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Il turismo, un'importante risorsa per l'Italia

La Famiglia Coati si racconta

La Madia a Brione

Alessia Zucchi
Una nuova cultura dell’olio

LA REDAZIONE

Mario Benhur Tondini

presidente Edizioni Catering srl

Imprenditore nel settore della distribuzione alimentare, gestisce con il fratello Oscar l’azienda di famiglia a Cavriana (MN), dove ha svolto anche l’incarico di sindaco.

Le competenze maturate sul piano professionale e su quello amministrativo lo hanno portato alla convinzione che il principio della condivisione sia la miglior modalità di crescita. Molte sue iniziative, anche all’interno del gruppo Cateringross (che detiene la titolarità della casa editrice), di cui è consigliere d’amministrazione, vanno in questa direzione. A questo affianca una forte sensibilità per ogni azione che dia valore al suo territorio.

benhurtondini@salaecucina.it

Marina Caccialanza

Redazione

Milanese, un passato come traduttrice, da diversi anni giornalista e redattrice per riviste del settore alimentare rivolte al mondo dell’artigianato e all’industria, in particolare nel campo della ristorazione, del dettaglio specializzato e della ricerca. Contribuisce alla realizzazione di importanti libri di comunicazione gastronomica in Italia e all’estero diretti ai professionisti e ai consumatori. Collabora con le redazioni di sala&cucina, Ecod e Trenta Editore.

Luigi Franchi

Direttore responsabile

Prima fotografo di cibo e territori, poi comunicatore, autore di numerosi libri di enogastronomia e di turismo enogastronomico. e infine giornalista di enogastronomia. Tra le sue principali pubblicazioni, scritte e/o coordinate: La prima edizione della Guida al turismo del vino in Italia, per conto del Movimento Turismo del Vino, (1997), I parchi e il turismo enogastronomico (2004), Il marketing delle Strade del Vino edizioni Agra – Rai Eri (2005), Atlante Alimentare Piacentino, con Valentina Bernardelli (2007), “cuo chi, due anime in cucina”, con Alessandra Locatelli, GL.Editore (2009), Dalle Terre Traverse al Po, GL.Editore (2010), ideatore e coautore dei Maestri del lievito madre, Edizioni Catering (2014), coautore della guida online dedicata alla ristorazione Meglio Prenotare, Edizioni Catering, Le interviste (2018) editore Mediavalue. Co-direttore di Food & Book, festival nazionale di editoria enogastronomica luigifranchi@salaecucina.it

marina.caccialanza@salaecucina.it

Giulia Zampieri

Redazione

Ricorda con esattezza il profumo del primo pane preparato all’età di sette anni.

Forse il suo primo traguardo e, soprattutto, l’inizio di una grande passione: per le cose semplici, per la genuinità, per gli alimenti che crescono e prendono forma. Dopo la Laurea in Scienze Gastronomiche, la specializzazione in comunicazione enogastronomica, e un periodo di alternanza nelle cucine, ha chiara la missione: scrivere per comunicare. Come? Utilizzando gli strumenti di oggi e la curiosità di sempre. Gionalista pubblicista, collabora anche con la guida di Identità Golose.

Simona Vitali

Redazione

Laureata in filosofia, ha lavorato nella comunicazione e organizzazione di grandi eventi a Parma.

Ha ricevuto una prima inconsapevole educazione al gusto per il cibo grazie all’ indimenticato oste dell’Osteria della Stazione di Felino (PR), il nonno materno Massimino. Con gli studi umanistici è poi arrivata una seconda, consapevole, educazione al gusto per l’utilizzo delle parole secondo il loro significato. Poi sono seguiti un corso di Alta Formazione alla scuola Holden e un master in Filosofia del cibo e del vino. Della ristorazione l’affascina il pensiero e la componente umana. Della formazione di settore segue movimenti ed evoluzioni.

giuliazampieri@salaecucina.it

Gabriele Adani

Grafico

Modenese, appassionato di arte figurativa, fotografia e linguaggi di comunicazione visiva.

s.vitali@salaecucina.it

Nel 1992 inizia il suo percorso professionale presso una casa editrice. Lavora poi in uno studio grafico e fonda una piccola agenzia di comunicazione in cui ricopre il ruolo di direttore creativo per 18 anni.

Viaggiatore, utilizza i frequenti viaggi a Londra e nel Sud Est asiatico per arricchire il suo bagaglio culturale e placare la sua innata curiosità per le altre culture.

Dal 2019 lavora in proprio, occupandosi di fotografia, grafica e consulenze nel campo della comunicazione.

grafica@salaecucina.it

SOMMARIO

7 LA LETTERA APERTA

Primavera, tempo di cambiamento | Luigi Franchi

9 L'EDITORIALE

Il turismo, un’importante risorsa per l’Italia | Benhur Tondini

10 IL CONFRONTO

Alessia Zucchi | Luigi Franchi

16 IL RACCONTO

La famiglia Coati si racconta | Simona Vitali

20 L'IMPRESA

Meracinque e il Carnaroli Classico | Luigi Franchi

25 LA RIFLESSIONE

Nel pane e per la comunità | Giulia Zampieri

30 IL RISTORANTE

La Madia a Brione | Giulia Zampieri

34 L'INNOVAZIONE

Graziadei e Melinda | Simona Vitali

39 I CUOCHI

La formazione continua è utile per studenti, cuochi e aziende | Rocco Cristiano Pozzulo

41 LA NEUROVENDITA

Quando una Pizza Vale Tre Stelle | Lorenzo Dornetti

44 DOGUSTO

La Mozzarella di Bufala Campana DOP | Guido Parri

46 L'ANALISI

Rapporto ristorazione FIPE | Luigi Franchi

50 LA STORIA

Artusi, il padre fondatore della cucina domestica italiana | Alessia Cipolla

54 LA FORMAZIONE

(Far) coltivare il mestiere | Simona Vitali

56 GLI EVENTI

Futura 2025: all’evento degli Ambasciatori del Gusto si discute di intelligenza artificiale | Luigi Franchi

59 L'OLIO AL CENTRO

A cosa serve la qualità se non la si conserva bene | Luigi Caricato

61 LA DIGITAL TRANSFORMATION

Affrontare la carenza di personale con l'intelligenza artificiale | Claudia Ferrero

62 IL VINO

Maria Pia Castelli | Giulia Zampieri

64 LA PRODUZIONE

Il meglio per i professionisti dell’arte bianca | Marina Caccialanza

69 LA PIZZERIA

Serenella, da Tramonti a Brescia | Marina Caccialanza

72 GLI EVENTI

Marzo mese di fiere | Luigi Franchi

77 L'ANALISI SENSORIALE

Il gap culturale tra scienze sensoriali e formazione gastronomica | Stefania Pompele

79 LA PRODUZIONE

Mini Burger di Scottona: la nuova delizia di Centro Carni Company | Guido Parri

80 I LIBRI

Parla come mangi | Luigi Franchi

N° 93 aprile 2025

EDITORE

Edizioni Catering srl Via Margotti, 8 40033 Casalecchio di Reno (BO) Tel. 051 751087 – Fax 051 751011 info@salaecucina.it - www.salaecucina.it

PRESIDENTE

Benhur Mario Tondini benhurtondini@salaecucina.it

DIRETTORE RESPONSABILE

Luigi Franchi luigifranchi@salaecucina.it

COLLABORATORI ESTERNI

Luigi Caricato, Alessia Cipolla, Lorenzo Dornetti, Rocco Pozzulo, Claudia Ferrero, Elena Monteverdi, Federico Panetta, Guido Parri, Francesco Parrotta, Stefania Pompele.

FOTOGRAFIE

Archivio sala&cucina, Marco Di Donato, Benedetta Bassanelli, Sara Bergando, Eunica Brovida

* L’editore è a disposizione per eventuali crediti fotografici di cui si ignora la fonte

RIVISTA PARTNER di AMODO

PUBBLICITÀ Tel. 331 6872138 marketing@salaecucina.it www.salaecucina.it

PROGETTO GRAFICO

Gabriele Adani - www.gabrieleadani.it

STAMPA

EDIPRIMA s.r.l. – www.ediprimacataloghi.com

TIRATURA E DISTRIBUZIONE – 28.900 copie Ristoranti, trattorie e pizzerie 20.700 – Bar, pub e birrerie 4.000 – Hotel 3.100 – Grossisti e distributori f&b 1.100

Costo copia mensile: 4,00 euro abbonamento annuo 40,00 euro

Per abbonarsi: info@salaecucina.it

Alessia Zucchi Una nuova cultura dell’olio

Primavera, tempo di cambiamento

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Siamo a inizio stagione, tre ponti tra Pasqua e Primo Maggio che dovrebbero portare nuova linfa al settore della ristorazione e dell’ospitalità. Speriamo sia così, speriamo che il tempo sia bello.

Già questa riflessione sul tempo, che fino a qualche anno fa non si faceva, ci racconta di come anche la ristorazione è legata a doppio filo a un tema, quello del cambiamento climatico, che ancora non si vuole affrontare in maniera seria e concreta.

Eppure esiste, ci sono studi scientifici che lo dimostrano, ma ci sono ancora tante, troppe fake-news che ne distolgono l’attenzione e troppi governi che non hanno una posizione chiara sull’argomento.

Cosa c’entra la ristorazione con il cambiamento climatico?

