Italia…sveglia
La parola ai prof
Cosa
Renato Bosco
Le pizzerie stanno diventando luoghi di racconto e di cultura gastronomica
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Italia…sveglia
La parola ai prof
Cosa
Le pizzerie stanno diventando luoghi di racconto e di cultura gastronomica
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Imprenditore nel settore della distribuzione alimentare, gestisce con il fratello Oscar l’azienda di famiglia a Cavriana (MN), dove ha svolto anche l’incarico di sindaco.
Le competenze maturate sul piano professionale e su quello amministrativo lo hanno portato alla convinzione che il principio della condivisione sia la miglior modalità di crescita. Molte sue iniziative, anche all’interno del gruppo Cateringross (che detiene la titolarità della casa editrice), di cui è consigliere d’amministrazione, vanno in questa direzione. A questo affianca una forte sensibilità per ogni azione che dia valore al suo territorio.
benhurtondini@salaecucina.it
Milanese, un passato come traduttrice, da diversi anni giornalista e redattrice per riviste del settore alimentare rivolte al mondo dell’artigianato e all’industria, in particolare nel campo della ristorazione, del dettaglio specializzato e della ricerca. Contribuisce alla realizzazione di importanti libri di comunicazione gastronomica in Italia e all’estero diretti ai professionisti e ai consumatori. Collabora con le redazioni di sala&cucina, Ecod e Trenta Editore.
marina.caccialanza@salaecucina.it
Ricorda con esattezza il profumo del primo pane preparato all’età di sette anni.
Forse il suo primo traguardo e, soprattutto, l’inizio di una grande passione: per le cose semplici, per la genuinità, per gli alimenti che crescono e prendono forma. Dopo la Laurea in Scienze Gastronomiche, la specializzazione in comunicazione enogastronomica, e un periodo di alternanza nelle cucine, ha chiara la missione: scrivere per comunicare. Come? Utilizzando gli strumenti di oggi e la curiosità di sempre. Gionalista pubblicista, collabora anche con la guida di Identità Golose.
giuliazampieri@salaecucina.it
Prima fotografo di cibo e territori, poi comunicatore, autore di numerosi libri di enogastronomia e di turismo enogastronomico. e infine giornalista di enogastronomia. Tra le sue principali pubblicazioni, scritte e/o coordinate: La prima edizione della Guida al turismo del vino in Italia, per conto del Movimento Turismo del Vino, (1997), I parchi e il turismo enogastronomico (2004), Il marketing delle Strade del Vino edizioni Agra – Rai Eri (2005), Atlante Alimentare Piacentino, con Valentina Bernardelli (2007), “cuo chi, due anime in cucina”, con Alessandra Locatelli, GL.Editore (2009), Dalle Terre Traverse al Po, GL.Editore (2010), ideatore e coautore dei Maestri del lievito madre, Edizioni Catering (2014), coautore della guida online dedicata alla ristorazione Meglio Prenotare, Edizioni Catering, Le interviste (2018) editore Mediavalue. Co-direttore di Food & Book, festival nazionale di editoria enogastronomica luigifranchi@salaecucina.it
Laureata in filosofia, ha lavorato nella comunicazione e organizzazione di grandi eventi a Parma. Ha ricevuto una prima inconsapevole educazione al gusto per il cibo grazie all’ indimenticato oste dell’Osteria di Felino (PR), il nonno materno Massimino. Con gli studi umanistici è poi arrivata una seconda, consapevole, educazione al gusto per l’utilizzo delle parole secondo il loro significato. Poi sono seguiti un corso di Alta Formazione alla scuola Holden e un master in Filosofia del cibo e del vino. Della ristorazione l’affascina il pensiero e la componente umana. Della formazione di settore segue movimenti ed evoluzioni.
s.vitali@salaecucina.it
Gabriele Adani
Grafico
Modenese, appassionato di arte figurativa, fotografia e linguaggi di comunicazione visiva.
Nel 1992 inizia il suo percorso professionale presso una casa editrice. Lavora poi in uno studio grafico e fonda una piccola agenzia di comunicazione in cui ricopre il ruolo di direttore creativo per 18 anni. Viaggiatore, utilizza i frequenti viaggi a Londra e nel Sud Est asiatico per arricchire il suo bagaglio culturale e placare la sua innata curiosità per le altre culture.
Dal 2019 lavora in proprio, occupandosi di fotografia, grafica e consulenze nel campo della comunicazione.
grafica@salaecucina.it
7 LA LETTERA APERTA
Cosa deve cambiare nel sistema ristorativo italiano | Luigi Franchi
9 L'EDITORIALE
Perché parlare di comunità | Benhur Tondini
10 IL CONFRONTO
RENATO BOSCO | Luigi Franchi
15 I CUOCHI
La cucina italiana patrimonio UNESCO | Rocco Cristiano Pozzulo
17 LA NEUROVENDITA
Vino da due euro medaglia d’oro, uno scherzo da neuroscienziati | Lorenzo Dornetti
19 L’OLIO AL CENTRO
Che fine fa l’olio nei ristoranti italiani all’estero? | Luigi Caricato
21 L’OSPITALITÀ
Ma serve studiare per fare il cameriere? | Sebastiano Tramontano
23 LA DIGITAL TRANSFORMATION
Come innovare il reparto Food & Beverage degli alberghi | Claudia Ferrero
25 SCIENZA E NUTRIZIONE
Metti più semi nel tuo menu’…e raccontane la storia! | Ferdinando A. Giannone
26 LA RIFLESSIONE
Italia… sveglia! | Giulia Zampieri
30 LA FORMAZIONE
La parola ai prof. | Simona Vitali
38 IL TERRITORIO
I progetti di comunità di Borgo Val di Taro | Simona Vitali
44 IL VINO
Arianna Occhipinti | Giulia Zampieri
48 GLI EVENTI
Quando l’arte fa bene all’enogastronomia | Simona Vitali
50 AMODO LA RETE DEI RISTORANTI ETICI
Pascucci al Porticciolo | Giulia Zampieri
53 LA STORIA
Anthelme Brillat-Savarin: il piacere della tavola | Alessia Cipolla
56 L'ARTE E LA CUCINA
La Fondazione Magnani-Rocca, la Trattoria Ai Due Platani | Bruno Damini
62 ILTURISMO
Turismo al Sud | Antonella Petitti
64 LA PRODUZIONE
La burrata Delizie di latte | Guido Parri
66 LA PIZZERIA
Giuly Pizza, una fucina di idee ed energie | Giulia Zampieri
68 LA PIZZERIA
That’s a Moro, pizza e cultura | Marina Caccialanza
70 LA DISTRIBUZIONE
La tradizione del bakery | Marina Caccialanza
72 LA PRODUZIONE
Gusto, bilanciamento e salute | Marina Caccialanza
74 LA PRODUZIONE
New entry per Divine Creazioni® | Marina Caccialanza
76 LA PRODUZIONE
Valledoro, una storia di famiglia | Marina Caccialanza
78 LA PRODUZIONE
L’offerta di Unika® celebra i tagli “poveri”, sempre più rivalutati e apprezzati in cucina | Marina Caccialanza
82 I LIBRI
Economia commestibile - Storia delle nostre paure alimentari | Luigi Franchi
N° 73 ottobre 2023
EDITORE
Edizioni Catering srl Via Margotti, 8 40033 Casalecchio di Reno (BO) Tel. 051 751087 – Fax 051 751011 info@salaecucina.it - www.salaecucina.it
PRESIDENTE
Benhur Mario Tondini benhurtondini@salaecucina.it
DIRETTORE RESPONSABILE
Luigi Franchi luigifranchi@salaecucina.it
COLLABORATORI ESTERNI
Luigi Caricato, Alessia Cipolla,Bruno Damini, Lorenzo Dornetti, Martina Manescalchi, Elena Monteverdi, Guido Parri,Antonella Petitti
FOTOGRAFIE
Fotografie: Archivio sala&cucina, Ennio Barbieri, Andrea di Lorenzo, Lido Vannucchi, Freepik.com
* L’editore è a disposizione per eventuali crediti fotografici di cui si ignora la fonte
PUBBLICITÀ
Tel. 331 6872138 marketing@salaecucina.it www.salaecucina.it
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Nei primi giorni di ottobre a Pietrasanta (LU) si svolgerà la terza edizione di Oltre i Gesti, un forum di confronto sulla ristorazione organizzato da Amodo, la rete dei ristoranti etici, con il supporto di questa rivista.
Di cosa si discuterà e a cosa serve questo confronto?
Di certo non sarà l’ennesimo dibattito sterile che ruota attorno ai problemi senza mai affrontarli.
Ci saranno quattro tavole rotonde – una sulla sala, una sulla cucina, una sulla formazione e una sul personale - a cui partecipano professionisti di consolidata esperienza. Da queste tavole rotonde vogliamo far scaturire altrettanti documenti propositivi da divulgare ai soggetti, istituzionali e professionali, contenenti proposte per guardare avanti: al futuro prossimo di questo settore.
Non bastano più gli eventi mediatici, non sono più sufficienti le promesse di qualsiasi tipo. Per avere persone che si appassionano ai diversi mestieri della ristorazione, tutti abbastanza complicati, è necessario che alla motivazione iniziale seguano regole ancora non scritte per dare il tempo alle persone, per fare in modo che questo mestiere non diventi totalizzante e sia retribuito il giusto. Non è con le mance, tassate oppure no, che si rende reputabile una professione!
Fuori dal nostro ambiente la ristorazione non è considerata come invece dovrebbe essere: un settore strategico per qualificare ulteriormente il turismo.
È lì che dobbiamo guardare, è in quella direzione che occorre volgere ogni singola azione.
Tempo addietro un ristoratore mi disse: “Il turismo è un ministero senza portafoglio e quindi noi dobbiamo guardare all’agricoltura”. Un altro, in una riunione, mi disse, di fronte alla mia richiesta di investire sulla formazione: “Non è un ministero che ha soldi quello della pubblica istruzione”.
Ragionamenti come questi non porteranno mai a un risultato. Certo, per fare le cose i soldi sono sempre necessari ma per affermare un corretto posizionamento della ristorazione come settore imprenditoriale che assolve ad un ruolo preciso nella società italiana dobbiamo uscire dalle logiche bieche della pura politica.
Rafforzare l’immagine della ristorazione significa avere ben chiaro un concetto: le persone mangiano ogni giorno e, sempre più spesso, lo faranno fuoricasa. A queste persone, di qualsiasi ordine e grado, va offerto un servizio serio, inappuntabile sotto tutti gli aspetti, se vogliamo davvero far vincere la qualità, parola magica che deve essere riempita di contenuti misurabili e comprensibili.
Per fare questo occorre, prima di ogni altra cosa, una formazione vera alle persone che lavorano o lavoreranno in questo settore. Senza questo, senza avere gli strumenti per capire come trattare le materie prime, come presentarle anche in termini di benessere, ogni sforzo sarà vano.
Creare una squadra tra sala e cucina deve diventare il principale obiettivo di ogni ristoratore, dare un significato alla parola Armonia nei ristoranti deve essere un punto fermo.
Per fare questo è necessario partire da una condizione; che il lavoro sia giustamente retribuito e valorizzato, non come oggi che fare il cameriere sembra sempre la scelta B della vita!
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Benhur Tondini presidente sala&cucinaSu questo numero ospitiamo un articolo che parla di un borgo appenninico abbandonato e che stanno recuperando grazie alla determinazione di alcune persone che non pensano solo a sé stesse.
Vi chiederete cosa c’entra tutto questo in una rivista che parla prevalentemente di ristorazione. C’entra, per molti motivi, il primo dei quali implica una parola: comunità. Una parola che, attualmente, sembra quasi antica. Le comunità oggi sono digitali, virtuali, costituite dai follower. Ma il significato stesso della parola – un insieme di persone unite tra di loro da rapporti sociali – va in altra direzione, si muove lungo i binari dei rapporti quotidiani, rende i luoghi attrattivi proprio perché la vita in quelle comunità è degna di essere vissuta, perché i rapporti umani superano qualsiasi ostacolo: di linguaggio, di colore, di tradizione.
Lo scoprirete nell’articolo dove porta la volontà delle persone verso gli altri.
Mi limito qui a elencare i motivi per cui parliamo di comunità: perché è il primo risultato che si raggiunge quando accogliamo qualcuno, anche in un hotel, anche in un ristorante, per il poco tempo che quel qualcuno resta con noi. Coinvolgere le persone, farle sentire a casa anche in luoghi che incontrano per la prima volta, confrontarsi con loro sulla biodiversità dei luoghi significa fare del turismo non un fenomeno massificato che non offre nulla, bensì un momento di conoscenza vera, di vissuto che, come dice Francesco Biacca, tra i fondatori del bellissimo Festival dell’Ospitalità di Nicotera (VV) e componente attivo dell’Associazione Progetti Ospitali, “è per noi il racconto di come le comunità possano essere il cuore dal quale parte il cambiamento. Un cambiamento che vede la valorizzazione della biodiversità e l’impegno verso la sostenibilità come strada maestra da seguire. Se vogliamo un futuro sostenibile dobbiamo contribuire a quel percorso di consapevolezza che tutte le comunità dovrebbero intraprendere. Comunità di destino, appunto, che conoscano e osino orientare le politiche del proprio territorio nella direzione di un cambiamento agito in prima persona”.
Per questo parlare di comunità in una rivista di ristorazione ma anche di accoglienza, come recita il nostro sottotitolo, è un dovere morale da cui non ci vogliamo esimere. Perché l’Italia è questo, per come è costituita, per l’85% del territorio, da piccoli borghi che, per sopravvivere, devono vedere i loro abitanti tornare a fare una cosa semplice: parlarsi!
E la ristorazione, vero attuale fenomeno sociale, può rappresentare uno dei luoghi ideali per fare questo: il cibo ha sempre avuto una funzione sociale, la scoperta del fuoco anche per cucinare ha fatto sedere le persone in circolo e queste hanno cominciato a parlarsi. Ancora oggi il cibo ha questa funzione primaria: creare comunità! Accogliere è una delle azioni che rendono le persone più sensibili, che riducono fino a cancellarle le brutture quotidiane, che ci fanno crescere, capire, conoscere davvero il mondo che ci ruota intorno. Perché non provarci? benhurtondini@salaecucina.it
Aria di Pane®, Mozzarella di Pane®, Pizza Crunch®, DoppioCrunch®. Tutti marchi registrati, cosa inusuale per una pizza. La curiosità ci ha spinto a saperne di più e siamo andati a San Martino Buon Albergo, a pochi chilometri da Verona, a scoprire il luogo dove questi marchi hanno avuto origine.
Un paese che, fin dal nome composto - San Martino, dunque, oltre ad essere il santo che dona il mantello al mendico, in perfetto accordo alla restante parte del toponimo che vuole la località di San Martino Buon Albergo essere un “albergo ristoratore” (“Buon Albergo”) – è accogliente, fin dall’epoca tardo romana, con chi vi era di passaggio.
“L’ospitalità è un tratto essenziale del mio locale. - esordisce Renato Bosco, appena varcata la soglia di Saporé – Ho voluto una pizzeria dove le persone potessero trascorrere l’intera serata e non un locale mordi e fuggi come, purtroppo, ce ne sono ancora”. L’impressione che questa sarà un’intervista interessante comincia da quelle parole, di un pizzaiolo che pensa anche al luogo in cui si degustano le sue pizze.
Ma chi è Renato Bosco?
“Professionalmente non è un figlio d’arte e, per questo, ha dovuto lavorare molto attraverso lo studio. All’età di 16 anni ho iniziato a lavorare in una pizzeria di emigrati salernitani, la famiglia Arpino, qui a San Martino Buon Albergo, come cameriere. Ho fatto la prima stagione come cameriere, poi ho sostituito uno dei titolari che faceva il pizzaiolo ed era costretto a casa per un incidente. Lì è nato tutto il mio amore per i lievitati. Mettevo in atto con molti errori ma la sensibilità nelle mani, l’attenzione degli occhi, l’esperienza che si fa con il tempo mi hanno portato a riconoscere in quel mestiere la mia grande passione. Dopo il servizio militare andai a lavorare in un’altra pizzeria ma era talmente ampia la curiosità nella ricerca degli impasti, degli ingredienti, che decisi di aprire la mia pizzeria. Un sogno che si realizza nel 1989, in società con alcuni amici. Era una pizzeria d’asporto, con 500 pizze ogni weekend. Durò poco, anche se era un successo e la società non dava problemi. Avevo, però, bisogno di crearmi un’identità precisa, frequentare dei corsi, ricercare sempre. Fu in quel modo che, più avanti, mi affibbiarono il termine di pizza-ricercatore. Sentivo forte la necessità di individuare un’idea diversa, precisa, mia!”
E quali strade hai percorso per arrivarci?
“Ho aperto subito la mia pizzeria, con la mia compagna. Volevo chiamarla Pizza da Rè ma sarei stato criticato per l’eccesso, anche se Rè stava per Renato. Così l’ho chiamata Saporè, sempre per riallacciarmi al mio nume. Un delirio, fin dal primo giorno: 10 teglie che diventano 40, 50 pizze d’asporto che crescono fino a 150. Ho dovuto trovare 10 dipendenti e, dopo poco tempo, aprire la sala degustazione e diventare una pizzeria con una precisa collocazione. Restava sempre la curiosità di rendere il mio impasto diverso. Fu l’incontro, dapprima, con Giuseppe Vignato che mi ha spinto sulla strada della consapevolezza – cioè cosa volesse dire impiattare correttamente, mettere gli ingredienti dopo cottura, seguire sempre dei corsi fino a diventarne, oggi, docente - a cui è seguita la necessità di confrontarmi con pasticceri e fornai! Incontrare i protagonisti dei due altri mestieri che implicano un rapporto con la lievitazione. Conoscere Rolando Morandin per il discorso del panettone e le regole che comporta la pasticceria e Gior-
AriadiPane®gio Giorili per il pane mi ha aperto un universo verso il mondo del lievito madre. È grazie ai loro insegnamenti se ho dato vita al progetto “Figli di PastaMadreViva” che nasce dal comune intento di un gruppo di lavoro di professionisti della panificazione di tutelare l’uso della vera pasta madre viva. Oggi il mio lievito madre è collocato nella Biblioteca Mondiale del Lievito Madre a Sankt Vith, in Belgio, con il numero 108 e Karl De Smedt lo rinfresca regolarmente con la farina originale con cui è stato prodotto dieci anni fa”.
È stato grazie a questi incontri che hai completato il percorso per realizzare la tua Aria di pane® e la pizza Crunch®?
“In parte si, ho messo insieme la mia voglia di capire, l’arte della panificazione con quella della pizzeria e ho creato qualcosa di unico, che scompare in bocca mentre lo assaggi”.
E, anche per questo, si può dire che oggi esiste una scuola veneta di pizza?
“Credo sia anche arrivato il momento di certificarla questa scuola. Quando Simone Padoan de I Tigli fu indica-
to come miglior pizzaiolo d’Italia da Laura Mantovano, nella guida alle pizzerie del Gambero Rosso, avvenne la rottura con l’idea che la pizza fosse immutabile nei secoli. Invece la differenza c’è e tutto questo è merito dello studio, del fatto che un pizzaiolo contemporaneo non è più bravo di uno classico. Solo che si sa presentare, lavora in un ambiente diverso, indossa la giacca al posto della maglietta, ha ordine e disciplina, ci mette la faccia, ha un’idea frutto di ricerca che predilige lenta lievitazione e impasto con lievito madre”.
Anche i locali stanno cambiando?
“È un processo lento ma costante. Le pizzerie stanno diventando luoghi di racconto e di cultura gastronomica. Lo devono fare per molti motivi, non ultimo il fatto che restano ancora il posto dove puoi passare una piacevole serata senza spendere una follia. Per assolvere a questo ruolo devono trasformarsi anche negli arredi, non più posti di fast-food ma luoghi accoglienti. I prodotti diventano occasioni di racconto del territorio: per me la Lessinia, per altri il Lago di Garda, oppure i Colli Morenici Mantovani. Ogni luogo in Italia è racconto!”
Cosa serve per migliorare ulteriormente?
“Occorre sempre fare ricerca. Sono ancora troppo poche le pizzerie che hanno questo nel proprio DNA. Recentemente ho vissuto un’esperienza di foraging con Alessandro Gilmozzi, è stata straordinaria, imparare a riconoscere le erbe spontanee, metterle sulla pizza… è una cosa che manca a noi pizzaioli. Poi bisogna coinvolgere anche i ragazzi extracomunitari che lavorano massicciamente in questo settore, insegnare loro il gusto italiano”.
Il mondo delle farine è cambiato grazie a voi o voi siete migliorati grazie alla ricerca da parte dei mulini?
“I mulini, per primi, sono stati in grado di cogliere il cambiamento e trasformarlo in business. Oggi ancora noi dobbiamo diventare talmente bravi e competenti da dire ai mulini voglio questa farina, con queste caratteristiche per la mia pizza. Solo raggiungendo questo equilibrio potremo dire di essere competenti e davvero bravi”.
