. Un’onda lunga, determinata dalla mediaticizzazione della cucina e dall’assegnazione di valore alla figura del cuoco, sempre più sovrapposto all’immagine della rock star o del calciatore. L’affermazione del cuoco come personaggio mediatico ha aperto tante opportunità per il fine dining, è chiaro. Si sono ‘scoperti’ gli stellati, prima erano un campionato a parte. Era evidente che questa bolla fosse destinata ad esplodere o a ridimensionarsi notevolmente. Ora, complici più fattori, siamo dentro a questa esplosione”.

Marcello Trentini continua la sua lucida analisi di quanto avvenuto negli ultimi anni, prima di giungere alle condizioni personali - ma enormemente diffuse - che stanno spingendo molti locali alla chiusura.

“In quell’arco di tempo sono aumentate persino le iscrizioni agli istituti alberghieri, c’era veramente un interesse smodato. Con la pandemia, oltre ad essersi ridimensionato l’appeal per un certo tipo di ristorazione, la maggioranza degli italiani ha dato fondo ai propri risparmi. Ci ricordiamo, dopo le chiusure forzate, quanta voglia di uscire, andare al ristorante e godersi la vita, c’era nel nostro Paese?”.

Eccome se ce lo ricordiamo. Era una corsa alla prenotazioni.

“È inutile girarci tanto attorno, rispetto a quel periodo sono cambiate le disponibilità economiche delle persone e, di pari passo, i costi di gestione di un ristorante sono saliti alle stelle. Le bollette, il personale, le materie prime: tutto concorre a scoraggiare l’attività imprenditoriale. Se dimezzi gli incassi e raddoppi le spese non ci vuole un genio della matematica per capire che il sistema non è più sostenibile. E tenere aperto un locale a pranzo per un paio di tavoli, come vediamo nell’infrasettimanale di tantissime attività, è una follia”.

Christian Fava Marcello Trentini

Queste considerazioni di Trentini si sovrappongono ai racconti di molti altri ristoratori, soprattutto in quelle insegne in cui le spese necessarie a mantenere in piedi l’attività sono tante, variegate, consistenti (pensando a un ristorante di fine dining, dal tovagliato a, banalmente, il costo dei calici da vino, fino ad arrivare a tutte le inezie… che sono inezie solo in apparenza).

“Oltre ad aver maturato l’idea piano piano, ho analizzato il recente trend di chiusure dei locali simili a Magorabin negli ultimi mesi. Davanti all’ineluttabilità dei fatti ho preso questa decisione. Chiudere non è un dramma se si ha l’attitudine a reinventarsi e se si vive l’ambito professionale con flessibilità. In Italia, a differenza di molti altri paesi, abbiamo l’idea che ‘una strada sia per sempre’. Spesso, invece, cambiano i requisiti e bisogna sapersi plasmare. Ho scelto il lavoro del cuoco e del ristoratore perché ne sono innamorato ma so che non esiste un solo modo per svolgere queste professioni. Non so cosa riserverà il futuro… al momento sento di volermi dedicare con più serenità a uno spazio semplice, più facile e privo di sovrastrutture”.

Al di là dell’esperienza di Trentini, è assodato che il problema economico in Italia sia schiacciante.

Nell’attesa che venga pubblicato il Rapporto Annuale sulla Ristorazione della Fipe, guardando ai dati di fine anno è chiaro che il settore regga ma non brilli (a dicembre 2024 il fatturato delle imprese della ristorazione ha registrato una crescita reale dell’1,1% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Nella media dell’anno, a fronte di un significativo rallentamento dell’economia, l’incremento è stato dello 0,7%).

Il confronto con i ristoratori - ma anche con baristi, enoteche e locali affini, colpiti in prima linea da questo andamento - ci ha fatto raccogliere molte preoccupazioni. Difficile dire cosa ci riservi il futuro ma ci sono degli elementi su cui vale la pena puntare. Per esempio sulla propria capacità di adattamento, che si sviluppa solo quando si presta ascolto, si analizza, ci si confronta. Barricarsi nel proprio locale senza indossare uno sguardo lungo non cambia di certo le condizioni. Non può risolverle. Manca il supporto delle istituzioni, e non vi diremo mai che non è così; ma voi, come ristoratori, potete fare molto. Scegliete, in primis, in cosa ridimensionare, in cosa tagliare, eventualmente come cambiare. Una strada non è per sempre. Ce lo hanno suggerito anche Christian Fava e Marcello Trentini.

La sala di Tracina

IL RISTORANTE

Autrice: Simona Vitali

Foto: Lido Vannucchi

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L’Aurum è fiorito

All’Albereta è già primavera inoltrata

Costruire con sapienza la propria professionalità con quella determinazione che è motore che porta a investire senza sosta sul proprio tempo. Un lavoro silenzioso, nascosto ai più, ma effettivo, metodico, cadenzato come una goccia d’acqua che batte sulla pietra, arrivando a scavarla. Chi vuole veramente fa così, riempie ogni spazio per formarsi, studiare, toccare con mano, non contando le ore, i tempi di riposo, le ferie…ma nessuno vede. Lui solo sa. A noi la sorpresa di trovarci un bel giorno davanti un fulgido talento giunto a fioritura - perché il talento deve arrivare a maturazione e manifestarsi - che di nome fa Alberto Quadrio e da settembre scorso si è insediato all’Albereta Relais & Chateaux, sulla magica collina Bellavista, dando corpo al suo progetto di ristorante d’autore, L’Aurum, là dove il Maestro Marchesi, che è stato anche il suo Maestro, ha impresso la sua indelebile traccia. Un naturale compimento di un percorso soppesato e voluto fortemente, che lo ha portato a collezionare esperienze importanti fra i grandi della cucina (dagli inizi con Gultiero

Alberto Quadrio

Marchesi a Yoshihiro Narisawa, Alain Ducasse, Rasmus Kofoed, Oriol Castro…) esprimendo talento già in questo sapere scegliere, prim’ancora che nei piatti.

In una e vera e propria istituzione come l’Albereta Relais & Chateaux della famiglia Moretti, lo chef ha assunto non solo la guida di L’Aurum ma l’organizzazione dell’intera proposta gastronomica del Relais: Leone Felice (casual restaurant), Stanza 54 (All day bar, dalla colazione a…), ristorante Benessere (secondo i principi della dieta Chenot), La Filiale (pizze d’autore di Franco Pepe e vini) e il Quintale (Brace restaurant).

Tessere una trama di buone relazioni

Dicevamo che Quadrio si è insediato da pochi mesi all’Albereta ma la percezione netta che abbiamo avuto, vivendo quel luogo e chi ci lavora, è che lo chef stia tessendo una trama di buone relazioni: riesce a sintonizzarsi con i suoi collaboratori e a conquistarli, facendosi benvolere, e al tempo stesso sta portando una rinnovata energia, motivazione, in tutti quanti. Una conferma che ci arriva

da più pulpiti via via che entriamo in contatto con le non poche figure che, a vario titolo, operano in questo tempio della convivialità: perlopiù giovanissimi, di grande freschezza e spontaneità quindi non costruiti e più veri. Va messo a fuoco Alberto Quadrio, la lettura della sua persona non è immediata. Cortese ma misurato, di poche parole, si libra quando parla del suo lavoro, delle scelte che motiva in modo appassionato e si palesa quando ti mette davanti un suo piatto, senza dubbio il suo linguaggio preferito. Lì lo si coglie appieno: le grande sensibilità della sua persona, l’ispirazione creativa, l’estrema cura balzano fuori netti e inequivocabili.

Uno chef che è emozione

È un’emozione questo chef, proprio per il modo in cui si esprime. Un’azione intimistica, la sua, tutt’altro che urlata. Se si è affinati si colgono anche i più minimi dettagli, che Quadrio non manca scrupolosamente di curare: tra ricerca, tecnica, estetica (originali, non copiati, gli impiattamenti. Non usati stampi e se si usa qualcosa lo si fa su

La sala de L'Aurum
L'Albereta Relais & Chateaux

misura) e raffinatezza (scelta di meravigliose porcellane e argenteria, certamente retaggio dell’esperienza francese). Per non parlare dell’equilibrio del gusto, laddove ogni piatto si impone rinsaldando l’altro. Segno di grande maestria. C’è davvero tanta stoffa in questo chef e soprattutto una vocazione marcata per la cucina d’autore. Costringere chi ha ali per volare a una cucina diversa è impedirgli di esprimersi a fondo, quando il percorso è di un certo tipo e tutto sta a indicare una determinata direzione.

Non smettere di “andare a scuola”

Abbiamo incontrato Alberto Quadrio al rientro da un’ennesima esperienza all’estero di tre settimane (esattamente il tempo di quelle che avrebbero dovuto essere le sue ferie) presso il Pavillon Ledoyen con lo chef Yannik

Allenò, dove è andato a rimettersi in discussione ancora una volta. Simili scelte non comportano la spavalderia di quando si è ventenni e intanto si vuol girare anche un po’ il mondo. Più il tempo passa e più c’è da fare l’esercizio di mettere da parte quello che si sa, e quindi il proprio orgoglio, per lasciare spazio al nuovo, se si vogliono fare simili esperienze.

Ma su questo il nostro chef ha le idee chiare:“ Per me è importante non fermarsi mai, cercare di essere sempre propositivi, avere la volontà di alzarsi la mattina e migliorare rispetto al giorno precedente”.

E in effetti i suoi ragazzi lo descrivono come instancabile, a partire dall’impegno – oltre alla gestione di una realtà così complessa e sfaccettata come l’Albereta - di connettersi con il territorio, che fortunatamente offre tanto, per riproporlo nei suoi piatti, andando

Foto: Valentina Sommariva

Da sinistra lo chef Alberto Quadrio, Sara Mercandelli, Camilla Guarnieri, Ferdinando Giovetti e Alessia Albertalli

in prima persona in avanscoperta dei prodotti da fare propri, sempre con i suoi fidi collaboratori, motivo di ispirazione pure loro.

Immedesimarsi nel lavoro dei produttori

Con Ferdinando Giovetti, il sous chef che Quadrio ha portato con sé da Cucine Nervi, dove è stato in precedenza, c’è una grande complicità che deriva dal tanto confronto: “Ci stimoliamo nelle idee, parliamo tanto. E davvero è quello che ci circonda ad ispirarci. Quando abbiamo pensato di inserire nel nostro menù la carne di capra orobica abbiamo voluto raggiungere il gregge al pascolo, un’ora e mezzo di cammino. Siamo partiti con un’idea e una volta tornati abbiamo stravolto il piatto.

Raccogliere informazioni sull’animale, carpire la passione dell’allevatore, immedesimarsi in lui, cambia la prospettiva e porta al piatto”.

“Per questo mi sento di dire - aggiunge lo chef - che il nostro è un team unico, tra cucina, sala e produttori”.

Questione di sensibilità

“La mia - ci spiega Quadrio - è una cucina rispettosa della materia: penso alla materia non al prodotto finito. La materia in un qualche modo mi indica il com’è meglio che la tratti”. È una questione di sensibilità, di particolare sensibilità, che in lui è un punto di forza, tanto nelle relazioni che sta costruendo e favorendo in Albereta quanto nell’interpretare i prodotti in cucina. La pasticceria trova nella giovane e talentuosa Camilla Guarnieri una vivace espressione. “ È vero - ci dice - il dessert rimane per ultimo, ma io penso che per questo ci sia sempre un secondo stomaco”.

Dai suoi ragazzi è molto amato, lo chef.

Nicola Manganaro, restaurant manager, che ha curato l’apertura di L’Aurum e ora si occupa di Leone Felice, di lui dice: “È molto attento a livello umano e quando lo

conosci ti sorprende. Grazie a questo suo approccio è riuscito a forgiare la squadra che si è creata intorno a lui, per la quale è un gran punto di riferimento.In Albereta ha portato una ventata di aria fresca di cui c’era bisogno. Questa per noi è diventata una famiglia”. È bello trovare la conferma di un simile pensiero anche nelle giovanissime Alessia Albertalli (lei pure arriva da Cucine Nervi) e Sara Mercandelli, in sala. Splendide nella loro spontaneità, pronte alla battuta ma assolutamente attente e professionali. E legate da una bella complicità. Alla faccia dei veterani della sala, tutti impostati. Ci siamo stancati anche della formalità. Che il nostro tempo al ristorante sia sempre più lieve e piacevole. Ad inchiodarci ci pensa già la vita. Belli tutti all’Albereta, dove - prima che altrove - è già primavera inoltrata!

Alessia Albertalli

IL PRODOTTO

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Si fa presto a dire carne

Conoscere la filiera, come si alleva un bovino, le differenze tra razze e tagli anatomici. È fondamentale per un ristoratore sapere le caratteristiche di ciò che sta acquistando per svolgere al meglio la propria attività

Secondo Euromonitor International, nel 2024 sono stati venduti 260 milioni di tonnellate di carne in tutto il mondo. Entro il 2028 le vendite saliranno a 275 milioni di tonnellate.

Analizzando i consumi possiamo notare, a fronte di un consumo globale medio pro capite di 42,82 kg, una cifra che può raggiungere 80 kg per la media europea e addirittura 128 kg negli Stati Uniti.

Recenti studi prevedono che nei prossimi anni si verifichi un rallentamento della richiesta che tra dieci anni dovrebbe passare dal 2% a circa 1,5% annuo. Resta un mercato importante e, osservando l’impatto che esso ha sull’economia italiana, vale 38 miliardi di euro (Statista, 2023) ovvero circa il 2% de PIL (IMF, 2022).

La filiera delle carni bovine in Italia, però, manca di autosufficienza, lo è solo per metà circa.

Secondo le stime di A.O.P. Italia Zootecnica, produciamo il 45% del fabbisogno nazionale di carne bovina e importiamo il restante 55%. In particolare, l’Italia importa anche gran parte dei ristalli che vengono poi portati al peso finale negli allevamenti del nostro Paese.

Il Garden Relais di Borso del Grappa (TV)

Nel resto d’Europa il tasso di autosufficienza dei principali Paesi produttori di carne comunica: Irlanda 398%, Francia 112%, Spagna 125%, Olanda 128%, Belgio 141%. Fanalini di coda l’Italia col suo 45% e la Grecia col 19%. (fonte Teseo).

In questo scenario, non si può non tener conto delle nuove abitudini alimentari della popolazione e di tendenze in crescita per stili e diete in cui sempre più le alternative alla carne compaiono sulla tavola dei consumatori e alle quali anche gli addetti al consumo “fuori casa” devono prestare attenzione. Un elemento, in particolare, emerge da tutti gli studi di settore, ed è l’importanza di salute e benessere che il 66% degli italiani considera come primo driver di acquisto, insieme ai concetti di salutare, semplice e autentico, secondo il rapporto Coop 2024. La ricerca del giusto rapporto tra qualità e prezzo stimola gli acquisti e fa riflettere su quanto sia determinante la percezione del valore di un prodotto. Insomma per gli Italiani la recessione appare scongiurata ma l’inflazione aumenta, i risparmi sono un ricordo lontano, niente cinema, teatro o musei, e allora buttiamoci su qualche piccola soddisfazione in campo alimentare, perché no? Ma che ne valga la pena!

È evidente come anche al ristorante sia un fattore di scelta. Uno spunto di riflessione per gli operatori del settore, da non sottovalutare.

La proposta del ristorante, specialmente se parliamo di carne, alimento costoso di per sé, deve essere all’altezza delle aspettative di un cliente sempre più informato, cosciente ed esigente.

Scegliere la carne: corretta informazione e consapevolezza

Se per i comuni consumatori, riempire il carrello della spesa è diventato motivo di riflessione, è evidente come questa attenzione ai criteri di acquisto sia fondamentale per coloro che, gestendo un’attività di somministrazione, devono far quadrare i conti, mantenere alta la reputazione del locale, fidelizzare il cliente e, perché no, guadagnare a sufficienza per i suoi fabbisogni.

Con Andrea Marchi, titolare di Marchi spa e presidente di Cateringross, abbiamo cercato di focalizzare i punti critici di questo problema.

Come si deve comportare un ristoratore quando compie gli acquisti di carne per le sue necessità?

“In un ristorante la carne, come il pesce, è un elemento distintivo ed è importante che la qualità sia alta per soddisfare il cliente, fidelizzarlo e favorire la diffusione della sua soddisfazione che genererà un ritorno di immagine. Per ottenere questo, il ristoratore deve alzare l’asticella della qualità. È fondamentale – afferma Andrea Marchi – stabilire un rapporto di fiducia col proprio fornitore. Questo perché la carne è una materia prima che può esprimere diverse caratteristiche e l’esame visivo non sempre è sufficiente, non sempre è possibile o non si è abbastanza competenti per praticarlo. Conoscere il proprio fornitore è alla base di tutto per scegliere con cognizione”.