Semplice, se piove quando non dovrebbe le persone non si muovono, gli hotel e i ristoranti non si riempiono. Ma questa è la risposta più ovvia. Quella più complessa è che l’emergenza climatica incide moltissimo anche sulla qualità e quantità di cibo prodotto. Prendiamo il caso delle uova negli Stati Uniti, ma anche quello delle api che si stanno riducendo di oltre il 60% nel mondo. L’aviaria non è che è arrivata per caso, molti esperti hanno rilevato che gli eventi meteorologici estremi e i cambiamenti climatici svolgono un ulteriore ruolo nell’evoluzione della situazione, perché possono influenzare la demografia degli uccelli selvatici e incidere pertanto sulle modalità di sviluppo nel tempo della malattia.

Così come la riduzione del numero di api può portare rapidamente a un calo dei processi di impollinazione che sono fondamentali per ortaggi, frutta e sementi.

L’80% di quello che mangiamo ogni giorno, senza im-

luigifranchi@salaecucina.it

pollinatori, non esisterebbe. Colture ben impollinate danno luogo a rese notevolmente più elevate e migliorano la qualità e la durata di conservazione di questi prodotti.

Tutto è connesso nel mondo, quando ce ne renderemo conto sarà sempre troppo tardi.

Anche il mangiare fuori casa è legato a questi e ad altri fattori, come il problema del personale e i costi che le persone dovrebbero sostenere per questo tipo di consumi.

Pagare quaranta o cinquanta euro per una cena è ormai nella norma, anche in trattoria. Una cifra che, per qualcuno, non dice nulla ma per un giovane, studente o precario, vuol dire tanto e, infatti, i giovani non sono certo la categoria più diffusa nei ristoranti.

Con questo non dico che bisogna abbassare i prezzi ma mettere nelle condizioni di poter far fronte alla quotidianità un numero maggiore di persone in Italia. Ricordo, infatti, che siamo ai primi posti nella classifica degli stipendi più bassi d’Europa.

Ultima considerazione: il problema del personale nella ristorazione. Va pagato il giusto. Va interrotta la spirale di quei ristoratori che dicono: dimostrami cosa sai fare e decido quanto pagarti. Esiste un contratto di lavoro che parla chiaro! Gli sforzi indirizziamoli invece verso la richiesta di ridurre la pressione fiscale sulla categoria e, per farlo, rispettiamo, per primi, le regole. Sono solo alcune delle cose da mettere a posto per far sì che un settore che vale più di cento miliardi di fatturato venga rispettato e considerato come merita!

Il turismo, un’importante risorsa per l’Italia

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Va trattato bene il turismo! Porta soldi ma soprattutto porta cultura e conoscenza. Il turista è quella persona che sceglie accuratamente una destinazione, ne ricava un programma di cose da fare e da vedere per arricchire i suoi occhi di bellezza, la sua mente di nozioni, il suo stomaco di sapori identitari. E per farlo utilizza i servizi che la comunità ospitante mette a disposizione: dall’hotel all’agriturismo, dal ristorante alla cantina, dal noleggio auto ai mezzi pubblici, dalla bottega gastronomica al negozio di artigianato. Tutte attività che necessitano di persone votate al senso dell’ospitalità e dell’empatia. Ho tracciato una sorta di paese delle meraviglie, me ne rendo conto. Infatti questo avviene poche volte ma quando capita in quel territorio, in quel borgo, in quella città la percezione di una buona qualità di vita è tangibile, a tutti i livelli. Perché non diffonderla? Perché non prendere esempio?

Ne beneficerebbe l’intera economia di quel territorio. Se ne ricaverebbe un utile, non necessariamente economico, ma di buone relazioni tra gli abitanti e i turisti stessi, una condivisione di notizie e di stili di vita. Quanti sono i luoghi eletti per il semplice fatto che era scattata la giusta molla tra residenti e ospiti?

Ne contiamo a decine in tutto il Paese e, in diversi casi, soprattutto in Appennino, si sono salvati interi borghi che si stavano spopolando.

La ristorazione, in questo, gioca un ruolo essenziale, più di qualsiasi altro comparto coinvolto. Diciamo spesso, su questa rivista, che il ristoratore è anche un agente culturale di un territorio. Ne siamo convintissimi. L’ospite, quando è seduto a tavola, assume mediamente un atteggiamento di ascolto e di confronto

Benhur Tondini presidente sala&cucina

benhurtondini@salaecucina.it

molto più proattivo.

Il ristoratore o il cameriere che sa cogliere questo atteggiamento, in quel momento, può (e deve, aggiungiamo noi) saper trasferire tutto quello che di buono l’ospite può trovare in quel territorio, una volta finito di pranzare, fornendogli le chiavi interpretative del luogo.

È così che deve essere vissuto il turismo in Italia, dove ognuno ha una parte ben definita che deve essere messa in rete per offrire al visitatore il meglio dei luoghi, la bellezza dei borghi d’arte, del paesaggio, del buon vivere.

Il turismo è forse l’unico settore economico che coinvolge tutti gli altri e, per questo, ha un ruolo strategico nella crescita del Paese. Infatti recenti indagini attribuiscono al turismo un valore corrispondente a circa il 13% del PIL, non poca cosa.

Tra poco inizierà una nuova stagione turistica, facciamo in modo, tutti nel proprio ruolo, di non danneggiare questo patrimonio di bellezza, di storia, di idee che ci contraddistingue nel mondo.

Bastano, molte volte, pochi gesti. Tenere puliti i servizi igienici dei bar, togliere quei cartelli di divieto che abbiamo la pessima abitudine di mettere ovunque, eliminare musi lunghi e annoiati per chi lavora in un pubblico esercizio… piccole cose come vedete ma di sicuro enorme impatto.

So bene che non è con questi gesti che si risolvono problemi strutturali ma da qualche parte bisogna pur cominciare, quindi facciamolo dalle cose che riusciamo a risolvere con poco sforzo da parte di tutti!

IL CONFRONTO

Autore: Luigi Franchi

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Una nuova cultura dell’olio Alessia Zucchi

Alessia Zucchi

“Non possiamo accettare il fatto che si perda il gusto dei prodotti made in Italy. Dobbiamo tutelare e valorizzare quei gusti, sono il nostro vero e inimitabile patrimonio. Oggi è in atto una tendenza a un gusto standardizzato, questo segnerebbe la fine della nostra straordinaria biodiversità. Una biodiversità che non è solo dovuta alla naturalità delle materie prime ma anche allo studio, alla professionalità, al know how delle aziende italiane dell’agro-alimentare”.

Non è cominciata da queste affermazioni l’intervista con Alessia Zucchi, amministratore delegato dell’oleificio Zucchi, azienda che ha sulle spalle 215 anni di storia e di innovazione, ma quel concetto è basilare per capire quale deve essere il futuro del cibo nel nostro Paese.

Abbiamo incontrato Alessia Zucchi direttamente in azienda e, solamente osservando come tutto si muove secondo una logica molto precisa, abbiamo capito che qui c’è strategia, c’è la voglia costante di guardare avanti, ma lasciamo che sia proprio lei a raccontare.

Iniziamo parlando del comparto a cui si rivolge sala&cucina: quali sono le strategie di Oleificio Zucchi verso l’horeca?

“Il canale dei consumi fuori casa lo presidiamo da molto tempo. Risaliamo agli anni Sessanta del secolo scorso quando fu lanciato il nostro primo brand di canale: si chiamava Zeta e aveva una distribuzione nazionale. I primi contatti, essendo noi lombardi, avvennero nel bresciano ma, fin da subito, il mercato nazionale reagì bene alla nostra proposta e, anno dopo anno, siamo entrati in tutti i comparti del fuori casa, dalla crocieristica fino ai bar. È stata sicuramente quella la chiave del successo perché abbiamo sempre customizzato l’offerta per i singoli operatori professionali. La crocieristica, infatti, ha esigenze ben diverse rispetto a quelle di un distributore che serve i ristoranti, così come un bar ha bisogni diversi rispetto alla tavola di un ristorante d’albergo. Riuscire a personalizzare tutti questi aspetti ci consente, tuttora, di avere una posizione autorevole nel fuori casa. Soprattutto negli ultimi anni abbiamo lavorato tanto sulla cultura di prodotto e sulla formazione: solo nel 2024 sono state più di cento le occasioni di formazione e i risultati si vedono, grazie al nostro speciale team che si occupa del canale, con una presenza commerciale ma anche di marketing e di capacità di ascolto. Non ultimo il nostro orientamento all’innovazione: siamo orgogliosi di affermare, tra le altre cose, che siamo stati i primi a mettere in commercio il formato da 10 litri, molto più maneggevole nelle cucine professionali e comodo per la movimentazione anche da parte di mani femminili”.

La storia di Oleificio Zucchi è sempre stata coraggiosa: a cominciare dall’aver dato vita a un’azienda olearia in un territorio, la provincia di Cremona, dove non c’è una sola pianta di ulivo. Eppure ce l’avete fatta: oggi come viene visto l’Oleificio Zucchi dal mercato?