Gli altri prodotti per il topping cosa devono avere per stare a pieno titolo sulla pizza?
“Dobbiamo elaborare il percepito della qualità. Avere conoscenza della materia, lavorare a stretto contatto con i produttori e con l’industria alimentare. Solo in questo modo si riuscirà a creare la pizza perfetta. Alcune aziende lo hanno capito. Coati sta producendo i salumi appositamente per pizza. Con Roncadin ho firmato una pizza per la GDO, con i miei ingredienti: farina, sale, olio, mozzarella, pomodoro e cottura secondo procedimenti collaudati”.
Abbiamo parlato della produzione e il distributore che ruolo può giocare in questo cambiamento di paradigma?
“Un ruolo importantissimo se riuscirà a cogliere le nostre esigenze, quindi è necessario che anche il distributore con la sua forza vendita sia attento al cambiamento. Se è così noi non potremmo mai farne a meno”.
È necessaria una scuola specifica per pizzaioli?
“Questo è un mestiere che ha bisogno del riconoscimento di una scuola ma io la definirei scuola per lievitisti, perché anche i pasticceri e i panettieri ne hanno bisogno. Dobbiamo muoverci insieme se vogliamo essere riconosciuti dalle istituzioni. L’arte bianca ha una lunga storia in questo Paese, è indispensabile valorizzarla”.
Come si riesce, partendo da una pizzeria, a creare un modello imprenditoriale come quello che stai metten-
do in campo?
“Ragionando da imprenditore e non da pizzaiolo. Oggi Saporè è sala degustazione a San Martino Buon Albergo, due pizzerie a Verona, sei locali con Autogrill dove vengono codificati tutti i passaggi per la realizzazione delle mie pizze ma anche quelli relativi all’accoglienza, alla gestione dei reparti, ai prezzi di vendita. Con questa impostazione imprenditoriale tra poche settimane darò vita a Cruncheria, un sistema di franchising per rendere la mia pizza accessibile a tutti. Il primo punto vendita è previsto a Milano”.
L’ultima domanda: come immaginavi, all’inizio, il tuo futuro e come lo vedi ora?
“Non pensavo minimamente e non sono ancora pienamente consapevole di ciò che ho fatto e questo mi fa stare con i piedi per terra. Nel futuro? Mi vedrò più imprenditore, cercando di realizzare progetti che mi lascino più tempo per me e per la mia famiglia”.
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Ricordo ancora l’emozione di quando, lo scorso anno (era il luglio 2022), la Federazione Italiana Cuochi è stata invitata all’audizione al Senato della Repubblica a Roma per candidare ufficialmente la Cucina Italiana a Patrimonio Immateriale Unesco È stato quello il primo passo importante verso una candidatura che non riguarda soltanto la sfera gastronomica e il gusto ma che ha anche una fortissima componente culturale, economica, sociale. Tutto questo e molto di più, infatti, racchiude la cucina italiana, che oggi non solo rappresenta nel mondo la migliore e più sana alimentazione, simbolo stesso della Dieta Mediterranea, ma anche un universo sconfinato di tradizioni, ricette, gesti, racconti, pubblicazioni che, regione dopo regione, provincia dopo provincia, paese dopo paese e addirittura borgo dopo borgo, tramandano un sapere sia materiale che, appunto, “immateriale”!
A quella emozione di ieri, oggi subentra l’orgoglio da parte di Federcuochi di essere stata tra i primi promotori di tale candidatura, consapevole del lustro e del prestigio ulteriori che potranno derivare da un simile riconoscimento per la nostra cucina a livello mondiale. Non a caso, a portare avanti e a supportare tale candidatura sono sia il Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, con il ministro Francesco Lollobrigida, sia il Ministero della Cultura, con il ministro Gennaro Sangiuliano, a testimonianza di quanto finora affermato e cioè che il nostro patrimonio gastronomico è innanzitutto patrimonio culturale, che poi si traduce in aspetti sociali, storici, economici. Ai rappresentanti del Governo e alle Istituzioni va il nostro grazie per quanto stanno facendo e per la vicinanza che da sempre dimostrano al mondo dei cuochi.
Ed ecco un altro aspetto fondamentale di questa grande azione internazionale: quello delle Cuoche e dei Cuochi, cioè i primi interpreti e ambasciatori della cucina italiana. Scrivevamo prima dei “gesti” che ci celano dietro ogni ricetta, delle tradizioni anche manuali dietro la preparazione di ogni piatto. La conferma della cucina italiana a Patrimonio Immateriale Unesco rappresenterebbe, infatti, anche un riconoscimento importantissimo e, lasciatemelo dire, meritatis-
simo per migliaia di berrette e grembiuli bianchi in Italia e nel mondo, che hanno fatto, fanno e faranno delle nostre tradizioni gastronomiche e della loro valorizzazione una missione di vita. La cucina italiana, soprattutto in passato, ha dovuto dire “grazie” per essere stata tramandata da una tradizione prettamente casalinga, costituita molto spesso dalle figure preziose delle nonne e delle mamme, custodi di un sapere e di una conoscenza unici al mondo. Oggi, con questo stesso mondo in continua trasformazione ed evoluzione, la cucina italiana è tramandata e valorizzata soprattutto da migliaia di cuoche e di cuochi professionisti, che contribuiscono a renderla unica e inimitabile. Così, dunque, proseguiamo con le Istituzioni lungo questo nuovo e prestigioso percorso intrapreso a livello internazionale. Lo scorso 4 agosto, nell’affascinante e suggestivo Parco archeologico di Pompei, tutta la nostra Dirigenza nazionale era presente, assieme all’Unione Regionale Cuochi Campania, per la presentazione del Logo Ufficiale per sostenere la candidatura e da lì è partito un vero e proprio tour delle Istituzioni per girare la nostra Penisola, portando avanti questo meraviglioso progetto. Ma, lasciatemelo dire, la cucina italiana ha già vinto da tempo su tutti i fronti!
L’episodio al Gilbert & Gaillard International Wine Competition ha sollevato scandalo. Una bottiglia acquistata in un supermercato a due euro e cinquanta, trasformata in un finto «Château Colombier”, ha vinto medaglia d’oro ed elogi Molti si sono accaniti sull’incompetenza dei sommelier, ma è giusto? No, per chi conosce la Neurovendita. Chi ha realizzato lo scherzo conosceva gli studi neuroscientifici sui vini, ad esempio quelli di Rangel, professore della Caltech University. Utilizzando la risonanza magnetica ha osservato il cervello dei sommelier mentre assaggiavano diverse bottiglie di vino con prezzi artefatti. Si spiegava agli esperti, che avrebbero degustato cinque Cabernet-Sauvignon di qualità e prezzo differenti. Ai sommelier era chiesto di attribuire un valore ai vini. I vini in realtà erano solo tre. Due venivano somministrati con prezzi differenti. Mentre si gustavano i vini appariva sullo schermo il prezzo. Il primo vino veniva presentato al suo prezzo reale, 90 dollari e un’altra volta a 10 dollari. Per il secondo vino era indicato il prezzo reale di 5 dollari e in seguito un prezzo gonfiato di 45 dollari. Per il terzo vino veniva comunicato il suo prezzo reale: 35 dollari. I vini furono giudicati più buoni in funzione del prezzo. Il più costoso fu giudicato il migliore. Peccato fosse lo stesso offerto a 10 dollari. Il vino da 5 dollari era di gran lunga migliore quando costava 45. Eppure, il vino era lo stesso! La cosa più scioccante fu scoprire che il motivo di questa inadeguatezza nella valutazione dipendeva da cosa accadeva nei circuiti cerebrali. L’area orbito-frontale laterale, una porzione del cervello deputata all’elaborazione gustativa piacevole, si attiva effettivamente di più quando lo stesso vino è associato a un prezzo più alto. Il vino più caro aumenta davvero la percezione di piacere in bocca, perché induce le aree del cervello che determinano le sensazioni gustative ad una iperattività. In termini semplici, se il sommelier sa che il vino è più costoso, allora effettivamente sente un sapore migliore. Il funzionamento cerebrale spiega l’errore di valutazione, nulla può fare la competenza contro gli automatismi mentali. Il prezzo è solo una delle variabili che alterano il gusto, iper-eccitando il sistema nervoso. Il brand, la cantina, la storia, la firma dell’enologo e perfino la
forma della bottiglia, sono tutti fattori che cambiano la percezione sensoriale. Avere delle informazioni cambia l’attività cerebrale, di conseguenza il gusto e per riflesso la valutazione. Quindi il parere degli esperti non vale nulla? Sapere che un vino è pluripremiato non conta? Nei concorsi seri tutto avviene (o dovrebbe avvenire) in maniera “blind”, in doppio cieco. I sommelier non sanno nulla delle bottiglie che stanno degustando e attribuiscono la loro valutazione in modo indipendente, per evitare di influenzarsi a vicenda. Scrivono giudizi senza informazioni preliminari, usando la loro allenata competenza di cogliere sfumature di gusto. In questo modo, le valutazioni diventano più valide ed affidabili. Non si cade nell’effetto placebo sensoriale. Lo scherzo, quindi, è potuto accadere solo perché il concorso di Honk Kong non rispettava nessuna di queste regole, ignorando il funzionamento cerebrale. Il problema non è negli esperti, ma nelle metodologie di valutazione. Per par condicio stesse ricerche sono state realizzate con degustatori di birra, replicando gli stessi risultati.
Si fa presto a dire olio extra vergine di oliva al di fuori dei confini nazionali. Nei ristoranti italiani all’estero non sempre si trovano oli di qualità accettabile. Salvo eccezioni, ovviamente; che però restano tali. Eppure, essendo un alimento iconico per l’Italia, sarebbe il caso di investire di più, in termini di tempo, risorse e investimenti. Per una cucina sana e salutare sarebbe un fiore all’occhiello da esibire. Simile per composizione al latte materno, l’extra vergine vanta anche una ricca presenza di preziosi antiossidanti, buoni in termini salutistici (contro i radicali liberi) e anche sul piano sensoriale (le medesime molecole conferiscono anche i profumi, i sapori e gli aromi di un olio). Sarebbe un bel cavallo di battaglia in un’epoca che presta massima attenzione a ciò che è gustoso e nel contempo salutare. Eppure, sono proprio gli operatori italiani i primi a non crederci. Le loro scelte sono tutte in funzione del prezzo più basso, a scapito della qualità (anche sensoriale). È un paradosso incomprensibile. Poi, è vero, ci sono le eccezioni. Nel momento in cui scrivo sono a Gisburn, nell’Inghilterra profonda: nel Lancashire, alla presentazione di un “menu all’olio extra vergine di oliva” nel ristorante La Locanda dello chef Maurizio Bocchi. Due giorni alla presenza di un pubblico qualificatissimo, tra chef stellati, buyer, giornalisti, gourmet e autorità. Per Bocchi la cucina italiana all’estero si è adagiata troppo su sé stessa, con gli stessi piatti di sempre. Lui non ci sta e sostiene che si debba dare sempre il meglio in un Paese nel quale si è ospiti. Occorrono scelte di qualità credibili, ma non sempre è così. Basta fare un giro tra i locali: gli oli presenti in sala sono discutibili, figurarsi quelli in cucina. “Noi – chiarisce Bocchi – siamo riusciti a valorizzare gli extra vergini facendoli assaggiare e continuando a dare informazioni sulle loro caratteristiche, coinvolgendo i clienti, come pure i colleghi chef inglesi”. La carta vincente è stata l’introduzione di un menu dedicato, con l’olio evo quale filo conduttore dai cocktail fino al dolce: “quale miglior modo per dare lustro alla cucina italiana all’estero se non con l’olio? È un modo per dare una impronta di autenticità. Noi da anni facciamo pagare olio e pane. Il cliente lo ritiene normale, perché ciò che è buono lo si paga e lo si apprezza”. Il pubblico del ristorante La Locanda è quasi totalmente inglese. Bocchi ne è orgoglioso. Con le sue proposte ha saputo rendere la propria cucina inclusiva, fino a presentare anche ricette inglesi
“tradotte” in lingua italiana attraverso i nostri prodotti più identitari. Senza rinunciare all’italianità, ma nemmeno cedendo a una finta e snaturata cucina italiana. La vera sfida è portare l’olio evo non nei luoghi di grande flusso, Londra per l’Inghilterra o New York per l’America, ma nel paese più profondo, in provincia. “Noi – precisa Bocchi – siamo collocati in un paesino a nord di Manchester. L’ho scelto di proposito per essere vicino ai prodotti primari, e per far comprendere meglio agli inglesi la cucina italiana fatta di materie prime eccellenti. L’olio evo nella cucina di un ristorante è centrale e quello attuale è il momento più opportuno, perché le persone hanno bisogno di qualcosa di salutare. Qualche anno fa con un ospedale – riferisce orgoglioso lo chef – abbiamo fatto un menu per persone che hanno subito trapianti di cuore e polmoni, con l’assunzione di 70 ml di olio al giorno. I pazienti hanno avuto un recupero migliore”. È evidente che con un simile atteggiamento gli oli evo acquisiscano un riscontro più concreto, anche sul piano commerciale. Il ristorante è il luogo più efficace in cui si possono creare le condizioni per far conoscere gli oli in Paesi non tradizionalmente consumatori. Resta da chiedersi che fine facciano gli extra vergini nei ristoranti italiani all’estero. C’è un grosso limite culturale da superare per molti operatori. Chi intraprende un percorso virtuoso va segnalato: “noi – puntualizza Bocchi – suggeriamo un olio, ma il cliente può scegliere ciò che preferisce. Va lasciato spazio e libertà. Non è importante solo la cucina: per far conoscere gli extra vergini occorre assegnare maggior rilievo alla sala. Come ristorante nel 2013 abbiamo organizzato una conferenza sull’olio, durata tre giorni, in un vecchio monastero, dove sono intervenuti anche chef inglesi”. Ora, a distanza di dieci anni, avendo verificato di persona, posso sostenere che è la strada giusta da percorrere.
Neolaureati, ingegneri, dottori, dj, farmacisti e persone di ogni tipo e categoria sociale, praticamente chiunque in un modo o in un altro nella sua vita, almeno una volta per un periodo breve o lungo, ha svolto il lavoro del cameriere. Chi per mantenersi gli studi chi per professione e addirittura chi per scelta ha deciso di svolgere questa nobile arte. Per 22 anni ho ricoperto questo ruolo e di persone giovani e meno giovani ne ho viste. Ho insegnato molto e mi hanno insegnato ancor di più, ognuno di loro.
All’età di 14 anni si inizia il percorso scolastico formativo che durerà poi nelle migliori delle ipotesi cinque anni, nel mio caso è durato un po’ di più, mi ero affezionato. Ogni anno, a giugno, facevo la valigia e partivo per la stagione. Ed era una partenza che segnava in qualche modo la mia vita, sia per quello che lasciavo, anche se per breve tempo, sia per il bagaglio, in senso metaforico, che mi riportavo indietro a ogni fine stagione.
Lasciavo famiglia e amici con cui sono cresciuto per trascorrere l’estate a lavorare.
Lontano molti km dagli affetti, e nonostante ciò ero felice.
Svolgevo il lavoro per cui stavo studiando ed era impressionante la grinta e la volontà che avevo nell’apprendere sempre qualcosa di nuovo.
La scuola mi aveva dato le basi, quelle che servivano per avere dimestichezza nello svolgere le cose facili.
Accogliere, avere un bell’aspetto, muovermi con eleganza e gentilezza, districarmi in situazioni difficili, tutte skill necessarie per affrontare un ottimo e sereno servizio in sala.
Ho fatto molta strada e sono cresciuto, e molte volte, amici o persone estranee mi chiedevano: ma per fare il cameriere serve studiare?
A dire il vero, la risposta ha fondamenta ben precise e strutturate, e serve una riflessione molto importante e impegnativa, se solo pensiamo a cosa ci accade ogni volta che entriamo in un ristorante qualsiasi.
Lo studio e la cultura sono sempre importanti, ma dipende tutto da noi, siamo noi come essere umani a capire fin dove possiamo spingerci e cosa possiamo e siamo in grado di affrontare. Fino a qualche anno fa poteva essere definito un lavoro umile e chi lo svolgeva doveva avere delle attitudini molto rigorose e impegnative, negli ultimi anni abbiamo avuto un crescendo
di persone che si sono improvvisate e hanno fatto calare l’entusiasmo e la volontà, rinunciando alla parte più disinteressata di questo meraviglioso mestiere: servire le persone.
L’insegnamento che mi è stato dato nei banchi di scuola è stato molto diverso da quello che poi è accaduto nella vita professionale, e in tutti questi anni ho capito che senza uno studio adeguato e il giusto impegno scolastico non puoi riuscire a mettere in pratica tante cose. Ancora oggi studio per migliorarmi e per riuscire a donare quel servizio perfetto che fa trascorrere agli ospiti una serata indimenticabile. Chi fa questo mestiere fa parte in qualche modo delle serate indimenticabili di ogni ospite, siamo partecipi delle belle serate siamo noi a rendere speciale quel pranzo, quell’aperitivo, quel caffè o quella cena.
Sono consapevole del fatto che ci stiamo trasportando in un mondo diverso, fatto di attimi e di momenti, e che anche noi amiamo essere coccolati.
Forse la scuola ci insegna ancora oggi a fare il flambé,a sfilettare un pesce di fronte al cliente, e queste richieste sono molto lontane dal servizio in sala che oggi siamo abituati a vedere, ma senza una buona base di studio non si va da nessuna parte.
Questo mestiere non si improvvisa e anche se sembra una professione non particolarmente qualificata nel suo genere, in realtà ci vuole molto impegno e studio per farlo bene.
Un buon servizio può salvare un problema in cucina, non il contrario.
Il reparto food & beverage sta attraversando un periodo di notevoli cambiamenti.
Oggi gli alberghi sono chiamati a rendere i loro reparti F&B più innovativi, con modelli pensati per attrarre gli ospiti e capaci di offrire maggiore efficienza e redditività. Come fare? Con una buona dose di professionalità, di conoscenza e ovviamente di tecnologia.
Dal punto di vista della tecnologia, ecco quelle che non possono mancare per raggiungere questo obiettivo:
1. Piattaforme POS integrate: il punto delle vendite (POS) è essenziale per il funzionamento efficiente dei comparti F&B. Un POS di nuova generazione permette maggiore flessibilità e scalabilità.
2. Il Cloud: La tecnologia cloud aiuta a superare molti ostacoli, riducendo costi, tempistiche di formazione e manutenzione. Gli hotel pagano solo per la potenza di calcolo di cui hanno bisogno e possono espandersi man mano che la loro attività cresce.
3. Collegamento con altri software: oggi, una gamma sempre crescente di software di terze parti viene integrata ai POS. In particolare, tre integrazioni POS stanno rapidamente guadagnando terreno:
• sistemi di gestione del tavolo: aiutano a monitorare e ottimizzare l’utilizzo dei tavoli nei ristoranti, riducendo i tempi di attesa, aumentando la rotazione dei tavoli, ottimizzando lo spazio.
• sistemi di prenotazione: consentono di gestire le prenotazioni e le liste d’attesa, contribuendo a garantire che il personale accolga gli ospiti per nome, riconosca le occasioni speciali e conosca le allergie e le preferenze alimentari.
• sistemi di pagamento centralizzato: permettono di automatizzare l’elaborazione, la verifica e la riconciliazione, accettare più tipi di pagamento e ridurre gli errori manuali e le frodi.
4. Dispositivi mobili per lo staff: un’altra innovazione che permette una maggiore efficienza del reparto F&B è la tecnologia mobile. I registratori di cassa fissi vengono sostituiti con dispositivi POS mobili, consentendo al personale di prendere ordini ed elaborare pagamenti in tutta
la proprietà utilizzando smartphone o tablet.
5. Offerta di servizi F&B digitali: la tecnologia consente agli ospiti di sfogliare un menu da un’app o da un codice QR, di effettuare un ordine e saldare il conto utilizzando il proprio dispositivo. I servizi possono essere offerti ovunque nella struttura e i menù digitali offrono più informazioni rispetto a quelli cartacei, con foto dei prodotti, raccomandazioni, informazioni dietetiche e traduzioni linguistiche. I servizi digitali di F&B diminuiscono i tempi di attesa degli ospiti, i carichi di lavoro del personale e i costi di stampa. E dopo il pasto, gli ospiti possono essere invitati a fornire feedback immediato.
6. Report & Data Analytics: utilizzare i dati per comprendere le preferenze degli ospiti e il comportamento è fondamentale. I dati consentono di adottare strategie marketing più mirate e ottimizzare così i menu, la gestione dell’inventario oltre che le promozioni e i programmi fedeltà.
Non c’è dubbio che il cibo e le bevande svolgeranno sempre di più un ruolo decisivo per la creazione di esperienze memorabili.