La carne, come e più di altri prodotti, è soggetta a normative e certificazioni che la qualificano e che possono essere un aiuto valido nella scelta: “Esistono certificazioni come le dichiarazioni di HACCP e le autorizzazioni di sanificazione che devono obbligatoriamente, per legge, comparire nell’etichettatura. Così come la provenienza e la data di macellazione, la scadenza: costituiscono il passaporto dell’animale. Oltre a queste esistono però altre certificazioni facoltative che rappresentano una fonte aggiuntiva di informazioni utili e generalmente vengono fornite da un ente certificatore che verifica che i dati trasmessi siano corretti. Sono molto importanti perché l’ente certificatore controlla di persona, per esempio, se l’animale macellato è maschio o femmina, differenza sostanziale ai fini della degustazione soprattutto a livello della masticazione, il maschio ha una carne più tenace e fibrosa; se è stato alimentato a foraggio o a erba, determinante per le caratteristiche organolettiche e gustative, per la sapidità; da che taglio anatomico la carne proviene, costata o fiorentina o roast beef. Queste caratteristiche devono essere identificabili. Infine ci sono altri tre parametri di valutazione: la conformazione, il colore e l’omogeneità.

Amaranta Old cow
Oro Veneto
Red Krowa Gold

Dalla conformazione si capisce se il pezzo è uniforme, dal colore l’età dell’animale al momento della macellazione, dall’omogeneità il grado di diffusione del grasso e la distribuzione della fibra muscolare. È evidente che per riconoscere queste caratteristiche occorre competenza. Queste idoneità, che attribuiscono valore alla qualità della carne, verificabili grazie alla certificazione, si ritrovano nel sapore, nella quantità di grasso e conseguente riduzione dello spreco: nel food cost. Sono caratteristiche di base comuni sia al mercato interno sia a quello estero ma ci vuole un addetto ai lavori che le sappia identificare. Ecco che il rapporto instaurato col fornitore, basato sulla competenza e sulla fiducia, è fondamentale. Più l’etichetta è completa più semplice sarà la scelta”.

Uno sguardo al mercato

Come accennato, in Italia soddisfiamo circa la metà del fabbisogno nazionale e dobbiamo importare dall’estero il rimanente. Il motivo è evidente: la mancanza di terreni sufficienti da destinare al pascolo, innanzi tutto.

“Negli anni - spiega Andrea Marchi - nell’allevamento si sono sviluppate due grandi correnti che hanno colonizzato il settore: i bovini da carne e le femmine da latte. Appartengono fondamentalmente alle razze francesi e inglesi Limousine, Charolais, Hereford e Angus e nel tempo si sono diffuse anche in tutta Europa e in sud America dove i pascoli sono più presenti e i capi vengono alimentati a erba mentre da noi l’alimento più comune è il foraggio arricchito con mais e altri componenti”.

L’animale nutrito a erba risulta più magro, le sue carni più ricche di ferro; l’animale nutrito a foraggio e cereali, ricchi di acidi grassi, sviluppa una muscolatura più carnosa. Il tipo di allevamento, oltre alla razza, determina le caratteristiche organolettiche della carne. “Queste caratteristiche definiscono gli scopi e il ristoratore attento dovrebbe scegliere secondo le sue finalità in cucina – afferma Marchi – decidendo in base alle informazioni in suo possesso. Anche nel caso dell’origine dell’animale perché le carni francesi e italiane rivelano masse musco-

lari più diffuse, con poco grasso, ideali per le tartare, per esempio; le anglosassoni invece e quelle dell’est Europa sono più grasse e saporose, preferibili per le cotture alla griglia; quelle provenienti dal sud America sono grasse perché all’alimentazione naturale del pascolo vengono aggiunti cereali. Ne risultano animali imponenti e devono essere macellati più giovani per poter essere trasportati conservati sottovuoto in maniera che se ne preservino le caratteristiche organolettiche”.

Un monitoraggio attento e meticoloso è alleato delle scelte per il ristoratore che desidera acquistare le carni più idonee alla sua attività e al suo stile culinario. Seguire le mode del momento non è un fattore di indicazione affidabile, dunque, meglio seguire il consiglio di Andrea Marchi e affidarsi ad esperti per poter, poi, comporre il proprio menù secondo criteri adeguati. “Il prezzo non deve essere un parametro di scelta – ribadisce – perché potrebbe essere a discapito della qualità e quando il gioco si fa al ribasso quest’ultima ne risente sempre. Il ristoratore dovrebbe capire che questo comportamento alla fine non paga perché partendo da una materia prima di buona qualità l’esecuzione del piatto sarà più semplice e ci saranno meno sprechi, favorendo il food cost: meno sprechi, maggiore resa anche in termini di apprezzamento e reputazione. Oggi il consumatore è attento, vuole leggere la carta delle carni come fa con quella dei vini, il suo potere d’acquisto è diminuito e quando spende vuole farlo con soddisfazione. Chi propone qualità vince”.

Garden Relais, un punto di riferimento per gli amanti della carne

È un luogo in cui l’accoglienza e la  buona cucina costituiscono il miglior biglietto da visita. Al Garden Relais di Borso del Grappa (TV) la buona scelta della carne proposta compone un menù di altissimo livello. Francesco Zen, quarta generazione della famiglia, insieme al fratello Alessandro guida con perizia l’attività e dirige la cucina proponendo ricette tradizionali e specialità culinarie innovative in un connubio sapien-

Andrea Marchi (foto Mattia Gianfelici)

te di tecnica e genuinità. La carne è il piatto forte al Garden Relais: “Selezioniamo la materia in base alla destinazione d’uso – afferma chef Francesco Zen – tenendo conto innanzi tutto del livello di marezzatura e del sapore. Facciamo cucina espressa su carbone di quercia e per ottenere una pietanza succulenta, con una bella crosticina data dalla reazione di Maillard in superficie, con caratteristiche precise di croccantezza e succosità, abbiamo bisogno di carni grasse. Per questo scegliamo principalmente carni da fassona polacca Red Cow, la migliore secondo noi. Ma utilizziamo anche Black Angus americano. Sono tutte carni che rivelano infiltrazioni di grasso molto importanti che compongono una marezzatura ideale per i nostri scopi”.

Nella cucina del Garden Relais si utilizzano tagli di carré intero - costate, fiorentine, filetti – lavorati adeguatamente per essere cucinati alla brace. La cottura alla brace su legna di quercia e uno speciale carbone di quercia sudamericano è il metodo che meglio preserva le peculiarità delle carni, spiega Zen: “Aiutano a mantenere alta la temperatura e quindi a creare in superficie quella crosticina tipica e, inoltre, rilasciano un profumo inconfondibile che attribuisce gradevolezza alla carne valorizzandone il sapore naturale”.

Le carni sono frollate per un tempo massimo di 40-45 giorni perché, spiega Zen: “è il tempo ideale per il tipo di carne che scegliamo, grassa, giovane e da animali femmine”.

Il bovino è la materia prima principale per realizzare la proposta culinaria del Garden Relais a cui Francesco Zen accompagna ricette a base di agnello gallese, qualche spiedino di quaglia e soprattutto costolette di Patanegra, il pregiato maialino iberico. Di recente ha introdotto anche alcune proposte di wagyu giapponese che riscuote grande apprezzamento: “Lo cuciniamo su brace ma con una piastra in ghisa, nel suo grasso, e lo presentiamo con porro bruciato alla soia. Un sapore unico”.

La carne costituisce, naturalmente, la base di antipasti classici come la tartare o il carpaccio ma in questo caso Francesco Zen predilige carni italiane da un allevamento locale: “Per queste proposte è meglio la carne delicata e magra, e il prodotto nato in Francia e allevato in Italia è la soluzione migliore”.

La carne alla brace resta la specialità, e anche l’ambientazione è studiata per valorizzare questa tipologia di cucina. Racconta chef Francesco Zen: “I tagli sono esposti nelle vetrine refrigerate come in una macelleria e il cliente può osservarli e scegliere dal menu, dove l’origine delle carni è evidenziata; il servizio viene fatto direttamente in sala, di fronte ai commensali creando un’atmosfera molto conviviale. Possiamo servire fino a 200 persone: la nostra clientela è abituale e l’aspettativa è alta, per questo valutiamo con cura, selezioniamo attentamente e pratichiamo le cotture con grande meticolosità. I nostri clienti lo sanno, vanno sul sicuro”.

Francesco Zen

La mitica dell’AnticabottegaLocanda del Falco di Rivalta (PC)

Un gran bel modo di accogliere

Autrice: Simona Vitali
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Fare del proprio lavoro un’opera d’arte, saper andare al cuore dei clienti mettendo in bella mostra la propria ricchezza più grande: quei prodotti selezionati con cura per il ristorante – fra cui svettano invitanti panieri di coreografica frutta e verdura di stagione, funghi essiccati (ma anche freschi quando è il momento), mazzi aromatici, salumi (le tre DOP piacentine: Coppa, Salame Pancetta), oli di diversa provenienza, sott’oli, formaggi, paste secche di grani antichi, conserve di pomodoro nelle grandi latte scarlatte, sacchi di farina, granelle di nocciola, cioccolato da fondere ... – in una bottega prettamente ad uso interno, che è volutamente sotto gli occhi di tutti coloro che accedono al locale e non nel nascondimento di una cantina o di una dispensa, dove simili prodotti vengono solitamente stipati in attesa di essere lavorati.

L’intuizione di una donna, Caterina

Spelta, madre di cinque figli

Questo è l’impegno quotidiano di una donna di straordinaria energia e senso della bellezza, Sabrina Piazza dell’Antica Locanda del Falco di Rivalta, frazione di Gazzola (PC), che ha preso il meglio da ciascuno dei genitori, così lungimiranti e intuitivi a suo tempo, da rendergli onore ogni giorno mettendoci del proprio ed amplificando in questo modo la loro opera. Aveva una macelleria Luigi, detto Ginu o Piazza, papà di Sabrina, di quelle che fanno brillare gli occhi per quel modo invitan-

te di esporre carne di prima scelta, capace di esaltarne la qualità più di mille parole ma l’avvento dei supermercati ha dato sentore che i tempi stavano cambiando. L’intuizione arriva proprio dalla moglie Caterina, detta la Rina, col pragmatismo di chi ha messo al mondo cinque figli e non teme nulla o quasi: “Ho sempre cucinato per tutta la nostra famiglia e per i tanti che frequentano la nostra casa, posso farlo anche per altri” aveva confidato al marito. “ La nostra - ricorda Sabrina, la più piccola dei figli – era una casa aperta dove si mangiava a tutte le ore, da mattina a sera”.

Quell’osteria con bottega nel borgo medioevale di Rivalta

Così la coppia si mette a scandagliare tutta la provincia di Piacenza, finché non viene a conoscenza di quella locanda che vogliono cedere giusto nel piccolo borgo medioevale del castello di Rivalta, lungo il corso del fiume Trebbia, di cui Luigi si innamora letteralmente fino a decidere di fare il passo.

Sensibili alla bellezza li siamo tutti ma c’è chi è più affinato in questo, sa vedere oltre, e sulla bellezza ci scommette, nonostante – come in questo caso – ci sia da lavorare per risollevare le sorti di quell’osteria un po’ spenta e appartata, seppure dentro una fascinosa nicchia.

Una scommessa su cui marito e moglie si mettono di buona lena, lei applicandosi alla cucina dove coinvolge le

donne del luogo per imparare le ricette tipiche, e lui, ossessionato dalla qualità delle cose, sa bene dove approvvigionarsi per l’attività, conoscendo ogni angolo di quella provincia. “In seno all’osteria – ci racconta Sabrina – c’è sempre stata una bottega che oltre ai generi alimentari teneva veramente di tutto, dalla brillantina all’ago e filo fino ai pennini con l’inchiostro….in quei cassetti, fatti con le cassette della frutta, ho trovato anche tanti cartellini scritti a mano. Non appena ci siamo insediati mio padre si è preoccupato di procurare bei cesti da riempire della frutta e verdura acquistate per l’osteria, curando la disposizione di ogni singolo pezzo e l’accostamento dei colori. Quella bottega, dove si era sempre venduto al dettaglio, con la nostra gestione è diventata una vetrina per comunicare la freschezza e la qualità dei prodotti utilizzati in cucina. E di fatto non la si è mai voluta sfruttare come bottega vera e propria”.

Mutuare il senso della bellezza

Era bimba, Sabrina, e ancora ricorda di quelle domeniche in cui non vedeva l’ora di andare a giocare con i suoi amichetti, quando veniva chiamata a rapporto per lucidare le mele o realizzare piramidi perfette di fragole, scelte tutte della stessa misura, ma anche creare i giri di colore con kiwi, mela e mandarino sulla parete del balon di cognac gigante, che conteneva macedonia. Oltre alla bottega, all’ingresso del ristorante, c’era un tavolo chiamato “mostra” che veniva allestito con cesti di funghi, cacciagione, pezzi di costate intere, ciambelle piacentine… sempre per ribadire che tipo di prodotti si utilizzava in cucina (altri tempi rispetto all’avvento del HACCP!).

L’effetto era come di quei bei quadri che rappresentano eleganti e sontuose nature morte

È così che Sabrina ha mutuato dal padre (lei dice per osmosi) e fatto suo quel senso della bellezza che non l’hai più abbandonata, nemmeno quando si è trovata di fronte a scelte meno poetiche come, dopo la dipartita dei geni-

tori e il succedersi dei fratelli nell’attività (prima Marco e poi Carletto), il decidere di prendere le redini dell’osteria (“non posso lasciar decadere tutto il lavoro che ha fatto mia famiglia!), passando dalla conduzione familiare alla necessità di creare una brigata e uscire dalla cucina (dove si era formata) per insediarsi in sala, quindi imparare pure un nuovo mestiere. Provvidenziale, in quel periodo, l’incontro di Marco Beltrametti, che da vero professionista della sala – e tutt’oggi ne è pilastro - ha saputo guidarla in questo nuovo ruolo. Nella sua crescita a tutto tondo invece ha inciso tantissimo il fratello Carletto, eclettico e con un gran senso pratico, bravo in tutto.

L’ allestimento della bottega

Anche nei momenti più tosti l’allestimento della bottega è rimasto l’appuntamento fisso di ogni settimana, il biglietto da visita a cui dedicarsi, anche se erano molte le cose da fare. E oggi pure, con l’orgoglio di avere intessuto rapporti bellissimi, di affetto addirittura, con produttori piacentini che la riforniscono due volte la settimana. “Io – riflette Sabrina - trovo che la bottega sia un’appendice che non può non esserci al Falco. Tu entri e già capisci chi siamo, capisci che c’è territorio, c’è cura, c’è freschezza. Mi metto nei panni di un cliente, se non trovassi più la bottega mi mancherebbe qualcosa. È un impegno che porto avanti molto volentieri, vorrei avere più tempo per farlo, combinare i colori, le forme fra loro mi rilassa. E poi è un luogo vivo: dalla cucina vengono a prelevare l’occorrente ogni volta che ce n’è bisogno. Se vedo disordine non resisto, devo andare a sistemare. Questo è il nostro modo di accogliere”.

Fotografie che hanno fatto il giro del mondo

Inutile dire che un simile spazio così scenico, fiabesco per alcuni aspetti, si è imposto e continua a imporsi all’attenzione di chiunque passi dalla locanda. Non si conta-

Sabrina Piazza
Le illustrazioni di Sabrina

no gli scatti fotografici. Non parliamo poi degli stranieri, che le hanno fatto fare il giro del mondo!

Non solo, è stata oggetto di attenzione di realtà importanti come la TIM che nel 2015 ci ha costruito la sua campagna di comunicazione. “In quell’occasione è arrivata una fotografa italo americana, Nancy Fina, un vero personaggio – racconta Sabrina con un gruppo di lavoro di 40 persone – che ha realizzato scatti su più stagioni (ancora oggi vi è traccia nel suo sito: https://nancyfina. com/#13). Ritrovarsi all’aeroporto di Linate piuttosto che alla stazione di Milano Centrale con la nostra bottega è stata una grande emozione!”…

Le illustrazioni di Sabrina per raccontare l’oggi della Locanda del Falco

Ma questa ristoratrice così frizzante non ha finito di sorprenderci. Cogliendo la mia sensibilità al bello (la sto intervistando nella sua casa, nel giorno di chiusura per turno dell’attività e mi sento calata nella pagina di una rivista di design) azzarda quasi fra le righe, in modo lieve, una battuta su cui la fermo subito: “Stiamo cercando di raccontare il nostro lavoro attraverso illustrazioni”. Un plurale maiestatis che allude a lei, alla sua persona, che scopro aver fatto studi artistici. Timidamente va a prendere una cartellina da cui estrae tante “figurine” disegnate a mano che, ci dice Sabrina: “Vogliono raccontare il nostro lavoro, qui al Falco. Questo mese nel menu ho inserito il ritratto dei quattro ragazzi della cucina”. Bisogna vedere come li esprime e con che ricchezza di simboli…si capisce che li conosce molto bene!