“Ci tengo a dire che quest’anno festeggiamo i 215 anni di storia del nostro oleificio. Una storia di cui siamo orgogliosi perché è una storia di famiglia che ha visto succedersi numerose generazioni ma tutte con un obiettivo che ha connotato ogni nostra azione: la trasparenza. Innanzitutto, noi nasciamo come azienda di olio di semi, questo va dentro con orgoglio, perché comunque costituiva una valida alternativa al burro. Nel corso proprio dei decenni, dei secoli, primariamente spremevamo i semi, poi c’era tutta la parte di produzione dell’olio di

semi. Mio padre aveva deciso di non entrare nel settore dell’olio d’oliva proprio perché, in quegli anni, non c’era la giusta trasparenza e lui non voleva problemi di nessun tipo. Solo con l’avvento di mio fratello Giovanni abbiamo iniziato a trattare l’extravergine di cui lui si era appassionato. Il progetto sull’extravergine nasce proprio da una passione e tutta l’azienda poi ha portato avanti il progetto, perché rientrava nelle linee di sviluppo dell’oleificio, ma ogni volta con la massima trasparenza del settore di cui siamo sempre stati promotori. Io ritengo, infatti, che l’unico modo sia raccontare il settore per quello che è, senza la narrazione romantica, ma andando a valorizzare quali sono le nostre conoscenze, le nostre capacità, tra cui l’arte del blending di cui siamo stati i primi ideatori. Su questo abbiamo lavorato, e da lì è nato il primo prodotto dell’olio extravergine, 100% italiano, tracciato e sostenibile, che ci ha portato alla certificazione anche del Made in Italy, da parte del Ministero dell’Ambiente. Una certificazione importante anche se in questo momento riguarda principalmente l’impronta ambientale ma che, andando sempre più verso una sostenibilità a 360°, può anche arricchirsi di ambiti sociali ed economici. Mi scuso, sono uscita un po’ dal senso della domanda ma quando parlo della nostra storia mi infervoro. Come viene visto Zucchi sul mercato? Penso che il mood principale sia quello dell’affidabilità, anche e soprattutto nei momenti di forte criticità dei mercati come quello che stiamo vivendo in questo periodo, prima il Covid, poi la guerra in Ucraina, il cambiamento climatico e la scarsità di produzione. Quando c’è stato il problema del Covid ci siamo posti in un’ottica di partnership, non di fornitore. C’è stato un momento forte di crisi per il settore, perché tutto era fermo, le difficoltà erano davvero tante, ma abbiamo mantenuto sempre il dialogo aperto con i nostri clienti. Gli abbiamo accompagnati attraverso le complessità e

ovviamente anche verso la ripresa dopo l’emergenza; ciò si traduce in vicinanza dal punto di vista finanziario, fornitura continua in un momento in cui la costanza nell'approvigionamento era complessa; molteplici quindi le tematiche da affrontare. Tutto questo è avvenuto grazie a relazioni solide, frutto anche di decenni di consulenza che noi facciamo sempre, per i nostri clienti, su quando è il momento di comprare bene, nel momento giusto. Abbiamo sempre cercato le migliori condizioni per tutti loro, siano essi dell’industria alimentare o il titolare di un bar, per aiutarli a far quadrare i loro conti. Questo ripaga alla grande”.

In Italia c’è, secondo me, un problema di vecchiaia del settore primario, di parcellizzazione estrema e questi due elementi non aiutano sicuramente il settore oleario a rappresentare quello che dovrebbe rappresentare in questo paese, un paese del Mediterraneo che è il centro della cultura gastronomica internazionale. Che azioni occorre fare per modernizzare secondo lei? “Nella domanda sta già anche la risposta perché il tema della parcellizzazione è un problema. È un problema perché l’Italia ha dei grandissimi operatori che fanno delle produzioni di eccellenza, questo va detto, ma resta il fatto che sono troppo piccoli. Quindi se tu vuoi andare a portare il tuo prodotto sui mercati, non solo italiani ma anche esteri, hai la necessità di avere anche quantità. Il tema dell’aumento della produzione è cruciale per il settore. Questo non deve andare a discapito, non deve necessariamente entrare in contrapposizione con il tema qualità, questa è una cosa importantissima da spiegare e far comprendere. Infatti è il limite di questo Paese, perché la teoria del piccolo è bello è una versione un po’ romantica del mercato. Io sono, invece, convinta che se ci sono degli operatori, in questo caso stiamo par-

lando di settore primario ovviamente, che riescono ad avere una maggior dimensione anche il territorio stesso dove operano ne beneficia. Infatti se si riuscisse a fare massa critica, migliorebbero i conti economici, permettendo di conseguenza investimenti sulle migliori tecniche agronomiche da mettere in campo. Il tema è che noi comunque dobbiamo aumentare la produzione, altrimenti resteremo produttori di nicchia, che va benissimo per coloro che puntano a quello, ma non va bene per valorizzare la nostra grande biodiversità, abbiamo ricchezza di gusti, di sapori, di cultivar che si possono esprimere, come il vino, in tanti differenti gusti. Ed è questo su cui dobbiamo lavorare”.

Il settore non è prodigo di grandi novità. Voi, invece, negli ultimi tempi avete introdotto il Fritturista: quali obiettivi vi ponete con questi oli?

“Fritturista è nato con l’obiettivo di essere un prodotto molto performante per l’operatore che gestisce la frittura in cucina. Ovviamente per essere attrattivo abbiamo giocato anche un po’ coi colori. Volevamo essere un po’ rock. Zucchi è un operatore affidabile, solido, che ha una sua identità corporate molto seria, insomma, molto classica. Volevamo con il Fritturista, ma anche con Fritto Libero, dare una scossa. È un prodotto che voleva dare un po’ di carica, anche per il fatto che il fritto viene collegato a un momento di evasione. E poi quel pagkaging così particolare permette di fare della comunicazione nel locale, nei punti di ristoro dove hanno i prodotti in esposizione e quindi il fatto che fosse accattivante poteva essere comunque un supporto stesso per chi poi del fritto fa la sua vocazione. Infine l’innovazione che lo caratterizza con performance diverse rispetto agli altri, dalla resa, agli odori, a tutto, insomma. Quella è stata la

prima di una serie di azioni che si snoderanno nel corso dei prossimi anni per far conoscere maggiormente l’Oleificio Zucchi come operatore nel mondo del fuoricasa. Ed è proprio per questo che a Sigep abbiamo lanciato la linea Zucchi Professional, una gamma di prodotti, sia di semi che di extravergine, dedicati proprio agli operatori professionali. È un progetto che punta a rendere il lavoro di chi opera nelle cucine professionali più performante, rapido e veloce. Sono tanti gli elementi da considerare quando si lavora all’interno delle cucine con tempi sempre molto stretti e noi vogliamo dare un contributo alla soluzione dei problemi. E poi ci sarà tutto un progetto che andrà avanti anche per la tavola, di cui parleremo al momento opportuno”.

Questa sua affermazione mi porta a fare un’ultima domanda: Cosa pensa della carta degli oli al ristorante e che suggerimenti si sente di dare a un ristoratore rispetto agli oli?

“innanzitutto dipende da che ristorante è. Mi spiego meglio: la ristorazione stellata non porta nessun tipo di olio in tavola. Quindi, più che la carta degli oli, io suggerirei di scrivere sul menu che tipo di olio è stato usato per quel determinato piatto: i menu, hanno, sempre di più, il calice di vino abbinato al piatto, dal mio punto di vista la stessa cosa potrebbe valere per l’olio e, magari, alla fine della cena il cliente potrebbe aver voglia di comprarsi quella bottiglia e portarsela a casa”.

Giuro, questa è l’ultimissima: una nuova cultura dell’olio: è scritto nel vostro sito: cosa intende per nuova cultura?

“La valorizzazione del prodotto, dell’olio in sé. Ma valorizzare cosa vuol dire? Vuol dire arricchirlo di contenuti e far capire qual è il vantaggio per coloro che lo utiliz-

zano. Questo è il tema. Nell’olio ci sono dentro aspetti nutrizionali, aspetti di performance funzionale, aspetti di filiera, quindi tutela dei territori legati a quella filiera. La nostra azienda ha molto a cuore la cultura di prodotto e, per rispettarla, facciamo molte iniziative, l’ultima delle quali si chiama Evo Masterclass e si rivolge agli studenti degli istituti alberghieri; una forte azione formativa a cui hanno aderito, ad oggi, 120 classi. Con questa iniziativa intendiamo dare nuovi stimoli ai futuri operatori del settore ristorazione, sia per gli aspetti più legati alla cucina che alla sala. Far conoscere il valore della filiera produttiva per comprendere il frutto di ogni singolo operatore e del processo produttivo. Inoltre riteniamo importante creare un dialogo con le istituzioni per rendere sempre più protagonista il mondo dell’olio, vero ambasciatore del Made in Italy. Per agevolare la diffusione di una forte cultura di prodotto tra gli operatori penso sia fondamentale creare strumenti e format chiari, semplici, snelli, dove evidenziare quali sono i valori aggiunti per coloro che sceglieranno quel determinato tipo di olio. Infine la formazione, questo è l’altro elemento chiave, cioè andare a far provare direttamente il prodotto, far vedere come esso performa, permettendo all’operatore finale di poter accrescere la propria professionalità.”

Esiste un giusto prezzo?

