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FARE RISTORAZIONE
Autrice: Giulia Zampieri
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Come reagireste se vi dicessero che una ragazza italiana in una carbonara, al posto del guanciale, ci ha messo dello speck altoatesino? Sono pronta a contare le espressioni indignate, il disappunto della maggior parte dei lettori. Eppure quella ricetta, nata per esigenza e senza premeditazioni, che rispettava tutti i canoni della carbonara tradizionale eccetto che per l’utilizzo del salume, in quell’occasione generò un lodevolissimo lieto fi ne. Nessuna bocciatura né rivolte romane: la famiglia altoatesina, che tanto desiderava provare quel piatto, lo apprezzò moltissimo. Furono talmente soddisfatti che abbracciarono la cuoca e la accolsero, da quel momento, con un sorriso diverso.
Il punto di contatto
Incontro. Questo accade, da secoli, ogni volta che si verifi ca un’interazione culturale mediata dal cibo. Se ci sono i presupposti buoni, se c’è scambio, c’è accoglienza. Chi ragiona per schemi rigidi e non considera il cibo Il potere per il suo signifi cato conviviale si preclude la possibilità di includere. Vale per chi cucina, come per chi è seduto a tavola: rifi utare a priori l’assaggio è una sociale mancata occasione di integrazione tanto quanto lo è rifi utarsi di introdurre in cucina una materia prima nuova. del cibo Il cibo è un ponte, un varco, un anello di congiunzione, un punto di contatto, non è mero nutrimento. Non lo è mai stato. Il viaggio accentua sempre queste prodigiose attitudini; ogni volta che incontriamo un sistema gastronomico con codici diversi, che sia in estremo Occidente o in Oriente, oppure in una città vicina, nella nostra regione o nel nostro continente, si genera del movimento, si attiva del dialogo tra identità.
Insorge, dunque, l’esigenza di scegliere: se provare o non provare, se farsi includere o farsi escludere, se esprimersi o redimersi. In passato il processo inclusivo di un prodotto avveniva in tempi lunghissimi; pensiamo alla patata e al pomodoro, due secoli da ignoti prima di essere sperimentati nelle cucine europee. Oggi l’introduzione di un nuovo ingrediente in un contesto culinario e gastronomico avviene piuttosto rapidamente, complici la globalizzazione, la veloce diff usione delle informazioni, la maggior predisposizione dei popoli verso la novità. E probabilmente anche l’accoglienza di un alimento o di un individuo avviene con più facilità. Di fatto c’è che il cibo ha un potere sociale sconfi nato e con gli strumenti e la conoscenza odierna si possono fare cose straordinarie. Anche al ristorante.
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Rie Otsuka
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La cucina di Rie, in Valtellina
C’è sicuramente molto di quanto detto fi nora nell’esperienza di Rie Otsuka, chef del ristorante Orterie a Villa di Tirano, in Valtellina. Rie, di origini giapponesi, si è avvicinata alla cucina da giovanissima: non si riconosceva nel contesto alimentare tradizionale, onnivoro, e per questo ha iniziato a sperimentare la preparazione di ogni sorta di vegetali, creandosi delle alternative personali al cibo di casa. L’esigenza è diventata hobby, poi passione vera e propria, al punto da spingere Rie a trasferirsi in Europa puntando la Francia o l’Italia. La scelta, ricaduta sulla seconda, non ha off erto subito le opportunità sperate: a Firenze, primo atterraggio di Rie, sino a qualche anno fa la carne era pressoché l’unica trama concepita nei ristoranti e nelle trattorie. Insomma, non il posto più gastronomicamente confortevole quando si pratica una dieta vegana e si vuole allargare le proprie conoscenze. E - e a questo ci pensano in pochi - per Rie anche trovare un pasto per il personale conforme alle sue scelte alimentari (in alcuni casi esigenze) sarebbe stato importante. Ma a Milano c’era già uno chef di grande apertura e rispetto che faceva parlare di sé è della cucina vegetale: Pietro Leemann, al Joia, primo ristorante vegetariano europeo ad aver ricevuto una stella Michelin. Da Pietro, dove Rie si è fermata due anni, c’è stato tanto da attingere, ed è avvenuto pure l’incontro con suo attuale marito, Francesco Andreotta, anche lui militante in cucina. Nel 2015 Rie e Francesco hanno aperto Orterie - un locale, in Valtellina, che nel nome contiene la parola orto: da quello di proprietà raccolgono le materie prime, poi trasformate con la mano pacata e creativa di Rie. “Non cuciniamo né carne né pesce, il nostro menu ruota attorno a piatti vegetariani e vegani, ma non ci piace rientrare in una categoria né escludere alcun tipo di cucina. Orterie vuole essere un luogo inclusivo” - spiega Rie, che trasmette dal tono di voce una grande determinazione. “Pratico una cucina molto fusion, inevitabilmente, con una decisa impronta giapponese. Ma anche in questo