È l’ulteriore conferma di capacità di lettura di questa donna acuta, perspicace ma troppo abituata a lavorare a testa bassa, che oggi voglio tirar fuori da quel bor-

go per raccontarla a tutti. Come se non bastasse è in nostra compagnia la sorella Pucci, a cui la lega una profonda intesa. Altra mente vivida, consigliera e di grande ispirazione per Sabrina, ma presenza discreta. Si tiene volutamente nella retroguardia (tre passi indietro)”

Succede che una bottega ti streghi e che tu voglia scriverne, di quella, senza recensire per forza il ristorante. Chi l’ha detto che un locale lo si valuta solo a partire dai piatti?

Ho imparato che dove c’è cura nei particolari c’è cura in tutto il resto. È una forma della mente per cui tutto ciò che si fa, tutto ciò che si sceglie, deve rispondere a certi requisiti.

Oggi L’antica Locanda del Falco è un ristorante, che non ha rinunciato alla tradizione ma guarda pure avanti. Lo fa con un interessante giovane chef, Pietro Carlo Pezzati, che si è arricchito anche di esperienze all’estero, ha una mente aperta, si sta esprimendo bene e con Sabrina (e Pucci) si è proprio preso.

IL VINO

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Al di là del fiume

Un

progetto che

parte dalla vite e ritorna alle vite

Non si sa da dove iniziare a raccontare questo progetto, sbocciato - e non v’è verbo più indicato - nel cuore del parco storico del Monte Sole a Marzabotto (BO), nel 2007, facendosi largo tra le maglie di un terreno fertile, circondato dalle colline, al di là del fiume Reno. Una terra che, molti ricorderanno, è legata all’eccidio nazifascista del 1944.

Lasciando la principale si penetra in una scena tutta nuova, naturale, quasi fiabesca, stretta tra curve, sali scendi e verde, finché non si raggiunge il civico 10 in località Ca’ de Co

Per molti anni gli appezzamenti che costeggiano questa proprietà sono rimasti sospesi, ma silenziosamente attivi, perché adibiti a prati stabili.

“Sembravano fermi ma già celavano una vocazione viticola, spartita tra Albana, Barbera e vitigni autoctoni minori” ci appunta subito Danila Mongardi. A ricordare le buone attitudini di queste terre a Danila e al marito Gabriele Monti, i motti propulsori di questo progetto, sono stati gli abitanti della zona. Ma pure il nonno e il padre di Gabriele, che in questi pendii prestavano un servizio agricolo e di falegnameria.

La rinascita di un luogo

Facciamo un passo indietro, partendo proprio dalle origini.

“Un giorno ci ha contattati il proprietario terriero per cui la famiglia di Gabriele aveva lavorato. Ci chiedeva se eravamo intenzionati ad acquistare questo spazio. Non sapevamo cosa sarebbe nato ma ci siamo lasciati guidare, per sentimento e sensazioni, e abbiamo detto sì”.

Sono tante le particolarità che cercheremo di riportarvi in questo racconto ma c’è un’immagine che, più di ogni altra, descrive la forza che tiene eretto questo progetto. Non è uno scatto del fiume, come potrebbe suggerire il nome, ma la fotografia di un rudere decadente, in cui si distinguono sassi, travi in legno, e poco altro.

“Era così” ci conferma Danila. “Quando l’abbiamo preso c’era davvero poco, era tutto da costruire. L’abbiamo coltivato piano piano pensandolo come luogo di accoglienza, senza proiettarci in un’attività commerciale. Ora c’è l’osteria, al primo piano, gestita da Marzia e Simone, e sotto la nostra cantina, affiancata da un altro spazio di cui siamo molto fieri, gestito da mio figlio e amato dai giovani”. Mattone e canapa, termoisolanti naturali, terra cruda e paglia; e poi legno, ferro, reperti agricoli reinventati, e delle particolarissime tinte alle pareti ottenute con un’antica tecnica romana, il coccio pesto: dentro alla struttura ci si sente in un mondo vivo, fatto di mani e tante, anzi tantissime, materie.

“Abbiamo coinvolto gli artigiani locali per edificarlo. Per noi doveva essere espressione di un territorio, di una comunità, e ogni cosa impiegata per la costruzione o per l’arredo doveva - e deve - avere un senso.

La nostra scommessa è che chiunque entri in questo luogo possa cogliere un modo nuovo di fare le cose!” conferma Danila.

Il vino e tutto il resto

Se da un lato c’era un luogo da ricostruire, dall’altro c’era un terreno vivo da ridestinare alle barbatelle. Gabriele e Danila hanno scelto subito di ripiantare i vitigni autoctoni, seguendo una linea precisa, tracciata dai principi della biodinamica

“Sapevamo cosa avevamo tra le mani e soprattutto sapevamo cosa volevamo lasciare a questo territorio: un terreno fertile, lavorato con un metodo agricolo compatibile con la vita. La biodinamica è stata la nostra scelta sin da subito, ma eravamo consapevoli di non sapere nulla sul mondo del vino. Ci siamo quindi affidati ad un enologo, Adriano Zago, che ancora oggi ci guida. Gli abbiamo chiesto di aiutarci a produrre un vino naturale ma inattaccabile dal punto di vista tecnico, perché questa per noi è la via più ragionata e corretta. Il lavoro parte naturalmente in campagna, dove ci impegniamo ad ottenere uve mature, sane e vitali, e prosegue in cantina dove non usiamo lieviti selezionati e bassissimi livelli di solforosa”.

Negli anni la produzione si è allargata e diversificata. L’affinamento in anfora - che si può ammirare scendendo sotto l’osteria dove dimorano le giare - e la lunga macerazione sulle bucce, rimangono i due perni per valorizzare Albana e Barbera (nel Fricandò e nel Dagamò) ma c’è spazio anche per vini più agili, che ben raccontano le note di questi vitigni, talvolta combinati in piccole percentuali anche a parcelle minori, sempre locali.

C’è un filo che tiene insieme tutto: sono vini di personalità ma anche di gentilezza, in cui naso e palato trovano equilibrio, gioco, e perfette chiusure.

L’uva non è l’unico prodotto della terra perché non hanno mai desiderato fare monocoltura. “Sarebbe una negazione di noi stessi e di tutto ciò che raccontiamo quando

parliamo di viticoltura. Al di là del fiume è anche alberi da frutto di ogni tipo (tra cui la Mela Rosa Romana DeCo), un appezzamento adibito ai grani antichi, le erbe officinali, il compost. È un ecosistema complesso e pressoché completo, che rifornisce la cucina dell’osteria. Questo soddisfa il nostro obiettivo, ovvero garantire fertilità alla terra e circolarità”.

Il valore sociale, tra terra e cielo

Fertilità è un termine che Daniela e Gabriele utilizzano spesso ma non solo con accezione agricola. Daniela, prima del 2007, lavorava nel sociale. E l’inclinazione sociale è insita in questo progetto quasi più dell’uva!

“La mia condizione era coltivare la terra ma al contempo prendermi cura del benessere delle persone. Per questo in concomitanza con l’avviamento dell’attività è nata la nostra associazione culturale. Con noi lavorano molti giovani, organizziamo eventi, iniziative di vario genere. Poco lontano da qui abbiamo rimesso in piedi un’altra struttura, una foresteria con 36 posti letto, che accoglie tutto l’anno chi è di passaggio, in un luogo che sembra davvero fuori dal tempo… e in un’altra dimensione. C’è silenzio, natura, tanti animali. In altre parole ciò che serve per prendersi cura di sé. Lo abbiamo chiamato cielo perché è lo specchio complementare di quanto facciamo qui, in Ca’ de Co, dove lavoriamo la terra”.

Questo solido legame - concettuale ma anche pratico - tra terra e cielo, che caratterizza Al di là del fiume, è anche un’opera d’arte. Nella porta a fianco all’osteria si apre il resto di un grande albero abbracciato da un’edera, lavorato con straordinaria sensibilità da un artista locale. Un esempio straordinario di resistenza naturale, coadiuvata dall’uomo.

“Questo è il simbolo del nostro pensiero, della terra e del

cielo che si uniscono, ma rappresenta anche tutti gli intrecci che ci attraversano. Questo luogo senza le persone e l’abilità manuale non esisterebbe”.

I giovani

Parlare di fertilità con Danila e Gabriele ci ha portati, inevitabilmente, a parlare anche di giovani.

“A loro destiniamo molti pensieri e azioni. Ci siamo resi conto che a tanti di loro manca il contatto con l’atto pratico, con la manualità, con le mani persino. È necessario dare loro l’occasione di riscoprire le mani”.

Uno dei loro quattro figli, Sam, è entrato in azienda e sta apportando il suo contributo sia dal lato produttivo che dal lato dell’ospitalità.

“Siamo convinti che il mondo del vino debba dare molto ascolto ai giovani. Negli ultimi anni c’è stato un evidente allontanamento dall’interesse enologico, per varie ragioni, e un riassestamento del comparto del vino naturale, specie dopo il Covid. Stiamo attraversando dei cambiamenti epocali, segnati da molteplici fattori, dal clima alle economie. Su alcuni, tuttavia, c’è ancora margine di lavoro. Il dialogo con le nuove generazioni è uno di questi. I giovani capiscono quando si sceglie pensando al loro futuro. Lo si intuisce dai loro sguardi, s’illuminano di gratitudine. Quando gli spieghiamo cosa significa lavorare la terra garantendo fertilità per il futuro ci rispondono: ‘allora c’è ancora una possibilità’!”

Al di là del fiume

Via San Martino, 10, 40043 Cà di Cò (BO)

Danila Mongardi

PATATE

BUONE, PROFESSIONALI, TESTATE OGNI GIORNO

Forno e Vapore

Dal sapore delicato

Una selezione di patate professionali ognuna col proprio utilizzo culinario, per soddisfare ogni esigenza ed arricchire i vostri menù con materie prime dal sapore autentico capaci di esaltare l’essenza delle vostre creazioni. Testate ogni giorno dai nostri chef, garantiscono Gusto costante, piatti sempre perfetti e facili da realizzare. L’intera gamma è stata eletta Prodotto dell’Anno 2025!

Imbattibili e facili da realizzare

Gnocchi e Purè
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fritte, gnocchi, crocchette, puré, croccanti al forno
Novelle
Al vapore, arrosto e in insalata
Gnocchi e Arrosto
Dal sapore deciso
Le Big
Cartoccio, barbecue, grill o farcite
Dolci Versatili in cucina
Viola Ideali per piatti gourmet
Le Piccole Ideali al forno e vapore

R-INNOVARE l’Ospitalità LA FORMAZIONE

A dare, a non lesinare nel dare, si riceve

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Immaginate gli ambienti del prestigiosissimo Four Season Hotel di Firenze e provate a pensare di avere l’occasione di trascorrervi un’intera giornata. In quanti non vorrebbero avere una simile opportunità? Questi luoghi di grande bellezza e riservatezza, tendiamo a mitizzarli: “Chissà cosa ci sarà lì dentro? Che bello sarebbe anche solo farci un aperitivo…” Ebbene, dovete sapere che da questo pulpito si è levato un grande slancio di apertura per accogliere e far vivere un’intera giornata, ai massimi livelli (e sottolineiamo ai massimi livelli perché ne siamo testimoni) agli studenti che hanno scelto di fare dell’ospitalità il proprio mestiere.

Il conventino (Hotel Four Seasons Firenze)

Mettiamoci nei panni di questi ragazzi e proviamo a pensare che tipo di emozione possa aver suscitato in loro il vivere, esperire, l’ambiente e relativi servizi e interagire in modo diretto con i general manager, le figure più rappresentative delle aziende leader del settore turistico-alberghiero di lusso presenti sul territorio fiorentino.

La nascita di un’idea È l’immediato post covid quando, presso l’hotel Westin Excelsior di Firenze, tre direttori del calibro di Vincenzo Colella (Westin Excelsior e The St. Regis Hotel Florence), Max Musto (Four Sesaons Hotel di Firenze), Giancarlo Rizzi (Rocco Forte Hotel Savoy di Firenze) si incontrano con Francesca Lascialfari, la dirigente scolastica dell’Istituto alberghiero A.Saffi di Firenze e Sara Contedini, referente del gruppo discipliare di Accoglienza Turistica e membro della commissione Eventi dello stesso istituto, proponendo di mettere a disposizione degli studenti dell’indirizzo di Accoglienza Turistica la propria esperienza. “Perché non organizziamo, ci siamo detti – ricorda Max Musso – momenti che siano di ispirazione, motivazione, incoraggiamento, mentorship per questi ragazzi, per fargli toccare con mano questo nostro fantastico mondo, di cui gli capita di non mettere abbastanza a fuoco che opportunità offra, tendendo a focalizzarsi piuttosto su quanto assorba...”. L’idea piace, è condivisa, e si gettano le basi per R-INNOVIAMO l’Ospitalità, un’occasione formativa che vuole essere “di valore” (e vedremo meglio il perché), giunta quest’anno alla sua terza edizione che - oltre al nucleo progettuale originario - coinvolge altre strutture ricettive fiorentine di primissimo piano: The Place Firenze, VillaCora, Helvetia&Bristol, Belmond Villa San Michele, Sina Villa Medici, Hotel

Brunelleschi, Lungarno Collection, Portrait Firenze, Palazzo Firenze, Hotel Salviatino, Villa La Massa. Un buon rapporto li lega tutti quanti. Max Musto, GM del Four Seasons, ci racconta che si riuniscono spesso e fanno squadra fra loro.

Partecipa all’iniziativa una selezione di studenti e studentesse del 5° anno, provenienti da tutti gli indirizzi (perché l’ospitalità non è solo accoglienza) dei diversi istituti alberghieri della Toscana, da due alberghieri fuori regione (uno del nord e uno del sud) e da alcune scuole di alta formazione italiana (HIA, Hospitality Innovation Academy) e straniere (Hecole Hotelier di Losanna e Hotelschool The Hague).

“E

quando ci ricapita ancora un’occasione così?”

Fa brillare gli occhi il programma di questa terza edizione di R-INNOVIAMO l’Ospitalità, a partire dalla location: il Conventino, chiesa sconsacrata in stile neogotico, di Palazzo del Nero, uno dei due edifici rinascimentali che caratterizza il Fours Season insieme a Palazzo della Gherardesca, entrambi immersi in uno dei giardini più grandi di Firenze, il Giardino della Gherardesca.

Una location assolutamente esclusiva, riservata solitamente ad iniziative importanti, ha accolto studenti come fossero rinomati medici a raccolta per un convegno internazionale.

La scaletta della giornata non è altro che la ciliegina sulla torta: ben quattro Masterclass a tema Ospitalità, tenute direttamente da gruppi di General Manager coinvolti nell’iniziativa. E bisogna vedere con che energia e con quale trasporto si rivolgono agli studenti!

In apertura Simone Giorgi, del Park Hyatt Milano, premiato come miglior general manager al mondo di un

Il giardino della Gherardesca. Foto: Peter Vitale

hotel di lusso, secondo Virtuoso, network specializzato in viaggi di lusso ed esperienziali. Ma ciò che è ancora più interessante è che si tratta di un ex studente dell’alberghiero Saffi di Firenze, quindi una figura che fa da ponte tra la scuola alberghiera e un percorso di successo. Altro momento non indifferente quello del light lunch, allestito in più sale del nuovo ristorante Onde, una vera apoteosi di proposte salate e dolci da lasciar basiti tutti quanti. “E quando ci capita ancora un’occasione così?!” ha esordito una studentessa aggirandosi per il buffet. Nel pomeriggio i responsabili HR delle varie strutture, presentati come “figure che hanno l’abilità di individuare qualcosa di differente in tutti voi”, hanno il compito di fare attività che preparino i ragazzi ad affrontare

colloqui di lavoro collettivi (spunti preziosi su come si fa un cv, una lettera di presentazione…) e poi c’è spazio anche per il Team Building, che porta a premi molto apprezzarti dai ragazzi tra pranzi, cene, accessi a SPA delle strutture partner dell’evento. Chi è arrivato da più lontano ha potuto addirittura esperire queste stesse strutture pernottandovi. Attenzioni inusuali, quando si parla di giovani, a cui - sbagliando - non ci si preoccupa così spesso di dare il meglio.

Com’è cambiata l’accoglienza turistica come disciplina all’interno della scuola

“L’ dell’evento e la sua gestione è in capo agli studenti dell’Istituto Saffi – ci spiega la professoressa Contedini,

Prima fila a destra: Sara Contedini
Da sinistra Max Musto e Vincenzo Colella
Da sinistra Giancarlo Rizzi, Vincenzo Colella e Francesca Lascialfari Premiazione
Il Buffet dei dolci
Da destra Fernando Pane (GM Villa Medici) e Matteo Gentile (GM Lungarno)

che ha la responsabilità del coordinamento - mentre tutti gli altri studenti ne sono fruitori”.

Come ci fa notare Francesca Lascialfari, la dirigente scolastica: “Nel tempo l’accoglienza turistica come disciplina all’interno della scuola è cambiata molto. In passato la chiamavamo ‘Ricevimento’ ed era incentrata sulla reception, quindi su back office e front office, servizi di concierge e poco altro. Ora abbraccia più attività, e sotto la sopraggiunta denominazione di Accoglienza Turistica, appunto, contempla, oltre all’hotellerie, anche l’organizzazione di eventi (interni, esterni, manifestazioni…).