“Quando parliamo di giusto prezzo, questo deve rispecchiare il valore del prodotto, e quando parlo di valore non parlo del mero costo del tappo, della confezione o materia prima. Se il prodotto vale è perché restituisce dei plus rispetto allo standard, questo si riversa poi come moltiplicatore di valore per l’operatore. Ad esempio un prodotto innovativo puòessere utilizzato in minori quantità e rendere di più rispetto ad un prodott standard; quindi,

non solo permette di risparmiare in termini di quantità di utilizzo del prodotto ma anche di produrre meno rifiuti. Con il Fritturista, per esempio, le friggitorie si ritrovano a utilizzare un olio che fa meno odore, questo salvaguarda la convivenza con i vicini e con i clienti. Sono tanti gli elementi da considerare rispetto al mero prezzo della confezione”.

Riflessioni, quelle di Alessia Zucchi, che devono aprire una nuova visione per l’olio: quella, appunto, di una nuova cultura.

PATATE

BUONE, PROFESSIONALI, TESTATE OGNI GIORNO

Chef ®

Fritte, gnocchi, crocchette, puré, croccanti al forno. Provatele anche nel taglio a chips per un momento di puro piacere croccante!

Una selezione di patate professionali ognuna col proprio utilizzo culinario, per soddisfare ogni esigenza ed arricchire i vostri menù con materie prime dal sapore autentico capaci di esaltare l’essenza delle vostre creazioni. Testate ogni giorno dai nostri chef, garantiscono Gusto costante, piatti sempre perfetti e facili da realizzare. L’intera gamma è stata eletta Prodotto dell’Anno 2025!

Gnocchi e Purè
Imbattibili e facili da realizzare
Novelle
Al vapore, arrosto e in insalata
Forno e Vapore
Dal sapore delicato
Gnocchi e Arrosto
Dal sapore deciso
Le Big Cartoccio, barbecue, grill o farcite
Dolci Versatili in cucina
Viola Ideali per piatti gourmet
Le Piccole
Ideali al forno e vapore

La famiglia Coati si racconta

Un’inedita chiacchierata nel cuore di un’azienda sulla cresta dell’onda

Accettare di raccontare qualcosa di più di un’azienda che è parte integrante della tua famiglia, della tua vita, non è così facile per chi, da sempre, alle parole antepone i fatti, fa sì che siano quelli a parlare. Col rispetto (e l’ammirazione) per chi sceglie questa linea, in mezzo a tanto frastuono comunicativo, mi approccio ai tre fratelli Coati, Giampaolo, Beatrice e Federica, del Salumificio Coati - nell’Olimpo delle eccellenze con la ricercatezza dei suoi salumi - per una serena chiacchierata in cui, ne sono sicura, qualsiasi cosa uscirà ne sarà valsa la pena.

Ciò che percepisco, non appena iniziamo a scambiare qualche battuta è il loro essere diretti, frontali, non ridondanti ma mirati ed efficaci nell’esprimersi. Opportuni, come di chi è abituato a essere molto concreto.

Non ci girano tanto intorno, in un percorso costellato di successi crescenti, di soddisfazioni a piene mani, partono proprio da lì, da quel momento che ha determinato come uno spartiacque tra un prima e un dopo, nella lora attività, inducendoli a tirar fuori il meglio di quello che sono diventati nel corso degli anni e con il conforto di raccogliere tutto il bene che hanno saputo distribuire nel tempo a chi gli stava accanto, dai dipendenti ai fornitori fino ai clienti.

Quella capacità di fare impresa che non può essere minata

Ascoltare dalla viva voce dei diretti interessati il resoconto di un devastante incendio, che in un giorno ha materialmente carbonizzato il lavoro di una vita, potrebbe anche destabilizzare ma è

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troppo dinamico il racconto dell’immediata reazione, per lasciare cadere il cuore. Schiaffo e controschiaffo: il secondo è quello che cattura di più. Perché ci vuole quella razionalità e quel coraggio che in determinati momenti è tutt’altro che scontato riuscire a tirare fuori.

“Era il 9 febbraio quando in azienda è divampato l’incendio - ci racconta Giampaolo -, il 10 siamo venuti a vedere lo stabilimento in cui siamo oggi, l’11 lo abbiamo fatto visitare ai dipendenti e il 12 mattina abbiamo firmato per l’acquisizione di quell’azienda, sempre un salumificio, che aveva una produzione limitata però”. Tre giorni per organizzarsi e proseguire, nel senso di voler dare comunque seguito all’attività, praticamente quasi senza stacco, “perché, se l’azienda va bene, la tua visione strategica, la tua capacità di operare rimangono. L’incendio non ci ha tirato via il saper lavorare, seppur certamente fra mille criticità” è il messaggio che è suonato fortissimo a loro stessi e ai propri dipendenti. “I dipendenti… con loro – interviene Beatrice - abbiamo instaurato da sempre un rapporto molto schietto, di chi chiede tanto impegno e responsabilizza però ascolta, sa ascoltare le esigenze di ciascuno veramente. E in questo momento loro erano fortemente nei nostri pensieri”.

L’emergere della consapevolezza della propria forza

Di fatto la produzione è partita realmente in tempo record, con fornitori che dalla sera alla mattina si sono attivati per reperire macchinari ovunque, tanto per cominciare, per implementare la produzione (poi pian piano sono arrivati quelli ordinati ) e clienti che

si sono messi a disposizione: “Una solidarietà, che ci è parsa come un riconoscimento dei rapporti instaurati negli anni, e ci ha fatto bene. Non ci siamo sentiti soli!” ricorda Giampaolo, che non esita a sottolineare: “Quell’incidente di percorso, come noi lo abbiamo definito, ci ha tolto tanto ma ci ha dato pure tanto, ci ha dato consapevolezza della forza di cui possiamo essere capaci, ci ha fatto vedere il lavoro in modo diverso, ci ha fatto fare investimenti che stiamo portando avanti in modo diverso”. Proviamo solo a pensare a quanti occhi è occorso avere in quei giorni e su quanti fronti è stato necessario agire. Non esistono pozioni magiche. In questo caso però si riesce a individuare, oltre all’ancòra del saper fare impresa con oltre 20 anni di brillante attività, un punto fermo su cui i tre fratelli hanno potuto fare leva in modo particolare: “La nostra – ci confida Federica – è una famiglia molto unita. Noi fratelli siamo una cosa sola, in interazione continua tanto nella vita lavorativa quanto in quella privata, e credo sia perché abbiamo sempre dovuto lottare per arrivare, fin dall’inizio - nel 2000 - quando abbiamo rilevato un’aziendina di quattro dipendenti, solo con tanta voglia di partire e una banca che ci ha dato fiducia. Ecco devo dire che quel che è accaduto nel 2023 allo stabilimento, acquistato nel 2010, ci ha trovato invece, rispetto all’inizio, forti di un’esperienza pregressa a cui non abbiamo esitato ad attingere. Se i primi 6/7 mesi ci hanno visti tutti ininterrottamente coinvolti sette giorni su sette nella riorganizzazione del lavoro, i primi due anni ci sono serviti a prendere confidenza con le nuove condizioni. Poi quando cominci a spingere sui numeri e a vederne i frutti prendi consapevolezza…”.

La famiglia Coati

Oggi hanno deciso di rilanciare, costruendo un ulteriore nuovo stabilimento di circa 45 mila metri quadrati a Bussolengo, fronte autostrada, ancora più performante e con un bel potenziale produttivo. Essendo di nuova costituzione sarà dotato di tutti i requisiti di rispetto ambientale, sostenibilità, certificazioni richieste dai Paesi esteri e consentirà di lavorare in maniera ancora più importante su ricerca e sviluppo. Qui verrà realizzato il polo logistico per tutto il gruppo. Sarà mantenuta anche l’attuale sede e creati due maxi segmenti, tenendo separati i prodotti cotti da quelli stagionati (i primi rappresentano oltre il 50% della produzione).

La solidità va costruita tassello su tassello

In ogni storia che si rispetti, se si è dotati di onestà intellettuale, si riconoscono tempi e persone che vi hanno inciso. E se si è magnanimi lo si dice apertamente: “L’ar-

rivo del nostro attuale direttore commerciale, Massimo Zaccari, nel 2014, ci ha cambiato pelle. Eravamo molto focalizzati su prodotti mass market. Con lui abbiamo ottimizzato il processo produttivo andando ad aumentare costantemente la qualità del prodotto, e lo abbiamo fatto anche attraverso parecchi investimenti in innovazione tecnologica. E sia chiaro – ci tiene a specificarlo Beatrice - che questo non ha comportato la diminuzione di personale, da quattro che eravamo siamo arrivati a 300 dipendenti – ma, anzi, una loro formazione per essere in grado di gestire a livello informatico tutti i processi”. “E ci teniamo a sottolineare che nella nostra azienda attuiamo un controllo di filiera fin dall’inizio: acquistiamo pezzi di maiale o mezzene, estrapoliamo le diverse parti e decidiamo cosa farne. Viene tutto lavorato da noi e questo fa la differenza sulla qualità dei prodotti” spiega Giampaolo che è un profondo conoscitore della carne e geniale nello studiare soluzioni in termini di automazione.

Prosciutto cotto Oro Rosa Riserva
Lo stabilimento produttivo Coati

A questo punto voglio parlare anche con Massimo Zaccari e il responsabile vendite Simone Checchi, che interagiscono strettamente, insieme a un gruppo di colleghi, con la proprietà. Che anche loro raccontino, lato collaboratori /dipendenti, di questa che si è già delineata come una realtà capace di dare non pochi spunti di riflessione.