Per l’albergatore quindi non si tratterà più di decidere se mantenere o meno questo reparto, quanto piuttosto quello di innovarlo per renderlo finalmente redditizio e adeguato alle nuove esigenze degli ospiti.
(LU) Chiostro di Sant’Agostino in Piazza Duomo
LUNEDÌ 9 OTTOBRE 2023 dalle ore 10 alle ore 18
Programma
Ore 10 – saluto del sindaco di Pietrasanta, ALBERTO STEFANO GIOVANNETTI
Ore 10,15 - Tavola rotonda Come rendere attrattivi i mestieri di sala
Relatori:
GIULIA BATTISTINI, maître di Trattoria Da Lucio - Rimini • ENRICO CERIONI, maître del ristorante Alla Lanterna di Fano (PU)
MATTEO ZAPPILE, General Manager Il Pagliaccio di Roma• ALBERTO SANTINI, direttore di sala Del Pescatore di Canneto sull’Oglio (MN)
Modera LUIGI FRANCHI, direttore responsabile di sala&cucina
Ore 11,30 - Lectio di FAUSTO BROZZI, designer, architetto e produttore di Culatello
Ore 11,45 - Tavola rotonda Dove va la cucina italiana?
Relatori:
FILIPPO DI BARTOLA, patron di Filippo Pietrasanta di Pietrasanta (LU) • LORENZO CANTONI, resident chef del ristorante Il Frantoio di Assisi 8PG) • MAURIZIO URSO, resident chef del ristorante I Carusi Biorelais di Noto (SR)
STEFANO PISTOLLATO, direttore commerciale di Cateringross
Modera GIULIA ZAMPIERI, giornalista della redazione di sala&cucina
Ore 13 - Buffet
Ore 14 - Tavola rotonda - Dove e come agire nel mondo della formazione
Relatori:
CARLO ROMITO, presidente emerito di Solidus, le professioni del turismo • GIOVANNI GUADAGNO, resp.le Dipartimento Tecnico-Professionale di FIC (Federazione Italiana cuochi) • MARCO FERUZZI, docente di Enogastronomia c/o Istituto alberghiero statale P.Artusi, Riolo Terme (RA) • FILIPPO SINISGALLI, chef, scopritore di talenti e formatore
Modera SIMONA VITALI, giornalista della redazione di sala&cucina
Ore 15,30 - Lectio di PAUL BARTOLOTTA Chef owner The Bartolotta Restaurants di Milwakuee
Ore 16 - Tavola rotonda Il personale: problema o opportunità?
Relatori:
LAURA RONCACCIOLI, Restaurant Manager Le Cementine (Alajmo Group) • NICCOLÒ PALUMBO, socio del ristorante Paca di Prato • SIMONE ROSETTI , Imprenditore romagnolo • ANDREA CHIRIATTI, Responsabile lavoro dell’Area Relazioni sindacali, previdenziali e formazione della FIPE
Modera LUIGI FRANCHI, direttore responsabile di sala&cucina
Essendo i posti limitati la prenotazione è d’obbligo alla mail amodo@salaecucina.it o al numero
3316872138
Per chi arriva alla domenica sera presso il ristorante Filippo è prevista una cena con prezzo concordato di 50 euro tutto compreso. Per prenotazioni: Filippo tel. 0584 70010
Vi ricordate quando abbiamo iniziato osservare la materia prima da altri punti di vista oltre a quello eno-gastronomico? Ecco oggi vi racconterò di un seme che in autunno e inverno potrebbe essere interessante “seminare” nei vostri menù! Sì, un seme come il riso, i ceci, il sesamo, le noci, etc. che come elemento con delle interessanti caratteristiche nutrizionali può essere trasformato e inserito in diversi piatti, dall’antipasto al dolce.
Conosciuto anche come “grano nero” o “blè noir” o “fraina” o “grechka”, il Fagopyrum esculentum o grano saraceno, a dispetto del suo nome, non è in effetti un cereale e non fa neppure parte della famiglia delle graminacee ma una pianta erbacea a cadenza annuale della famiglia delle poligonacee, come acetosa e rabarbaro; ma viene spesso compreso tra i cereali per la sfarinabilità dei suoi chicchi che hanno una caratteristica forma a piramide “Polygonum”; naturalmente privo di glutine e relativamente poco glicemico, il grano saraceno si colloca a metà strada tra legumi e cereali; si caratterizza per l’elevato valore biologico delle sue proteine, che a differenza dei cereali contengono tutti gli amminoacidi essenziali e in misura equilibrata.
Probabilmente il nome scientifico che gli è stato dato “Fagopyrum esculentum” (dal latino fagus e dal grego piròs, cioè faggio e frumento) già ne potrebbe spiegare le caratteristiche: i chicchi del grano saraceno vengono utilizzati come il frumento e sono simili, nella forma, alle faggiole, i frutti dell’albero del faggio. Originario delle regioni asiatiche di Nord-Est, probabilmente tra Siberia e Mongolia, la sua espansione è rimasta prevalentemente circoscritta alla Cina per diverso tempo, in seguito si diffuse in Giappone e un tempo era molto presente anche in Germania, Bretagna, Polonia, Russia e in tutto l’Est Europeo (Romania, Montenegro, Ucraina e altri) ma anche in Italia.
Difatti in Europa, il grano saraceno è presente in Polonia con i “Gołąbki z kaszą gryczaną” (squisiti involtini di Verza ripieni) e i “Pierogi z kaszą gryczaną” (Ravioli a mezzaluna); i “Grechanyky” sono ucraini (popolari polpette fritte); in Germania la “Schwarzplententorte” (deliziosa torta di che viene preparata in Bassa Sassonia); in Francia la sua farina è molto nota e basta ricordare le fa-
mose crepe bretoni di grano saraceno o il “Far Guvinès” un altro tradizionale piatto bretone. Inoltre c’è la “Soba” gli spaghetti di grano saraceno, il prodotto più diffuso al mondo, molto comuni in Giappone, e il pane diffuso in diverse regioni della Cina. La “Soba” ha un sapore gradevole e cuoce più in fretta dei chicchi, anche se richiede per la sua preparazione un lungo procedimento, motivo per cui è meglio acquistarla già pronta.
E in Italia? È diffuso in Valtellina, nelle valli bergamasche, in Alto Adige/Sud Tirolo e in altre regioni alpine, e la farina costituisce l’ingrediente principale nella preparazione di piatti tipici della cucina di molte valli, ne sono un esempio: la “Polenta Taragna” (farina di Mais e grano saraceno), i “Pizzoccheri” (farina di frumento e grano saraceno), gli “Sciatt” (farina di frumento e grano saraceno con formaggio) e la “Schwarzplententorte” e la “Buchweizentorte” (torta di grano saraceno con confettura di mirtilli rossi). Pertanto il grano saraceno può essere proposto e raccontato, come semi oppure utilizzando la farina o consumato sotto forma di pasta. È eccellente se consumato nella stagione fredda poiché è un alimento molto energetico e nutriente, con le proprietà riscaldanti. Far crescere la curiosità e la consapevolezza in noi e nei nostri clienti credo sia importante per salvaguardare e far crescere la cultura del cibo, e volendo si può partire dal seminare un nuovo ingrediente nei nostri menù!
semi nel tuo menù… e raccontane la storia!
Mi permetto una cosa insolita: parafrasare un articolo di Martina Manescalchi (che cura la rubrica ospitalità in questa rivista), uscito su LinkedIn in agosto. Il titolo è Riflessioni notturne sulla banalità del male che affligge il nostrano turismo [più o meno di massa].
Alla domanda che mi sono posta - come è andata l’estate per l’ospitalità italiana? - ho trovato risposta per filo e per segno nelle riflessioni della collega. La prima considerazione che approvo riguarda i dati: ce ne sono pochi e mal letti.
Nell’uscita di settembre abbiamo tentato di tessere le fila raccogliendo, da alcuni distributori alimentari collocati in varie zone d’Italia, i numeri della stagione appena trascorsa. Se confrontarsi con il settore è la via più efficace, nel settore dell’accoglienza il confronto diretto, quest’anno, ci porta a un casale fatiscente con su scritto ‘estate 2023? nulla di esaltante’.
Di cos’è e di chi è la colpa? Si chiedono molti imprenditori italiani. Il problema di fondo andrebbe ricercato in casa, non fuori. Quindi lasciamo per un attimo all’angolo caro prezzi e variabili di ogni
Giovanni Solofra e Roberta Merolinatura, perché alla radice c’è davvero tanto altro.
“Il problema è la destinazione Italia - Open to Meraviglia che però sembra non meravigliare più nessuno. Città d’arte ridotte a mangiatoie e a location per i selfie di sedicenti influencer, località balneari rimaste ferme a cinquant’anni fa, territori bellissimi ma difficili da raggiungere, siti termali senza le terme, montagne dove non nevica più, luoghi stupendi da scoprire ma promossi poco e male [e per questo non li scopre, infatti, nessuno]” scrive Martina Manescalchi.
A questa lista vanno aggiunte: l’offerta alberghiera scarsa/obsoleta, l’inefficienza dei servizi (treni, taxi, transfer, aeroporti, compagnie aeree, praticamente su
tutti i fronti), e tutte quelle voci moderne, imprescindibili per un’ospitalità che vuole essere all’avanguardia e appetibile, ossia la digitalizzazione, l’inclusione, la sostenibilità, l’accessibilità. Le ragioni per cui tantissimi italiani hanno scelto di trascorrere le ferie estive all’estero, e per cui tanti stranieri hanno rinunciato al viaggio nel nostro Paese, non sono dunque attribuibili a un’estate anomala, a un’annata un po’ così come la definiscono alcuni, ma a motivazioni ben più radicate, che se troveranno risposte efficienti, concrete, condizioneranno anche le stagioni a venire.
Il confronto
Noi italiani abbiamo un grande difetto: non vogliamo sentirci secondi a nessuno. Ci piace raccontare che la nostra è la cucina migliore del mondo, che l’accoglienza italiana è la più emozionante e coinvolgente a cui ci si possa affidare, che la bellezza del BelPaese non ha eguali. Questo vale per il comparto ospitalità tutto: dall’hotellerie alla ristorazione, dal turismo luxury alla villeggiatura più spiccia. Il nocciolo della questione, a mio avviso, è che non solo non accettiamo il confronto, non lo ricerchiamo proprio. Una tendenza, però, che pare destinata a cambiare, e non per intuizione dei gestori. Gli italiani che quest’anno hanno scelto altre destinazioni - il Nord Europa, la Grecia, la Spagna, ma anche località extra-continente… - avranno sicuramente avuto modo di impattare con sistemi di accoglienza, cucine e servizi diversi, quindi di approcciare a un modo di ospitare
nuovo. E, non per ultimo, di farsi un’idea di bellezza slegata dall’Italia
Perché non facciamo tesoro di questo? Perché non stiamo sondando il percepito? Perché non ci domandiamo come mai le presenze straniere si sono così contratte?
Tra le voci d’investimento di un’attività che fa accoglienza dovrebbe essere inserita oggi proprio questa: il viaggio con finalità di rapporto e crescita. Viaggiare fuori dai confini nazionali permette di elaborare una presa di consapevolezza difficile da incassare, a volte anche ostica da tradurre, ma necessaria se vogliamo rendere proficui gli interventi di ammodernamento del settore.
Un esempio virtuoso:
il ristorante Pausa a San Francisco
Cosa succede, invece, se chiediamo agli italiani che hanno un’attività di ristorazione all’estero di sviscerare la situazione italiana?
Andrea Giuliani è chef patron del ristorante italiano Pausa a San Francisco. È approdato negli States nel 2005 ed ha una visione più che chiara di ciò che funziona o non funziona in Italia.
“C’è una voce a cui gli americani sono molto legati, è il perceived value. Il valore percepito, in altre parole, è quell’insieme di attributi che giustificano l’investimento economico per una certa esperienza. Per metterla sul piano pratico: il valore dell’esperienza non è
dato solo dalla qualità della cucina, ma dall’insieme dei servizi offerti da un’attività di ristorazione o da una struttura alberghiera. Andando ancora più nello specifico: l’acustica del locale, il sottofondo musicale adeguato, la cortesia ed efficienza con cui viene raccolta la prenotazione, la narrazione esaustiva delle pietanze e del bere, la gestualità nel servizio. Sono tutti parametri a cui noi ci dedichiamo meticolosamente, nei minimi dettagli. Abbiamo la percezione che in Italia manchi in tante strutture questa dedizione. Viaggiare e mettersi in contatto con gli altri modi di fare ospitalità potrebbe creare un vantaggio più diffuso in Italia, le consentirebbe di conoscersi di più guardando gli altri”.
Naturalmente paragonare delle attività di ristorazione inserite in due contesti socio economici molto differenti - Alta California e Italia - non sarebbe totalmente corretto. Basta già solo guardare i numeri: Pausa ha 100/120 coperti a fronte di una squadra composta da 60 dipendenti, un rapporto impensabile in Italia. Però c’è un modus operandi che potrebbe essere replicato. “60 dipendenti sono molti sì, ma non troppi se si punta a una ristorazione davvero precisa, che punta sulla specificità” - ci racconta Andrea. “A prescindere dai numeri è la formazione del personale la chiave del successo di un locale e il segreto del suo rodaggio. In Italia questa pratica non è interiorizzata dalla maggior parte delle attività, è vissuta come un contorno.
La formazione una tantum non dà risultati misurabili, sono il tempo quotidiano e settimanale a dare frutto. Ogni giorno i nostri ragazzi vengono informati e aggiornati su ambiti che li riguardano, per esempio sulla composizione dei piatti e dei cocktail, sull’origine e la preparazione dei prodotti. È un impegno? Sì. Aumenta il servizio e il valore dell’esperienza? Sì. È quindi un tempo su cui Pausa intende investire? Assolutamente sì”.
Andrea trova sempre del tempo per tornare in Italia, all’incirca due o tre volte l’anno. Gli chiediamo quali sono le sensazioni.
“Un altro limite italiano credo sia l’incapacità di vendere e vendersi. In Italia potremmo avere davvero tutto, la nostra straordinaria biodiversità vale già una bella parte del pacchetto… ma non basta. Ci sono alla base dei problemi di dialogo. Pensandoci, ho imparato più dei prodotti italiani in America che quand’ero a casa, in Veneto. Questo perché? In Italia si guarda al proprio territorio e se proprio si inizia a guardare fuori si punta davvero tanto lontano, troppo lontano”. Il paradosso su cui pone l’accento Andrea è a portata di menu: è ormai più frequente trovare su un piatto del katsuobushi che una grattugiata di bergamotto.
“La verità - continua Andrea - è che siamo campanilisti a metà. Sono davvero tante le cucine italiane in cui non si ha la minima conoscenza di ciò che si prepara poche centinaia di chilometri più in là. Poi però quando ci rapportiamo a paesi come la Francia diciamo che
loro sono più bravi a raccontarsi…”.
Abbiamo parlato di servizi, ambiente e cucina. È inevitabile, quando si parla di ristorazione in America, parlare anche di business.
“In Italia invece è un termine tabù, spesso sostituito dalla parola passione” - continua Andrea. “L’economia di un ristorante, o di un albergo, però, non può basarsi sulla passione. Business plan, business forecast (ossia previsione) e budget, sono le parole che scandiscono i nostri progetti. L’altra voce che è alla base di un progetto come Pausa è reinvestimento. Se non si reinveste non si ha margine di crescita e non si anche crea indotto. In Italia quanti lo fanno?”
Svecchiare il sistema, ammodernarlo, confrontarsi tra figure che operano nello stesso settore, riscriversi in funzione di ciò che sta chiedendo il pubblico (cioè servizi, personalizzazione, attenzioni, misure a modo): la sfida per tutti, da qui ai prossimi anni, ha il volto scoperto.
Autrice: Simona Vitali
Nel precedente numero ci siamo rivolti ai professori di Istituti professionali per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera chiedendo loro di agire, di intervenire direttamente in quelle aule, per il bene dei ragazzi, mentre un sistema sempre troppo lento - e a volte poco allineato - sta cercando di capire che passi muovere in favore della scuola.
Una grande provocazione, per certi aspetti, ma anche la consapevolezza che sia fondamentale affidarsi a chi conosce dal di dentro la situazione, per non creare - anche involontariamente - ulteriori danni.
Siamo bravi ad attaccare i professori, ad addossare loro tutte le colpe del mondo in un ambito complesso in cui qualcuno ha pensato a togliere senza compensare a sufficienza.
Siamo bravi a sparare indistintamente su tutti, senza considerare che ci sono modalità di interpretare il lavoro, intuizioni, tempo dedicato oltremisura che connota quotidianamente la vita di molti di loro, esattamente come accade negli ambiti in cui noi stessi lavoriamo.
A pensare così offendiamo l’intelligenza del genere umano e quindi anche noi stessi.
Detto questo, abbiamo pensato di dare voce anche a loro, ai prof., quelli che più hanno le mani in pasta e a cui nessuno fa domande. Nulla di precostituito, non domande specifiche, gli abbiamo chiesto parole in libertà, perché lasciassero fluire quello che avevano dentro.
Tanto per iniziare ne abbiamo interpellati cinque, tre di laboratorio e due di altre materie, giusto perché l’alberghiero è una scuola strutturata, con più materie del liceo addirittura, e che comporta quindi un certo grado di impegno, per quanto se ne dica.
Silvia Pratelli
Iniziamo con Silvia Pratelli, che insegna italiano e storia nel triennio di IPSSEOA di Riccione, giusto per il quadro di carattere generale che è riuscita a delineare, utile base a sostegno delle altre riflessioni
che seguiranno.
“Sono un’insegnante appassionata, di quelle che hanno scelto questo lavoro non come ripiego, non come seconda opportunità, non come integrazione ad una entrata più cospicua, non per avere una pensione certa… ho scelto questo lavoro per passione e con passione mi sono sempre mossa fra i corridoi scolastici e nelle aule, fra gli alunni. Non ho mai lavorato 18 ore, né 24, né 40, ho lavorato le ore che erano necessarie senza preoccuparmi di altro che essere una buona insegnante. Non ho mai riflettuto più di tanto sul fatto che probabilmente lo stipendio di un insegnante italiano è vergognoso, mi dà molto più fastidio quando trovo in aula docenti impreparati perché “sporcano” qualcosa che amo, non aiutano la categoria ad acquistare il prestigio che si merita e la mancanza di un adeguato riconoscimento sociale rende il nostro lavoro molto più difficile. È fondamentale essere un modello per i ragazzi, qualcuno a cui guardare con stima ed ammirazione ma diventa difficile quando non tutti hanno una professionalità vera e quando con la propria cultura, quella cultura alla quale cerchiamo di appassionarli, non si riesce ad avere uno stipendio decoroso e proporzionale.
Fra le aule inoltre non si deve “solo” insegnare ma spesso è necessario combattere, le varie rivoluzioni a scuola sono sempre partite dal basso, perché le indicazioni che arrivano dal Ministero, da chi probabilmente in un’aula non c’è mai entrato, si sono sempre poi scontrate con la realtà della mancanza di risorse, di spazi e di strutture adeguate, però le richieste permangono quindi spetta ai docenti trovare la soluzione, a quelli che ci credono e che un po’ con il volontariato, un po’ con l’inventiva superano ostacoli e limiti di ogni genere.
Per qualunque iniziativa che un insegnante voglia prendere: invitare un esperto, partecipare ad un corso, orga-
nizzare un viaggio di istruzione, un’uscita didattica, fare una passeggiata al parco, è richiesto un estenuante lavoro preparatorio, si deve riempire tanta di quella carta, fare tante di quelle richieste, gare di appalto, permessi, autorizzazioni, assunzioni di responsabilità… discutere con il dirigente se non è d’accordo, con la segreteria a cui si va ad aggiungere lavoro, con i colleghi che magari perdono un’ora, trovare un sostituto per le proprie ore, il tutto ovviamente e rigorosamente gratis, solo l’amore per i ragazzi, il valore grande che si riconosce ad ognuno di loro, ci porta ancora ad inseguire ogni buona opportunità.
Un altro grave problema della scuola italiana è poi la mancanza di riconoscimento del merito, non è prevista in alcun modo la possibilità di riconoscere e valorizzare competenze e capacità, anzi spesso ci si lamenta che i docenti della scuola italiana sono vecchi, ma i senatori nell’antica Roma prendono il loro nome da senex, anziano, perché l’anziano era considerato più saggio, si presumeva che avesse più esperienza, che la vita lo avesse preparato meglio a decidere per gli altri, mi viene da dire allora che forse l’esperienza ha un valore che sarebbe una ricchezza per i ragazzi se fosse riconosciuto e premiato.