La nostra città ci coinvolge molto spesso in questa direzione, si pensi ai tanti eventi diversificati ma anche alla convegnistica, pure all’interno di hotel di un certo livello. Naturalmente dipende molto dalle singole situazioni di territorio: in città come Firenze, Roma, Milano si generano più opportunità”.

Noi aggiungiamo che dipende anche dal peso o meno che la scuola stessa attribuisce a questo indirizzo, dalla volontà o meno di rinnovarlo in direzione dei cambiamenti in corso (e chi ne fa un problema di legacci dall’alto si ricordi che c’è chi è riuscito comunque a stare al passo. È questione di visione, di riconoscimento di priorità).

Per diverse scuole italiane l’indirizzo di Accoglienza Turistica rimane l’anello più debole, la scelta di indirizzo seconda o terza rispetto alle altre. Il solo pensiero della forte incidenza dell’industria del Turismo sulla nostra economia fa rabbrividire! Bisogna che si faccia molto di più sistema intorno all’ospitalità, senza perdere ulteriore tempo!

Rispetto a tutto questo l’Istituto Saffi è un autentico gioiello che invece ha saputo aderire alla vocazione della sua città, trovando l’apertura di chi rappresenta le migliori strutture ricettive del territorio.

“Capire il valore della collaborazione è un grande passo per tutti, tra scuola e mondo del lavoro” ne è convinta la professoressa Contedini.

Il 20 febbraio 2025 è una giornata da ricordare per chi ha ricevuto ma anche per chi ha dato, al Four Season di Firenze. Perché a dare, a non lesinare nel dare, si riceve, eccome se si riceve!

E intanto si pensa già alla nuova edizione di R-INNOVIAMO l’Ospitalità, a come farla crescere ulteriormente, senza snaturarla però. Perché il format, così concepito, è evidente che sia proprio azzeccato!

Direttori Hotel, risorse umane e docenti
Gli studenti ospidi dell'iniziativa

oggi a firma Zucchi Professional.

Ogni gesto in cucina è precisione, creatività, impegno. Lo sappiamo, perché siamo al fianco, da oltre due secoli, di chi ogni giorno trasforma ingredienti in esperienze. Da oggi nasce una gamma studiata appositamente per le necessità e le richieste dei professionisti, apponendo la firma Zucchi come sigillo dei nostri valori e della nostra qualità.

I CUOCHI

Lavoro usurante e cuoco “certificato”: la voce di FIC lanciata anche da Rimini

Quello della Fiera di Rimini, con la IX edizione dei Campionati della Cucina Italiana, non è stato soltanto un “palcoscenico” fisico, materiale, su cui fare svolgere decine e decine di competizioni tra domenica 16 e martedì 18 febbraio, decretando tra l’altro un grandissimo successo dell’evento anche in ambito internazionale, con la selezione europea del Global Chefs Challenge della Worldchefs. È stato anche un “palcoscenico” morale (consentiteci il termine!) dal quale lanciare messaggi importanti a tutela di tutta la categoria dei cuochi italiani. Tra gare, infatti, con i concorrenti entusiasti, interviste con le autorità e le istituzioni, sia in presenza che in collegamento, talk show con giornalisti ed esperti di settore e cooking demo con le aziende partner, abbiamo voluto e trovato il tempo per ribadire, in tutte e tre le giornate, ciò che ripetiamo da anni: quanto, cioè, la figura del cuoco sia centrale per l’economia del nostro Paese, inserita nel più vasto canale dell’economia turistica, della ristorazione e dell’accoglienza, che fanno dell’Italia una delle nazioni più ambite e desiderate da visitatori e turisti, sia stranieri che italiani stessi.

Da qui a ricordare quanto la professione del cuoco e dello chef sia “usurante” e quanto conti la presenza di un cuoco “certificato” all’interno di ogni brigata di cucina, il passo è stato più che breve. Ed è stato un passo che, speriamo, possa essere sempre più, prima o poi, ascoltato da chi di dovere, da chi può realmente intervenire tra le istituzioni e i legislatori, per poter porre finalmente le dovute aggiunte e modifiche a tutela dei cuochi italiani.

Un lavoro di “difesa” ma anche di rilancio della nostra professione, che ormai da anni la Federazione Italiana Cuochi porta avanti con il proprio Dipartimento Lavoro e che abbiamo evidenziato, dunque, anche da

un palcoscenico così prestigioso. Siamo lieti che gli organi di stampa diano sempre il dovuto spazio a una simile importante battaglia, così come altrettanto prestigioso riteniamo l’affiancamento ai nostri sforzi di una testata così autorevole come Sala & Cucina, da cui rilanciamo i nostri appelli. E leggiamo tra queste pagine che siamo in ottima compagnia, con figure di chef molto apprezzati in ambito internazionale, che ancora ritengono la parola “rispetto” fondamentale per la nostra professione. Una battaglia irrinunciabile e delicata, se consideriamo tra l’altro che tutti gli aspetti della professione sono collegati tra loro. La carenza di personale, soprattutto dopo la pandemia da Covid, si legge anche con la mancanza di tempo libero da dedicare alla propria vita e alla propria famiglia. Troppo spesso, poi, si considera ingiustamente la ristorazione come un sottobosco ombroso dal punto di vista fiscale, dove le ore di lavoro corrisposte non sono adeguate ai sacrifici compiuti. Ed ancora, che valore ha oggi l’apprendimento per le giovani leve nelle brigate di cucina? Perché non introdurre subito i doppi turni di lavoro, con più giorni liberi a settimana, invogliando i giovani ad avvicinarsi nuovamente al nostro mondo?

Infine, si apre l’aspetto altrettanto fondamentale del “cuoco certificato”, oggi necessario per garantire standard elevati nella lavorazione delle materie prime e quindi nella sicurezza alimentare. Cottura, abbattimento, rigenerazione degli alimenti, sono tutti processi di lavorazione che anticipano l’ingresso delle materie prime nel nostro organismo. Come è possibile che ancora questo aspetto non sia tutelato nelle nostre normative? Un’altra domanda alla quale speriamo molto presto arrivi una risposta concreta…

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LA NEUROVENDITA

Il caso dell’Eleven Madison Park, tra dettagli della sala e psicologia del cliente

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Nel mondo della ristorazione di lusso, l’eccellenza culinaria è solo una parte dell’esperienza. Il capolavoro nasce quando ogni dettaglio del servizio è progettato per creare un’emozione, un ricordo indelebile che trasforma una cena in qualcosa di molto più profondo. Eleven Madison Park, il celebre ristorante di New York guidato dallo chef Daniel Humm, ha portato questo concetto all’estremo, elevando l’ospitalità a una vera e propria arte basata sulla psicologia del cliente. Daniel Humm ha dichiarato: “È ora di ripensare il lusso. Non è il costo degli ingredienti che si usano, ma il pensiero umano, il lavoro manuale, le esperienze che denotano attenzione estrema al cliente”. Questo approccio si basa su un principio fondamentale della psicologia, la percezione del valore non dipende solo dall’oggetto ricevuto, ma dall’emozione che genera. Alla base di questa esperienza ci sono i Dreamweavers, così si chiama il personale di sala, un gruppo di professionisti dell’ospitalità incaricati di rendere il servizio in sala unico e memorabile. La loro missione è superare le aspettative attraverso dettagli personalizzati e sorprese studiate con precisione. Molti potrebbero pensare che questo esempio non sia generalizzabile, in quanto dipende dal budget a disposizione, tipico di questo target di ristorazione. In realtà uno studio approfondito, mostra quanto i dettagli in sala siano più una questione di attenzione, psicologia ed ascolto del cliente, piuttosto che di denaro. Chi è in sala, applica un principio fondamentale: “il cervello umano ricorda più facilmente le esperienze che generano un forte impatto emotivo”. Alcuni esempi dimostrano come l’Eleven Madison Park sfrutti questo principio con una cura maniacale dei clienti, basata su quello che ascoltano, sanno o vedono. Un gruppo di clienti aveva dovuto annullare un viaggio, lo staff ha trasformato la loro cena in un’e-

sperienza tropicale, con sabbia, cocktail e perfino una piccola piscina di plastica gonfiabile in cui far finta di immergere i piedi. Un ospite non aveva mai provato un hot dog di strada. Un cameriere è uscito a comprarlo e lo ha servito con un’eleganza degna di un piatto stellato. Tutti i clienti diretti in aeroporto ricevono una box con una portata extra da gustare durante il tragitto. Una bambina aveva perso il suo peluche preferito, piangeva, creando disagio alla sua famiglia, lo staff ha creato per lei un orsetto con strofinacci da cucina, donandole un sorriso indimenticabile. Uno degli aspetti più sorprendenti di Eleven Madison Park è l’attenzione ai dettagli prima ancora che il cliente varchi la porta. Non deve esistere la seguente situazione. Cliente: “Ho prenotato un tavolo”. Personale: “Scusi, lei è?2. Sapere chi è il cliente che ha prenotato, associando volto e nome, è un piccolo accorgimento, che crea immediatamente un senso di familiarità e accoglienza. Si riduce lo stress da interazione ed aumenta il senso di importanza percepita dal cliente. Un’altra innovazione interessante è l’uso di una lingua dei segni interna per migliorare la fluidità del servizio. Il tempo d’attesa per servire l’acqua è stato ridotto grazie a segnali visivi che comunicano le preferenze del cliente tra il personale della sala. L’Eleven Madison Park dimostra che la chiave di un servizio d’eccellenza è la capacità di creare emozioni memorabili. Le persone dimenticano ciò che vedono o sentono, ma ricordano con intensità ciò che le ha fatte sentire speciali. Eleven Madison Park ha trasformato questo principio in un metodo, facendo della cena un viaggio emozionale unico: il vero lusso non sta in ciò che si serve, ma nel modo in cui si fa sentire chi lo riceve. La domanda da porsi è: quali dettagli possono rendere l’esperienza in sala memorabile?

Gli oli monovarietali DoGusto DOGUSTO

Sono quattro gli oli monovarietali che compongono la proposta di DoGusto, il brand premium del gruppo Cateringross. Sono stati selezionati per far fare bella figura alle tavole dei tanti ristoratori che in Italia stanno scegliendo questo brand esclusivo. Sono tutti in bottiglia da 500 ml.

L’olio extra vergine di oliva monocultivar

La Nocellara del Belice è una cultivar presente sul territorio siciliano da svariati secoli. Con tutta probabilità la si poteva incontrare nelle calde distese siciliane già dai tempi della Magna Grecia. Si tratta di una varietà autoctona tra le più pregiate e stimate in assoluto. L’olio extra vergine di oliva monocultivar Nocellara DoGusto nasce per fare apprezzare al meglio le peculiarità di questa varietà, carica di piacevoli sentori mediterranei che si sposano alla perfezione con una cucina autentica e sincera. Viene ottenuto dalla spremitura della sola cultivar di olive di varietà Nocellara. Si tratta di un’olio extra vergine connotato da un fruttato medio, con una piacevole sensazione equilibrata di amaro e piccante. È nettamente riconoscibile per i sentori vegetali e di erba fresca appena tagliata, accompagnati da una leggera sensazione di foglia di pomodoro. Alla vista si presenta limpido ed è dominato da un colore verde con riflessi dorati. Perfetto per i piatti dal sapore delicato, come risotti, verdure e pesce ed è ottimo in cottura e a crudo.

Olio extra vergine di oliva monocultivar Frantoio

L’olio extra vergine di oliva monocultivar Frantoio DoGusto nasce per fare apprezzare al meglio le peculiarità di questa varietà, tra le più diffuse sul territorio nazionale. È ottenuto dalla spremitura della sola cultivar di olive di varietà Frantoio, di origine 100% italiana. Si tratta di un olio extra vergine di oliva fruttato verde dalle connotazioni erbacee e con marcati toni vegetali che richiamano al carciofo e alla foglia. Al

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palato risulta avvolgente, con una buona fluidità e un perfetto equilibrio fra note amare e piccanti. È indicato per esaltare pietanze dal sapore deciso come carni rosse alla brace, legumi, ma anche crostoni e vellutate di verdure.

Olio extra vergine di oliva monocultivar Ogliarola

La monocultivar Ogliarola è tra le varietà più diffuse, in particolare in Puglia, dove raggiunge anche dimensioni notevoli, ed è caratterizzata un’abbondante fruttificazione ed ottime rese. L’olio extra vergine di oliva monocultivar DoGusto Ogliarola, di origine 100% italiana, è ottenuto dalla spremitura della sola cultivar di olive di varietà Ogliarola ed è connotato da note di fruttato verde, sentori di amaro e piccante e un marcato sentore di mandorla fresca e note vegetali. Risulta dorato alla vista, coni riflessi verdi, ed è pieno e corposo. È l’ideale per esaltare pietanze dal sapore equilibrato, come pasta, purè, latticini e ortaggi. Ottimo anche in accostamento al pesce arrostito e alle insalate di campo.

L’olio extra vergine di oliva monocultivar Taggiasca

Il nome Taggiasca è collegato direttamente al comune di Taggia in provincia di Imperia, in Liguria, dove molti secoli fa i monaci Benedettini contribuirono al diffondersi di questa varietà, inizialmente nel comune di Taggia e successivamente in tutto il ponente ligure. Oggi la varietà Taggiasca, nonostante denoti volumi ridotti rispetto ad altre cultivar, grazie anche alla grande qualità riconosciuta nelle olive da tavola, è una delle varietà più ricercate e conosciute in tutto il mondo. L’olio extra vergine di oliva monocultivar Taggiasca DoGusto è ottenuto dalla spremitura di sole olive di cultivar Taggiasca, di origine 100% italiana, e si distingue per la sua purezza e riconoscibilità. È un olio extra vergine dal sapore delicato, un ottimo accompagnamento per tutti i piatti ed è l’ideale per condire cibi come le carni bianche, crostacei bolliti, salmone e pesce spada alla griglia.

Dal nostro territorio, quattro eccellenze per la tua tavola.

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Le donne diventano le amministratrici delle gelaterie

Gelatai Veneti alla conquista della Germania

Rialto, Dolomiti, San Marco, Cortina…. Questi sono i nomi più comuni delle storiche gelaterie artigianali presenti in Germania, e i nomi legati a luoghi del triveneto non sono solamente episodi di italian sounding, ma una traccia di un certo tipo di emigrazione avvenuta fin dalla seconda metà dell’Ottocento.

La fine del XIX secolo ha visto una crisi agraria in molte zone del nostro paese, tra cui il Veneto, dovuta alla scarsità di risorse, alle difficoltà nel mercato internazionale dei prodotti agricoli e all’incapacità di modernizzare il sistema nel suo complesso. Molte zone che basavano i propri introiti sull’attività agricola, come le zone remote zone più remote delle valli e delle montagne venete, furono tra le più svantaggiate.

Come in molte altre regioni italiane, la povertà non derivava da un solo problema, ma era multi-

fattoriale: le risorse naturali, come le miniere di ferro, erano ormai esaurite o poco produttive, e il lavoro nelle miniere e nelle fabbriche era precario e scarsamente remunerato, costringendo molti a cercare altrove delle fonti di sostentamento alternative.

Furono gli anni delle grandi migrazioni nelle Americhe, specie nel sud, ma in molti si spostarono anche a nord. Molti di questi, che si trasferirono principalmente in luoghi di lingua tedesca, provenivano dalle valli del Cadore e dalla Val di Zoldo. In un certo senso in queste zone non si fece altro che continuare un’abitudine che già era ben radicata nel tessuto sociale, come in tutto l’arco alpino, infatti, qui gran parte dell’economia si reggeva sul commercio ambulante di merci di vario genere. In particolare, zoldani e i cadorini erano noti per il commercio di chiodi, pere cotte e zalet (dolci poi diventati tipici della città di Venezia). Questa forma di commercio era principalmente appannaggio maschile e seguiva un ciclo stagionale: in estate si lavorava, mentre in inverno gli uomini facevano ritorno alle loro valli, dove ritrovavano amici e familiari. Inizialmente una delle mete favorite fu l’Austria, con Vienna in testa, ma anche Prussia e Unione Sovietica erano considerate dei buoni posti dove far fiorire i loro commerci. Col tempo queste figure si specializzarono nella vendita di caldarroste e dolci in genere, e a poco a poco emerse sempre più la figura del gelataio.

La pratica della vendita ambulante di gelati ebbe una

battuta d’arresto durante la Prima guerra mondiale, ma già dagli anni’20 riprese con forza, coinvolgendo uomini da tutto il Triveneto. La destinazione principale divenne la Repubblica Federale Tedesca con le sue città Berlino, Hannover, Stoccarda e Monaco. Il grande successo di queste attività spinse i lavoratori ad abbandonare progressivamente i carretti e la vendita ambulante, aprendo le prime gelaterie tra le mura delle città. Una delle prime gelaterie del paese fu fondata a Monaco di Baviera dalla famiglia Sarcletti, raggiungendo un successo che ha permesso di continuare l’attività fino ad oggi.