Mi colpisce il loro modo accorato di parlare di questa azienda che considerano affettivamente cosa loro. Sento forte sulla pelle, mentre si alternano nel racconto, i sentimenti, gli stati emotivi che li hanno attraversati nei vari stadi prima di entrare a regime e comprendo che li anima una motivazione profonda, strutturata, per niente superficiale, come di chi nel tempo ha messo radici. “Indimenticabile – ci racconta Massimo Zaccari- la “benzina emotiva”, che ha rappresentato in quei frangenti in cui ci siamo trovati a fare salti mortali, è stata la benevolenza del cliente e l’accettazione di tempi di consegna meno immediati, di contro a quello che avrebbe potuto essere disinteresse”. E aggiunge Simone Checchi: “Solo in certe situazioni riesci a capire se il rapporto col cliente era sano o incentrato sul business”.

“C’è anche da dire – prosegue Massimo Zaccari - che siamo un’azienda con un buon carico di energia personale che si assomma, vivendo noi tutti la dimensione di gruppo, di famiglia”.

“A fronte di un atteggiamento rigoroso, che chiede rigore – rimarca Simone Checchi - viene poi accordata quella fiducia che ti consente di lavorare serenamente e portare avanti le cose in autonomia - senza che venga detto cosa fare - ma condividendo, confrontandosi. Giusto per preservare questo delicato equilibrio, nella scelta delle persone il profilo personale viene privilegiato rispetto a quello professionale, perché avere un’affinità di visione è più importante, in un simile sistema”.

Punte di diamante

Non si può a questo punto non parlare dei prodotti di quest’azienda, di certe punte di diamante. Di solito è da questo che si parte, noi ci arriviamo a conclusione della chiacchierata perché è semplicemente un “ne consegue” di uno stare al mondo, di un approcciare al lavoro, di un far prevalere con forza certi principi che a ben guardare non sono che la naturale materializzazione della parola sostenibilità. “Una delle soddisfazioni più grandi - ci confida Massimo Zaccari – è stato ricevere un riconoscimento, 5 spilli sulla Guida salumi d’Italia, per il Salame Ungherese, salame a grana finissima, con aromi e spezie naturali, realizzato nello stabilimento in cui stiamo operando, a conferma di una filosofia produt-

tiva improntata nel precedente stabilimento. C’è poi un prodotto nato dopo l’incendio, il prosciutto cotto Oro Rosa Riserva, legato a mano e disossato in maniera antica (sfilato l’osso), premiato a sorpresa fra i primi 10 migliori cotti d’Italia dal Gambero Rosso. Dietro questo prodotto c’è la ricerca di una materia prima pregiata, lavorata in modo artigianale, una cottura sottovuoto superiore alla media (27 ore contro le 17/20 convenzionali) e un sistema piuttosto arcaico di aromatizzazione, per cui viene fatta una bollita con diverse verdure e spezie, ne viene estratto un brodo vegetale che unito alla carne le farà esprimere profumi e aromi di una volta. Una fetta di Oro Rosa si presta anche ad essere tagliata a mano e assaporata spessa, per la sua morbidezza, particolare scioglievolezza e perché ci riconduce a quella dimensione del ricordo che ci scalda l’anima”.

Parlando di cotto Giampaolo mi regala una chicca. “Si ricordi - mi dice – che il prosciutto cotto non è un prodotto che dopo la cottura ha già un gusto stabile. Anche una volta confezionato ha una continua maturazione, seppur sottovuoto. Un cotto appena fatto è come un pandoro appena fatto: l’aromatizzazione è ancora vagante”. Più ti cali nel prodotto per bocca del produttore e più ne scopri!”

Cosa mi resta dei tre fratelli Coati? Il loro volersi bene ed essere improntati al bene dei propri dipendenti: 300 figli che non stanno mancando di contribuire alle non poche soddisfazioni macinate dall’azienda. L’amore fa grandi cose! La vera rivoluzione, oggi che ci arrampichiamo persino sugli specchi, sta tutta qui!

Da sinistra Simone Checchi e Massimo Zaccari

L'IMPRESA

Autore: Luigi Franchi

Meracinque e il Carnaroli Classico

Cosa significa scoprire un’azienda

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La scoperta è la più bella tra le tante esperienze che la vita professionale ci offre. Quando si incontrano le persone per un’intervista o per capire il perché di determinate scelte si apre una sorta di viaggio che non sai mai dove ti porterà. Pensavo questo mentre mi avvicinavo a Villafranca, in provincia di Verona, per andare a conoscere le donne di Meracinque, un’azienda risicola di cui sapevo solamente il nome.

Perché donne al plurale? Perché sono cinque sorelle che hanno preso in carico quello che i loro genitori, ancora comunque molto presenti in azienda, hanno costruito nel corso degli anni. I loro nomi sono Margherita, Benedetta, Silvia, Anna e Maria Vittoria. Ognuna di loro ha un ruolo molto preciso in azienda e il nome Meracinque è nato perché papà Paolo, quando erano piccole, le chiamava meraviglia uno, meraviglia due e via di questo passo. Fin qui la parte romantica. Ora passiamo alla storia di quest’azienda che ha il pregio di dar vita al miglior riso Carnaroli: il Classico.

Cominciamo dalle definizioni del riso

La recente indagine dell’Osservatorio Nazionale sul consumo del riso in Italia, voluta dall’Ente Risi con con la collaborazione di Consorzio Tutela della I.G.P. Riso Nano Vialone Veronese ed Ente Fiera di Isola della Scala (VR), tra le varie domande ne ha formulata una specifica: Cosa sanno gli italiani del riso?

Se stimolati sulla forza storica del riso (il 73.6% sa che ha origini antichissime, già nella preistoria) e attuale il 78.9% dei rispondenti riconosce che è il cereale più utilizzato al mondo, fonte primaria di sostentamento per la maggioranza della popolazione del globo) molto meno chiara è la forza dell’Italia in Europa (solo il 51.5% sa che siamo il primo produttore dell’area) e qualche tentennamento nelle risposte c’è quando si

parla di differenze varietali.

Ad esempio, parlando con la famiglia Tovo di Meracinque, abbiamo capito la differenza tra Carnaroli e Carnaroli Classico che è quello da loro prodotto. È Silvia che ci offre la definizione corretta: “Secondo il decreto legislativo 131 del 2017 è cambiato il modo di denominare il riso italiano in etichetta e secondo questa nuova denominazione le varietà italiane di riso possono essere denominate secondo il nome della varietà, come ad esempio Vialone Nano, Arborio, Sant’Andrea, Ribe, Carnaroli e questo sta a significare che all’interno del sacchetto non c’è il Carnaroli ma c’è un Carnac, c’è un Carnise, c’è un Leonidas, cioè un similare. Solo se in etichetta c’è la dicitura Classico significa che quel sacchetto contiene il vero Carnaroli, la varietà di riso che è stata selezionata nel 1946, dall’incrocio fra Vialone e Lencino”.

Queste specifiche sono molto importanti perché definiscono le caratteristiche del prodotto e il limite generale è che non c’è ancora sufficiente corretta informazione su questi aspetti.

“Noi stiamo facendo ogni sforzo possibile – racconta Silvia Tovo – per fare chiarezza perché solo in questo modo il nostro riso, il Carnaroli Classico, potrà essere valorizzato. Le nostre azioni riguardano la formazione degli agenti di vendita dei distributori ma anche degli chef. Utilizziamo ogni mezzo a nostra disposizione, dai video brevi per far vedere il modo migliore per ricettare all’af-

fiancamento degli agenti, al dialogo diretto con gli chef e, quando possibile, alle azioni comuni con altri risicoltori”.

Come nasce la scelta di investire in questo settore

Qui è Paolo Tovo, il padre delle Meracinque, a raccontare: “Quest’anno rappresenta per me il cinquantesimo anno di professione. Nasco come agronomo e, appena diplomato, venni chiamato a lavorare in una delle più belle aziende agricole del veronese. In pochi anni mi venne affidata l’azienda, con i suoi cinquanta dipendenti, e un settore della stessa: la coltivazione del riso. L’unica coltura che non conoscevo tra tutte quelle per cui avevo studiato. Mi ha talmente appassionato la scoperta del riso che, nei 25 anni in cui sono rimasto lì, è diventata la produzione principale, con 250 ettari di risaie. In quegli anni ho conosciuto funzionari e dirigenti dell’Ente Risi con i quali ho fatto scelte strategiche e sperimentali come, ad esempio, importare, tra i primi in Europa, la semina interrata dalla Spagna. Nel 2000 sono diven-

tato dirigente di una grande cooperativa zootecnica ma il pallino del riso non se ne andava e, quindi, con mia moglie Rita abbiamo deciso di valorizzare un pezzo di terra che avevamo in affitto a Roncoferraro, nel Mantovano. La signora che ci aveva affittato mi disse che lei non ce la faceva più a coltivare il riso e mi propose di mandare avanti la coltivazione. Era un invito a nozze per me. Qui si coltivava solo Vialone nano e, invece, io ho riportato in auge il Carnaroli perché, da sempre, sostengo che il Carnaroli sia il miglior riso in cucina che si possa avere. Nel 2018 ho detto alle mie figlie: vi do in mano un progetto che sbanca, la coltivazione del Carnaroli Classico, perché in quei terreni, nel Mantovano, c’è una struttura del terreno ricca di argilla che dà corpo al riso come in nessun’altra parte. Però è un terreno che bisogna coltivare con una certa capacità di rispetto del suolo; infatti, se sbagli la lavorazione, non lo rompi più neanche con il martello. È partita così la storia di Meracinque, quasi per scherzo ma ogni volta che lo facevamo assaggiare chapeaux. Nel 2018-2019 comincia a imporsi