La sala di Orterie Rie e Francesco
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Mario Porcelli
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caso preferiamo non incasellarci. È semplicemente la nostra cucina, che mette insieme prodotti e tecniche per raccontare qualcosa di nuovo”. A Francesco, invece, che ora si occupa della sala, spetta il compito importante di veicolare questo pensiero agli ospiti. “Chi entra qui è come se entrasse nella nostra casa” - apre Francesco. “Il nostro è un ‘abbraccio’ nei gesti sicuramente, ma anche un abbraccio gastronomico. Vogliamo mettere a proprio agio le persone attraverso il cibo di Rie. Proponiamo un menu di sette portate che cambia praticamente in base al raccolto dell’orto, Rie lavora con grande rispetto per il prodotto e per i palati che ci sono in sala. Molti scelgono di comporsi un piccolo percorso di degustazione, altri prendono tutto il menu. La soddisfazione più grande? Vedere chi entra scettico rispetto alla cucina vegetale alzarsi soddisfatto e felice!”
La spesa inclusiva
“Cerco di prendere il meglio da ogni luogo”. È questa, in sintesi, la fi losofi a in cucina di Mario Porcelli, chef all’Alpenroyal Gourmet, ristorante all’interno dell’omonimo hotel a Selva di Val Gardena. Una sintesi, appunto, perché le ideologie e il lavoro che c’è nel dietro alle quinte nella sua quotidianità è decisamente più articolato. Di origini pugliesi, - dove ha vissuto le prime esperienze ai fuochi - Mario si è trasferito dal 2005 tra le montagne del Nord Italia. Per qualche anno ha militato a fi anco di Felix Lo basso, a cui è subentrato quando lo chef si è trasferito a Milano per aprire una propria insegna. “Sono pugliese, ho una moglie sarda, vivo in montagna, ho dei collaboratori siciliani e amo provare qualsiasi genere di ingrediente” ci saluta così Mario, instillando non poca curiosità sulla sua identità gastronomica. “La parola viaggio è abbastanza utilizzata di questi tempi, ma non saprei come altro defi nire il mio modo di vedere la cucina. Attingo prodotti da ogni regione, da qualsiasi territorio. Quando non conosco un cibo lo compro, lo provo, penso a come introdurlo, agli abbinamenti che potrebbero funzionare. È un mio modo di vedere, ma per me la cucina ingloba, mette in relazione”. La sua è spesa che potremmo defi nire inclusiva, pronta ad accogliere l’ignoto. Una scelta che, scopriamo, genera anche moltissime opportunità di relazione con il cliente. “Qui abbiamo tre menu degustazione: Tradizione in evoluzione, Omaggio alle Dolomiti e Terra, che è vegetariano. Lo spazio per il territorio limitrofo c’è, ma ci sono tantissimi sapori esterofi li. Il cliente si stupisce sia se incontra un prodotto sconosciuto (vi cito per esempio l’Abalone del Pacifi co, una specie di ostrica davvero particolare), sia di ritrova un cibo particolare della propria terra. Non nell’osteria del proprio paese, ma in un ristorante a migliaia chilometri da casa, a Bolzano. Questo dal punto di vista dell’ingredientistica e della contaminazione gastronomica, ma c’è un’altra opportunità speciale per chi cucina. Sta proprio nell’atto di cucinare. Saper cucinare, a qualunque livello, è un passepartout sociale. A me, e immagino a molti miei colleghi, capita spesso di farlo anche fuori del ristorante, in un contesto sociale, amichevole.
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Quando si ama la cucina, e tutto ciò che esse comporta, non ci si può tirare indietro di fronte a una spaghettata di gruppo. C’è sempre un argomento in comune, un linguaggio condiviso, quando si cucina per qualcun’altro o con qualcun’altro”. Il bello del cibo.