L’immigrazione italiana in Germania iniziò a crescere a ritmo sostenuto fino alla Seconda guerra mondiale, ma riprese poi con vigore verso gli anni 50 durante il miracolo economico tedesco, dove il gelato diventò simbolo di ottimismo e benessere, molto richiesto specie nella zona della Ruhr. Durante questo periodo le gelaterie acquisirono un ruolo sociale importante, diventando un’alternativa per famiglie alla classica birreria.

Nel 1969, i gelatieri veneti in Germania diventarono talmente tanti che decisero di fondare un’associazione, l’Uniteis, che ancora oggi conta circa 1.000 soci e rappresenta 2.200 gelaterie in tutto il paese. Le gelaterie divennero anche dei veri e propri punti di riferimento per gli emigrati italiani: bastava leggere un nome italiano sull’insegna e i nuovi arrivati sapevano di poter

Sala del museo Haus der Geschichte di Bonn

contare su informazioni preziose su come ambientarsi in terra straniera, possibilità di telefonare a casa, pasti e talvolta anche un letto dove dormire. Col passare degli anni l’emigrazione divenne sempre meno stagionale e più stabile: le famiglie iniziarono a riunificarsi in Germania e i figli iniziarono a frequentare scuole tedesche, spesso scegliendo carriere che li allontanassero dal mondo lavorativo della generazione precedente, ma questi trasferimenti ebbero un impatto forte anche sulla condizione femminile delle mogli dei gelatai. Se infatti in una prima fase le donne restavano sole per mesi dovendo badare a casa, campi, animali e figli, quando iniziarono a seguire i mariti all’estero si dedicarono alla gestione dei negozi, gestendo bilanci e burocrazia in generale, e accrescendo di conseguenza il loro ruolo all’interno del business familiare. Con il tempo, assunsero poi un ruolo sempre più centrale, lasciando i mariti nei laboratori e diventando le vere responsabili della gestione delle gelaterie. Forti della loro indipendenza lavorativa e del nuovo contesto il più delle volte cittadino, le donne iniziarono a confrontarsi con nuove mentalità, avviando un precoce percorso di emancipazione femminile. Tra i prodotti più consumati nelle gelaterie tedesche ancora oggi c’è lo Spaghettieis. Inventato alla fine degli anni ’60 a Mannheim dal gelataio Dario Fontanella si tratta di un gelato estruso con una pressa per

Spätzle o uno schiacciapatate, formando delle specie di spaghetti, poi condito con salsa alla fragola, per imitare il pomodoro e scaglie di cioccolato bianco, per il parmigiano. Esistono molte varianti della ricetta originale di Fontanella, come quella con cioccolato e noci, che dovrebbe evocare gli spaghetti alla bolognese, o con pezzi di brownie per richiamare delle polpette. Per anni, lo Spaghettieis è rimasto una specialità poco conosciuta al di fuori della Germania, presente solo in alcune gelaterie e locali selezionati. Dal 2014, ha guadagnato popolarità anche sui social media, comparendo più frequentemente all’interno dei menu.

Nel museo Haus der Geschichte di Bonn, è stata allestita una sala come una gelateria anni Sessanta, con le coppe in bella vista e, alle pareti, i poster di Venezia. Non si tratta di un bar o di un locale qualunque, ma della ricostruzione fedele del locale di una famiglia proveniente dalla Val di Zoldo, a rappresentare una delle tante gelaterie che da fine Ottocento a oggi sono state aperte dai veneti in cerca di un posto migliore dove vivere. Oggi la Germania è il maggior produttore europeo di gelato, con circa 612 milioni di litri solo nel 2023, superando Francia e Italia per il secondo anno consecutivo. Il mercato è dominato dalla produzione di grandi catene come Lidl, ma se guadiamo alle sole gelaterie artigianali, circa 6000 in tutto il paese, il 90% di queste è ancora in mano alle stesse famiglie di ori

Dario Fontanella e lo Spaghettieis

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LA STORIA

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El Practicón di Ángel Muro

Pubblicato nel 1883, il testo è un noto ricettario di cucina spagnola, ricco di riferimenti letterari e storici, arguti e talvolta ironici, con preparazioni popolari e di nobile origine, dotato, anche, di utili consigli sugli ambienti e sull’attrezzatura della cucina, senza dimenticare l’apparecchiatura. Alla base, il riuso degli avanzi in cucina.

Quella spagnola è una cucina aperta, frutto di contaminazioni e innovazioni continue: al suo interno si trovano tradizioni mediterranee antiche, arabe, nordafricane, cattoliche ed ebree sefardite, ma anche “esotiche”. Fu, infatti, il primo approdo dei prodotti provenienti dalle Americhe appena scoperte e, non a caso, la prima salsa al pomodoro venne detta “spagnola”. Nell’Ottocento, in Spagna come in tutta Europa, imperava la cucina francese: è in questo ambiente culturale che si inserisce l’opera di Ángel Muro Goiri (1839-1897), ingegnere, giornalista e buongustaio, autore di numerosi testi sulla cucina, con l’intento di recuperare la tradizione gastronomica spagnola.

W. Marstrand, Osteria romana, 1847

Di famiglia agiata borghese, studiò filosofia e si laureò in ingegneria presso la nota Scuola delle Arti e delle Manifatture di Liegi. Passò poi alla Scuola Imperiale delle Miniere di Parigi, che gli permise di lavorare per le Ferrovie francesi del Midi, e poi per lo stato spagnolo come capo dello sviluppo della provincia di Santander o segretario del Governo Civile di Zamora ottenendo altre posizioni statali per le quali ricevette numerose onorificenze. Viaggiò molto per lavoro, potendo così entrare in contatto con la cultura gastronomica francese ed europea. Ebbe poi un rovescio economico del quale si sa ben poco, ma che lo indirizzò verso nuove esperienze lavorative più legate alla divulgazione gastronomica.

Entrò in contatto con molti intellettuali dell’epoca come Mariano Pardo de Figueroa ( 1828 – 1918) (noto con lo pseudonimo il dottor Thebussem) famoso autore anche di testi di cucina come La mesa moderna: cartas sobre el comedor y la cocina, cambiadas entre el doctor Thebussem y un cocinero de S. M. (Il tavolo moderno: lettere sulla sala da pranzo e sulla cucina, scambiate tra il dottor Thebussem e un cuoco di S.M. del 1883) o la sua amica

Emilia Pardo Bazán (1851 –1921), scrittrice naturalista, giornalista, saggista, femminista e autrice di testi come La cocina española antigua (La cucina spagnola antica) e La cocina española moderna (La cucina spagnola antica) entrambi del 1913.

Le opere di Ángel Muro

Le sue opere più note furono El Practicón, tratado completo de cocina (1883) e il Diccionario de cocina (1892): l’edizione del 1894 del primo uscì con il titolo definitivo El Practicón, tratado completo de cocina al alcance de todos y aprovechamiento de sobras (El Practicón: trattato completo sulla cucina disponibile a tutti e sull’uso degli avanzi) che fu, fino a poco prima della Guerra Civile degli anni ‘30, il trattato di cucina più consultato e utilizzato dai cuochi spagnoli (trentaquattro edizioni fino al 1928) e ripubblicato ancora oggi.

Al suo interno si trovano ricette provenienti dalle diverse regioni spagnole ma anche internazionali come il riso alla cubana o il Dulce de crema de boniato ( crema di patata dolce), quando Cuba era ancora spagnola; alcune preparazioni sono tratte da rinomati autori dell’epoca come i Zorzales en salsa (tordi in salsa) del giornalista e gastronomo José Ortega Munilla e il Pastel do pato à la Besançon (Torta d’anatra à la Besançon) del poeta Vital Aza. Tra gli altri si trovano anche i piatti del Dottor Thebussem con, ad esempio, il suo Lombo di maiale in Cotelettes alla Remuñana e i Poupeton de codornices (polpette di uova di quaglia) tanto amati da Alexandre Dumas padre. Vi sono poi ricette del famoso ristorante Lhardyo di Madrid (fondato nel 1839), come le Gachas manchegas (una sorta di spezzatino della Mancia, un piatto tradizionale della cucina locale, un tempo cibo umile dei pastori) e

i piatti preferiti da personaggi famosi del passato come l’apple kake (torta di mele) di Lord Byron o lo spezzatino di agnello citato ne L’Avaro di Molière. Tra i dolci anche una variante del dessert charlotte russe, la “Carlota russo-madriliana” con lingue di fatto, una crema di guava (piccolo frutto tropicale) e crema di caffè.

Scrive Muro nella sua introduzione all’opera: “Il mio obiettivo in questo libro è di offrire tutto a colui che ha il compito di cucinare, i mezzi per mangiare bene, con una spesa modesta, in rapporto alle risorse di ciascuno”.

Descrive, poi, la struttura della sua opera: “Il piano del mio lavoro è molto semplice. Comprende in diverse sezioni tutto ciò che riguarda le materie prime della cucina, brodi, zuppe, spezzatini, cucina di carne e della vigilia, antipasti, dessert, pasticcini, conserve […] Mi occupo anche del modo di intagliare, di servire a tavola e tutto ciò che riguarda il governo di una casa nella sua parte gastronomica. […] Un testo che non dimentica di raccontare l’arte del bene mangiare tra i progressi più importanti del secolo XIX”.

Nel 1897 Muro pubblicò La cocina por gas: agenda de cocina para 1897 considerato il primo ricettario spagnolo dedicato esclusivamente alle ricette cucinate a gas, una delle grandi innovazioni della fine del XIX secolo che tanto modificò la gastronomia del tempo.

Fu anche un noto giornalista gastronomico curando dal 1890 al 1895 le Conferencias Culinarias, opuscoli in cui scriveva articoli sulla gastronomia spagnola e internazionale che dimostrano la sua vasta cultura culinaria.

L’importanza degli avanzi in cucina

Un elemento interessante del ricettario di Muro è l’attenzione data all’arte di saper utilizzare gli avanzi, elemento caro alla cucina borghese ottocentesca, reinterpretando

e ridando dignità a ciò che resta a tavola con nuove e intriganti ricette. Così definisce tale arte: “In cucina, come in ogni cosa, nulla si perde e nulla si crea o, meglio, non una particella di cibo dovrebbe andare perduta. […] Tutto può essere utilizzato e gli avanzi costituiscono uno dei lavori più importanti dell’arte culinaria. […] Se trattati con cura e pulizia aiutano potentemente il governo di una casa. […] È una questione che a prima vista sembra non abbia importanza, banale, sciocca, infantile e perfino ridicola, ma quando non vengono utilizzati, raddoppiano e triplicano le spese di una casa. […] Non qui nella nostra terra, ma in Germania e in Inghilterra, l’uso degli avanzi di cibo è un’arte all’interno della scienza culinaria.” E prosegue:” servire gli avanzi così come sono, equivale a presentare in tavola piatti poco appetitosi, inadatti ad alternarsi alle nuove prelibatezze; il vero problema, quando si utilizzano gli avanzi di cibo, è la preparazione di nuovi piatti. […] Gli avanzi vanno trattati e sistemati con amore. Bisogna dargli forma, portamento elegante e distinto, affinché piacciano e seducano l’occhio dei commensali e, nel disporli sui piatti, esagerate se possibile la buona presentazione, più che se fosse un piatto nuovo. Tra gli avanzi ce ne sono alcuni che possono salire al livello delle provviste e delle riserve.”

Il primo consiglio per un cuoco o per una casalinga consisterà, quindi, in: “ripassare ogni mattina alle scorte commestibili del frigorifero, dispensa o luogo riservato alla conservazione delle prelibatezze. La signora esaminerà gli avanzi del giorno precedente, e vedrà la strada di sistemarli e condirli. La natura degli avanzi, da sola, ispirerà la strada da fare. La quantità modificherà anche le decisioni che vanno prese, in abbinamento alle guarnizioni aggiunte in caso di necessità o capriccio.”

Ottimi consigli, ancora attualissimi.

Ángel Muro, de Escaler, La Semana Cómica, 12-05-1892

Petti interi da filiera 100% italiana sono preparati rispettando il rituale della “Lenta Cottura”. Per un gusto eccelso.

AMODO, LA RETE DEI RISTORANTI ETICI

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Cibus a Ceglie Messapica

Se c’è una cosa che accomuna tutti i locali di cui vi abbiamo parlato in questa rubrica è la spontaneità delle scelte etiche, dell’agire a modo. Non ci sono forzature, vetrine da riempire, azioni compiute per poter scrivere “green” o “bio” da qualche parte; per imprimere un logo che attiri i più sensibili al tema. I gesti e le decisioni nascono come prolungamento del pensiero vero, quello che si custodisce nell’anima.

Così è anche per Cibus, a Ceglie Messapica, l’insegna di Lillino Silibello e Angela Amico, situato in un ex-convento, tra mura robuste, arcate a volta, pareti bianche. Ce lo conferma questo confronto da cui abbiamo tratto ottime ispirazioni.

Parlare di territorio significa parlare di fornitori

Lillino Silibello è sostenitore della cucina dissidente. Dissidente perché Lillino considera, da sempre, il cibo non solo come elemento di piacere bensì come mezzo per penetrare la cultura e la storia dei luoghi. E come farlo se non radicandosi nel territorio quando si deve scegliere cosa cucinare? Si pronuncia Angela, mentre ci racconta del legame imprescindibile che coltivano con le realtà locali. “Abbiamo una rete di fornitori fidelizzati che vivono e amano questo territorio. Dal macellaio di fiducia alle masserie. Acquistiamo le carni, tra cui quella podolica, ma anche i formaggi che affiniamo

Lillino Silibello

internamente. A questi volti locali si aggiungono tanti contadini che ci consentono di proporre degli ingredienti unici, territoriali per davvero, come le mandorle, i favini… le radici della nostra terra”.

Parlando di menu e materie prime - che sono in cucina al vaglio dello chef Liborio Scozzari - in Cibus rileviamo una grande abbondanza sul fronte vegetale.

“La nostra cucina, in realtà, è davvero molto incentrata su verdure e legumi” continua Angela. “Collaboriamo con una giovane realtà locale, X Farm Agricoltura Prossima, che si prende cura delle terre sottratte alla criminalità e lavora per il recupero di semi antichi. Sono ragazzi appassionati, che scelgono di occuparsi anche direttamente delle consegne, riducendo così gli spostamenti dei loro clienti. Questi fornitori sono l’emblema di un sistema che funziona nel piccolo”.

Parlare per raccontare

L’altro ingrediente caratterizzante di Cibus è il racconto. Ne parlano come se fosse una materia prima unica. Di più: uno dei piatti iconici dell’insegna.

“Raccontare significa veicolare l’origine e il percorso di un alimento, ma anche le tradizioni che vi sono dietro a una preparazione, o soffermarsi sul racconto del luogo, della sua storia. Significa impegnarsi a trasmettere il rispetto, necessario, per ciò che c’era e ci circonda. Ecco, per noi tutto questo è un atto quotidiano. E siamo felici quando notiamo grande interesse, in particolare dal pubblico straniero”.

E poi c’è un parlare implicito, sottile, cruciale, che riguarda l’ospitalità. Ce ne parla sempre Angela.

“La gentilezza, il dare il benvenuto, rivolgersi con serenità e sorriso: prima che diventasse una moda esprimerlo abbiamo sempre sostenuto che la buona riuscita di un locale sia determinata per metà dalla cucina e per metà dalla sala. Se la seconda non funziona, la prima è compromessa. Agiscono con questo spirito anche i nostri figli

Camillo che affianca chef Liborio in cucina e Diego, che invece sta in sala”.

Il personale

Parlandovi di locali Amodo vi stiamo narrando una ristorazione impressa di buone azioni. Ma oggi - diciamocelo - tutte le buone azioni, i progetti, le intenzioni, devono fare i conti con il setaccio più ostico: il problema del personale.

“È un tema delicatissimo” continuano a raccontarci Lillino e Angela “Sta investendo tutta l’Italia e costringendo molte attività alla chiusura. Con onestà, guardando al nostro ristorante, possiamo dire che è stato cruciale l’ingresso dei nostri figli. Non si tratta solo di una questione familiare o numerica ma di rinnovamento del pensiero e delle modalità di gestione. I giovani oggi hanno un nuovo approccio al lavoro, hanno a cuore la vita sociale. Abbiamo capito quanto conti l’essere più liberi, avere una qualità della vita garantita, portare avanti questa professione in modo diverso. Probabilmente fare un passo in questa direzione potrebbe aiutare molti ristoratori. Potrebbe sembrare anti-economico per chi sta ancora attuando sistemi di vent’anni fa ma a lungo andare premia rendendo migliore la vita del ristorante e di chi ci lavora”.

scopri Cibus su Amodo, la rete dei ristoranti etici

Lo Staff di Cibus

L'INNOVAZIONE

Autore: Luigi Franchi

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Ossola salumi e formaggi

Eletta impresa sostenibile da Confartigianato

Era il 1984 quando Antonio Ossola decise di aprire un magazzino alimentare. Era un lavoratore dipendente della Sisma ma un giorno, mentre viaggiava in auto vide passare, a Crodo, un camion della Galbani. Un pensiero fulmineo gli attraversò la mente: faccio il rivenditore di salumi e formaggi!