Passiamo ora ad Antonio D’Antonio, prof. di “Servizi di sala e vendita” in due classi prime e una quarta, presso l’Ist. Sup. Polispecialistico S.Paolo di Sorrento. “Da tanti, troppi anni, a noi docenti di materie tecniche (enogastronomia, servizi di sala e vendita, accoglienza turistica) mancano ore di laboratorio come se mancasse l’aria! In questa situazione di non poca difficoltà per tutti noi, se dovessi indicare un’urgenza chiederei un potenziamento di ore innanzitutto per il primo biennio, perché la materia è nuova per i ragazzi e, a maggior ragione,
hanno bisogno di praticarla.
Come è noto i primi due anni sono indistinti, i ragazzi conoscono tutti gli indirizzi che possono intraprendere dal terzo anno in poi. Questo comporta un’alternanza di ore di laboratorio di settimana in settimana. Le classi si dividono in due: un gruppo viene destinato a quattro ore la settimana di cucina e l’altro a quattro di sala e viceversa la settimana successiva. Per l’accoglienza turistica sono contemplate due ore la settimana.
A questo punto ad ogni disciplina, tra sala e cucina, vengono dedicate 4 ore di laboratorio ogni 15 giorni ed è comprensibile come, in un primo anno, gli studenti da una volta all’altra non si ricordino nemmeno come ti chiami. Nell’arco di un anno, se va bene, li vedi 8 o 9 volte. Urge che le ore di laboratorio dedicate diventino a cadenza settimanale, non quindicinale.
Attualmente accade che quando ti lamenti di questa condizione ti assegnino ore di compresenza con altri colleghi, ma non sempre si tratta di materie affini. Quando accade ad esempio con scienze degli alimenti oppure lingue diventa un’accoppiata quasi vincente. Ma non sempre, purtroppo, è così. La vera svolta sarebbe quella di portare tali discipline all’interno dei laboratori tecnico-pratici, che renderebbero la lezione più bella, più accattivante e metterebbero i discenti in condizioni di apprendere molto di più.
Da una decina di anni accanto ai percorsi di istruzione tradizionali ci sono anche percorsi formativi finanziati dalle Regioni, denominati IeFP (Istruzione e Formazione Professionale), della durata di tre anni e finalizzati al conseguimento di una qualifica. Questi hanno il vantag-
gio di contemplare molte più ore di pratica di indirizzo (tra laboratori, stage, tirocini) a discapito di altre materie teoriche.
Giunti al terzo anno i ragazzi, ottenendo una qualifica, possono fermarsi ed entrare nel mondo del lavoro, decidere per un ulteriore anno di specializzazione presso un ente regionale oppure sostenere un esame per le materie teoriche non studiate nel triennio ed entrare nella volata finale degli ultimi anni di alberghiero e conseguire il diploma.
Accade che ci siano scuole che riescono ad attivare questi percorsi IeFP per tutti e tre gli indirizzi, creando un percorso equo, e scuole che ottengono l’attivazione su un solo indirizzo (di solito Enogastronomia) che diventa preponderante, fagocitando gli altri due laboratori.
Il mio giudizio su IeFP è favorevole purché la possibilità sia spalmata su tutte e tre le materie pratiche ma, se devo dirla tutta, preferirei che li eliminassero in favore di almeno due blocchi da tre ore di laboratorio a settimana più un'ora di teoria d’aula, come avveniva prima dell’ultima riforma, quando riuscivamo a lavorare con i ragazzi ogni settimana.
Un altro tasto dolente sono le risorse economiche, nello specifico la quota che ci mettono a disposizione per ciascuna esercitazione di sala (nel primo biennio) è di 20 euro.
Tolte le spese del tovagliato, se sei bravo ti restano 10 euro per delle classi sempre più numerose (24/26 ragazzi) per cui non puoi che acquistare solo le cose più importanti: pane, caffè, zucchero, latte, tovaglioli di carta...e poi non rimane più nulla. L’acqua la prendi dalla fontana. Negli anni ’90 venivano messe a disposizione circa 60/70 mila lire ad esercitazione (senza l’incidenza del tovagliato) e riuscivi a fare una lezione decorosa e dignitosa.
Sto portando avanti le mie battaglie per il bene dei ragazzi e, per come sono fatto, credo che non cambierò mai”.
Passiamo ora a Pietro Pilotti, prof. di “Servizi di sala e vendita” presso l’IIS Raineri-Marcora di Piacenza (classi prime, seconde e terze).
“Insegno da oltre 15 anni, in precedenza ho lavorato nel mondo della ristorazione facendo “ la gavetta” e alla fine sono diventato Food&beverage per un importante gruppo internazionale. Ai ragazzi cerco di trasmettere quelle competenze che io per primo ho maturato nel corso degli anni, sfruttando al meglio le poche ore di laboratorio che ci sono concesse. Sarebbe molto importante che il Ministero dell’Istruzione valutasse di integrarle.
Sono altresì convinto dell’importanza di apporti esterni e ci sto a mettere a disposizione parte delle mie ore e a darmi da fare per ottenerne altre in collaborazione con i colleghi, pur di poter dare ai ragazzi la possibilità di seguire, ad esempio, corsi con AIS.o a organizzare webi-
nar e incontri con professionisti AIBES o diventare parte attiva di iniziative che comportano tanto lavoro di preparazione, come di fatto sta accadendo. Personalmente penso che un docente che non accetti di dar spazio a professionisti esterni nelle proprie ore di lezione sia limitato, perché non dà modo ai suoi allievi e nemmeno a se stesso di poter crescere.
Ritengo anche che sia più che mai utile fare rete con chi rappresenta il mondo del lavoro, nello specifico le associazioni di categoria locali, con cui sarebbe molto utile instaurare un rapporto costruttivo che non si limiti alla mera richiesta di disponibilità di ragazzi, per rispondere all’esigenza di qualche ristorante associato. Dare e non chiedere soltanto, facendo conoscere il mondo della ristorazione nella scuola, attraverso mini incontri tenuti dagli stessi professionisti del circuito associazionistico. In questo modo, ad esempio, quel ristorante che fa solo vegetariano dà modo allo studente di potersi avvicinare alla sua attività, facendosi conoscere.
Ai ristoratori vorrei dire di avere un occhio più attento a chi va a lavorare da loro e di considerarli, i nostri ragazzi: non devono essere un investimento a poco prezzo per poter prendere meno dipendenti.
L’ospitarli, il prenderli in carico, dovrebbe essere - nella correttezza – un’opportunità di crescita e un’ipotetica assunzione di domani.
E pure bisognerebbe riconoscergli uno stipendio dignitoso, perché non si può fargli fare orari massacranti per 800 euro! Penso spesso al loro futuro. A noi sta il formarli e ai ristoratori garantirgli un’adeguata qualità della vita, partendo dal fargli fare turni accettabili, che non li demotivino.Non bisogna dimenticare che il contratto nazionale del lavoro prevede sette ore. Se io garantisco al mio dipendente una buona qualità della vita lui sarà un collaboratore felice e trasmetterà serenità al mio cliente.
Vorrei infine caldeggiare la nascita di ulteriori ITS Academy, scuole ad alta specializzazione tecnologica post diploma, in cui l’azienda entra nel progetto didattico e forma i ragazzi insieme alla scuola stessa.
In Emilia Romagna, che già ne ha attivato quasi una decina in altri ambiti, sarebbe importante che ne sorgessero di dedicate alla ristorazione.
Infine voglio dire che chi svolge il nostro lavoro non lo fa per soldi, altrimenti si darebbe alla libera professione, ma per una missione ben precisa: dare ai ragazzi le capacità, le competenze, per avere una buona possibilità di inserimento in questo mondo fantastico che è la ristorazione”.
Domenico Andolfato prof. di pasticceria presso
IPSSEOA “A.Beltrame” di Vittorio Veneto (classe quarta)
“Sono 16 anni che insegno e nei nostri ragazzi percepi-
sco un grande potenziale che abbiamo l’obbligo di coltivare assieme a loro, essendo noi in primis di esempio, con il nostro entusiasmo, con la nostra creatività e curiosità. Ingredienti che percepisco essenziali per varcare la porta di un’aula scolastica e, ancor di più, quella di un laboratorio di un Istituto alberghiero.
Nel tempo la nostra figura è andata modificandosi, siamo passati dall’essere degli addestratori professionali a dei veri e propri “trainer di professionalità”, che accompagnano lo studente nella scoperta o riscoperta della multidimensionalità che può assumere il cibo, la convivialità e l’ospitalità. Un tempo potevamo pensare solamente di preoccuparci ad insegnare a cucinare…ma oggi?!? Oggi, più che mai, al mondo di noi I.T.P. (insegnati tecnico pratici), alle nostre scuole e ai nostri dirigenti, è richiesto un vero e proprio stravolgimento di prospettiva, se non addirittura una “rivoluzione culturale” che ci consenta di entusiasmare ancora i nostri allievi, accompagnandoli nel cammino che hanno iniziato, a volte anche con poca consapevolezza, per diventare leggiadri professionisti nel campo alberghiero, ristorativo e del food & beverage. Credo sia opportuno lavorare, prima di tutto, sulla consapevolezza della nostra figura verso gli studenti e le studentesse, percependoci legati indissolubilmente al settore professionale di appartenenza e agendo su: Consapevolezza che il docente di laboratorio, considerato l’attuale e altissimo livello di specializzazione che caratterizza la cucina, la pasticceria, la sala, il bar, il mondo della sommellerie, etc. può pensare di essere un bravo orientatore ovvero un efficace facilitatore che accompagna gli studenti alla scoperta delle mille opportunità che può offrire un ambito professionale e variegato come il
nostro.
Consapevolezza che il docente di laboratorio deve essere una figura prevalente e centrale, che si occupa della formazione degli studenti, dando loro delle competenze professionali che siano solide e trasversali, ovvero spendibili in diversi contesti lavorativi. A questo va affiancato assolutamente un contributo specifico di figure professionali, provenienti anche da contesti esterni la scuola e dal mondo del lavoro
Consapevolezza che “vendere” la figura del cuoco, del pasticcere o del cameriere secondo la profilatura standard, non è più ingaggiante nei confronti dei giovanissimi. Gli istituti alberghieri devono essere in grado di proporre una prospettiva concreta e futuristica nel settore di appartenenza, che di sicuro oggi non si configura dietro al valore che purtroppo viene attribuito alla figura del cuoco, del cameriere, del pasticcere o del receptionist, nella sua comune accezione.
Consapevolezza che quelle che oggi sono catalogate come “Soft Skills” in realtà sono delle potenti “Hard Skills” sulle quali occorre lavorare quotidianamente in quanto possono essere elemento di differenziazione e successo sia per le persone che per il mercato del lavoro.
Consapevolezza che una solida, talvolta originale, competenza tecnica, resta ed è elemento essenziale, imprescindibile, anche per accettare una sola ora di supplenza in meravigliose scuole come le nostre.
Concludo con l’auspicio che ognuno di noi possa appassionarsi sempre di più ai nostri ragazzi, per divenire poi, appassionanti verso loro”.
E infine, ma non ultimo per importanza, l’appello di
Stella GiovanniniStella Giovannini, prof di inglese delle classi prime dell’IPSEOA “Tonino Guerra” di Cervia, per non dimenti-
care il ruolo educativo della scuola e l’importanza di preparare i ragazzi ad essere fautori di un futuro non così prossimo, da cittadini del mondo.
“Nella realtà attuale è assai complesso fare il docente, soprattutto in istituti professionali e in anni scolastici attraversati, ormai sempre più di frequente da emergenze sanitarie, socio-economiche ed ambientali e soprattutto , a mio parere, dalla manipolazione social delle fragilità della psiche umana. In un contesto storico caratterizzato da tali incertezze e difficoltà costantemente nuove e crescenti, il ruolo dell’insegnante deve necessariamente adattarsi a numerosi cambiamenti, rispetto ai quali spesso non siamo completamente attrezzati in termini di esperienza e di formazione professionale.
Mi riferisco ad esempio ad alcuni fenomeni social che hanno un’influenza notevole nella vita dei nostri studenti, ed ai loro contenuti così pericolosi ed inaspettati, quali il cyberbullismo, l’incitamento al conflitto e al suicidio dei giovani, l’ostentata intolleranza verso le minoranze di ogni tipo, la xenofobia crescente, la violenza di genere. Tali contenuti sono talmente dannosi per la salute e l’equilibrio mentale dei giovani tanto da ingenerare in loro dipendenza dalla realtà virtuale, ossessione per stereotipi fisici e relativi al carattere che modificano drammaticamente la percezione sana di loro stessi e del mondo circostante.
Di fronte a tale visione del mondo deformata in negativo a causa della presenza invadente dei social nella vita dei miei discenti, vorrei poterli aiutare guidandoli ad un uso consapevole delle nuove tecnologie, affinché sappiano riconoscere, sempre, la validità dei contenuti on line da alcuni parametri, come ad esempio il rispetto di ogni individualità e dell’insieme dei membri che costituiscono le nostre società. Ritengo a questo proposito di necessitare ora più che mai di corsi di formazione che istruiscano sulle modalità, sia di riconoscimento sia di smascheramento, dei suddetti fenomeni social di mistificazione della realtà. Tali corsi, spero vivamente, nella maggior parte dei casi gratuiti, dovrebbero essere finalizzati ai seguenti obiettivi: sviluppo e rinforzo della salute mentale dei nostri discenti e del loro senso di autostima, smascheramento e lotta ai crimini d’odio e alla dipendenza dei giovani dalle realtà virtuali, la ricomposizione del tessuto sociale danneggiato dall’incoraggiamento di post falsi e destabilizzanti per ottenere popolarità.
Vorrei insomma come docente migliorare e proteggere dalla violenza e dall’odio la vita dei miei studenti decostruendo un modello di comunicazione basata su informazioni false e/o deformate del reale e far loro capire, con tutta la pazienza e l’affetto che provo per loro e per le loro famiglie, che l’intolleranza e la prevaricazione verso le persone e gli ambienti diffuse on line, vanno ben oltre il mondo virtuale che tanto amano, e raggiungono la vita reale delle persone”.
Autrice: Simona Vitali
Le vere opportunità di un comune montano
Il più grande rischio che corrono i borghi non adeguatamente strutturati, per quanto belli e potenzialmente attrattivi, è quello dello spopolamento, cioè il non riuscire a trattenere chi vi abita dall’espatriare, e quindi morire a poco a poco. La prova del nove è data dalle giovani generazioni: i loro pensieri, il loro decidere di rimanere ancorati o meno a questi luoghi di origine sono indicativi del grado di evoluzione raggiunto da questi borghi stessi.
Non ne parliamo poi di chi deve decidere di andare a trasferirsi ex novo in quei borghi... se mancano certe condizioni non sono molti coloro che lo faranno davvero.
Non è così per Borgo val di Taro, un comune dell’Appennino parmense (a confine con Liguria e Toscana), considerato il cuore della Val di Taro, che si presenta come una realtà ben strutturata quanto a servizi e ben collegata, con un suo interesse naturalistico e gastronomico (questa è la terra per eccellenza del fungo porcino, il fungo di Borgotaro IGP) che da qualche tempo può dire di beneficiare, e questa è la chiave di volta, dell’attivazione della banda larga, la qual cosa ha certamente contribuito in modo determinante a creare le stesse opportunità – nel lavoro, nella scuola ma anche nella quotidianità – di chi vive in città.
Ma è quell’orgoglio di appartenenza, che connota chi in questo piccolo centro montano ha le sue radici e si dà da fare per promuoverlo attraverso iniziative, a rendere questo borgo vivo e vivace.
Figure come ad esempio Gianmarco Bozzia, capace imprenditore locale - ma non solo - ma non solo nel campo immobiliare, conosciuto anche come “cacciatore di cascate” per quella capacità di mettere in luce scorci naturali addirittura inediti del territorio che, a un certo punto, è diventata un libro, che ad oggi
ha venduto oltre 20.000 copie! “Quello che io faccio – ci racconta - è cercare di sponsorizzare con tutta la passione che ho le nostre valli (Borgo Val di Taro fa parte dell’Unione Valli taro e Ceno). La piacevole sensazione che mi ritorna, quando la gente viene a visitare i nostri posti, è che li valuti molto di più di quanto li valutiamo noi”.
Ancora più radicata nel tempo e nel cuore di questa comunità è una propensione per il sociale, diciamo un’apertura all’accoglienza, che a detta del suo sindaco, Marco Moglia “fa la diversità di questo territorio” e che la stessa amministrazione comunale sente davvero molto, tant’è che la sta perseguendo fra le proprie priorità. Nelle comunità montane, in genere, è più vivo quel senso di mutuo soccorso che altrove appare sbiadito, tuttavia bisogna riconoscere che questo territorio conti addirittura iniziative di carattere straordinario, progetti pilota tanto si sono rivelati innovativi, che proprio qui hanno trovato - e stanno trovando - terreno fertile per prendere forma, magari anche ad opera di figure non locali, confortate però dall’approccio benevolo di questo luogo e di chi lo rappresenta.
Prendiamo ad esempio Tiedoli, giusto una delle 13 frazioni di Borgo Val di Taro, forse quella che più di tutte ha subito il fenomeno dello spopolamento, a causa dell’emigrazione all’estero (fenomeno molto diffuso nel secolo scorso).
Era l’inizio del 2000 quando è arrivato qui Mario Tommasini, un parmigiano che ha fatto della battaglia per la salvaguardia della dignità umana in ogni momento della vita la sua bandiera, con la forza di chi sfonda, tanto con le parole quanto con i fatti, perché lo sfondamento appunto era la sua modalità espressiva, finché non otteneva quello che si era prefissato.
Il suo contributo decisivo alla chiusura dei manicomi in Italia con l’occupazione per un mese del manicomio di Colorno (PR), la collaborazione con Basaglia per l’abrogazione dei manicomi in Italia, l’occupazione del brefotrofio di Parma che ha poi indotto alla sua chiusura (i bambini sono stati tutti affidati e adottati), l’impegno verso il sistema carcere alla luce della possibilità di offrire pene alternative e inserimento lavorativo per molti dei detenuti, a cui consegue la nascita della cooperativa sociale Sirio giusto per questo, sono semplicemente dati di fatto, eredità preziosa che la città di Parma e la sua provincia hanno raccolto, come sonora lezione, in dote.
“Quando è arrivato Mario Tommasini – ricorda Maria Teresa Ferrari, di quel circolo Acli che è parte attiva del Progetto Comunità di Tiedoli -Tiedoli era un paese spopolato: erano rimasti solo gli anziani mentre i giovani erano migrati verso la città per fare ritorno nel fine settimana, quando si ritrovavano tutti al circolo. Tommasini stava cercando qualche immobile dove realizzare un progetto destinato alla terza età. La sua idea era dire “Basta alle case protette!” Sognava proprio di chiuderle e creare invece unità abitative in cui gli anziani potessero vivere in libertà pure gli ultimi anni della loro vita, anche se non autosufficienti, nella loro terra e in senso più ampio rivitalizzare la frazione. Il caso volle che a Tiedoli avessimo un fabbricato rurale (un cascinale con una piccola casa a fianco) in disuso, che ben si prestava per il progetto, donato 15 anni prima alla parrocchia dall’associazione parmigiani Valtaro-London (le comunità dei nostri emi-
Le case di Tiedoligranti hanno un legame fortissimo con le loro terre. Organizzano feste annuali il cui ricavato viene devoluto a favore della Val Taro)”.
È il 2003 quando, con il supporto economico determinante di Fondazione Cariparma e dell’Amministrazione Provinciale, le case di Tiedoli diventano realtà: sono sei le unità abitative che vengono ricavate dall’immobile, un paio per coppie e i restanti per persone singole. Ciascuno vive nel proprio appartamento, decide liberamente quando mangiare, quando uscire... e ha la serenità di poter beneficiare di servizi come la presenza di un custode h24, un operatore OSS per una certa fascia oraria e di personale volontario che sovrintende in ogni momento a qualsiasi bisogno. Non trascorrono tre anni quando, nel 2006, viene inaugurato il Giardino d’inverno, un’area collettiva dedicata alla socializzazione ed alla vita in comune degli ospiti. Attualmente si ritrovano tutti insieme a condividere i pasti, con la portinaia che cucina per loro. Ecco la comunità.
“Mario ci ha insegnato che niente è impossibile se quello che vogliamo è dettato da buoni intenti. Ora, grazie al PNRR, siamo all’opera per ristrutturare la canonica e creare un centro di documentazione non solo su Case di Tiedoli ma sulle politiche sociali, specificatamente sugli anziani, come Tommasini a suo tempo ci ha indicato. Il viaggio continua...”.
A distanza di 20 anni c’è un altro progetto straordinario che sta sgambettando per venire alla luce, sempre a Borgo Val di Taro. Lo hanno chiamato Case Sottane,
dal nome del borgo rurale che si intende portare a nuova vita: un complesso di nove edifici in pietra, una stalla e una barchessa, circondati da terreni agricoli e bosco, sotto l’abitato di Porcigatone. Da qui la denominazione “Case sottane” (che stanno sotto).