Il cibo da condividere “Non ci invitiamo l’un l’altro per mangiare e bere semplicemente, ma per mangiare e bere insieme” scriveva Plutarco in una delle Dispute conviviali. Che bella parola… insieme! Quando si mangia assieme, nello stesso momento, avvolti dalla stessa atmosfera, si fa parte dello stesso gruppo, della stessa famiglia, si è un elemento di un insieme. La casa e la tavola sono il luogo in cui, per defi nizione, avviene il ritrovo, si raccoglie la dimensione familiare. È la sede delle discussioni e dei confronti, il terreno fertile dei progetti. Sembra un concetto consolidato, quello del valore della casa e del suo spazio di cucina, inviolabile, eppure dovremmo allarmarci perché i dati degli ultimi anni tratteggiano un’immagine sensibilmente diversa: sempre più persone mangiano sole, in modo frugale e distratto, cibo non cucinato ma acquistato al supermercato o da asporto, davanti a un telefono o alla tv. Questo mangiare solitario suona come un rifi uto della socialità, dell’interazione, della condivisione, esattamente come lo era per gli eremiti che mangiavano isolati cibi non cotti trovati qua e là. Il ruolo che hanno le attività di ristorazione è in questo periodo storico fondamentale: è ormai solo al ristorante che avvengono le interazioni tra le persone. Fa male, molto male, vedere sguardi persi negli smartphone e conversazioni mediate da altri fattori quando si esce a cena. È fi siologico che sia così, l’abitudine dal proprio nido viene trascinata anche fuori. Ma è comunque preoccupante. C’è chi è intervenuto ‘vietando’ l’utilizzo del telefono nel proprio locale; chi ha studiato menu da condividere per sollecitare le persone allo scambio, e spesso funzionano. Anche la pandemia non ha aiutato, certo, ma creare i presupposti per l’incontro sano, vero, bello, a tavola, è ormai una responsabilità per chi fa questo mestiere. Per chi, a suo modo, è padrone di casa e deve accogliere persone sempre più sole e smarrite e con l’ingegno più accentuare il godimento.
La tavola, uno spazio da custodire
C’è stato un momento cruciale nella storia del mangiare condiviso: l’introduzione della tavola rotonda, al posto di quella rettangolare, per rimarcare l’assenza di gerarchie tra i commensali. Oggi molte abitazioni non hanno più né tavolo quadrato né rotondo, ma un bancone di sosta in cui prendere la colazione o appoggiarsi per un pasto veloce. Altre case, addirittura, non ce l’hanno proprio il tavolo, neppure un accenno, e la cucina è ridotta all’osso. Questa tendenza appartiene soprattutto ad altri Paesi, in Italia è ancora una corrente timida (per fortuna). La maggior parte di noi riserva ancora alla tavola di casa un posto speciale, non tanto per il quotidiano quanto per l’occasione: la ricorrenza, la festa tra amici, l’adunata familiare si consuma lì. Ma se tanto ci da tanto, dobbiamo stare in allerta ed essere protezionisti - in questo caso sì - e opporci a questo stravolgimento che sta iniziando a bussare alle nostre porte. La tavola rappresenta lo spazio più importante di una casa, come abbiamo già detto, non solo perché è la sede del nutrimento. Vale allo stesso modo quando si tratta di mangiare fuori casa. È bellissimo rintracciare in molti locali moderni tavoli conviviali che facilitano il dialogo tra le persone, anche tra estranei. La sensazione di essersi portati via qualcosa di più di una semplice cena, per quanto possa essere stratosferico il menu, dopo aver vissuto un’esperienza così, fi anco a fi anco a un volto nuovo, è per molti un validissimo motivo per uscire a cena. È altrettanto piacevole avere la possibilità di sedersi a tu per tu con la cucina - in quello che alcuni ristoranti chiamano chef table, altri semplicemente tavolo di fronte alla cucina! - perché osservare il cibo mentre viene preparato, mentre viene cotto e impiattato porta ad interiorizzarlo con più intensità. Si assorbe il gesto, profondissimo, di qualcuno che cucina per noi, prima che iniziare ad assorbire dell’altro. Non smarriamo la tavola e nemmeno la cucina, due potenti spazi di socialità e integrazione!
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