Ne parlò con i suoi due fratelli, Bruno e Massimo, e la decisione fu quasi immediata. Erano gli anni del boom dei centri commerciali, degli ipermercati, stava cambiando il mondo dei consumi e loro presero la decisione, per quel tempo molto innovativa, di servire solo la ristorazione. In tre mesi nacque la Ossola salumi e formaggi in quel di Domodossola; sua moglie Anna si licenziò anche lei dall’azienda in cui lavorava per occuparsi della contabilità della nuova impresa. Particolare curioso, sia la Sisma che l’azienda in cui lavorava la signora Anna fallirono dopo pochi mesi. Quasi in contemporanea con l’apertura del nuovo magazzino nacque il loro secondo figlio, Christian

Ed è con lui che ripercorriamo la storia e l’attualità di Ossola salumi e formaggi e della famiglia Delvecchio, perché “è come se ci fossi cresciuto dentro” racconta.

“A 14 anni andavo, in ogni mio momento libero ad accompagnare mio padre e i miei zii nelle consegne, oppure restavo nel magazzino a respirare quei buonissimi profumi di formaggio e di salume; mi guardavo intorno e capivo che ero in mezzo a una cosa che cresceva anno dopo anno. Finiti gli studi fu naturale che venissi a lavorare qui. Oggi, insieme a me, ci sono tutti i miei cugini: Riccardo ed Edoardo, figli di Massimo; le tre gemelle figlie di Bruno, Francesca, Chiara e Rossella; e mia sorella Erika. Oltre, naturalmente i tre capi, mio padre e i due zii, e mia madre”.

Quella che si chiama azienda familiare… come sono i rapporti interni?

“Ottimi, davvero! L’azienda ha tre soci alla pari, mio padre e i due zii; noi cugini siamo la generazione che verrà ma il nostro contributo è fattivo al cento per cento. Basti pensare che l’innovazione che abbiamo portato avanti in questi mesi è frutto solo della mia caparbietà, condivisa però da tutti con convinzione”.

Qual è l’innovazione di cui parla Christian la si vede concretamente non appena si entra in Domodossola: un edificio elegante nei particolari da cui spicca la scritta Ossola salumi e formaggi che è la nuova sede aziendale. Prima di parlare del vostro mercato e degli elementi d’innovazione portati in azienda c’è una domanda che voglio farle. Perché tenete nel marchio la dicitura formaggi e salumi, visto che il vostro assortimento è ben più grande e completo per la ristorazione?

“Perché con quel nome siamo cresciuti con quel nome ci conoscono. A che serve cambiarlo? Solo a eliminare un pezzo importante della nostra storia e non ne vedo il motivo. I nostri clienti sanno benissimo che la nostra offerta è ben più ampia”.

È recente un riconoscimento importante che avete ricevuto da Confartigianato, primi nel concorso nazionale Io sono impresa sostenibile: cominciamo da qui a raccontare il cambiamento che avete apportato in azienda?

“Cominciamo dal 2018, cioè da quando ho iniziato a dire a mio padre e ai miei zii che dovevamo migliorare le nostre condizioni di lavoro: eravamo in una sede troppo piccola, in centro a Domodossola, con tutte le difficoltà, an-

che logistiche, che questo comportava. Fino a due anni fa quando, in vacanza, ho ricevuto una loro telefonata che mi dava il via libera. Il terreno lo avevamo già individuato, 3.800 metri quadrati a ridosso dell’uscita dell’autostrada. Da quel momento ogni mia energia l’ho dedicata al progetto, pur andando anche in giro a servire i miei clienti: volevo cambiare, migliorare soprattutto le condizioni di lavoro e, solo dopo, allargare il nostro raggio d’azione per far crescere il fatturato. E, intanto che c’ero, rendere davvero sostenibile la nostra azienda”.

La sostenibilità è un valore aggiunto per la vostra clientela?

“Non ancora, è troppo presto, ma a noi interessava che lo fosse per i nostri 21 dipendenti, che avessero chiara la percezione che un investimento così importante significava che noi, le nostre famiglie, avevamo un progetto di lunga durata e che lo volevamo sviluppare qui, nella nostra comunità. Per la clientela lo diventerà, con il tempo, quando, una volta chiarito il quadro normativo, potremo inserire sui nostri prodotti alimentari le certificazioni ESG e altre. Allora sarà chiaro per tutti che la sostenibilità non è solo una bella parola”.

Come definiresti il vostro progetto?

“Con due parole: ecologia ed economia. Investire risorse dove si può fare davvero la differenza, ottimizzare il progetto per avere il minor impatto ambientale possibile e ridurre al minimo i costi di gestione per essere ecologici, competitivi e davvero sostenibili”.

E come puoi descriverlo concretamente?

“Andiamo a fare un giro nella struttura, è il modo migliore” mi risponde Christian.

Visitare un magazzino di un distributore alimentare, di solito, è un susseguirsi di scaffalature alte fino al soffitto e di celle frigo. Qui, invece, Christian ci fa partire da una piccola stanza al primo piano, dove un impianto di aria condizionata raffredda l’ambiente.

“Questo è il cuore di tutto il progetto. Da qui parte tutto quello che ci consente di lavorare in condizioni ottimali. I motori sono a bassissimo consumo con motori ad inverter e impianti parzializzati; questo ci da la possibilità di disattivare il 50% dei motori nelle ore notturne e produrre solo la quantità di freddo necessaria in quel momento. Il calore prodotto dai motori delle celle lo recuperiamo per la produzione di acqua calda sanitaria e per

il riscaldamento. Così facendo, gli evaporatori esterni per lo smaltimento del calore, si accendono di rado permettendoci di riscaldare gli uffici a costo 0 e senza emettere ulteriore Co2. Le luci sono tutte a led con una particolare lunghezza d’onda certificata per non stancare la vista. Inoltre, sono dotate di sensori di movimento in ogni corsia in modo da evitare che rimangano accese inutilmente. Il soffitto è dotato di svariati lucernari e finestre per far entrare più luce naturale possibile e limitando, quindi, il consumo di corrente. Con lo stesso scopo, abbiamo deciso di munire gli uffici di vetrate di dimensioni notevoli. Tutto questo viene alimentato dal nostro impianto FV 154KW e da un pacco batterie di 284KWH”.

È un fiume in piena Christian, dalla sua voce, anche quando usa un linguaggio tecnologico, emerge l’entusiasmo di chi sa che è nel giusto, di chi ha fatto tutto questo con uno sguardo al futuro. Infatti tiene a sottolineare un aspetto di tutto il progetto: “Questa struttura è stata pensata per essere moderna ancora tra vent’anni. Non occorrerà molto altro rispetto a quello che già c’è”.

“Abbiamo inoltre ridotto notevolmente il consumo di carta grazie all’utilizzo di un gestionale all’avanguardia e fortemente personalizzato, che ci ha permesso di digitalizzare tutto il processo di preparazione dell’ordine, stagionatura e porzionatura dei prodotti e consegna, riducendone l’utilizzo di 2/3 circa. – continua Christian - Grazie ad un processo produttivo particolarmente perfezionato e con l’utilizzo in larga scala di transpallet elettrici con a bordo stampanti che stampano automaticamente l’indirizzo del cliente da

attaccare sul collo, siamo riusciti ad evitare multipli spostamenti della merce: l’operaio preleva il prodotto dal magazzino e lo posiziona direttamente sul bancale che successivamente verrà caricato sul camion per la consegna al cliente. Questo ci permette di evitare inutili spostamenti risparmiando tempo e rendendo più leggero e piacevole il lavoro dell’operaio”. Parliamo di dimensioni… “3.800 metri quadrati di terreno, su cui abbiamo costruito la struttura che è di 1900 metri quadrati, con le celle per il gelo che può ospitare fino a 600 posti pallet, le celle frigo per la carne, i salumi e i formaggi. Abbiamo creato i laboratori che hanno il bollo CE per la porzionatura di carni, formaggi e salumi e penso che saremo una delle poche aziende di distribuzione in grado di dare questo servizio. Abbiamo poi realizzato le aree di scarico comodissime per fare manovra e chi scarica non dà fastidio a chi sta preparando. Con il nostro sistema di immagazzinaggio abbiamo creato un sistema, pensato da me, che rende sufficiente un solo colpo di pistola sul codice a barre per avere tutte le informazioni: data di scadenza, numero di referenze a magazzino, individuazione del posto sullo scaffale. Tutto questo per i nostri 350 clienti che sono collocati da Verbania in su e nelle sette valli dell’Ossola”. Che dire? Un’azienda dove si coniuga il bello con il buono, l’efficienza con la qualità del tempo e del lavoro non può essere che la rappresentazione ideale di una società contemporanea, di una comunità che deve essere orgogliosa di averla sul proprio territorio.

I fratelli Delvecchio

L'ETICA

Le filiere alimentari sono sempre accompagnate dalla buona fede?

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Il titolo di questo articolo è volutamente provocatorio, ma di certo solleva un dubbio cruciale sul percorso che gli alimenti seguono lungo la filiera alimentare. Il processo che porta un prodotto alimentare dal produttore al consumatore finale è articolato e composto da molteplici fasi, ognuna delle quali può essere soggetta a pratiche scorrette. A tale proposito, voglio riportare un episodio che mette in luce un comportamento scorretto e fraudolento all’interno di una filiera alimentare, con ripercussioni dirette sulla buona fede di alcuni soggetti professionali in esso coinvolti.

Un caso giudiziario ha visto l’amministratore, la segretaria e il magazziniere di una società condannati in tutti i gradi di giudizio per tentata truffa. L’accusa riguardava la miscelazione fraudolenta di mangimi destinati all’alimentazione bovina, ai quali venivano aggiunti prodotti di qualità inferiore, come mangime per ovini, mangime per vitelli e prodotti generici (ad esempio, farina di mais). L’obiettivo di questa operazione era chiaro: ridurre i costi a discapito della qualità del prodotto venduto ai clienti. Il modus operandi della società era strutturato in modo da rendere difficile, se non impossibile, l’individuazione della frode da parte degli acquirenti. Infatti, a parità di prodotto ordinato dai vari acquirenti, la quantità delle sostanze estranee miscelate variava in funzione della attenzione e pignoleria del cliente: più era scrupoloso il compratore, minore era la quantità di sostanze non conformi aggiunte; al contrario, nei confronti di clienti meno attenti, la percentuale di tali sostanze aumentava. Se la responsabilità dell’amministratore della società in questione è stata facile da dimostrare, quella degli altri due imputati (ossia, la segretaria e il magazziniere) è stata oggetto di valutazioni più complesse. Infatti, sebbene entrambi tali soggetti avessero materialmente eseguito

Francesco Parrotta Avvocato specializzato in diritto penale alimentare

operazioni legate alla frode (la segretaria inviando i fax relativi alle miscelazioni dei prodotti e il magazziniere effettuando materialmente la miscelazione stessa), non è stata tuttavia provata in modo inequivocabile la loro consapevolezza dell’attività fraudolenta orchestrata dal loro datore di lavoro. La Corte di merito, nel valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, ha testualmente affermato che nulla è stato dedotto dalla difesa per dimostrare che costoro non fossero consapevoli del piano ordito dall’amministratore.

Quanto alla sussistenza dell’aggravante, la Giurisprudenza ha avuto modo di affermare ripetutamente che la nozione di abuso di relazione di prestazione d’opera, si applica a tutti i rapporti giuridici che comportano l’obbligo di un “facere”, bastando che tra le parti vi sia un rapporto di fiducia che agevoli la commissione del reato, a nulla rilevando la sussistenza di un vincolo di subordinazione o di dipendenza. Nel caso di specie, l’abuso è stato reso possibile dal fatto che il mangime era preparato lontano dagli occhi del cliente e quindi era possibile per il fornitore tradire la fiducia del cliente componendo il mangime in modo differente dall’ordinativo.

Inoltre, la reiterazione del comportamento e delle sue modalità esecutive non lascia dubbi sull’intento truffaldino dell’autore del reato.

Questo caso evidenzia quanto sia fondamentale garantire trasparenza e correttezza lungo tutta la filiera alimentare. Le pratiche scorrette non solo danneggiano economicamente i clienti, ma mettono anche a rischio la fiducia nei confronti dell’intero settore. Per questo motivo è essenziale adottare sistemi di controllo rigorosi e promuovere una cultura dell’integrità e della legalità nel comparto alimentare.

L’OLIO AL CENTRO

Tornare a scuola, per imparare

Luigi Caricato oleologo

La formazione è importante, anzi fondamentale. E non è certo sufficiente quella che si riceve da giovanissimi sui banchi della scuola o nelle università. Occorre entrare nell’ottica di una formazione permanente, ricavando il tempo per apprendere qualcosa di nuovo. Per una formazione attiva, non passiva. Ed è proprio per questo motivo che il tema della prossima edizione del Forum Olio & Ristorazione avrà per tema “A scuola d’olio”. L’appuntamento è a Milano, in maggio. A supporto c’è un libro dal titolo L’olio al ristorante, scritto a più mani proprio per argomentare di olio da più angolazioni possibili, con i punti di vista di diverse figure professionali. Per essere al passo con i tempi, occorre immaginare la professione ristorativa come un esercizio continuo di relazioni e di scambi culturali, in modo che ciascuno possa apportare qualcosa di sé all’altro. Non prospettando una formazione statica, ma un flusso dinamico e aperto al confronto, così che si creino connessioni virtuose. Perché è solo attraverso un simile approccio che è possibile migliorare le proprie performance in cucina e in sala. Un cambio di passo è necessario, anche perché l’olio è l’ingrediente più trascurato in cucina, forse perché ritenuto a torto marginale rispetto ad altri alimenti. Rientrando infatti nel concetto del “quanto basta”, non ci si concentra con la giusta attenzione sui criteri di scelta e impiego. È tanto trascurato, l’olio, da non essere nemmeno inserito in menu, pur potendolo indicare in ogni singola portata. Tanto trascurato che in molti lo percepiscono come un costo, anziché come un’opportunità di vendita. Si fa pagare l’acqua del rubinetto filtrata, ma non l’olio. La soluzione, invece, è nel proporre piatti incentrarti sull’olio da servire in apertura. A ben riflettere, il margine di ricarico dell’acqua di rubinetto trattata è elevato, a fronte di costi di esercizio irrisori. Perché allora tanta timidezza e titubanza nel pro-

porre l’olio a pagamento? La soluzione sta nell’inventare una serie di proposte di preparazioni di benvenuto. Attribuire un prezzo agli oli, significa assegnare un valore a un prodotto che lo merita ampiamente in quanto functional food e nutraceutico. Tutto ciò comporta l’impegno nel gestire un carrello e una carta degli oli, ma non può certo essere la pigrizia a frenare ogni buona iniziativa in tal senso. In una società come quella contemporanea, così attenta ai particolari, non si può perdere di vista il valore intrinseco degli oli extra vergini di oliva. La società cambia, così come cambiano i modi di rapportarsi al cibo e gli approcci con gli alimenti. Proprio per questo è necessario studiare nuove formulazioni e applicazioni. Tornare (quanto meno metaforicamente) a scuola, permette di apprendere nuove tecniche, sperimentare soluzioni non ancora acquisite e mettere a punto idee alternative. Non si tratta di stare dietro ai banchi, quanto invece di creare attorno ad alcuni maestri, come nel caso dei grandi artisti del passato, un nucleo propulsivo che sviluppi idee e agisca ispirandosi a valori condivisi. Faccio solo un esempio, per concludere. Le scuole di assaggio dell’olio hanno permesso di elevare negli ultimi anni la qualità degli extra vergini, ed è un dato concreto. Una scuola in cui si studino le interrelazioni tra olio e altri alimenti può solo apportare vantaggi, sia nelle preparazioni a crudo, come quelle in cottura. Solo studiando, sarà possibile individuare nuove e originali formulazioni.

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Snellire e semplificare i flussi per liberare risorse preziose

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Le attività di fatturazione elettronica, la gestione dello scadenzario e della prima nota, così come la pianificazione e il controllo della cassa sono tutte attività che per qualsiasi azienda, ristoranti inclusi, devono essere gestiti al meglio al fine di evitare multe e problemi con terze parti.

Tuttavia tenerli sempre aggiornati e monitorati non è affatto semplice, specie nelle pmi familiari dove poche persone svolgono diverse mansioni quotidianamente e hanno pochissimo tempo a loro disposizione.

Grazie alla tecnologia però le imprese possono contare oggi su nuovi strumenti integrati che semplificano l’operatività quotidiana e garantiscono margini d’errore sempre più ridotti e un’alta sicurezza dei dati gestiti.

Questi strumenti sono infatti in grado ottimizzare i processi amministrativi, offrendo alle aziende un controllo preciso sui flussi di cassa, la gestione delle scadenze e una visione chiara e aggiornata della propria liquidità.