Anche in questo caso come per le case di Tiedoli, un uomo del parmense, Giovanni Codeluppi, è giunto in Val di Taro con un progetto nel cuore più grande della sua portata umana ma forte di un percorso condiviso e alimentato nel tempo insieme alla moglie Alessandra Zerbini.
Il sindaco, Marco Moglia, persona di notevole spessore umano, che sa colpire per la profondità delle sue riflessioni, sostiene che un filo rosso unisce questo progetto a quello di Case Tiedoli.
Avevamo già parlato di Case Sottane lo scorso anno a Natale, perché ci pareva una grande storia da sostenere. Ne siamo ancora convinti e la stiamo seguendo passo a passo.
Se ricordate, Giovanni e Alessandra hanno fatto, ormai diversi anni fa, la scelta di abbandonare il proprio lavoro sicuro per aprire prima un’azienda agricola in regime biologico (che aquell’epoca era in fase embrionale) dove poter dedicarsi anche all’accoglienza sociale, poi una Fattoria sociale, ancora più aperta all’accoglienza, arrivando ad ospitare - sempre in diurno - una quindicina di persone “in difficoltà”.
Questo finché, nel 2012, non è sopraggiunto il desiderio di condividere questa esperienza quotidiana con altre famiglie, dando vita a una comunità, nella convinzione che “nella comunità risiedano intrinsecamente tutti quei valori che possono salvare l’umanità” come Giovanni è solito ripetere.
È iniziata così la perlustrazione dell’appennino parmense fino all’individuazione di questo borgo rurale, completamente avvolto dai rovi ma in buone condizioni di salute, grazie a una ristrutturazione relativamente recente, finalizzata a un progetto di accoglienza turistico poi sospeso.
Da quel momento i passaggi si sono concatenati in rapida sequenza: costituzione dell’associazione di promozione sociale e culturale Case Sottane (che coinvolge figure che mettono a disposizione la propria professionalità per la causa) la stipula del contratto d’affitto di 18+18 anni, la costituzione - lo scorso anno - della cooperativa di comunità (soggetto giuridico che porterà avanti il lavoro di Case Sottane), di cui è presidente Patrizio Leonardi, e la partecipazione al bando PNRR e la soddisfazione di ricevere un contributo, certamente non risolutivo, ma incoraggiante.
Case Sottane ti rapisce non appena varchi la soglia del cancello, un’atmosfera come ovattata ti avvolge mentre ti aggiri fra le casette in pietra, tutte splendidamente ristrutturate, ma da completare nelle finiture.
In ogni angolo si aprono scorci su una vallata rigogliosa da un lato e dall'altro sul crinale appenninico oltre il quale si affaccia la Liguria e il pensiero corre a quando sarà abitata stabilmente da famiglie e insieme persone in difficoltà, che lì vivranno tutti insieme - notte e giorno - di quella terra, dei suoi prodotti che pure trasformeranno, di quella comunità rurale come luogo operoso di vita e condivisione, aperto a tutti senza discriminazione alcuna di razza o di religione. E pure pensi a quando tu stesso potrai beneficiare di uno di quei 23 posti messi a disposizione per l’accoglienza turistica andandoti a ritirare lì qualche giorno per rigenerarti vivendo la loro quotidianità. Ma pensi anche a quando deciderai, da imprenditore, di fare vivere una simile esperienza ai tuoi collaboratori, attraverso esperienze di team building tra il lavoro dei campi e il laboratorio di trasformazione e la cena comune nel refettorio della comunità, un vero posto al sole con un affaccio stupendo sulla vallata. Lì potrai anche organizzare la convention o la cena di Natale della tua azienda.
Immagini che corrono davanti agli occhi alla sola vista di un simile luogo, oggi ancora in fieri, ma che esprime già tutte le sue potenzialità. Alla fine basta, già adesso, trascorrerci qualche ora per rendersi conto di tutto questo. Così è accaduto a noi nella recente occasione dell’annuale festa di Case Sottane, una due giorni di grande intensità, per la profondità delle iniziative e la presenza calorosa di una parte rappresentativa del territorio oltre che dal suo sindaco, anche dalla vice sindaca nonché assessore al sociale e al volontariato Alessandra Foschidonna di grande sensibilità -, da case di Tiedoli, Consorzio Fantasia, con Sivlia Cunegondi, pure molto attivo nella stessa Unione Valli Taro e Ceno con le sue quattro cooperative, l’esemplare modello dell’associazione Porcigatone in festa con Sergio Feci ma anche imprenditori come Gianmarco Bozzia che di questo progetto sono i primi sostenitori, per convergenza di pensiero e azione.
La situazione attuale vede Giovanni e chi con lui schierati in prima linea a fare tutto quello che è in loro facoltà e grati per ciò che arriva , che sia materiale utile per rifinire le strutture o qualche contributo economico. Continuano imperterriti nel far conoscere il progetto, con passione invariata lo raccontano facendolo vivere e hanno tanta fiducia, l’arma più grande.
Si rimane spiazzati dal persistere di un credo così profondo da non dare segnale alcuno di perdere smalto, nonostante l’impegno non sia fresco di ieri. Segno che la motivazione è molto forte
A garanzia della bontà e trasparenza del progetto di comunità di Case Sottane si pone la Fondazione Munus, Fondazione di Comunità di Parma e provincia, che ha aperto, come ci spiega il presidente Giorgio Delsante, un fondo ad hoc riservato al progetto stesso, dando certezza del buon esito delle donazioni, non trattenendo commissioni di intermediazione sulle somme ricevute, controllando l’andamento del progetto finanziato e fornendo rendicontazione (oltre a ricordare la detraibilità della somma versata).
Si è sempre alla ricerca di opportunità per i territori, per la loro rivitalizzazione o semplicemente per mantenerli in vita. Ecco, bisogna iniziare a considerare che progetti come le Case di Tiedoli e Case Sottane sono un’opportunità ma non limitatamente ad un circoscritto territorio. Lo sono in senso più ampio anche per chi vive e lavora altrove, magari anche molto distante da quel luogo. Per la loro rarità sono e diventano occasioni per cui siamo disposti a macinare km per poterle esperire, nella nostra spasmodica ricerca di senso. Per questo dobbiamo sentirli e trattarli anche un po’ come nostri e ringraziare chi ce ne fa dono.
Chiedere un’intervista a un vignaiolo in piena vendemmia è un po’ come fermare un cuoco in pieno servizio per porgli delle domande. Arianna Occhipinti, nel trambusto del suo settembre, scandito da raccolta, diraspature, prime fermentazioni e follature, ha trovato il tempo per rispondere. Forse non c’è neppure da stupirsi: raccontare il suo lavoro, l’impegno verso la natura e la sua terra, sono motivi che l’accompagnano da sempre. È ciò che l’ha resa un punto di riferimento per giovani appassionati e ricchi di sogni. Ne abbiamo la conferma con questa intervista.
Chi è Arianna Occhipinti
La storia di Arianna meriterebbe un capitolo a sé. Dopo la laurea in Viticultura ed Enologia a Milano, condita da una pragmatica lettera a Veronelli in cui raccontava la sua idea di viticultura e di vino, ha fatto rientro nella piccola e remota Vittoria, in provincia di Ragusa, per mettere in pratica, tra filari e tini, ciò che aveva acquisito sui libri. Nel 2004 nasce la sua azienda, un ettaro appena, nella sola contrada Fossa di Lupo. Lei aveva ventuno anni. Oggi ne conta una trentina di ettari, si estendono anche nelle contrade Bombolieri, Bastonaca e Pettineo, lungo la statale SP68.
Il suo - lo hanno rimarcato in tanti - non è un percorso comune: per una giovane donna far rientro a casa, al Sud, per imbracciare un lavoro tosto, molto fisico, associato storicamente al genere maschile, sembrava più una follia che un’impresa possibile.
Ma non è più tempo, ci piace pensare, per concentrarsi su questo, sull’eccezionalità di essere donna vignaiola. Arianna ha un’idea di rispetto per la natura e per le specificità territoriali che non ha né genere né tempo storico.
Si parla di innovazione praticamente in ogni ambito. In quello enologico, ad oggi, in cosa consiste?
“Oggi si sta cercando di fare sintesi tra periodi storici. Quello più datato, in cui si adottavano pratiche a basso impatto, con trattamenti e interventi ridotti all’osso, insomma quello del vino fatto dal contadino, e il periodo della chimica e della tecnologia avanzata, a partire da fine anni Ottanta, in cui ci
Arianna OcchipintiClicca e leggi l’articolo sul web
si allontanava dal terroir per ottenere un prodotto quasi perfetto ma omologato. Per come la vedo io la sintesi tra i due approcci è la chiave giusta. Prendiamo da entrambi per puntare al meglio, senza perdere di vista l’obiettivo territoriale, che per la mia azienda è primario”.
Arianna dichiara di aver sempre voluto andare più in profondità, cioè scavare fino alle radici delle cose. Nei suoi vini vuole raccontare le singole parcelle, le loro identità, e non ampie fette di territorio. Non il tutto, dunque, ma il singolo.
“Come si fa a dare voce a una piccola porzione di territorio? Serve tanto lavoro in vigna e in cantina, non c’è altra risposta. Ci vuole un metodo coerente, delicato, che punta al massimo rispetto della materia prima, l’uva, e si avvale di fermentazioni spontanee, quelle aiutano in modo efficace a far emergere il territorio. Tuttavia non ragiono per partito preso: penso che se l’innovazione ci ha regalato degli strumenti migliorativi, e questi sono funzionali ai propri obiettivi, posso avvalermene. Poi ti dirò sempre che sono più amante della tecnica che della tecnologia… e che la vera innovazione è il rapporto con la vigna
Se si lavora a contatto con la natura, e ci si sente parte di essa, è inevitabile che le conversazioni si allarghino, prendendo dentro spazi anche diversi ma strettamente connessi. Non poteva che accadere pure con Arianna, sempre più impegnata in un progetto articolato, di biodiversità, che include anche olivicoltura, orto, alberi da frutto.
Rileggendo le tue interviste ci sono due termini che ricorrono, oltre alla vite e al vino: uomo e natura. È nel rapporto uomo - natura che si dovrebbe costruire il futuro? Quanto indietro siamo?
“Io ho provato una connessione fortissima con la natura al rientro in Sicilia. Credo che l’uomo debba ripristinare il rapporto simbiotico con la natura, coltivarlo proprio come se fosse una pianta. C’è un’urgenza che a mio avviso è evidente: dobbiamo rallentare. Dobbiamo rimetterci in una posizione di ascolto e modellarci in funzione di ciò che la natura ci sta comunicando. Ti faccio un esempio pratico. Quest’anno la peronospora ha colpito dal Nord al Sud Italia. Questo è un sintomo evidente che dobbiamo saper interpretare, o significa che stiamo marciando per la nostra strada senza prestare ascolto ai segnali di avviso”.
Tra ritorni a casa e nuovi innesti
Arianna, ricordavamo all’inizio, ha scelto di tornare a casa per dare linfa ai suoi sogni. Le abbiamo chiesto quanto l’agricoltura possa aiutare a far tornare i giovani nei propri luoghi natali e se negli ultimi anni abbia avuto la sensazione che questo sia avvenuto.
“Sì l’agricoltura e il turismo riportano le persone, in particolare i giovani, nel territorio. Mi correggo, non riportano… attirano. Non ci sono solo rientri, bensì nuovi innesti, se guardiamo agli ultimi esempi virtuosi del nostro Paese. Alcuni giovani scelgono un territorio e poi lo abitano, ci lavorano, se ne prendono cura quasi come se fosse il loro, come se avesse dato loro i natali. È una scelta dettata dal bisogno di ritrovare o di trovare per la pri-
ma volta un luogo con significati e sensibilità diverse”. In questo, ci ricorda Arianna, aiuta anche il cambiamento delle condizioni di chi fa agricoltura.
“L’agricoltura non è più figlia della povertà assoluta. Negli ultimi anni, in particolare negli ultimi dieci, è cambiato tutto. Oggi essere agricoltori vuol dire avere una vita dignitosa, potersi permettere ciò che gli altri possono permettersi, ma anche viaggiare per raccontare i proprio prodotti, affacciarsi al mondo. L’Italia non può pensare di prescindere da questo, di scollarsi dalla propria natura: è un collettore di persone che si prendono cura della propria terra e deve ragionare in questi termini per il futuro”.
Come racconterebbe Arianna Occhipinti i suoi vini? Abbiamo avuto la fortuna di poterglielo chiedere.
“I miei vini devono raccontare il mio territorio tenendo conto di due aspetti: quello etico e quello agricolo. La componente agricola, vitivinicola, te l’ho già spiegata. Si traduce in vini sanguigni, eleganti, freschi, che non ti aspetteresti di trovare nell’area mediterranea. L’’etica è l’altro anello fondamentale della mia azienda; riguarda il ritorno, il recupero della terra, il fare squadra tra persone che lavorano assieme. Ma a mio avviso l’etica passa anche per la veridicità del racconto. Il mondo è fatto di tanti racconti. Alcuni veri, altri no. Addito la non coerenza, non il percorso scelto. Si può credere in una viticoltura convenzionale o in un approccio naturale, l’importante è che si rispetti ciò che si dichiara. A tal proposito credo che ci sia bisogno di educare alla sensibilità per dare alle persone gli strumenti per capire prima di scegliere quale bottiglia o cibo acquistare”
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Autrice: Simona Vitali
Vedere l’arte oltre il quadro, la fotografia, l’opera conclamata, meglio, vedere l’arte dove altri vedono stancamente solo immagini di ordinaria amministrazione.
Vedere l’arte che sono, sanno essere, il cibo e il vino di nicchia, e saperli celebrare, valorizzare, mettere in risalto attraverso accorgimenti inusuali, come meritano.
Chi può fare questo in un circuito ormai troppo autoreferenziale, capace solo di lanciare tendenze che poi vengono scimmiottare fino alla nausea?
Ci hanno insegnato che quando i margini si fanno troppo stretti bisogna aprire per dare respiro, fare entrare aria nuova, nuova linfa. E difficilmente queste energie possono arrivare dal di dentro. L’apporto, il contributo deve venire dall’esterno, da chi è meno invasato e ha mente più sgombra, e magari opera in settori affini a questo nostro mondo.
Fausto Brozzi, architetto applicato al design, fotografo e artista di fama mondiale nonché curatore di mostre internazionali come “World art in Venice” e ancora produttore di culatelli a numero chiuso (200 e non di più!), lo abbiamo conosciuto in occasione di Extraordinary Food&Wine, la mostra – e non fiera! - di prodotti enogastronomici di nicchia da lui steso ideata e realizzata a Venezia.
“Insieme a due chef di cui ho molta stima, Igles Corelli e Bruno Cingolani, – ci spiega Fausto Brozzi - abbiamo selezionato 50 produttori di qualità, che a mio avviso non fanno prodotti ma arte, perché ci mettono il cuore, l’anima e la mente, e che per due giorni hanno esposto e incontrato operatori di settore presso l’esclusivo Hotel Monaco&Gran Canal, sul Canal Grande a 50 metri da Piazza San Marco e 20 metri dalla <via Montenapoleone veneziana>”.
“Ho scelto Venezia perché è una città attrattiva. Non puoi dire di no ad un invito a venirci a fare visita. Grazie al mio percorso lavorativo ho amici in tutto il mondo e quando li chiamo invitandoli a fare un weekend a Venezia mi rispondono subito “Arrivo!”. All’Hotel Monaco&Gran Canal sono arrivato in un secondo tempo, dopo aver organizzato la prima edizione a cà Zanardi - già sede della mostra “Word art in Venice” che ho curato per anni - splendida villa storica ma per qualcuno un pochino impegnativa da raggiungere, in una città come Venezia. Ho deciso così di optare per questo hotel – non da meno per la storia che gravita, per i personaggi che lo hanno frequentato nel tempo e per quell’eleganza di un ambiente che trasuda di arte - nell’intento di rendere il più agevole e piacevole possibile l’accesso a questa mostra. Ho inteso inserire l’arte in modo molto delicato, con sfumature eleganti perché si creasse charme, in un contesto in cui cibo e vino erano i protagonisti”.
Extraordinary Food&Wine si è palesata come una due giorni fatta di momenti a sorpresa, tra i blitz di Corelli e Cingolani a prelevare prodotti nelle postazioni dei produttori per improvvisare piatti da far assaggiare agli ospiti, presentazioni di libri, spazi musicali impegnati - a dare atmosfera alla cena di consacrazione
dell’evento direttamente sul Canal Grande, sospesi, come su una piattaforma tra acqua e cielo.
Tangibile la soddisfazione dei produttori per un pubblico scelto, interessato e attento.
Marcare la differenza si può, ma bisogna essere dotati di quel guizzo creativo che, attraverso la cura anche di piccoli particolari, trasformi come per magia la percezione di ciò a cui ci stiamo dedicando.
Dicevamo che Fausto Brozzi produce, per scelta, un numero limitato di culatelli, come è tradizione di famiglia (il nonno era produttore). Pochi pezzi, non oltre 200, che diventano oggetto di estrema cura. Dalla produzione, alla particolare stagionatura fino alla presentazione, che suona diversamente dall’industriale termine packaging. Il culatello di Fausto Brozzi si presenta come un gioiello a tutti gli effetti: legato con una corda nera - non quella utilizzata solitamente per gli insaccati - appositamente studiata per farne meglio risaltare le forme, il culatello viene presentato in un forziere di noce massiccio con il marchio Brozzi scandito in verticale a caratteri in metallo tridimensionali e un rubino sintetico incastonato nel legno. E poi l’invito a degustarlo con lo champagne e il comunicarlo con un’immagine che ritrae un avvenente fondoschiena femminile artistico affiancato al culatello stesso. Ecco il Brozzi irriverente, provocatore e libero che nel suo studio di Colorno (PR), fra geniali opere esposte ed accatastate, esprime tutta la sua versatilità. Opere concettuali, di immediatezza disarmante, che hanno riscosso successo nelle tante mostre in giro per il mondo. Sì, abbiamo bisogno di designer, stilisti e artisti che ci aiutino a valorizzare ciò che è buono rendendolo più bello, appetibile e fortemente desiderabile!
“Gianfranco Pascucci e Vanessa Melis, i titolari del Porticciolo a Fiumicino, sono una coppia che è riuscita, nella vita e nella professione, a tenere sempre fede all’ideale. Cosa intendiamo per ideale? Un comportamento onesto, scelte coraggiose e condivise, un affetto che traspare ogni volta che li vedi insieme”. Così, nella rete Amodo, vi abbiamo raccontato il progetto di Gianfranco e Vanessa. Una forma che si basa sull’ideale ma è in divenire, mai sazia di ammodernamenti, nuove cuciture, nuovi significati.
Una nuova sala
In questi anni il percorso è stato segnato da fondamenta solide, ma anche dalla voglia di apportare migliorie, di garantire una visione durevole e approfondita del fare accoglienza e ristorazione.
“Abbiamo sempre come obiettivo il miglioramento e questo non riguarda solo la cucina, coinvolge diversi spazi del nostro progetto” - ci racconta Gianfranco.
Il cambiamento riguarda sicuramente le materie prime, i piatti, ma anche le scelte che esulano dal cibo e sono visibili agli occhi, come il restyling della sala, ora appoggiata su una nuova pavimentazione e contornata da linee più moderne e contemporanee.
“Avevamo bisogno di una modifica strutturale, più funzionale alle nostre esigenze e alla percezione di leggerezza. Oltre a questo c’è un’altra componente nuova in sala, funzionale al nostro racconto: i quadri alle pareti, realizzati dall’artista Gabriele Leonardi. Sono quadri che raccontano il mare in modo coinvolgente, in cui sono ritratti pesci, in particolare le alici, e che danno un ulteriore sensazione di immersione a chi prende posto al tavolo”.
Avere il mare anche sulle pareti non è solo una scelta estetica. È una dichiarazione d’intenti per Gianfranco e
Gianfranco PascucciVanessa. Al Porticciolo, infatti, s’intende raccontare una cucina non di pesce ma di mare.
“C’è un mare blu, profondo, e un mare più verde, più saporito. Noi il mare lo contempliamo tutto, anche quello d’affaccio. In questi anni abbiamo cercato di raccontare anche la terra di prossimità al mare perché le note marine, la salsedine, i profumi arrivano anche lì, anche ai bordi della terra prima del mare. Limitarsi a raccontare solo ciò che c’è dentro al mare, al mare profondo, ci priverebbe di un capitolo interessante, ricco, se vogliamo anche fino a pochi anni fa poco esplorato”.
Gli ingredienti che si formano al ridosso del mare hanno delle caratteristiche inimitabili. Pensiamo ai limoni e ai pomodori di un altro territorio, la Costiera Amalfitana, ai vini delle isole minori e maggiori, ottenuti da uve accarezzate dalle brezze del mare. Oppure pensiamo alla panna che, proprio Gianfranco, acquista da un produttore locale per ricavarne la farcitura dei maritozzi.