il discorso dell’applicazione dell’elettronica e dei sistemi di rilevamento anche per quel che riguarda le produzioni agricole e noi siamo stati tra i primi che hanno fatto questo tipo di zonazione dei terreni. Significa che di ogni appezzamento che andiamo a coltivare abbiamo le caratteristiche chimico-fisiche e abbiamo tutta la zonizzazione mappale. Elaborate queste mappe, mettamo in atto un sistema per distribuire la quantità ottimale di seme a rateo variabile, facendo in modo che nelle zone a miglior vocazione interveniamo con una quantità inferiore, mentre nelle zone più scarse mettiamo una quantità maggiore di seme. In questo modo otteniamo una produzione che diventi la più standardizzata possibile, perché è chiaro che, se al cuoco diamo una volta un riso che cuoce in dieci minuti e la volta dopo in quattordici, diventa un disastro. Un’altra cosa che facciamo è la rigenerazione del suolo, non possiamo continuamente pensare di utilizzare solo concimi chimici. Abbiamo importato una serie di tecniche elaborate da un agronomo giapponese che ha messo a punto un cocktail di batteri che permettono un’elaborazione della sostanza organica e quindi un arricchimento per quel che riguarda proprio il terreno dal punto di vista della micro flora e micro fauna dello stesso, quello che viene definito microbiota del terreno. In questo modo abbiamo colture eccellenti anche dal punto di vista vegetativo, mantenendo la pianta al riparo da malattie tipo il brusone o mal del collo, un fungo che attacca la spiga, la pannocchia e a quel punto lì il chicco non cresce più. Noi facciamo anche l’essicazione addirittura di un giorno intero, 24 ore, alla temperatura del corpo umano praticamente, più o meno, all’incirca massimo 37,5-38°C per preservare il più possibile il benessere proprio del chicco e l’integrità. Una volta che è essiccato lo mettiamo in un magazzino perfettamente condizionato e lo lasciamo ri-

posare almeno 12 mesi; è un’altra pazzia che facciamo perché con quello che vale oggi il riso, tenere ferma un anno una produzione non è facile, però questo permette veramente al riso di maturare completamente e dare il meglio di sé. Ora stiamo mandando in lavorazione addirittura il 2023. Naturalmente abbiamo selezionato anche le riserie che lavorano in una determinata maniera e oggi abbiamo la presunzione di dire che il nostro è uno dei migliori risi in circolazione. Abbiamo anche una collaborazione con X-Farm che dura dal 2018, quando abbiamo cominciato a testare il controllo dei livelli dell’acqua in risaia da remoto con il rilievo giornaliero delle temperature e dei livelli. Tutto questo però sarebbe vano se non avessi le figlie che riescono a spiegarlo a tutti coloro che ci scelgono. Infatti la chiave di volta è avvenuta quando ho capito che non era sufficiente produrre bene ma era importante comunicarlo bene, nel modo giusto, e poter contare su cinque figlie che venivano da diverse esperienze in altri settori, che hanno lavorato nel marketing e nella comunicazione, hanno la conoscenza delle lingue, degli usi e costumi delle diverse società nel mondo, ha permesso che questo progetto stia avendo un successo straordinario”.

Come lavorano le Meracinque

Ascoltare Paolo Tovo è stata una grande occasione per riflettere sulla complessità che sta dietro a un perfetto chicco di riso ma l’altra domanda che mi sorge spontanea è: quale prezzo ha la ricerca sul prodotto finito?

A questo risponde Silvia: “Il nostro posizionamento è sicuramente medio-alto ma è necessario spiegare ogni cosa, con passione e onestà. Se nostro padre si è molto impegnato a perseguire negli anni una sostenibilità agronomica e anche ambientale, noi ci siamo impegnate

Le sorelle Meracinque

a far sì che questa sostenibilità fosse anche a livello economico, facendo in modo che il nostro Carnaroli Classico si possa vendere a un prezzo equo, dove a guadagnare qualcosa devono essere tutti i protagonisti della filiera. Quando io faccio i meeting e mi occupo di questa parte commerciale spesso gli interlocutori pensano a un prezzo. Nel momento in cui mostro il listino mi guardano e dicono che siamo molto oneste, ma è una scelta precisa quella che abbiamo fatto; poter raggiungere, con il nostro prodotto, una gamma di ristoratori che vanno dallo stellato alla trattoria dove la qualità è di casa, dove c’è grande cura per la materia prima e che possono sostenere un listino come il nostro. C’è un’altra cosa a cui tengo: il nostro riso, essendo un Carnaroli Classico, non ha rotture e, di conseguenza, cresce molto in cottura perché l’integrità del chicco assorbe molto bene i liquidi, lo chef può sgrammare utilizzando 70 grammi invece degli 80 abituali perché appunto il chicco è più grande, dà appunto una struttura diversa al piatto. Tutto questo per far

capire che il nostro riso costa un po’ di più però ci sono una serie di accortezze tali per cui poi il costo per piatto è assolutamente sostenibile”.

I 15 ettari sono diventati 115, ma sempre a Roncoferraro

Che storia incredibile, vero? Chiedo ancora: ma da quanto siete diventate Meracinque?

“L’azienda è stata fondata nel 1999 e si chiama tuttora Società Agricola Borgo Libero perché Villafranca era stato il primo Borgo Libero in Italia nel 1208. Noi eravamo ancora piccole – continua Silvia – e solo nel 2018 siamo diventate Meracinque. Il papà lo hai ascoltato, è una forza della natura ma la mamma è la nostra esperta di qualità, fa il controllo dei lotti, organizza il lavoro in modo tale che la qualità sia sempre identica. E la scelta di estendere le coltivazioni sempre a Roncoferraro è significativa del nostro voler assicurare il meglio ai nostri clienti”.

Paolo Tovo con la figlia Silvia

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Nel pane e per la comunità

Ricordiamoci

che non è un cibo divisivo. È l’essenza

del mettere insieme

Facciamo rewind. Di pane abbiamo già scritto svariate volte in questo magazine, coinvolgendo più voci e seguendo diversi filoni (tematici… che vi pensate!).

Abbiamo parlato del valore del pane in termini qualitativi, del suo ruolo come alimento quotidiano, di spreco, del nuovo modo di inserirlo e valorizzarlo - anche economicamente - nella ristorazione. Ma soprattutto vorremmo sempre, in ogni stralcio di storia e narrazione che lo riguarda, unirci in coro a tutti quelli che gli attribuiscono l’egemonia culturale: sì, il pane vero, vivo, buono, deve essere presente sulle nostre tavole perché è cultura.

Tria a Verona

Dalla scelta di un pane vero - ricordiamoci cosa significa - può partire una grande rivoluzione. Ma tutto si erge dall’idea che il pane non è corredo né si merita di essere demonizzato per la natura nutrizionale (sì, dobbiamo fare anche i conti con la carboidrato fobia). Se concepito e realizzato in un certo modo è fonte di energia, esito di scelte, prolungamento di agricoltura ed esempio di interazione tra persone. Ed è proprio su questo termine, interazione - un po’ sterile, pertanto lo sostituiremo con comunità - che vogliamo concentrarci in questa uscita.

Spaccio Pani

Ho conosciuto Riccardo Amodeo un paio di mesi fa. Era piombato con due sacchi di farina sulle spalle a Noale, da Giulia Busato (a cui abbiamo già fatto appello nell’articolo Il pane di oggi e quello di domani), indossando una maglia marchiata Spaccio Pani. L’occasione era un pairing davvero singolare tra le proposte di Giulia - Tocio Bread - e diverse annate di Gravner, accompagnate nel bicchiere da Mateja Gravner. Evento che già la dice lunga sulla grande rivoluzione che sta determinando il pane contemporaneo.

Credevo che Riccardo e Giulia, colleghi panificatori, si conoscessero da tempo.

“E invece no, ci eravamo sentiti proprio perché desideravo partecipare alla serata”.

Riccardo era partito da Trieste, un giovedì sera dopo il lavoro, insomma, solo per esserci.

“Ho rintracciato Giulia tramite i social. Sono stato molto

colpito dal suo modo di raccontare ciò che fa e dal come avvalora il nostro settore. C’era più di una vicinanza di pensiero e questo ci mette inevitabilmente in connessione. Credo che, in generale, nel mondo del pane contemporaneo prevalga più lo spirito di fratellanza che la rivalità”.

Mentre ci parla ripensiamo a uno dei punti de Il Manifesto dei Panificatori Agricoli Urbani, l’associazione costituita nel 2018 da Davide Longoni (Panificio Davide Longoni, Milano), Matteo Piffer (Panificio Moderno, Isera, TN) e Pasquale Polito (Forno Brisa, Bologna). È il puto 4:

“I laboratori dei panificatori hanno pareti trasparenti. Cooperiamo condividendo ricette, consigli e fornitori. Crediamo che la rivoluzione del Pane Agricolo Urbano sia di tutti, per questo accogliamo nelle nostre botteghe chiunque scelga di intraprendere la strada del pane. Il dono e la generosità sono per noi valori essenziali. Un movimento forte e radicato, capace di nutrirsi dello scambio, è una garanzia per la prosperità e la sostenibilità di ognuno”.