L’obiettivo è quello di organizzare al meglio la contabilità e i flussi, con le informazioni fornite all’utente in tempo reale, in modo da ridurre il tempo impiegato in operazioni ripetitive e frequenti.

Oltre alla fatturazione elettronica molti di questi strumenti includono un  sistema di gestione delle scadenze che aiutano le aziende a tenere sotto controllo i pagamenti in entrata e in uscita, molto utile per ottimizzare la liquidità e prevenire problemi di flusso di cassa che potrebbero influire sulla stabilità finanziaria dell’azienda.

Quanto ai  pagamenti dei fornitori, permettono di gestire in modo proattivo le scadenze, inviando notifi-

che per richiedere proroghe sui termini di pagamento quando necessario e dando così maggiore flessibilità nella gestione del capitale circolante.

Per le aziende che gestiscono un elevato numero di transazioni c’è anche la possibilità di gestire la riconciliazione bancaria automatizzata: in pratica, il sistema automatizza il confronto tra le transazioni registrate nel sistema contabile e quelle riportate sui conti bancari, riducendo al minimo gli errori che possono nascere dall’inserimento manuale dei dati. Il matching  automatico verifica che ogni movimento bancario sia correttamente registrato, segnalando eventuali discrepanze. Questo non solo velocizza il processo di riconciliazione, ma migliora anche la precisione delle  previsioni finanziarie, contribuendo a mantenere trasparenti e affidabili i dati aziendali.

Infine, c’è un’ulteriore funzione che è molto interessante quanto utile: quella di prevedere il flusso di cassa e quindi di poter fare previsioni sui dati finanziari, per capire come sarà la disponibilità di liquidità nei prossimi mesi.

In questo modo le imprese sono finalmente in grado di anticipare eventuali problemi di liquidità e soprattutto di prendere decisioni preventive, avendo la certezza che le previsioni sono sempre basate su dati aggiornati e precisi.

Insomma, grazie a questi supporti digitali ora anche i piccoli imprenditori possono liberare del tempo dagli oneri burocratici e concentrarsi finalmente su quello che è più importante ovvero sulle strategie di crescita delle loro aziende!

LA PIZZERIA

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Officine del Cibo, inno alla pizza

Classica napoletana dall’impronta contemporanea, rispetto della tradizione con un tocco di modernità e la firma di Giacomo Devoto

La località è interessante per la sua posizione – arrivando dalla Toscana è il primo comune ligure che si incontra nell’entroterra - e come tale riunisce il fascino del territorio: il mare all’orizzonte, il verde delle colline intorno, tra le Cinque Terre e la Lunigiana. Dal 2017 Sarzana può vantare un’attrattiva in più, Officine del Cibo, la pizzeria che Giacomo Devoto ha voluto offrire alla sua città natale e che rappresenta, in un certo senso, il riepilogo di un percorso di ricerca che dell’arte gastronomica ha fatto un inno all’accoglienza e al buon cibo. Un ristorante di ricerca, Locanda dei Banchieri, una trattoria con bottega, Fuìn, e Officine del Cibo dove lo chef Devoto, affiancato da Gian Marco Ferrandi, pizzaiolo ed esperto lievitista, propo-

ne pizza napoletana classica dall’identità ben definita ed elaborata con cura. C’è un progetto dietro, uno studio accurato che tende a valorizzare il prodotto mantenendo la tradizione in un percorso di degustazione dove l’impasto della pizza napoletana viene rispettato nell’elaborazione di forme differenti e topping moderni. Verace e contemporanea, classica diversificata. “Abbiamo voluto offrire un’interpretazione della pizza napoletana capace di soddisfare ogni palato – spiega Giacomo Devoto – anche quelli a cui non piace il classico. Siamo partiti dalla tradizione, che rispettiamo perché sta alla base del concetto, ma abbiamo studiato versioni più moderne nella presentazione e nelle farciture. Come le pizze al vapore e quelle al padellino, che offrono un tocco di contemporaneità al menù del locale restando nella tradizione. Puntiamo a realizzare una pizza equilibrata dove il topping non appesantisce il disco di pasta e il numero di ingredienti utilizzato è contenuto: solo due o tre oltre gli ingredienti di base, per mantenere l’apporto gustativo e soddisfare il palato senza confonderne la percezione, anche nella lista delle pizze signature, quelle maggiormente elaborate”.

La pizza ai

5 pomodori

È un lavoro a quattro mani quello che Giacomo Devoto e Gian Marco Ferrandi conducono a Officine del Cibo. Un lavoro centrato sul rispetto della materia prima che viene scelta con cura, sulla quale applicano un’opera di selezione frutto di competenza, un gioco di bilanciamento e armonia. Come per la pizza ai 5 pomodori che Devoto spiega: “Il topping è formato da cinque tipologie di pomodoro con Parmigiano Reggiano affumicato e all’interno troviamo Piennolo giallo e rosso, polvere di Miracolo di San Gennaro varietà presidio Slow Food, il classico pomodoro San Marzano. La classicità del topping incontra la contemporaneità perché il mix di sensazioni che sprigiona al palato diventa aromaticità e equilibrio di acidità. Sono sapori moderni, anche innovativi, ma sempre comprensibili. Il cliente deve poter capire e apprezzare, distinguere sapori e consistenze”.

È un’opera di precisione, un cesello di idee, quella che Giacomo Devoto e Gian Marco Ferrandi eseguono su un prodotto, la pizza, che ha subito, nel bene e nel male, tante trasformazioni.

“Io credo che la concezione della pizza d’ora in poi non

Gian Marco Ferrandi

subirà più ulteriori sviluppi – afferma Devoto – ma maggiore attenzione. La gran parte della gente oggi sceglie con cura ciò che la fa star bene, capisce se il disco è ben lievitato, preferisce farine meno raffinate, si accorge se dietro c’è ricerca e attenzione anche per gli aspetti nutrizionali. Noi, in 12 anni, abbiamo ampliato le nostre conoscenze e cerchiamo di dimostrarlo nei fatti. Credo che oggi si debba trovare un punto di incontro tra quello che viene definito fine dining, ormai troppo cervellotico e poco compreso dal pubblico, e la percezione comune della pizza come piatto povero, che purtroppo persiste nella stragrande maggioranza delle persone, soprattutto in provincia. Occorre mediare tra la pizza popolare realizzata con materie prime e ingredienti di scarsa qualità e progettazioni arzigogolate ed eccentriche che fanno lievitare il food cost oltre all’impasto ma non aggiungono valore al prodotto finale. Quella non è più pizza. La cucina deve restare cucina e mettersi al servizio della pizzeria per aumentare il livello di interesse e far diventare la pizza quell’eccellenza che dovrebbe essere, vanto per l’Italia e le sue tradizioni. Dobbiamo puntare sulla qualità e migliorare la percezione della popolazione nei confronti del prodotto. Ma è molto difficile”. Difficile e complesso anche perché la comprensione del concetto abbraccia una serie di riflessioni che comprendono la definizione del food cost, il rispetto della

capacità di spesa della clientela, il livello di servizio offerto: “Se metto sulla pizza ingredienti troppo costosi – afferma Devoto – anche senza ricarico, la pizza diventa troppo cara e la gente non la sceglie. Devo essere in grado di calibrare meticolosamente qualità e costi. Non si improvvisa questo mestiere, ci vogliono competenze adeguate e finché il potere d’acquisto degli italiani sarà quello corrente sarà sempre più complicato far quadrare i conti mantenendo alta l’asticella della qualità, che non possiamo certo abbassare”. È quasi un appello quello che Giacomo Devoto lancia. Intanto, a Officine del Cibo, Devoto e Ferrandi lavorano alacremente e con criterio per offrire un’ottima pizza, classica quanto basta, innovativa dove serve, concettualmente raffinata. Un progetto gastronomico sintesi di ricerca ed esplorazione, di equilibrio tra tradizione e inedito: l’italianità ai massimi livelli. Da provare, di sicuro.

pesce

come non le avete mai provate

Tutto il sapore della carne in prelibate bontà

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Degustare Champagne in compagnia di un francese

Stéphane Berthoux è un distributore di Champagne decisamente insolito

Autore: Luigi Franchi

“Provate l’esperimento a una cena o a un aperitivo. I bicchieri delle donne che portano il rossetto non presentano il “collarino” di bollicine caratteristiche che si formano contro il vetro, alla superficie dello Champagne, chiamato anche collare di schiuma. “È il grasso del rossetto che fa scoppiare prematuramente queste bollicine di superficie. – spiega Gérard Liger-Belair, professore di fisica all’Università di Reims – Ciò non influisce sulle qualità del prodotto, né sul suo perlage. È puramente visivo, ma per un appassionato di Champagne non è del tutto irrilevante. Fa parte del fascino di una degustazione”.

Leggevo questo breve scampolo di informazione su un cataloghino che parlava di un distributore, a un evento dei Cuochi Veronesi a Peschiera del Garda, quando mi si avvicina un personaggio praticamente uscito da una scenografia parigina: erre francese, abbigliamento da bon-vivant, sorriso accattivante.

“Mi chiamo Stéphane Berthoux, sono il distributore degli Champagne che trova su quel piccolo depliant”.

Trovando curiosa la notizia del rossetto inizio una conversazione con lui per capire cosa ci faceva un francese a una manifestazione di cuochi veronesi.

“Abito a Desenzano del Garda da qualche mese, sono un giornalista parigino che si è stancato di quegli ambienti, ho conosciuto anni fa una splendida donna italiana ed eccomi qui”.

Un francese in Italia che ha scelto di far conoscere, in maniera un po’ più approfondita, lo Champagne agli italiani?

“È una giusta domanda – mi risponde Stéphane – ma più che questo ho pensato che in Italia dovevo trovare un nuovo lavoro e, visto che con lo Champagne ho un buon rapporto mi sono detto: perché non provarci. Da qualche mese ho selezionato solo Champagne di aziende che conosco personalmente, poche, tutte maison indipendenti che coltivano le proprie vigne, raccolgono le proprie uve, non aggiungono nessun tipo di additivo, raramente raggiungono le 100.000 bottiglie e, di conseguenza, non hanno ancora un mercato italiano. Questa è stata la scelta per diventare distributore in Italia. Qui a Peschiera non sono venuto per vendere, infatti ho con me solo quel piccolo depliant che avevo dimenticato sul tavolo, ma se ti va di approfondire un giorno di questi ti invito a casa mia per farti assaggiare qualcosa”.

Detto e fatto, tre giorni dopo, in una bella giornata di sole vado a Desenzano. Stéphane mi accoglie come se fossi il suo più caro amico, appena entrato in casa vedo un bancone dove fa bella mostra di sé un foie-gras tagliato a fettine.

“Non si può proporre champagne senza aggiungere al catalogo un buon foie-gras. – mi confessa candidamente mentre, dal frigo, toglie la prima bottiglia – Ma

sia per lo champagne, come ti dicevo solo di maison indipendenti, che per il foie-gras, ho selezionato zone specifiche e produttori che conosco personalmente. Per lo Champagne i produttori sono tutti della montagna di Reims, il territorio originale e ideale dello Champagne, dove il Pinot Noir trova il terreno perfetto per esprimersi al meglio. Per il foie-gras dal territorio dell’AOC Périgord. Provenienti da piccole aziende artigianali questi foie-gras rispettano il rigido disciplinare dall’AOC (la vostra DOP) e una tradizione secolare”. Come fai a trovare clienti? Quanto conta l’essere francese?

“I clienti li trovo andando a bussare alle porte dei tanti ristoranti fine dining che costellano il lago di Garda ma anche le provincie di Mantova, Verona e Brescia. È questo il territorio che voglio coinvolgere. Non ho ambizioni di diventare un grande distributore perché significherebbe trovare persone che lavorano per te, perdere anche un po’ il rapporto umano che voglio stabilire con il cliente. Poi ti confesso che per me scegliere persone con cui lavorare significa che, con quelle persone devo star bene a pranzo o a cena. Quello è il mio metro di giudizio. Non escludo di trovarne un paio ma ho tutto il tempo davanti”.

Un atteggiamento decisamente singolare, mi trovo a pensare, ma bello sentir parlare qualcuno di buoni rapporti umani e non solo di business.

“Mi hai chiesto se essere francese aiuta? Si, è un fattore importante, è come se a proporre Parmigiano Reggiano all’estero ci fosse un italiano che conosce quel prodotto e quel territorio. Finora sono sempre stato accolto molto bene dai ristoratori che vado a trovare, anche perché mi sono subito adeguato ai loro tempi e ai loro orari più consoni, ma assaggia anche queste ostriche che arrivano dalla Normandia”.

Tratti anche queste?

“No, le ho comprate per il nostro incontro”.

Intanto il perlage del bicchiere fa il suo lavoro e mi stimola una domanda: qual è il bicchiere più adatto per lo Champagne?

“Ti rispondo con le parole del noto ricercatore che parla del rossetto, Gérard Liger-Belair: se preferite le bollicine fini scegliete la coppa dove le bollicine crescono man mano che risalgono nel bicchiere. I nostri studi hanno dimostrato che il miglior compromesso è con un bicchiere più ampio la cui forma ricorda quella di un bicchiere di vino della Borgogna”.

Mi sento quasi un intenditore, dal momento che Stéphane, al momento di farmi scegliere il bicchiere mi ha posto il quesito coppa o bicchiere e ho scelto il bicchiere.

Un’altra domanda visto che ho davanti a me un francese amante dello Champagne: quanto contano le bollicine, il cosiddetto perlage nella qualità di uno Champagne?

“Nulla o quasi nulla, la finezza delle bollicine non è sinonimo di qualità ma di servizio, di piacere visivo. E a questo proposito ti do un consiglio: versa sempre lo Champagne inclinando il bicchiere, avrai meno turbolenza e oltre dieci minuti di effervescenza in più”.

Che dire? Se fossi un ristoratore accoglierei molto volentieri una visita di Stéphane, si imparano un sacco di cose!

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Cresce il biologico in Italia

Il rapporto Nomisma stima un importo superiore ai 6,5 miliardi di euro il consumo di prodotti biologici nel 2024

Nel 2024 le vendite alimentari di prodotti bio sul mercato nazionale superano i 6,5 miliardi di euro, mentre l’export agroalimentare biologico consolida il suo andamento positivo raggiungendo i 3,9 miliardi di euro (+7% rispetto al 2023).

Sono questi alcuni dei dati dell’Osservatorio SANA che Nomisma ha presentato a BolognaFiere per SANA Food 2025 in occasione della prima giornata di Rivoluzione Bio 2025, gli Stati generali del biologico, organizzati in collaborazione con FederBio e AssoBio, realizzati con Nomisma, nel quadro del programma BEING ORGANIC IN EU gestito da FederBio in partenariato con Naturland DE e cofinanziato dall’Ue nell’ambito del Reg. EU n.1144/2014.

Le dimensioni del mercato bio in Italia

Nel 2024 le vendite alimentari di prodotti Bio sul mercato interno sono cresciute del +5,7% rispetto al 2023. A trainare la crescita del mercato sono prevalentemente i consumi domestici che sfiorano i 5,2 miliardi di euro. Si ridimensiona, invece, la crescita del fuori casa osservata nella precedente

rilevazione, per un valore complessivo di 1,3 miliardi di euro.

La distribuzione moderna (3,3 miliardi di euro, +5,3% rispetto al 2023) si riconferma il primo canale per gli acquisti Bio degli italiani e pesa per il 64% del totale delle vendite legate ai consumi domestici.

Iper e supermercati sono i canali che, all’interno della Distribuzione Moderna, veicolano la maggior parte delle vendite Bio superando gli 1,6 miliardi di euro nel 2024 . Tra gli altri canali, in forte espansione spiccano i discount con vendite di prodotti biologici pari a quasi 350 milioni di euro, in crescita del + 6% rispetto all’anno precedente. Da segnalare, infine, la performance leggermente negativa dell’e-commerce che segna una flessione del -0,4% a fronte di vendite pari a 75 milioni di euro.

Il canale specializzato Bio supera il miliardo di euro nel 2024, segnando un significativo incremento (+9%) rispetto alla crescita più contenuta degli anni precedenti.

“I dati hanno rivelato quanto il marchio biologico rappresenti un boost per le imprese italiane nel presidio dei mercati internazionali: circa 4 su 10 sostengono che il bio abbia molto favorito il posizionamento dell’azienda oltreconfine” – dichiara Silvia Zucconi, chief operating officer Nomisma SpA – “ma anche l’origine italiana o territoriale è un fattore di successo indispensabile per imprese e consumatori. In questa direzione, l’adozione di un logo biologico Made in Italy risulta cruciale per certificare in modo chiaro l’autenticità, la qualità e l’origine dei prodotti bio italiani, non

solo oltre confine: anche il 75% degli italiani ritiene che la presenza di un logo bio italiano rappresenti una garanzia aggiuntiva all’origine del prodotto”.

Il consumo dei prodotti bio nel fuori casa

La ricerca di attributi salutistici nelle occasioni di consumo fuori casa che emerge dall’indagine realizzata da Nomisma per l’Osservatorio SANA, vede prodotti tipici del territorio e a km0 come il “must have” dell’away from home per circa 9 consumatori su 10.