“È una panna che ha note salmastre straordinarie, completamente diverse da una panna dell’entroterra. Il dialogo in un territorio si concretizza anche in questo, nella connessione. È così che la cucina diventa un racconto unico, coerente”.
Gianfranco e Vanessa tengono saldamente insieme questi due termini, sala e cucina (noi non possiamo che esserne orgogliosi!). La motivazione c’è, inopinabile: “La collaborazione tra chi lavora in sala e chi si occupa della cucina è la forza più prorompente di un ristorante. Se si ambisce a trasmettere gioia e armonia al cliente queste due componenti devono lavorare assieme. Anche il portare fuori dalla cucina è una chiave utile alla comuni-
cazione. Per esempio finire in sala alcune preparazioni consente di allungare il piacere, la percezione dei profumi, la presenza del mare. E poi bisogna fare delle scelte insieme, anche se gli spazi sono diversi il campo è lo stesso. Insieme per esempio abbiamo deciso di ridurre i coperti, gradualmente, per riservare ancora più attenzioni ai nostri ospiti”.
Queste recenti novità, unite alle strade già percorse con determinazione da Gianfranco e Vanessa - l’attenzione all’ambiente, alle oasi del WWF, ai campi attorno a Fiumicino dove alcuni agricoltori usano la tecnica naturale del sovescio per mantenere e aumentare la fertilità dei terreni - sono l’ulteriore conferma che Il Porticciolo è un locale modello per Amodo, un’ispirazione per chi mira a far ristorazione nel modo più sano e coerente che ci sia.
(Le citazioni sono del testo Fisiologia del Gusto di A. Brillat-Savarin edito da Sellerio 1998 a cura di Michel Guibert e traduzione di Roberta Ferrara)
Molte furono le novità in cucina in seguito alla Rivoluzione Francese (1789). Tra queste, due divennero le più interessanti per la storia della gastronomia: il nuovo ruolo dell’alta borghesia che si prese lo spazio lasciato dall’Ancien Régime nella società, nella cultura e, naturalmente, in cucina, e la nascita dei ristoranti. Fu in questo periodo, infatti, che nacque la figura del gourmet, letterato ed esperto di buon gusto nella vita e a tavola, dal palato esigente ed elegante, abile conversatore e acuto osservatore, frequentatore di ristoranti e, quindi, preparato a educare i nuovi ricchi. D’altronde ricevere ed essere ricevuti, invitare e farsi invitare, era un’arte da insegnare e apprendere.
Tra questi illustri intellettuali e magnifici anfitrioni ci furono Charles-Maurice de Talleyrand (17541838), statista e diplomatico, i cui successi al Congresso di Vienna (1815) passarono sicuramente attraverso i ricchi banchetti da lui organizzati. Vi fu, poi, Alexandre Balthazar Laurent Grimod de
La Reynière (1758-1837), magistrato e habitué dei numerosi ristoranti sorti a Parigi dopo la Rivoluzione, dei quali curò una sorta di guida dal 1803 al 1812, l’Almanach des Gourmands. In Italia, un vero gourmet fu il medico Giovanni Rajberti (1805-1861), che ne “L’Arte di convitare spiegata al popolo” del 1850 descrisse i modi di ospitare e stare a tavola.
A questi si aggiunse Jean Anthelme Brillat-Savarin (1755-1826) autore de La fisiologia del gusto o meditazioni di gastronomia trascendente (1825), tutt’ora piacevolissimo e testo fondamentale per la storia della gastronomia.
Nato nel 1755 a Belley nella regione dell’Alvernia-Rodano-Alpi, Brillat-Savarin sopravvisse al Terrore trasferendosi in Svizzera e negli Stati Uniti dove rimase alcuni anni, ampliando i suoi orizzonti gastronomici, inseriti poi nel testo, in gustosi aneddoti. Nel 1796 rientrò in Francia come giudice della Corte di Cassazione e morì a Parigi nel 1826, poco tempo dopo l’uscita del libro.
Uomo brillante e letterato, visse molte vite: fu avvocato, giudice, politico, ufficiale, autore di serissime opere di
economia e giurisprudenza, professore di francese, musicista ma anche, e soprattutto, buongustaio.
Inizialmente anonimo e pubblicato a sue spese, La fisiologia del gusto è suddiviso in due parti. La prima presenta 20 gustosi aforismi, uno dei quali è sulla puntualità a tavola, così cara all’autore: “per il cuoco, la puntualità è la dote più indispensabile: tale deve essere anche per l’invitato”. Un altro è, invece, sulla cucina: “la scoperta di un nuovo piatto contribuisce molto di più alla felicità umana della scoperta d’una nuova stella”. Seguono 30 capitoli o “Meditazioni”, riflessioni su diversi temi quali i comportamenti da tenere a tavola, spiegazioni scientifiche sul gusto, sulla chimica delle cotture e degli alimenti e sulla botanica. Vi è poi la storia e le qualità del caffè, del vino, del cioccolato e dello zucchero e gli effetti positivi di una corretta alimentazione sul sonno e sul peso corporeo. Spassosa, tra le altre, è la Meditazione VII dal titolo la “Teoria della frittura” dove Brillat-Savarin apostrofa il povero Maestro La Planche, cuoco del professore, come
Louis-Jean Allais, Public domain, via Wikimedia Commons“
friggitore incerto” perché si era permesso di servire una sogliola non cotta a regola d’arte, “bianchiccia, molle e scolorita”, giudicata una vera calamità. Il gastronomo avvia, quindi, una spiegazione per una buona frittura, affidata alla tecnica della “sorpresa”, ossia al brusco istante in cui il cibo viene “sorpreso” e immerso in olio bollente, creando così una crosta tutt’attorno.
La seconda parte è una miscellanea di avvenimenti e osservazioni, con l’inserimento di qualche strana ricetta come “l’omelette del curato”, una frittata al tonno “tonda, panciuta e cotta a puntino”.
Il testo termina con un “congedo” una sorta di passaggio di testimone a tutti i futuri gastronomi e l’invito a “lavorare per il bene della scienza”, Le pagine sono ricche di aneddoti, talvolta esilaranti, consigli, conversazioni private e riflessioni dell’autore sulla gastronomia ma non solo: la novità di questo testo è una narrazione teorico-filosofica sui sensi, sul piacere, sul gusto e, soprattutto, sulla tavola imbandita come centro della socialità e della società, intrecciando, per la prima volta, sociologia, antropologia, psicologia e sensorialità. Con uno stile comprensibile a tutti e piacevole, mentre presenta ricette e consigli sulla riuscita di un pranzo, Brillat- Savarin disserta sull’esistenza umana, “esaurimento” compreso.
La fisiologia del gusto fu un divertissement letterario per l’autore, di grande successo solo dopo la sua morte, e una novità per i suoi contemporanei: il pubblico, abituato ai classici libri di ricette di cucina, si trovò di fronte a un’opera innovativa e curiosa, sospesa tra opera scientifica ma leggera nello stile e un’opera letteraria e filosofica ma divulgativa.
Il più gourmand dei gourmands
Fu proprio Brillat-Savarin, nelle Meditazioni XI e XII, a descrivere la figura del gourmet e la gourmandise, termine appena nato, dipinta come “una preferenza appassionata, ragionata e abituale per tutto ciò che è gradevole al palato” e ancora “uno dei più forti legami sociali”, avvicinando a tavola uomini di diversa estrazione sociale ma nemica degli eccessi.
Per essere gourmet non basta volerlo, scrive Brillat-Savarin bisogna nascerci. I migliori compagni di tavola, ça va sans dire, vanno cercati tra questi che “mangiano lentamente e assaporano con discernimento”. Non hanno fretta di andarsene, sanno tenere una conversazione brillante e conoscono tutti i passatempi per la perfetta riuscita di una serata.
Nel libro è descritta, poi, la grande differenza tra il piacere di mangiare e quello della tavola: il primo è un bisogno da soddisfare, mentre il secondo è “di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutti i paesi e di tutti i giorni;
può associarsi a tutti gli altri piaceri e rimane per ultimo a consolarci della loro perdita”. È, anche, il piacere percepito dai commensali per la cura e l’attenzione loro riservata nella preparazione del pasto anche attraverso decorazioni, musica e illuminazione, in modo che “dopo un buon basto, il corpo e l’anima godono di uno speciale benessere”. D’altronde “invitare qualcuno significa farsi carico della sua felicità durante tutto il tempo che passa sotto il nostro tetto”.
Ecco la ricetta di Brillat-Savarin per una riunione conviviale ben riuscita: il numero dei partecipanti mai maggiore di 12, puntuali e selezionati per “varietà delle occupazioni e affinità di gusti” con “gli uomini spiritosi senza pretese e le donne amabili senza troppa civetteria”. La tavola deve risultare pulita e ben preparata, con poche ma ottime portate accompagnate da vini eccellenti, e “gli invitati si comportino come viaggiatori che devono raggiungere insieme la stessa meta”, mai allontanandosi prima delle undici, “ma che a mezza notte tutti siano a letto”.
Boccioni prima del futurismo
FONDAZIONE MAGNANI-ROCCA
9 settembre – 10 dicembre 2023
Tutti abbiamo in tasca una scultura di Umberto Boccioni riprodotta sulle monete da 20 centesimi. Si tratta di Forme uniche della continuità nello spazio, un capolavoro del 1913 che l’ha reso celebre in tutto il mondo. Simboleggia il movimento e la fluidità di un corpo umano che con un’ampia falcata si proietta in avanti tirandosi dietro i fasci muscolari “scorticati” come cere anatomiche settecentesche. Con Forme uniche… Boccioni chiude con la scultura tradizionale per aprire il suo rivoluzionario percorso Futurista. Alcune versioni in bronzo di questa sorprendente scultura, che muta il suo effetto dinamico cambiando il punto di osservazione, si trovano nelle collezioni del Museo del Novecento a Milano, alla Tate Modern di Londra, al MoMA e al Metropolitan Museum di New York e una alla Galleria Nazionale di
Cosenza per volontà dell’amico e mentore Filippo Tommaso Marinetti dopo la morte dell’artista che nella città calabrese era nato da genitori romagnoli. In realtà, l’opera originale di Boccioni, oggi esposta al Museo di Arte Contemporanea di San Paolo del Brasile, è in gesso e nel corso della vita dell’autore non venne mai prodotta la fusione in bronzo. Se potete, andate ad ammirarla in questi musei, oppure cercatela sul web, perché di quest’opera non troverete traccia nell’imperdibile esposizione curata alla Fondazione Magnani Rocca da Virginia Baradel, Niccolò D’Agati, Francesco Parisi, Stefano Roffi. Qui si va alla scoperta del Boccioni pre-futurista, dal 1899 fin quasi al 1910, prima dell’elaborazione del Manifesto dei pittori futuristi, con quasi 200 opere contrappuntate da alcuni suoi capolavori assoluti nei quali il tratteggio o la trama di pennellate “in movimento” prefigurano gli sviluppi futuri della sua scultura. Si comincia dagli anni della formazione fino ai soggiorni a Roma, dove Giacomo Balla lo introduce alla nuova tecnica divisionista, poi Venezia, Parigi e Milano, in una continua evoluzione documentata dall’eterogeneità della sua produzione con diverse tecniche, olio su tela, disegno, incisione, incluse le illustrazioni a tempera per finalità commerciali. L’accostamento di opere di Segantini, Balla, Severini, Previati, Sironi, Carrà e altri, segnala le ascendenze che contribuirono a definire la personalità artistica di Boccioni. Il catalogo, di Dario Cimorelli Editore, comprende i saggi dei curatori e contributi scientifici che arricchiscono il volume con tutte le opere in mostra illustrate a colori. L’esposizione è realizzata grazie al contributo di:
Fondazione Cariparma, Crédit Agricole Italia. Media partner: Gazzetta di Parma, Kreativehouse.
La Fondazione ha il merito di realizzare periodicamente mostre temporanee di grande interesse, ma non perdetevi la prestigiosa collezione permanente di Luigi Magnani che annovera, tra le altre, opere di Gentile da Fabriano, Filippo Lippi, Carpaccio, Dürer, Tiziano,
Rubens, Van Dyck, Francisco Goya e, tra i contemporanei, Monet, Renoir, Cézanne, De Chirico, De Pisis, Burri, 50 opere di Morandi, oltre a sculture di Canova e Bartolini
Mamiano di Traversetolo – Parma
info@magnanirocca.it
Tel. 0521 848327 / 848148
Un piccolo mondo con tutto il buono della tradizione parmigiana
Saziato lo spirito ci si può occupare di un altro tipo di appetito. La meta questa volta è la Trattoria Ai Due Platani, nella piccola frazione di Coloreto, appena fuori Parma, a un quarto d’ora di auto dalla Fondazione.
Il locale, fondato negli anni ’20, fin dal 1960 diventa un punto di riferimento per i parmigiani passando attraverso diverse gestioni familiari. Dal 2005 la trattoria viene rilevata da tre soci, Giancarlo Tavani, Gianpietro Stancari e Mattia Serventi, provenienti da lunghi periodi in importanti locali in Italia e in Europa. All’ingresso si rimane subito colpiti da alcune preziose presse, fra cui una di Christofle, emblema dell’alta cucina francese per la preparazione della Canard à la Presse
Il servizio in sala è informale e celere considerando che a pranzo, di mercoledì, c’erano una cinquantina di clienti. Si occupa dei vini Maura Gigatti, delegata Donne del Vino per l’Emilia Romagna, che ha la dote preziosa di entrare in sintonia col cliente, capendo se osare o meno negli abbinamenti.
Il menu segue la stagionalità, con prezzi d’assoluta onestà: paste fresche e ripiene preparate al momento, ricette del territorio, carne da cortile e selvaggina. I salumi sono selezioni di piccoli produttori artigianali: pro-
sciutto crudo di Parma 30 mesi di Giorgino Tanara, da Moragnano, pancetta 36 mesi “Selezione Cav. Ferrari Bruno Mulazzano Ponte”, salame stagionato 60-90 giorni “Bocchi Lucedio, Fornovo”, Parmigiano – Reggiano 24-27 mesi di Ravarano Casello 3084, solo per citarne alcuni. Sarebbe grave colpa non assaggiare i salumi con la torta fritta, poi i tortelli d’erbetta e di zucca, gli anolini in brodo di cappone; per la classica lasagna al forno bisogna prenotare la domenica a pranzo. Evocano ricordi d’infanzia alcuni piatti ormai raramente proposti, come l’insalata di nervetti di vitello con cipollotto e asparagi verdi, poi l’occhio cade sul “Piccione, petto e coscia, con pane alle noci, carciofi e ribes”, che supera l’esame a pieni voti. Chiude sempre il pasto il gelato alla crema con vaniglia mantecato al momento con una “Carpigiani” del 1964. Tavani arriva in questa trattoria dopo avere lavorato come barista in Francia e a Maiorca. Si sposta a Londra come manager di un locale di cui diventa socio. Nei periodi di riposo gira per cucine e gli capita di arrivare all’Ambasciata di Quistello dove incontra il suo attuale socio Giampietro Stancari A metà degli anni ‘90 finisce per passare dalla sala alla cucina e ricomincia studiare. Chiude con la Spagna e l’Ambasciata lo richiama in cucina dove comincia a maturare l’idea di una trattoria. L’occasione si presenta quando vengono a sapere di un
locale a Coloreto che i titolari cedevano per avanzata età. In quegli anni il mondo delle trattorie stava vivendo momenti di difficoltà perché via via venivano a mancare i capisaldi di quel modello di ristorazione familiare, la mamma, la nonna, la zia, il papà. I tre decidono di rilanciare a modo loro quella formula.
Da allora a curare la sala c’è Mattia Serventi, ai fuochi Giampietro Stancari, che pratica una cucina parmigiana con qualche richiamo alle proprie origini mantovane e a quelle cremonesi di Giancarlo che si alterna tra cucina e organizzazione della sala. Quando finisce il tempo delle zucche, in menu entra il tortello di ciliegie, che hanno ripreso dalla zona di Ceresara nel mantovano, a base di composta di ciliegie addizionata con Parmigiano, sugo della mostarda, burro fuso e salvia fritta.
La trattoria si fregia del Bib Gourmand sulla Guida Michelin e fa parte delle Premiate Trattorie Italiane. Col tempo hanno selezionato una bella clientela, molti habitué che quando escono prenotano già il tavolo per la volta successiva. Tante le famiglie, coppie ma anche singoli che qui non soffriranno la solitudine. Tra pranzo e cena servono mediamente 120 coperti al giorno, non facendo turni. Con una bella novità: l’apertura imminente della Bottega dei Due Platani, un negozio di gastronomia, di fianco alla trattoria, per permettere di gustare anche a casa i loro piatti, il gelato e la pasta fresca sempre preparata al momento dell’ordine.
Autore: Luigi
Tra destagionalizzazione, rincari e infrastrutture: dove sta andando il settore?
Non è ancora tempo di bilanci, ma per il 2023 il settore turistico italiano conta di registrare ulteriori dati in crescita. Il primo trimestre dell’anno ha avuto una crescita di flussi internazionali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Il 2022 ha segnato un +42% di viaggiatori provenienti dall’estero, a cui si somma una rinnovata voglia di turismo interno a partire dal periodo pandemico. Un’Italia amata soprattutto dagli americani, ma anche da francesi e spagnoli. Eppure, il Nord continua ad avere un vantaggio competitivo netto, dovuto alle infrastrutture e, più in generale, alla mobilità.
“L’organizzazione turistica al Centro Nord è molto più strutturata, parliamo di aziende speciali nate in alcune aree da più di un decennio. Aggregazione, cooperazione, consorzi e reti: al Sud l’unione per competere sui mercati è un concetto che ancora non appartiene all’imprenditoria che si occupa di ricettività. Tranne Napoli, Bari, Palermo e Catania: abbiamo aeroporti non ancora in grado di accogliere grandi flussi turistici”.
A confermare la percezione di un turismo a Sud che stenta a decollare è Michelangelo Lurgi, fondatore e presidente di Rete Destinazione Sud, un progetto nato proprio per unire imprese, istituzioni, associazioni, consorzi, opinion leader e stakeholder del Sud Italia.
Destagionalizzare: è possibile solo con il turismo internazionale
Il turismo domestico fotografa una situazione abbastanza equilibrata, gli italiani si muovono all’interno del Bel Paese in maniera uniforme. È, invece, il turismo estero che manifesta le difficoltà del settore: un turista straniero su 10 che arriva in Italia si ferma nel centro Nord.
“Ad avere una certa vivacità sono la Campania, la Puglia e la Sicilia, praticamente inesistente il flusso su Basilicata, Calabria e Molise. Eppure, promuoversi sul mercato estero ci aiuterebbe a raggiungere finalmente la tanto agognata destagionalizzazione, visto che gli stranieri (a differenza degli italiani) vengono in vacanza da aprile a novembre. Purtroppo, la nostra offerta è ancora quasi totalmente legata al mare. Napoli, Pompei, Catania, Palermo e Lecce: sono poche le città che davvero funzionano a prescindere”, afferma Lurgi È la Campania, tra le regioni del Mezzogiorno, a guidare la classifica delle presenze: 17,8 milioni. Cifre che la vedono presenziare al settimo posto a livello nazionale, seguita da Puglia e Sicilia.
Guardando ai comuni, invece, il primo per presenze turistiche è Napoli, il quale si posiziona al sedicesimo posto in Italia con 2,7 milioni, di cui 1,3 milioni di stranieri. A seguirlo sono Sorrento (al diciottesimo posto) e Vieste (Gargano, Foggia), che si posiziona al venticinquesimo posto tra i comuni italiani. Una evidente conferma di quanto, tranne poche eccezioni, l’Italia sia soprattutto associata al mare.
Stagionale e poco professionale: i limiti del turismo meridionale
Innumerevoli borghi, aree naturalistiche protette, parchi nazionali e regionali, Patrimoni UNESCO, chilometri di coste: il Sud Italia è molto più delle solite mete a cui si pensa. Ma sono ancora tante le destinazioni che stentano ad entrare nei percorsi più battuti, lasciando la sensazione che si stiano perdendo occasioni preziose per combattere spopolamento e disoccupazione.
L’estate 2023, segnata dall’allarmismo dei rincari, ha visto rientrare molti degli aumenti indiscriminati, tanto da non aver portato a particolari diminuzioni di presenze.
“
Siamo un mercato stagionale che non ci consente di essere competitivi. Se la struttura lavora pochi mesi l’anno non è sostenibile e deve fare i conti con addetti ai lavori che non possono essere professionisti. Questi ultimi si spostano dove possono lavorare tutto l’anno o quasi, dunque all’estero o al Nord Italia, al massimo in quelle città d’arte dove il flusso è relativamente costante”. Sono le forme di aggregazione più disparate a consegnare, ancora una volta, la possibile svolta.