Riccardo Amodeo, Matteo Grasso, Andrea Chittaro e Francesco Sponza di Spaccio Pani

In quel proposito di assenza di barriere, di muri, risiede l’eccezionalità.

“Avvertiamo un forte spirito di condivisione. Non c’è protezionismo come in altri ambiti” ci conferma Riccardo.

“Con Andrea Chittaro, Francesco Sponza, Giovanna Abbondanza e Matteo Grasso abbiamo aperto Spaccio Pani, a Trieste, da poco più di un anno e abbiamo trovato grande solidarietà intorno a noi. Io stesso prima dell’apertura sono stato un paio di settimane al Forno di Lambrate per confrontarmi sulla linea produttiva e prendere le misure”.

Una dinamica, quella della collaborazione, che ripensandoci abbiamo già sentito altre volte, rievocando immagini di panificatori che si confrontano su impastatrici, metodi, farine, in modo aperto e vicendevole, per far crescere il movimento, più che un mero investimento, per far crescere l’attività. Potrete contraddirci (e siamo qui ad accogliere qualsiasi testimonianza) ma non è così usuale trovare dinamiche simili nella ristorazione, in cui le energie sono spesso concentrate nel proprio rettangolo di gioco. Domandiamo a Riccardo: c’entra con l’incremento dei forni contemporanei?

“Negli ultimi due anni a Trieste, oltre alla nostra, sono nate attività sulla stessa lunghezza d’onda e ne siamo felici. Stiamo parlando di una città piuttosto ingessata in merito alla panificazione. Come in tante altre zone d’Italia si è perpetuata per anni una tradizione, che metto tra virgolette, totalmente slegata dalla qualità e dall’integrità del prodotto. Prendo il pane di segale, evidenza dei nostri

legami con l’Impero austro-ungarico. È stato proposto in modo blando nella nostra città, come una reminiscenza storica, ma senza studio. Noi lo prepariamo con vera farina di segale, adottando tutti i metodi che contraddistinguono la nostra produzione, ovvero con farine scelte, lievito madre e fermentazioni spontanee. In generale, più lavoriamo uniti nella stessa direzione, più benefici ci saranno per il mondo del pane”.

Anche in merito alle resistenze culturali i panificatori moderni hanno molto su cui confrontarsi.

“L’obiettivo è veicolare che il pane prodotto in un certo modo dovrebbe essere quotidiano e non una bottiglia rara da aprire in occasioni speciali! Abbiamo il vantaggio di lavorare con un alimento meno complicato di altri; allo stesso tempo è complesso scardinare certe abitudini. Sicuramente remando nella stessa direzione stiamo stimolando una consapevolezza”.

Come altri, Spaccio Pani (che porta la dicitura forno+ frigo) mette il pane al centro, e attorno tante altre cose: i caffè specialty, la pasticceria dolce e salata, vini e bevande naturali. Anche qui c’è una linea che accomuna molti.

“Parti dal pane, che rimane il fulcro, e poi è inevitabile che quel modo di intendere il nutrimento contamini tutto il resto”.

Tria a Verona

Il concetto di comunità ce l’hanno già nel nome, visto che rimanda a tre, quanti sono loro: Simone, Francesco e Antonio. Ma in realtà l’aria conviviale tipica della bot-

tega di quartiere, quella in cui sta nascendo una piccola comunità, è sempre più presente anche al civico 21D in via IV Novembre, a Verona, dove il via vai di clienti inizia alle 8 e si esaurisce alle 22.

Scopriamo che molti sono già affezionati e tornano anche più di una volta al giorno.

“Oltre a sfornare in più mandate abbiamo una proposta diversificata, che copre vari momenti della giornata, dalla colazione con pasticceria dolce e salata, fino all’aperitivo. Non è stata una scelta dettata dalla moda ma da fattori precisi. Il primo riguarda le diverse attitudini che ci caratterizzano: io mi sono formato nella panificazione, Antonio e Francesco invece hanno esperienze e inclinazioni più legate alla sala e al vino, quindi il progetto è nato proprio con la volontà di condividere e dare continuità alle connessioni tra di noi. Non ci siamo inventati chissà cosa, abbiamo unito i puntini lasciando che tutti e tre potessimo esprimerci”.

L’altro fattore, ci conferma Simone, riguarda la carenza di proposte con questa identità in una città come Verona, vivace e molto frequentata dai turisti, che avverte il bisogno di innovarsi.

“Sin da quando abbiamo iniziato i lavori abbiamo registrato un buon interesse da parte del vicinato. C’era curiosità e voglia di scoprire una formula diversa dal solito bar. È piaciuta l’idea di concentrarsi su un pane con determinate caratteristiche, nato da lievito madre, da una ricerca attenta delle farine e dall’affiancarci tanto altro purché sia di qualità”.

Questa è una conferma non solo per Simone (che dopo aver cambiato rotta, da geometra al settore della ristorazione, si è dedicato alla panificazione) ma per l’intero

comparto: la voglia di pane buono, non ‘veloce’, con una spina dorsale vera… c’è, c’è eccome!

“Non guarderemmo mai l’orologio. La gratificazione è data soprattutto dal riscontro dei clienti”. Soffia nella stessa direzione il vento che si respira fuori da Tria, a contatto con altre realtà che mettono il pane al centro.

“Dobbiamo ammettere che nel nostro settore abbiamo percepito tanta partecipazione. Ci sono state delle figure chiave, a cui il mondo dei forni contemporanei deve molto, che hanno aiutato a scoprire e riscoprire il valore del pane. Poi si sono aggiunti gli eventi, la condivisione di idee, il confronto diretto. Siamo felici perché tanti colleghi sono venuti a trovarci in questi primi mesi e questo la dice lunga sulla voglia di continuare a far crescere questo movimento”.

Casa Paris

Non capita tutti i giorni di mettere piede in un’attività che non ha ancora aperto le porte per la prima volta. È quello che ci è accaduto con Casa Paris, nel settembre scorso, indirizzati dal vignaiolo Andrea Ugolotti. Il forno di Simone Verrocchio e Martina Paris è adagiato su una posizione privilegiata, a Moscufo, in provincia di Pescara. Un angolino di prodotti profumati, conserve e altre goduriose incursioni, avvolto da linee pulite e tinte bianche. Nel laboratorio c’è una finestra che incornicia un paesaggio mozzafiato: oltre c’è ’Abruzzo rurale che parla, tra distese morbide e tanti colori che mutano con l’avvicendarsi delle stagioni. Il territorio è importante, anzi fondamentale per Simone e Martina, come ci raccontarono allora; oggi, a nemmeno un anno dall’apertura, condiscono quei propositi, già definiti, con

Martina Paris e Simone Verrocchio

ulteriori pensieri.

“Per noi fare pane significa dare voce al territorio e portare rispetto all’ambiente che ci circonda. Contrastiamo l’uso intensivo dei campi e promuoviamo, al contrario, la trasparenza, la ricerca, lo scambio con i nostri fornitori”.

Sicuramente vi sono delle complessità di divulgazione diverse rispetto a un forno urbano ma le risposte arrivano - testimoniano loro stessi - anche quando si è in un paesino di tremila abitanti.

“Il nostro modo di fare pane crea legami con la comunità perché chi viene qui non compra solo un prodotto, ma entra in una storia fatta di terra, grano, lievito madre e tradizione. Nel nostro laboratorio passiamo tanto tempo a raccontare come facciamo le cose proprio perché ci raggiungono persone attente, consapevoli, che vogliono essere informate e che adottano determinate scelte. È bello vedere che i nostri clienti apprezzavo il nostro lavoro e si fidano della nostra genuinità. Sono di diversa estrazione sociale ma accomunate da un forte senso di rispetto verso il cibo e il pane!”

La collaborazione, come abbiamo intuito già dai precedenti contributi e da altre interviste, è il minimo comune denominatore per assicurarsi la crescita.

Simone e Martina attingono dalla propria attività di coltivazione del grano ma non mancano anche di confrontarsi con mugnai vicini e altre attività locali.

“La collaborazione è essenziale come l’aria che respiriamo. L’Abruzzo è una regione in cui si fa un po’ fatica ad aprirsi… diversa dall’Emilia Romagna, per esempio, dove c’è già una bella rete di produttori che seguono la stessa filosofia. Ci auspichiamo di creare occasioni di scambio anche con le altre aziende che panificano qui in Abruzzo.

C’è un filo rosso che si srotola da ogni pane vero che viene messo al centro, abbiamo tante ragioni per dirlo. Ricordiamoci di riservargli il ruolo che gli si addice: in mezzo, per tutti.

Spesso è il tempo che manca… ma ci crediamo!”.
La vista dal laboratorio di Casa Paris

IL RISTORANTE

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La Madia a Brione

Se la legge di difformità funziona

Viviamo in un periodo storico in cui l’omogeneità è quasi sempre la strada più comoda. La sua alternativa, ovvero la difformità, è seminata a spaio e raramente viene praticata in modo sano. O meglio, sentito.