Sul podio anche i prodotti biologici, la cui presenza risulta fondamentale per il 68% degli italiani

Nel complesso il consumatore bio è più esigente e attento rispetto alla scelta del locale e alle caratteristiche di servizio offerte. Oltre a familiarità e consigli di amici e parenti, il consumatore bio valuta in maniera più approfondita la reputazione del luogo scelto per mangiare fuori (tramite recensioni, punteggi online, guide) e l’accoglienza/ambiente del locale.

Rispetto al menù, invece, il consumatore bio ha un forte orientamento verso la ricerca di prodotti freschi e di stagione (per il 48% degli user bio afh), di piatti semplici e poco elaborati (39%). Elevata l’aspettativa anche sulla presenza di prodotti veg e opzioni dedicate a specifiche esigenze alimentari e intolleranze. Le aspettative del consumatore bio però non trovano risposte positive in quella che è l’attuale offerta di prodotti bio presso la ristorazione, soprattutto quella collettiva. Analizzando infatti il livello di soddisfazione rispetto alla presenza di opzioni bio nei diversi canali del fuori casa, si evincono grandi margini di miglioramento.

Infine, l’indagine di Nomisma ha affrontato il tema della corretta alimentazione anche in relazione al rapporto con i figli: sebbene di dieta sana si parli in oltre 9 famiglie su 10 e il bio sia un elemento onnipresente nelle tavole dei nuclei con figli di tutte le età, i genitori ritengono essenziale il ruolo delle scuole nella sensibilizzazione di bambini e ragazzi. D’altro canto, però, oltre la metà dei genitori non conosce nel dettaglio il servizio mensa nella scuola dei propri figli e non è informata rispetto alla presenza di ingredienti e prodotti bio nei pasti. Per accrescere il posizionamento del bio nella ristorazione scolastica risulta fondamentale, dunque, la leva della sensibilizzazione e comunicazione rivolta ai genitori.

“Il focus sul fuori casa ha permesso di misurare il valore dei bio nei consumi alimentari extra-domestici ma anche di evidenziare, attraverso l’analisi dei comportamenti e le preferenze di consumatori e operatori, aree di miglioramento e margini di crescita per il biologico nei diversi canali della ristorazione commerciale e collettiva. – dichiara Evita Gandini, head of market insight Nomisma SpA – Fondamentali in tal senso risultano attività di formazione per operatori Horeca su caratteristiche e utilizzi di ingredienti/ prodotti bio in cucina e attività di sensibilizzazione rivolte ai genitori rispetto alla presenza, alla qualità e le garanzie del biologico presso la ristorazione scolastica dei propri figli”.

Il binomio bio-made in Italy

Il binomio Bio-Made in Italy si conferma un fattore di successo, con un’ottima reputazione e percezione

sui mercati esteri: per il 49% delle aziende del settore food e il 64% delle aziende del settore wine, l’origine italiana e la notorietà del territorio di produzione rappresentano uno dei principali fattori di successo dell’export Bio sui mercati internazionali.

La performance dell’export di prodotti agroalimentari italiani Bio ne è la conferma; nel 2024 raggiunge i 3,9 miliardi di euro, con un incremento del +7% rispetto all’anno precedente. La crescita segue l’andamento positivo dell’intero settore agroalimentare.

Per altro, l’Italia è sul podio tra i Paesi produttori Bio di maggiore qualità secondo il consumatore dei principali mercati esteri di riferimento (negli USA il 45% cita proprio il nostro Paese quando pensa al Bio di qualità) ed è elevata la quota di user Bio stranieri interessati al Bio italiano: si va dal 23% del Benelux all’85% registrato nei Nordics.

La survey di Nomisma sui consumatori italiani

I risultati della survey Nomisma, che ha coinvolto un panel rappresentativo di responsabili degli acquisti alimentari italiani, ha dimostrato la crescente attenzione verso il benessere e stili di vita più salutari, con una particolare attenzione rispetto alla corretta alimentazione che emerge come il secondo fattore che influisce positivamente sul proprio benessere: più di 8 italiani su 10, infatti, prestano molta attenzione a ciò che mangiano, principalmente per sentirsi bene (49%), mantenersi in forma (45%) e prevenire malattia (43%).

Chi acquista Bio sceglie prevalentemente in base all’origine del prodotto: il 47% dei consumatori presta attenzione all’origine italiana o locale/km0 (32%) delle materie prime, mentre il 34% cerca la presenza di certificazioni DOP/IGP. Inoltre, aumenta l’interesse per prodotti Bio con confezioni sostenibili (20%) e 100% vegetali (20%).

Se si considerano le categorie di prodotti healthy, il biologico si conferma un driver di scelta, guidando il 22% dei frequent user nell’acquisto di prodotti vegetali. Tra le motivazioni legate all’acquisto delle diverse categorie di prodotti healthy, il biologico conferma le maggiori garanzie in termini di salute (30%), rispetto per l’ambiente (24%) e qualità (12%).

“L’andamento positivo del biologico riflette la crescente consapevolezza di fare scelte alimentari responsabili, sia per la propria salute che per l’ambiente – afferma Maria Grazia Mammuccini, presidente FederBio - Il biologico unisce l’identità e l’eccellenza delle pro-

duzioni enogastronomiche italiane con l’attenzione alla sostenibilità garantita da pratiche agronomiche che aumentano la fertilità del suolo e non utilizzano chimica di sintesi. Negli anni, il biologico è uscito dalla dimensione di nicchia, ma c’è ancora ampio spazio di espansione considerato che molti paesi europei hanno consumi interni superiori rispetto ai nostri. Per questo è importante continuare a dare impulso al settore, con attività di informazione, promozione ed educazione alimentare, a partire dalle scuole. Un sostegno concreto arriverà dal Marchio biologico italiano, che, oltre a favorire la presenza dei prodotti bio nei mercati internazionali, assicura un’immediata riconoscibilità, rafforzando il ruolo degli agricoltori e favorendo la collaborazione tra produzione, trasformazione e distribuzione. È proprio la capacità di fare sistema che dobbiamo spingere per favorire lo sviluppo di filiere di Made in Italy Bio al giusto prezzo, consolidando il legame tra cittadini e produttori biologici”.

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Innovazione e tradizione nel segno del rebranding

www.lizzisrl.com

A gennaio 2025, Lizzi si rinnova con una nuova identità visiva, espressione della sua continua evoluzione nel mondo del bakery dolce e salato. Il rebranding non è solo un cambiamento estetico, ma una dichiarazione d’intenti: l’azienda riafferma la sua posizione di punto di riferimento per gli specialisti del food service e del Modern Trade, con un’offerta di creazioni dolci e salate dal carattere unico.

Durante Sigep 2025 è stata svelata la nuova identità visiva di Lizzi, un restyling non solo estetico ma pensato per consolidare la posizione di riferimento nel food service e nella GDO. Da sempre Lizzi unisce la tradizione dell’Arte Bianca italiana a un approccio innovativo, proponendo uno storytelling che esalta sia la maestria artigianale che l’eccellenza qualitativa, proponendo anche a livello visivo la sua prospettiva che da una parte guarda alla tradizione ma dall’altra mostra un grande livello di contemporaneità. E proprio le prospettive sono al centro del suo visual, che unisce tagli, colori e pattern in tutti i suoi marchi fondendoli per creare un’unica grande storia.

Un aspetto centrale è il richiamo alla metodologia tradizionale, come la lievitazione indiretta, che garantisce profumi inconfondibili e una leggerezza unica nei prodotti. Questa commistione di metodi classici e ricerca continua delle eccellenze si riflette anche nel design: la nuova identità visiva trae ispirazione dalle storiche in-

segne italiane, trasformando il marchio in una sorta di “piazza” dove l’eccellenza artigianale si incontra in un ambiente moderno e dinamico.

L’applicazione di questa nuova immagine su tutti i touchpoint rafforza ulteriormente l’impegno dell’azienda nel ridefinire il concetto di pasticceria contemporanea, mantenendo un legame profondo con la tradizione.

Il marchio Lizzi è sinonimo di cura e ricerca: ogni prodotto nasce dall’equilibrio tra i metodi più classici e un’incessante ricerca di innovazione, per offrire creazioni che soddisfino ogni palato con accostamenti sempre nuovi e in tendenza con le richieste di mercato.

Le novità Lizzi a SIGEP 2025

A SIGEP 2025, Lizzi ha presentato un’ampia gamma di novità che esprimono al meglio la sua filosofia: gusto, innovazione e qualità, con diversi prodotti al 100% vegan certificati e senza compromessi al gusto come il cornetto ananas Guava e Maracuja: un’esplosione di freschezza con un impasto arricchito di purea di ananas e una farcitura guava e maracuja, completata da crispies croccanti all’ananas. Il cornetto l’Amarinella con impasto al cacao e gocce di cioccolato, farcito con marmellata di visciole che rappresenta un gusto nuovo e di grande impatto. In linea poi con i trend attuali l’azienda ha studiato un tris di cornettini salati da 28

g con una farcitura all’interno che li rende ottimi per uno spuntino e perfetti per un aperitivo grazie alla loro size ridotta. La particolarità di questi prodotti oltre alla sfiziosa farcitura, è che nell’impasto contengono ingredienti della tradizione italiana come la nduja di spilinga, il pesto alla genovese e il cacio e pepe L’offerta salata si è ampliata con la linea di Forno della Rotonda, proponendo nuovi gusti delle focacce a doppia lievitazione con salsiccia, friarielli e mozzarella e funghi e formaggio erborinato. Per andare incontro ai bar più esigenti, si è studiata una focaccia pretagliata in 8 tranci pronti per essere farciti e messi direttamente in piastra per un servizio veloce sempre con un prodotto freschissimo!

Dichiarano i vertici dell’azienda: “I prossimi mesi saremo presenti in diverse fiere del settore mettendoci a disposizione dei nostri clienti per approfondire insieme tutte le nuove proposte e consolidare la nuova immagine per renderci sempre più riconoscibili; inoltre abbiamo in-

tenzione di implementare ulteriormente la nostra attività di Academy Lizzi. Che cos’è? È il nostro modo per consolidare i rapporti con i clienti storici e per far entrare nel nostro mondo i nuovi creando percorsi tailor made per conoscere la realtà della nostra azienda che non si limita alla conoscenza dei prodotti e ai metodi di produzione, ma anche per far conoscere nel dettaglio le nostre vision e mission che rappresentano un grande fiore all’occhiello per noi, come l’attenzione al cliente, ai progetti che possiamo sviluppare per loro e la costanza con cui ogni giorno lavoriamo per poter offrire loro sia il prodotto che il servizio migliore che li spingano a sceglierci sempre con entusiasmo portando essi stessi con sé la filosofia della tradizione abbinata alla modernità, all’innovazione e alla passione che mettiamo in ogni cosa che facciamo. Per questo motivo stiamo già lavorando alle nuove sfide del 2025 con tutti i grandi cambiamenti che porteranno la nostra azienda a nuovi passi verso un anno ricco di novità molto interessanti!”.

Il sapore raggiunge le Cime tradizione e gusto al vertice

CIME DI RAPA AL NATURALE O IN CROSTA DI FARINA DI GRANO, PRELIBATEZZE INDISCUSSE DELLA

CUCINA TRADIZIONALE PUGLIESE

La nostra terra è un luogo dove la storia si intreccia con la fatica, dove il tempo sembra rallentare per dare spazio alla cura e alla dedizione. Qui le mani degli uomini, guidate da un sapere antico, hanno saputo trasformare le ricchezze del territorio in eccellenze uniche e preziose. Ogni verdura che nasce nei nostri campi è il risultato di un legame profondo e una sapienza tramandata di generazione in generazione, arricchita da gesti pazienti e scelte coraggiose. Abbiamo scelto di riportare alla luce varietà dimenticate, ortaggi che raccontano una storia e che restituiscono al palato il gusto autentico della tradizione.

Concept e foto: Sergio Supino Testi: Sonia Anna Leo

Ogni zolla, ogni respiro del vento raccontano una tradizione

che affonda le radici in millenni di agricoltura e cultura

Tra queste eccellenze, la cima di rapa è simbolo della tradizione gastronomica pugliese. Pianta rustica tipica della nostra Puglia, si presta perfettamente alla nostra Agricoltura Biofilica .

• ALLEATA DELLA BIODIVERSITÀ : può essere coltivata insieme a piante amiche come leguminose, che arricchiscono il suolo di azoto e favorisce la biodiversità attirando insetti utili con i suoi fiori .

• IN SINERGIA NATURALE CON IL TERRENO: è perfetta per la rotazione delle colture, migliorando

la salute del terreno per le colture successive.

• RISPETTO DELLE STAGIONI : coltiviamo la cima di rapa assecondandone i tempi. Questo dà vita a una pianta ricca di nutrienti e gusto autentico. Fai esplodere il successo della tua attività Con le nostre verdure al naturale e in crosta di farina di grano puoi creare piatti sempre nuovi e accattivanti che ti permetteranno di aumentare il successo del tuo locale!

Cime di Rapa al naturale, crema di fave bianche, nocciole tostate e polvere di fave di cacao sulla pizza
DI VINCENZO FLORIO
Cime di Rapa al naturale con baccalà fresco, foglie di mizuna, mandarini e dressing alle olive dolci pugliesi infornate
DI PIERLUCA ARDITO
Cime di Rapa e Salsiccia IN CROSTA DI FARINA DI GRANO
Cime di Rapa AL NATURALE

I LIBRI

Autore: Luigi Franchi

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Non c’è più gusto

Il libro tratta di storia recente, degli ultimi quarant’anni di ristorazione in Italia. Un periodo di grande fermento che, però, ha fatto a pezzi quello che il maestro Gualtiero Marchesi raccontava a quel tempo: “Fu Paul Bocuse a dirmi che la cucina francese decadrà quando i cuochi italiani si renderanno conto del patrimonio di ricette e prodotti che hanno, invece di dimenticarlo per ignoranza, per esterofilia, per moda”. Quello che, invece, è avvenuto è proprio questo e il libro di Mauro Bassini lo racconta in maniera egregia, con un po’ di ironia ma con tanta verità. Tutto è accaduto quando gli chef italiani hanno intrapreso una strada che arrivava dalla Costa Brava in Spagna dove, negli anni ’80, si celebrava il genio di Ferran Adrià. Ma copiare non è facile e tutto si è ridotto a insapore e tecnologia; il genio copia, il mediocre imita, diceva giustamente Pablo Picasso. Le cotture a bassa temperatura hanno imperato ovunque nell’alta ristorazione fino a lambire qualche cucina di trattoria. Bassini che lo ricorda, con molti esempi, nella ricostruzione di questi ultimi quarant’anni, fino ad arrivare all’oggi, dove rimane una “cucina disorientata e inquieta”, un dibattito fuorviante sulla morte o meno del fine dining. Noi crediamo che basti tornare alla profezia di Paul Bocuse e riprendere in mano, lavorandole il poco che basta, le straordinarie materie prime dei nostri territori per, come scrive Bassini, “ritrovare nei piatti quei gusti che, purtroppo, abbiamo in gran parte perduto”.

Storia dell’alimentazione

J.L. Flandrin e M.Montanari

Editore Laterza

Pagine 750

54 euro www.laterza.it

Non c’è più gusto

Mauro Bassini

Minerva editore

Pagine 158

Euro 16,90

www.minervaedizioni.com

Storia dell’alimentazione

Quello che descriviamo è un’opera uscita, nella sua prima edizione nel 1997, quasi trent’anni fa, ma resta il saggio più importante per tutti quelli che vogliono conoscere conoscere l’evoluzione della storia alimentare dalla preistoria ai giorni nostri.

La Storia dell’alimentazione di Jean-Louis Flandrin e di Massimo Montanari è davvero il più completo, leggibile, appassionante saggio dei tanti che parlano di cibo. Si raccontano storie e leggende che ti trascinano in mondi lontani, ma anche la storia delle tradizioni alimentari, delle tecniche produttive, degli scambi commerciali, delle forme conviviali e degli usi quotidiani in Europa e non solo.

Leggendolo si impara il valore del cibo, come soggetto di scambi culturali tra genti diverse, come elemento economico fondamentale nei rapporti tra gli stati, come combinazione di stili di vita. È un grande, affascinante viaggio storico-gastronomico, come scrivono i due autori nell’introduzione, dal cibo degli antichi romani alle tavole imbandite del Rinascimento, dalle cucine regionali europee all'avvento dei McDonald's. Si smontano pensieri comuni come quello che la pasta la portò in Italia Marco Polo o che il pâté di fegato grasso sia stato inventato nel 1788, a Strasburgo. In realtà, le paste italiane non sono venute dalla Cina, né sono arrivate da Venezia, ma si sono diffuse dal Mezzogiorno, dove erano conosciute molto prima del viaggio in Oriente di Marco Polo e nel 1739 si trovano già, in Les Dons de Comus, dei «piccoli pâtés di fegato grasso”. Esempi di come i due autori riportino sotto la giusta luce la storia dell’alimentazione.

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