Relais Blu a Massa Lubrense“I mercati esteri andrebbero aggrediti in maniera più marcata con la presenza alle fiere internazionali di un pool di promozione che metta insieme gli operatori, soprattutto quelli del mercato interno del meridione. Bisogna lavorare sui voli, far forza su questi ultimi, restando uniti”, spiega il presidente di Rete Destinazione Sud.
Il trend in crescita negli ultimi anni, soprattutto nel Sud Italia, si conferma il turismo esperienziale È così che si definisce quel modo di viaggiare che sceglie di avvicinarsi al luogo e alla popolazione locale, partecipando ad alcune attività e non limitandosi a visitare le attrazioni turistiche.
“Fino a pochi anni fa era la distanza chilometrica a fare il viaggio. Si era alla ricerca di mete esotiche e di posti lontani, abbiamo esasperato questa tendenza che è partita negli anni Novanta. Con la pandemia, invece, si è fatta strada l’Italia delle aree interne. È tornato il piacere di restare in zone di prossimità e di vivere borghi e tradizioni. Trovo che nel turismo esperienziale ci sia il vero futuro del turismo italiano e soprattutto meridionale. Si è sempre più alla ricerca di autenticità, è con quello che si diventa attrattivi”.
Il Ministero del Turismo stima che, oggi, sono all’incirca
80 milioni le persone nel mondo interessate al turismo delle radici o di ritorno. Si tratta del desiderio di conoscenza della storia familiare e della cultura d’origine degli italiani residenti all’estero e degli italo-discendenti.
“Ritengo si tratti della più grande arma di cui abbiamo a disposizione per valorizzare il turismo dei borghi, delocalizzare e destagionalizzare i grandi flussi. I nostri connazionali che sono dovuti emigrare sono partiti sostanzialmente da piccoli borghi, lì dove c’era maggiore povertà. Oggi il ritorno di chi ce l’ha fatta, e anche di chi semplicemente vuole vedere con i propri occhi la vita che avrebbe avuto, è una grande occasione”, sottolinea Lurgi.
Una potenzialità che mostra immediatamente i suoi frutti quando alcune personalità del mondo della politica o dello spettacolo vengono coinvolte in iniziative nel proprio paese di origine.
Ad inizio settembre, ad esempio, la star hollywoodiana Sylvester Stallone e suo fratello Frank sono diventati cittadini onorari di Gioia del Colle, in Puglia. Una cerimonia pubblica ha coinvolto l’intera cittadinanza, le autorità e i turisti, sottolineando agli esperti del settore quanto possa far bene alla piccola Italia il turismo di ritorno. Le storie di emigrazione, di sacrificio e di successo dei propri avi sono un’attrazione ineguagliabile per gli italo-discendenti nei cinque continenti.
Fontane Bianche a Siracusa Architiello sul GarganoParliamo di un prodotto caseario in netta ascesa negli ultimi anni, la burrata, ma lo facciamo in modo non convenzionale.
Ovvero non decantandone subito le peculiarità, ma parlando di numeri.
I dati parlano di una crescente richiesta dei nostri formaggi nel mondo e questo deve essere un motivo di vanto, un punto su cui ragionare per impostare un’economia fiorente e solida. Inserirli nei vostri menu, preferendoli a prodotti di provenienza straniera, non è una scelta scontata o banale ma è una scelta che aiuta il settore caseario italiano.
Molto potete fare anche voi, in qualità di ristoratori. Come? Torniamo anche questa volta ad una locuzione imprescindibile, cioè cultura di prodotto. Nei vostri ristoranti, nelle vostre osterie o botteghe, avete la possibilità di comunicare con la clientela locale ma spesso anche con una sostanziosa fetta di stranieri. Non limitatevi a servire il prodotto, in questo caso la burrata. Raccontatela, spiegatene le origini, la modalità di preparazione, le peculiarità organolettiche. Curatela nella presentazione e se decidete di trasformarla non snaturatela: quando l’ingrediente è buono merita di essere riconoscibile da qualsiasi palato.
La burrata è un formaggio delicato, morbido, avvolgente, cremoso, fresco.
È costituita da una sacca di pasta filata che racchiude all’interno sfilacci di mozzarella arricchiti di panna (sì, la conoscete, la stracciatella). Presenta una superficie liscia, un colore bianco madreperlaceo e una consistenza in genere molto morbida. È un prodotto tipico della tradizione casearia pugliese, in particolare della provincia di Bari, ma la sua diffusione ormai ha varcato non solo i confini regionali.
Rappresenta di per sé (anche senza subire trasformazioni) un prodotto ad alto contenuto di servizio: accompagnata a un buonissimo salume o a un’insalata di verdura o frutta può costituire un piatto unico, velocissimo da preparare, perfetto in qualsiasi stagione. Senza contare che oggi è utilizzata sempre di più anche sulla pizza o su altri prodotti da forno.
Ricordate di conservarla e servirla a corretta temperatura e di abbinarla a prodotti che esaltino la sua delicatezza, non troppo aggressivi. Nell’abbinamento per contrapposizione – cioè con un prodotto secco e salato, come il prosciutto crudo – è perfetta.
La burrata Delizie di Latte
Nella scelta di quale burrata offrire nel vostro ristorante vi suggeriamo la Burrata Delizie di Latte, tra le referenze a marchio del gruppo Cateringross. Si tratta di una burrata realizzata solo con latte pastorizzato, panna UHT 48%, fermenti lattici, sale, caglio. Il latte è di origine italiana (una caratteristica che va evidenziata!!). La lavorazione di mani esperte dona a questa burrata tutti i connotati classici di questo buonissimo e versatile prodotto.
Autenticità e sapore inimitabili
Una eccellenza alimentare per la tua cucina
Chiedili al tuo fornitore Cateringross
www.cateringross.net
Autrice: Giulia ZampieriUn’energia dirompente, un treno di idee che aspettano solo di diventare progetti e risultati.
È quello che si raccoglie parlando con Giulia Vicini e Giulia Zanni di Giuly Pizza, una colorita pizzeria di paese situata a Quintano, in provincia di Bergamo. Un micro mondo che profuma di rivoluzione e vale la pena conoscere sin dalle prime ore.
I più attenti alle cronache del mondo pizza avranno già associato questi nomi agli ultimi Campionati Mondiali della Pizza tenutisi a Parma. È lì che Giulia&Giulia hanno ottenuto due importanti risultati: il Premio pizza Sostenibile e il Terzo posto conquistato nella categoria pizza classica (una delle più competitive). Le due ragazze lavorano entrambe nel locale inaugurato nel 2012 da Marco Vicini, padre di Giulia. Ancora oggi Marco presenzia in pizzeria, lasciando spazio alle nuove proposte, ma tenendo saldo il baricentro su ciò che è stato fatto negli ultimi dieci anni.
Giulia ci ha lavorato dentro praticamente sin da subito, respirando gli impasti, imparando a gestire il forno, studiando nuove materie prime da introdurre in dispensa. È cresciuta talmente tanto che oggi con l’altra Giulia, intimamente legata all’attività da quando era apprendista, stanno conducendo la pizzeria con una visione precisa e versatile al tempo stesso.
Di sogni nel cassetto ne hanno da vendere.
In questi anni la pizzeria si è affermata acquisendo una clientela nuova ma anche fidelizzando quella preesistente, grazie alla proposta ampia, variegata, che contempla pizze classiche e voci più innovative.
Giulia&Giulia hanno dentro il seme della scoperta: si dedicano all’aggiornamento, ai corsi e ai libri, per innovare gli impasti, la tecnica, le farciture.
“Quanto dedichiamo alla ricerca? Non è quantificabile, ragioniamo, ipotizziamo, proviamo tutti i giorni, anche di notte!” ci confessa Giulia Vicini. Nelle loro parole si percepisce la voglia di ammodernare, la passione per l’agricoltura, per i vegetali, per l’etica.
“Crediamo che la qualità del cibo sia oggi uno dei valori più importanti. Abbiamo la possibilità di mangiare bene e di fare del bene con le nostre decisioni. È una questione di scelte” ci dicono all’unisono. Le loro scelte sono orientate alla stagionalità, alle farine non raffinate, ai vegetali. Sugli impasti c’è una sperimentazione marcata, ormai segnata da paletti invalicabili. Il contemporaneo è l’impasto che si può trovare sempre, privo di farine raffinate, da cui nasce una pizza con il cornicione alto. Poi si aggiungono le proposte settimanali come il multicereali, l’impasto con il grano arso, con il riso venere. In ogni caso la costante è la presenza di farine di alta qualità e la scelta di grani antichi. Tanto da dire anche sulle farciture: sono attente agli sprechi, all’utilizzo per intero dei prodotti, alla territorialità, alle potenzialità di frutti, ortaggi e semi.
Che miglior modo c’è di capire i giovani, se non quello di parlare con loro? Giulia&Giulia hanno un’idea precisa sulle nuove generazioni.
“La nostra voglia è davvero incontenibile, siamo mosse da una grande passione che ci spinge a guardare avanti, a cercare il miglioramento. Siamo comunque consapevoli che nel nostro settore, e più in generale della ristorazione, ci sia una grande carenza di risorse giovani. Non è semplice trovare personale, sembra ci siano delle priorità incompatibili con i tempi e i ritmi di un’attività che fa accoglienza. Crediamo che ci sia più bisogno di contatto con la natura, meno invasione della tecnologia nella quotidianità, più propensione a buttarsi nelle situazioni rischiando anche di sbagliare. Queste accortezze potrebbero riavvicinare i giovani ad alcune professioni che oggi, comunque, devono avere sicuramente degli altri connotati”.
Un pensiero che si accoda agli altri rivoluzionari già espressi, più legati al laboratorio, al forno, al rapporto con i fornitori. Auguriamo loro che continui a far nascere qualcosa di buono.
“When the moon hits your eye like a big pizza pie, that’s amore…” cantava Dean Martin negli anni cinquanta. Chi non ricorda quest’inno all’italianità che citava, a ragione, il piatto simbolo dell’Italia nel mondo? E non importa se da allora gli americani hanno deciso che la pizza l’hanno inventata loro. Resta un tesoro nazionale.
Con lo stesso orgoglio, nel cuore di Ragusa Ibla, proprio alle spalle del Duomo barocco che domina la città, c’è un locale che richiama all’identità del luogo, alla sua cultura e all’arte. Perché That’s a Moro – si chiama proprio così – non è solo un ristorante e una pizzeria ma un museo vero e proprio dove gli artisti locali espongono le loro opere e dove è possibile ammirare le ceramiche realizzate nel laboratorio adiacente, piatti decorati e le tipiche teste di moro dell’arte siciliana, retaggio della dominazione araba e oggi simbolo della cultura siciliana.
“Vogliamo, in questo modo – afferma Marco Ruggieri, gestore, cuoco e pizzaiolo – affermare la nostra identità che è quella della Sicilia, di Ragusa Ibla e della tradizione mediterranea che si esprime nella cucina come nell’arte ed è fatta di sapori e colori, di profumi ed emozioni”.
Ragusa Ibla, un ristorante pizzeria museo dove sapori, profumi, colori e tipicità si mescolano in un percorso di gusto e di bellezza
Così, l’interno del locale, che ospita 80 posti a sedere, diventa un percorso dei sensi dove il cibo e l’arte si mescolano; e il dehors raddoppia, nella bella stagione, l’accoglienza offrendo a tutti l’opportunità di godere dei piaceri del corpo e dello spirito. “Il nostro – spiega Ruggieri – è un locale per tutti perché vogliamo che da noi ogni cliente si senta completamente appagato. Per questo la carta comprende piatti della tradizione culinaria mediterranea e ragusana in particolare, specialmente di pesce, e la pizza, il cibo che unisce e rallegra gente da ogni dove: giovani e meno giovani, famiglie, turisti italiani e stranieri. Ragusa Ibla è un crocevia di umanità alla ricerca del bello e del buono e noi vogliamo offrire tutto ciò con l’orgoglio della nostra terra, la Sicilia”.
La pizza, dunque, è il piatto forte di That’s a Moro; la pizza rappresenta l’italianità e diventa il messaggero di una cultura che affonda le sue radici nel territorio e diventa universale. La pizza è arte e di arte si circonda.
Un’arte ben radicata ma aperta all’evoluzione; un impasto diretto a lunga lievitazione da 48 a 60 ore, perché dà origine a una pizza croccante, leggera, digeribile; un impasto formato con farine scelte con cura: sono quelle di 5 Stagioni che Ruggieri definisce di altissima qualità, stabili nella resa e base ideale per una creatività aperta all’innovazione, alla ricerca continua nella tecnica e nell’espressione. Un impasto che dà origine anche al pane casereccio, immancabile sulla tavola. Spiega Marco Ruggieri: “Accanto alle pizze classiche, che non possono mancare in carta, stiamo creando un nuovo percorso gustativo. L’abbiamo chiamato ‘le pizze d’Italia’ perché vogliamo dedicare una pizza a ogni regione italiana esaltandone le specialità gastronomiche, l’identità culinaria e culturale”.
Ed è così che il cliente curioso, italiano ma soprattutto straniero, può assaporare la Calabria con la pizza alla nduja o la Lombardia col salame: “Vogliamo offrire al cliente – spiega Ruggieri - una panoramica delle specialità italiane, non solo di quelle siciliane o ragusane. Ci piace l’idea di dare la possibilità di fare un viaggio culinario nell’Italia gastronomica proponendo un assaggio dei suoi prodotti tipici: un giro d’Italia dei sapori per ampliare gli orizzonti e guidare alla scoperta delle meraviglie che il nostro Paese riserva”.
La ricerca della migliore qualità è alla base del menù, costruito con meticolosità e sensibilità allo scopo di valorizzare i singoli ingredienti. Nascono così le pizze più popolari, la That’s a Moro con pesto di basilico, mozzarella, provola affumicata, lardo speziato in uscita e ricotta salata; oppure la bolognese con crema di pistacchio, mortadella d’asino e mozzarella, decorata con scagliette di pistacchio e scorza di limone; sapori decisi, intensi, generosi. Ma anche la più classica con mozzarella di bufala – un prodotto di origine campana ma ormai realizzato anche in Sicilia grazie a piccoli allevamenti locali – con pomodoro e basilico, delicata e sempre un must.
Un ristorante museo, dunque, con le sue opere d’arte che rallegrano la vista e rasserenano l’animo; un approdo sicuro nella sua tipicità che accoglie e coinvolge chi vi sosta, tra profumi e sapori, per rendere omaggio alla terra che li ospita.
Largo Camarina 5
97100 Ragusa Ibla (RG)
Tel. 0932 191 3275
www.thatsamoro.it
Azienda di lunga tradizione, presente sul mercato dal 1951 come impresa a conduzione familiare, produttore e distributore Made in Germany di prodotti da forno di qualità per tutti i settori della ristorazione, con particolare riguardo ai settori Horeca e Bakery, Edna International completa l’assortimento di prodotti di panificazione con la linea Service World, una vasta scelta di articoli fine food e non food: coppette di cioccolato, tartellette, attrezzature per la cucina, articoli per il buffet e il catering.
L’ampia gamma di prodotti, che viene costantemente ampliata grazie alla particolare attenzione per l’innovazione, è fornita ogni anno a 50.000 clienti in tutta Europa.
L’azienda è profondamente orientata alle esigenze del mercato e fornisce una vasta gamma di servizi, a partire dal service center fino alla consulenza, al lavoro dei collaboratori esterni e a shop online attivi su diversi Paesi.
Oggi l’azienda dispone di tre stabilimenti di produzione (Zusmarshausen, Neunkirchen e Brehna) e tre società
estere, affiliate al 100% (Austria, Francia e Svizzera); impiega circa 600 persone e rifornisce i suoi clienti in tutta Europa e Oltreoceano.
EDNA International possiede le certificazioni ISO 22000, ISO 50001, IFS e BIO ed è membro della RSPO per la produzione e commercializzazione di prodotti con olio di palma sostenibile segregato.
Il mercato italiano dell’Ho.Re.Ca. è seguito da una fitta rete di grossisti e distributori presenti su tutto il territorio italiano, isole comprese. I tanti operatori del settore sono stati conquistati soprattutto dall’assortimento così variegato, innovativo e ricco di specialità per un settore che è sempre alla ricerca di rinnovamento e di strategie per fidelizzare la propria clientela.
Sia nel caso di hotellerie che di gastronomia, ristorazione collettiva o street food, EDNA ha sempre la soluzione
Edna International, produttore e distributore Made in Germany di prodotti da forno di qualità per tutti i settori della ristorazione completa l’assortimento con la linea Service World
giusta. Il suo motto - la qualità è la nostra missione - non è soltanto uno slogan, ma una vera e propria filosofia che aleggia costantemente nei corridoi dell’azienda. Ricerca & Sviluppo, nel caso di EDNA, significa ricercare materie prime di qualità, rendere i prodotti più artigianali e salutari possibili. Quest’ultimo punto è quello che ha animato una vera rivoluzione negli ingredienti usati per la preparazione dei prodotti: additivi, agenti lievitanti, aromi artificiali, esaltatori di sapidità e coloranti sono stati eliminati, poiché la qualità non richiede additivi.
Se ci soffermiamo e posiamo lo sguardo sull’assortimento, ampio e completo, troviamo pane per hamburger, panini dalle varie forme, grammature e ingredienti, pane&baguette, prodotti ad impasto “brezel”, croissant, dolci, torte, snack, fingerfood dolci e salati, dessert. Un’attenzione particolare meritano le linee di prodotto presenti: confezioni miste assortite che rappresentano varietà e cambiamento, risparmiando spazio gelo, offrendo un ottimo rapporto qualità-prezzo. I mix sono sia salati che dolci, classici o di tendenza. I prodotti già cotti, da servire subito dopo lo scongelamento, sono pretagliati e costituiscono così un valido aiuto nella preparazione e permettono un risparmio di personale. Il benessere dei suoi clienti sta molto a cuore a EDNA e, per questo, ha pensato d’introdurre la linea Better Life. Sotto questa definizione troviamo prodotti da forno ottenuti con ingredienti particolari (super food, grano antico, avena, müsli, segale, farro, farina integrale, a ridotto contenuto di sale etc.), senza glutine o per altre particolari forme di alimentazione come la vegana.
Ci sono prodotti, nell’assortimento di EDNA che ne rappresentano il cardine, il passe-partout per una scelta di successo.
Chi non conosce la più famosa festa della birra al mondo? Stiamo parlando ovviamente dell’Oktoberfest. Per ricreare la stessa atmosfera di festa e divertimento, bisogna rivolgersi ad EDNA. Nel suo assortimento troviamo il brezel classico, ma anche panini, filoncini e mini panini, dalle diverse grammature e dimensioni. Tutte queste specialità sono raggruppate con il nome di Laugengebäck, definizione che fa riferimento a un tipo di pane che prima della cottura viene immerso per qualche secondo in una soluzione bollente di acqua e soda caustica. La soda conferisce il caratteristico aspetto lucido e perde la causticità durante la cottura; in ambito domestico si preferisce il bicarbonato di sodio, per evitare i rischi derivanti dalla manipolazione della soda.
Come rendere un prodotto da fast food un’esperienza del gusto? Semplicemente con i panini per burger della
linea Gourmet di EDNA. Diverse dimensioni e topping fanno del pane per hamburger non solo la cornice di una farcitura, ma un vero e proprio protagonista. L’azienda, infatti, propone un numero importante dei diversi tipi di buns e si dimostra uno specialista di questa categoria.
I mini burger in particolare hanno conquistato moltissimi operatori del settore, specialmente il mix di mini burger colorati (giallo, rosso, nero e bianco) con coloranti naturali, nella variante da 18 o 30 grammi.
Ma EDNA è anche dolce: nel caso di pasta lievitata, krapfen o di cookies, l’azienda è l’interlocutore giusto. Insomma, l’intento di Edna International è quello di essere il top of mind del settore per la gamma dei prodotti offerta e per il costante rinnovamento che anima l’azienda da generazioni.
Autrice: Marina Caccialanza
Bonduelle Food Service Italia, punto di riferimento nel mondo dei vegetali per il fuori casa, fa parte del Gruppo Bonduelle che, con i suoi 3.490 agricoltori partner, da 170 anni propone verdure di qualità nel rispetto delle specificità agronomiche delle diverse zone geografiche.
Ciò che rende Bonduelle Food Service un alleato indispensabile per gli chef è la sua esperienza nel mondo vegetale e la qualità dei suoi prodotti.
Obiettivo principe di Bonduelle Food Service è promuovere il potenziale dell’alimentazione vegetale in tutte le sue declinazioni, non più solo come contorno, ma come protagonista, al centro del piatto, di ricette sostenibili, complete, sane e gustose.
Per ottenere questo risultato, da ottobre 2021 Bonduelle Food Service ha attivato Greenology, l’arte della
cucina a base vegetale, il progetto che promuove l’alimentazione vegetale nelle cucine professionali, svelandone il potenziale per creare ricette gustose, sane e sostenibili, in linea con i trend attuali.
Con il progetto Greenology, Bonduelle Food Service unisce la sua competenza nel mondo vegetale e l’esperienza culinaria e li mette a servizio di chef e operatori della ristorazione, che oggi hanno l’esigenza di integrare nei propri menù proposte a base vegetale, parte della tradizione e protagoniste delle recenti tendenze alimentari, per rispondere alle richieste dei propri clienti.
La gamma Cereali e Legumi Minute® di Bonduelle Food Service è l’alleata ideale della ristorazione per
Bonduelle presenta la gamma Cereali e Legumi Minute® per piatti a base vegetale, ricchi di gusto, bilanciati e salutari
creare piatti ricchi di gusto, bilanciati e salutari. La gamma si compone di 5 referenze: Bulgur, Orzo, Quinoa, Lenticchie e Ceci.
Tutti ingredienti versatili e nutrienti che possono essere impiegati in una varietà di piatti, perfetti per preparazioni calde e fredde, grandi protagonisti di ricette tradizionali, ma anche di piatti originali, sani e di tendenza.
I cereali, come bulgur, orzo e quinoa, sono ricchi di fibre, vitamine del gruppo B e minerali. Possono essere utilizzati come base per zuppe di cereali e minestre, come contorno o come ingredienti principali in piatti unici come pokè, bowl e polpette. I cereali integrali apportano energia duratura e possono essere abbinati a una varietà di verdure, formaggi leggeri ed erbe aromatiche.
I legumi, come lenticchie e ceci, sono ricchi di proteine vegetali, fibre, ferro e altri nutrienti essenziali. Possono essere utilizzati per preparare zuppe di legumi e minestre, hummus, insalate di legumi, burger e polpette vegetali. Sono una fonte sana di carboidrati a basso indice glicemico e possono contribuire a bilanciare i piatti estivi fornendo una sensazione di sazietà. La combinazione di cereali e legumi offre un ottimo bilanciamento tra proteine, carboidrati e grassi sani, assicurando una nutrizione completa. Possono essere inoltre facilmente abbinati a un’ampia gamma di verdure, erbe aromatiche e spezie per aggiungere sapore e vivacità ai piatti.
Cereali e Legumi Minute® sono una soluzione inno-
Pasta e ceci, colatura di provola affumicata, arancia candita e pane carasau Chef Marco Pascazio
Ingredienti:
500 g di Ceci Minute Bonduelle Food Service
500 g di tubettini
q.b. di pane carasau
q.b. di menta
250 g di provola affumicata
120 ml di panna fresca
q.b di sale e pepe
q.b. di olio extravergine di oliva
Procedimento:
vativa, pratica, veloce ed estremamente versatile. I prodotti sono già cotti al vapore con la tecnologia Minute® e surgelati al naturale IQF per preservare al massimo le proprietà organolettiche del prodotto e garantire un’ottima resa, senza rilascio d’acqua e perdita di peso.
Inoltre tutta la gamma si avvale del protocollo di produzione Service, grazie al quale le verdure possono essere utilizzate anche a freddo, solo scongelandole e senza bisogno di rigenerazione, garantendo la massima sicurezza alimentare. Ciò rende l’utilizzo della gamma Cereali e Legumi Minute® di Bonduelle Food Service particolarmente vantaggioso per la preparazione di piatti veloci e freschi con ingredienti che non necessitano di essere scaldati.
Tutto questo offre numerosi vantaggi:
• praticità e velocità di preparazione,
• riduzione di tempi, costi e sprechi della ricetta,
• significativo risparmio economico finale per l’operatore.
I Cereali e i Legumi Minute® sono disponibili in comode confezioni da 1 kg, che ne facilitano lo stoccaggio e contribuiscono a ridurre gli sprechi e ad aiutare l’ambiente.
Su Greenology®, l’arte della cucina a base vegetale (www. bonduelle-foodservice.it/greenology), il progetto che accompagna il mondo della ristorazione nella scoperta di tutte le potenzialità della cucina a base vegetale, sono tantissime le ricette disponibili per un menù gustoso, sano e appagante, ricco di cereali e legumi.
1. Rigenerare i ceci in padella e condire con olio, sale e pepe
2. Sciogliere a bagnomaria la provola affumincata con la panna, nel frattempo tostare in forno il pane carasau con olio e sale
3. Cuocere la pasta in acqua bollente salata, scolare e ripassare in padella con i ceci e la colatura di provola
4. Servire la pasta e ceci guarnendo con il pane carasau e profumare con foglie di menta fresca e pepe di macina
Le Divine Creazioni® di Surgital continuano a stupire: note come “la Pasta senza uguali” offrono un’esperienza gastronomica unica, che non tralascia nessun senso, in assoluta sintonia con lo spirito del Fine Dining. Caratteristica che accomuna tutte le referenze in gamma è il “vizio di forma” che fa di ogni pezzo un unicum, proprio come accade per la lavorazione artigianale. Nulla è lasciato al caso: ogni Divina è pensata per appagare, stupire e innovare come nel caso dei Bauletti®.
Un inno alla buona tavola come rito condiviso, che Surgital onora suggerendo agli utilizzatori diverse preparazioni contenute nel folder di lancio dedicato, che diviene così un vero e proprio ricettario. Una
consuetudine per Surgital, che non si pone solo come fornitore, ma come partner e facilitatore per chef e ristoratori.
Anche il formato è frutto di ricerca: quello dei Bauletti® è esclusivo e registrato Divine Creazioni®, ispirato a un classico della pasta fresca ripiena. L’orlo è infatti ondulato come quello ottenuto dalla rotella taglia pasta detta “spronella”. La misura di ogni pezzo è pensata per accogliere un ripieno generoso senza perdere l’equilibrio perfetto con la sfoglia, realizzata con ben otto uova per chilo di semola.
Del resto, tutte le referenze del brand vantano farciture ricercate, con ingredienti scelti tra i migliori DOP italiani combinati in abbinamenti originali e raffinati.
Il top brand di pasta fresca surgelata Divine Creazioni® presenta due novità: una a base di carne e una con funghi e taleggio DOP per accompagnare i ristoratori nel cambio del menù stagionale
Tutto è studiato nel dettaglio, anche il confezionamento in vassoi con vani separati, in cui custodire ogni singolo pezzo per poter essere mantenuto perfettamente integro.
È il caso dei Bauletti® con stracotto al Barolo DOCG, una delle novità che l’azienda propone per il menù autunnale.
Una proposta frutto di una costante attività di ricerca e sviluppo, in questo caso finalizzata a soddisfare la richiesta proveniente dal mondo della ristorazione di una pasta ripiena a base di carne come unica protagonista della farcitura. La scelta è ricaduta sullo stracotto, un piatto della tradizione piemontese ormai conosciuto e apprezzato da nord a sud, normalmente consumato come secondo nelle grandi occasioni perché richiede una lunga cottura a bassa temperatura. A prepararlo ci pensa Surgital, per offrire ai ristoratori un prodotto che, altrimenti, richiederebbe tempo e personale dedicato.
I Bauletti® con stracotto al Barolo DOCG sono il risultato di un’attenta campagna esplorativa, durante la quale l’azienda ha testato il gradimento tra gli chef di oltre 100 ristoranti. Il risultato è una nuova referenza che profuma di tradizione e focolare, coniugati in un prodotto di fine dining, perfezionato con la cura e la dedizione che contraddistinguono il marchio premium di Surgital. La ricetta è caratterizzata da una farcia a base di carne molto tenera, con un fondo di sedano, carota, cipolla, aglio e rosmarino - aromatico ma equilibrato nella sapidità – che valorizza i tagli migliori del manzo generosamente marinati nel pregiato Barolo DOCG. Una volta pronto, lo stracotto viene sapientemente sfilacciato per crearne un ripieno dal gusto avvolgente e dalla consistenza unica.
La seconda novità autunnale firmata Divine Creazioni® sono i Bauletti® con funghi porcini e “Taleggio DOP”. Alla continua ricerca di miglioramento dei ripieni e del gusto, il top brand di pasta fresca surgelata by Surgital lancia un upgrade dei precedenti Scrigni® ai funghi porcini, scegliendo di sposare il re del bosco al Taleggio DOP, un formaggio prodotto con latte pastorizzato tipico del nord Italia, dolce ma con lievissima vena acidula e leggermente aromatica.
Il ripieno di questi Bauletti® è composto in abbondanza da porcini brasati con olio e aglio, uniti al Taleggio DOP e a una ricotta dalla texture morbida e cremosa, che contribuisce a rendere la farcia molto bilanciata, in cui il sapore intenso del formaggio offre un tocco di intensità alla farcitura e dove il porcino rimane il protagonista assoluto, esaltato anche dalla raffinata tecnica di brasatura.
Un ripieno che profuma di sottobosco, in cui le fragran-
ze tipiche degli ingredienti si fondono in un connubio che riporta alle atmosfere autunnali, per accompagnare i ristoratori nel cambio del menù in vista della nuova stagione. Un prodotto adatto per ogni preparazione: Surgital, come da tradizione, ne suggerisce alcune nel folder di lancio, che diventa un vero e proprio ricettario ricco di spunti e immagini.
I nuovi Bauletti® - sia nella versione con stracotto al Barolo DOCG, sia in quella con funghi porcini e Taleggio DOP – rappresentato l’upgrade perfetto di un menù ben formulato, e accompagnano i ristoratori nel cambio stagionale delle proposte in modo da soddisfare il desiderio del ristoratore più esigente: la ricerca della perfezione.
Autrice: Marina Caccialanza
Eccellenza nella produzione di prodotti da forno per l’Horeca, Valledoro è una storia di passione, tradizione e qualità che si tramanda di generazione in generazione. Fondata come un’azienda familiare nel cuore di Brescia, Valledoro si è affermata come uno dei principali produttori di prodotti da forno destinati all’Horeca, offrendo prodotti di alta qualità con un tocco di eleganza nel packaging.
La storia di Valledoro inizia nel lontano 1954 quando il nonno, Ferruccio, con il suo piccolo forno comincia a sfornare le prime delizie per i ristoranti locali. Con il passare degli anni, la sua dedizione alla perfezione nella panificazione e il rispetto per le ricette tradizionali hanno attratto sempre più clienti. La passione è tramandata di padre in figlio, e oggi, sotto la guida dei fratelli Giulio, Dario e Marco, Valledoro è diventata un
punto di riferimento nella produzione di prodotti da forno.
La qualità è l’anima di Valledoro, che utilizza solo gli ingredienti migliori, mantenendo intatte le ricette di famiglia che sono passate di generazione in generazione. Ogni prodotto è preparato con cura artigianale, per garantire il massimo in termini di igiene e sicurezza alimentare. “Siamo fieri della nostra attenzione per i dettagli – afferma Giulio Zubani - e la nostra gamma di prodotti per l’Horeca è estremamente diversificata e soddisfa le esigenze dei ristoratori più esigenti. Dalle croccanti specialità per l’aperitivo ai deliziosi grissini, offriamo una vasta selezione di prodotti da forno che rispecchiano l’autenticità della cucina italiana. I nostri maestri panificatori
Da forneria a laboratorio e fino a diventare una delle realtà leader nel settore dei prodotti da forno, Valledoro porta sulla tavola del ristorante gusto ed eleganza
lavorano con passione per garantire che ogni morso sia un’esperienza unica”.
La bellezza è nei dettagli, e questo vale anche per il packaging, elemento importante nella mise en place di un ristorante dove una confezione elegante e discreta valorizza il prodotto e la proposta del locale.
Spiega Giulio Zubani: “Sappiamo quanto sia importante presentare i vostri piatti con stile e classe. Per questo motivo, ci dedichiamo alla creazione di confezioni eleganti e raffinate che riflettano l’alta qualità dei nostri prodotti. Ogni confezione è progettata con cura, dalla selezione dei colori alle finiture, per garantire un impatto estetico gradevole che favorisca l’accoglienza e fidelizzi i vostri clienti”.
La linea studiata per l’Horeca comprende nove referenze declinate per gusto e varietà allo scopo di incontrare le esigenze di diversi format di ristorazione.
Dalle proposte classiche a quelle più innovative, la gamma comprende i classici grissini, perfetti per ogni occasione dall’aperitivo alla cena, anche in versione integrale e al rosmarino per incontrare i gusti di tutti; i Torinesi della tradizione piemontese; proposte più originali come i Birrini, ispirati ai tipici bretzel e le novità appartenenti alla gamma, cosiddetta, monocromatica: referenze confezionate in packaging lineari, di un solo colore, buste originali e riconoscibili che danno un tocco in più alla tavola. Fanno parte di questo gruppo i Deluxe, bastonicini di grano tenero con olio di girasole alto oleico e un pizzico di sale in superficie; gli sfiziosi Gourmet, sottili grissini stirati e a lenta lievitazione che si distinguono in tavola per la confezione nera, riconoscibile. Infine i Satiné la cui ricetta, con olio extravergine di oliva, è studiata per offrire un prodotto ricco di iodio, privo di grassi animali e di conservanti e fonte di fibre. A completare la linea i Rustici, dall’aspetto casereccio e il tipico gusto che ricorda quello del pane.
Gli operatori della ristorazione trovano, nella linea a loro dedicata da Valledoro, ampia scelta secondo lo stile della loro tavola, confezioni coordinabili alla mise en place, gusti equilibrati per ogni tipo di cucina, tradizionale o gourmet, ma tutti dall’identità ben definita. Tutte le referenze sono disponibili in confezioni che contengono buste monoporzioni allo scopo di offrire una presentazione in tavola pratica, elegante e riconoscibile. Il cestino del pane come immagine e presentazione di classe. Valledoro, inoltre, è profondamente impegnata e cerca di fare la sua parte verso l’ambiente e, a questo scopo, mette in pratica azioni quanto più sostenibili in ogni fase della produzione, dalla scelta delle materie prime alla gestione dei rifiuti.
È un impegno che invita a guardare al futuro con entusiasmo e determinazione. “Continueremo a innovare, a creare nuovi prodotti e soluzioni per servire l›Horeca con passione e dedizione - conclude Giulio Zubani –. Valledoro rimarrà sempre un’azienda familiare, mantenendo vive le tradizioni e l’amore per la buona cucina italiana, perché è molto più di un’azienda di prodotti da forno, è un pezzo di storia, un impegno per la qualità e un’esperienza culinaria che speriamo possiate condividere con noi. Grazie per averci scelto come vostro partner nella ristorazione”.
Unika®, il marchio di Centro Carni Company SpA dedicato alla ristorazione, è eccellenza nella carne bovina, sintesi perfetta tra esperienza nella selezione delle materie prime, tradizione nella lavorazione e cura dei dettagli, un punto di riferimento per tutti coloro che desiderano una materia prima di elevata qualità, pronta all’uso e senza compromessi.
La selezione Unika® spazia da carni frollate con metodo dry aging a tagli di carne bovina comunemente considerati di seconda categoria, ma fondamentali per valorizzare l’animale nella sua interezza, ridurre gli sprechi e arricchire le possibilità in cucina.
Un esempio è la Flat Iron Steak che si ricava dalla copertina di spalla e nasce grazie al tessuto connettivo duro che attraversa il centro del taglio di carne: una volta rimosso, i due pezzi vengono trattati separatamente. Originariamente parte per bolliti o arrosti,
questo taglio è di spessore uniforme e di forma rettangolare. La bistecca risulta estremamente tenera e piena di sapore, si presta a una cottura alla griglia ma è al contempo molto duttile.
Un altro taglio di grande valore in termini di gusto ma dal costo decisamente più contenuto è il Chuck Roll, la parte del reale adiacente al cuberoll, che viene utilizzato per bistecche tipo costatina con o senza osso, ma anche per arrosti.
C’è poi il diaframma, taglio “povero” ma vera e propria nicchia culinaria: il diaframma è un muscolo in movimento per tutta la vita dell’animale, ma non essendo di “locomozione” non è tenace come gli altri. Normalmente utilizzato per la carne trita, il suo corretto utilizzo prevede la pulizia dalle silver skin che lo circondano e la successiva cottura sulle fiamme per poco tempo, continuando a girare.
Rappresenta un percorso completo, un concetto che va al di là di semplici processi di produzione e distribuzione, è un legame emozionale che nutre la tua esperienza, che va dal seme alla vita, mettendo in primo piano i benefici salutistici che le nostre verdure apportano al nostro organismo. È un legame stretto tra alimentazione e tutela del benessere, con l’obiettivo di difendere la salute e l’ambiente. Questo progetto ambizioso pone al centro la valorizzazione di una filiera etica, sostenibile e felice. Ogni singolo, con le proprie azioni quotidiane, diventa parte attiva di questa filiera e contribuisce ad accrescere il potenziale dell’intera comunità.
Conterraneum® - Raccolti in circolo è una storia di collaborazione, in cui i diversi attori si uniscono per creare un’armonia perfetta, è un impegno che coinvolge tutti i protagonisti della catena alimentare, da noi contadini per scelta che coltiviamo verdure con passione e dedizione, fino ai tuoi ospiti che scelgono e gustano le tue creative preparazioni. È un’orchestra di talenti che lavorano insieme attraverso un percorso virtuoso che si basa su pratiche sostenibili, rispettose dell’ambiente e del benessere delle persone. In questo disegno di filiera responsabile, l’equilibrio individuale si intreccia con quello della comunità. Ogni azione che compiamo, anche la più piccola, ha un impatto positivo sull’intero sistema. Con la tua scelta consapevole di consumare le nostre verdure pugliesi, coltivate con cura e rispetto secondo l’esclusivo metodo di Agricoltura Biofilica, contribuisci a costruire un futuro migliore per tutti.
su come le nostre scelte possano fare la differenza e a comprendere che siamo tutti interconnessi e parte di un sistema più ampio. Essere Conterraneum significa abbracciare un viaggio di scoperta, sapendo che ogni prodotto che arriva nella tua cucina porta con sé una storia di amore, impegno e autenticità.
Come puoi fare la differenza?
Scegliendo Spirito Contadino diventi ambassador della Green Revolution e abbracci la filosofia etica e sostenibile di Conterraneum®:
• riduci la tua impronta sull’ambiente
• promuovi la Natura e proteggi il benessere attraverso le tue creazioni
• costruisci un circolo virtuoso di salute e sostenibilità per tutti
• generi valore per la tua attività e anche per il pianeta
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Leggere questo saggio significa acquisire una visuale sul mondo dell’alimentazione che guarda al futuro, anche per noi italiani.
Pensiamo sempre di essere il Paese più “buono” del mondo ma ci sono altri luoghi, altre culture, altre abitudini di cui dobbiamo tener conto e questo libro che affronta gli aspetti economici del cibo ci fornisce molti elementi di riflessione, soprattutto perché è scritto da un coreano, Ha-Joon Chang, che vive in una parte del mondo che acquisterà sempre più spazio e peso nell’economia mondiale e nei cambiamenti sociali.
Con un taglio originale suddiviso nei 17 capitoli che richiamano altrettanti cibi e bevande il libro inizia raccontando la leggenda fondativa della Corea da parte di Hwanoong, principe del regno celeste, e del perché l’aglio è uno degli alimenti prediletti dal popolo coreano con 7,5 chilogrammi pro-capite (dieci volte l’Italia). Il volume fa emergere, in maniera assolutamente comprensibile, il ruolo fondamentale dell’economia nelle scelte alimentari del mondo, facendo chiarezza su tradizione, innovazione, gusti imperanti.
Una lettura piacevolissima che fa riflettere molto sul futuro che abbiamo davanti.
Alberto Grandi
Aboca edizioni
Pagg. 251
24 euro
Economia commestibile
Ha-Joon Chang
Il Saggiatore Pagg. 256
23 euro
Alberto Grandi è un prolifico scrittore di saggi legati al mondo alimentare, a volte storici, altre contemporanei, ma sempre con un taglio comprensibile e leggero, anche di fronte a temi come quelli trattati in questo libro che rende giustizia rispetto alle fake-news secolari che accompagnano il nostro rapporto con il cibo.
È l’esperienza quella che ci insegna quando un cibo è pericoloso e la suddivisione tra città e campagna a rendere pericolosi alcuni cibi. Infatti il paradosso più evidente è quello secondo cui la rivoluzione industriale, la crescita urbana, la ricerca genetica ci ha liberato dalla paura per l’assenza del cibo e ne ha innescata un’altra: quella delll’abbondanza.
Attorno a questo pensiero si sviluppano tutte le storie che costituiscono l’ossatura del saggio di Grandi.
Dalla lebbra suina, vera e propria bufala che ha regnato per secoli, all’ultima paura, quella della carne sintetica su cui si stanno portando avanti battaglie di retroguardia da parte di associazioni agricole e del governo che, “con le loro recenti scelte, escludono le aziende italiane e i nostri centri di ricerca dalla possibilità di entrare in un settore tra i più promettenti dal punto di vista economico e scientifico. Non è con il pensiero magico che si tutela il made in Italy”, scrive Alberto Grandi.