Se fate appello ai tanti esempi che popolano le cronache vi sembrerà chiaro: essere divergenti nel 2025 è più un esercizio di stile; è cucirsi addosso abiti per forza alternativi, perché così si emerge, si fa parlare di sé, e le foto bucano lo schermo.

Sono pochi quelli che nella divergenza, anche quando ha tratti duri e fastidiosi, trovano ricchezza. Spesso sono figure silenziose, pacate, defilate. Vi starete chiedendo cosa c’entra questo preambolo, questo grande braccio di ferrò tra omogenia ed eterogenia, con un ristorante della Val Trompia, nell’alta bresciana, inaugurato nel 1998: La Madia di Brione. Detto e servito.

Dal primo giorno a oggi con lo stesso faro

Scriviamo spesso di insegne bollate da un’evoluzione, in cui sono le nuove generazioni o l’innesto di nuove figure a guidare il cambiamento. La particolarità di Michele Vallotti, che ha voluto e cresciuto La Madia, è che in questi ventisette anni di attività, anche sen-

za variazioni generazionali, ha visto nell’evoluzione l’unico binario percorribile.

Non per stare al passo con i tempi, come tuonano centinaia di recensioni di ristoranti e di siti web, bensì perché quando c’è evoluzione nel pensiero, nell’etica, nel modo di intendere le cose, non può che esserci anche nel proprio lavoro.

Fare ristorazione, da questo punto di vista, è un onere ma anche un onore: sono talmente tanti gli aspetti su cui si può intervenire accordandosi alla propria etica che è difficile trovare un altro mestiere così completo. Il cibo, l’accoglienza, l’origine degli alimenti, il rapporto con i produttori, la cura della tavola, le responsabilità verso le persone: quanti campi d’azione include un’attività di ristorazione?!

Chi scrive non ha avuto modo di frequentare La Madia agli albori, e nemmeno dopo i primi anni di apertura, ma è dal racconto carpito qua e là, e dalle stesse parole di Michele, che si deduce il nuovo che è stato innestato. Gli chiediamo di partire da una delle tante frasi che connotano il suo pensiero: la cucina imperfetta e variabile.

“Ho sempre avuto questo approccio, di accettazione

Michele Vallotti
La sala de La Madia a Brione

della volubilità della cucina, anche quando all’inizio proponevo piatti sensibilmente diversi, ma con il passare del tempo i valori si sono plasmati e definiti. Più che un pensiero è un atteggiamento che ho dentro, a livello sentimentale, rispetto alla cucina ma prima ancora nei confronti degli alimenti vivi. Quello che facciamo qui non è promuovere o ricercare dei difetti ma accettare che le materie vive non siano sempre uguali, precise, perfette. È proprio in quel tratto, quello dell’imperfezione tollerata, che sono convinto si giochino le emozioni. Quando si rispetta la vitalità del cibo automaticamente si accetta di coglierne tutte le sfumature. Faccio un esempio: se decido di acquistare il formaggio da un casaro che lavora in un certo modo accetto di portare in cucina tutti i possibili tratti di quel prodotto, in cui incidono tanti fattori, dalla stagionalità alla tipologia di pascolo”.

Una cucina che è tante cose

L’orientamento gastronomico di questi anni, diciamocelo, è andato per buona parte nella direzione opposta: pulizia, architettura dei sapori, millimetri di alimenti abbinati a millimetri di altri alimenti su cui si è lavorato profusamente cercando l’ineccepibilità. Il ritorno

all’interesse per l’artigianalità ha cambiato un po’ il passo, re-introducendo il valore del pezzo unico, più ruvido e impreciso, ma spesso buono, anzi estremamente buono. Si è tutt’altro che estinta la fetta di fine-gastronomy, come vi abbiamo raccontato più volte (e non sarebbe neanche corretto avvenisse) ma i termini che circolano da qualche anno rivelano matrici diverse.

La cucina di Michele è tante cose, ma lo è da tempo. Lo raccontano le scritte impresse sulle pareti della sala e un piccolo manifesto fatto recapitare al tavolo poco prima di riconsegnare i cappotti.

“I piccoli produttori artigianali del territorio sono la condizione vitale per una cucina autentica e onesta. I loro prodotti, lontani dagli standard e sempre diversi; solo verdure stagionali, il più possibile di varietà antiche; carne (poca) di animali allevati in libertà e in condizioni naturali; farine buone combinate a lievito madre fatto in casa; l’attenzione al selvatico inteso come erbe, bacche e quanto il territorio offre di suo; l’utilizzo di fermentazione naturale e spontanea di verdure e bevande alternative; formaggi a latte crudo da piccoli produttori; predilezione per vini biodinamici e naturali di viticoltori artigianali. E ancora: utilizzo della tecnologia misura-

to e l’assenza di additivi e conservanti…”.

Nessuna di queste annotazioni deriva da emulazioni o mode, come dicevamo prima, ma dal sentito, dalla spinta che ti direziona nel prendere le scelte, dallo studio e da tanta, tanta ricerca.

Il racconto è un proposito educativo

Una bilancia antica, gloriose tome, setacci, vasi in fermento, quadri in legno, zuppiere, mestoli e utensili di cucina o da lavoro… sarebbe difficile riepilogare tutti i particolari contenuti nella sala de La Madia, che ti avvolge con fattezze quasi da museo popolare.

Tuttavia c’è un elemento che proprio non si lava via dal libretto dei ricordi: il calore. Quando si fa ingresso in sala, dopo aver goduto del panorama fuori, il tepore trasuda dalle pareti e dai gesti.

“La sala, intesa soprattutto come persone, è fondamentale nella vita di un ristorante” riprende Michele. “La percezione del cliente è filtrata da chi si trova davanti e buona parte della riuscita di un momento a tavola si gioca sulla capacità della sala di essere empatica. Poi c’è tutta la parte di traduzione del lavoro svolto in cucina: chi è fuori si fa eco del nostro impegno e delle nostre scelte”.

Mentre parliamo, Michele sta preparando un miso che sarà pronto tra tre anni. Diventa il pretesto per mettere il dito nel tempo.

“La cucina come la intendiamo noi lavora lentamente. Tantissime delle nostre preparazioni richiedono tempo, sedimentazione, attesa. Credo che, in generale, ci si debba rieducare al tempo, alla pazienza, e pure agli errori. Siamo nell’era del tutto e subito ma è evidente che qualcosa in questo metodo sia compromettente”.

I piatti che escono dalla cucina de La Madia, ad essere sinceri, sanno esprimersi da soli. C’è gola, sorpresa, intensità. Penso agli spaghetti mandorle e siero, al cavolo riccio al barbecue, e a tante altri bocconi che riconducono sempre a qualcosa di conosciuto pur essendo nuovi. Ma a parte questa capacità di auto-narrazione comprendiamo (e sottoscriviamo!) l’esigenza di un racconto di sala preciso, lungo, che parte dalla radice delle cose. Non c’è voce tra quelle che arrivano al tavolo che non sappia spiegare con precisione metodi, ispirazioni, tecniche, origine delle idee. E finisce che ti senti veramente in un luogo speciale, in cui piacere e significato convivono.

Tra sostenibilità reale e difformità

“Oggi si vuole rendere tutto facile e c’è anche la tendenza a lavarsi la coscienza con poco. Io sono convinto che adottare una sostenibilità reale, in un contesto economico come quello attuale, implichi fatica e rinunce. Se si vuole dare un senso alla sostenibilità c’è un prezzo da pagare. Per esempio si devono fare i

conti con le materie che cambiano, che non si presentano sempre come ci si auspicherebbe; ma anche con l’impegno di acquistare prodotti interi, non processati. Potrei farti un lungo elenco”.

Ci perdiamo qualche minuto a parlare della genesi dei piatti di Michele; a discutere sull’importanza di una cucina completa dal punto di vista sensoriale, che contempli acidità, amaro, dolce, salato per riavvicinare le persone alla complessità. Alle note dimenticate. Viene a questo punto spontaneo chiedergli che rapporto abbia con le cucine degli altri.

“Se non sono qui, o in laboratorio, sono fuori a provare altri locali!” ironizza.

“Quando esco mi relaziono sempre con interesse. Sono felice se trovo un pensiero in linea con il mio ma, onestamente, lo sono ancora di più quando è diverso. È così: se c’è diversità ci possiamo migliorare”.

Una legge di difformità che se entrasse in vigore su larga scala potrebbe rendere tutto un po’ migliore. E non stiamo parlando ‘solo’ di cibo.

L'INNOVAZIONE

Graziadei e Melinda

Un’accoppiata vincente di sperimentatori, che si sono scelti

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In quanti vorrebbero trovarsi nelle “segrete stanze” delle aziende che fanno ricerca e sperimentazione ed essere lì a non perdere una battuta nel seguire il procedimento che porterà ad un nuovo prodotto e poi assaggiarlo e dare il proprio parere?

È una fase magica il momento in cui le intuizioni si materializzano e si tratta di verificarne l’effettiva bontà.

C’è curiosità, attesa ma soprattutto una soglia di attenzione molto elevata. E poi bocche pronte a “sacrificarsi” per l’assaggio …anche negli altri comparti dell’azienda!…

L’ho vissuta per un’intera mattinata questa esperienza fra materie prime di qualità – che le cose buone lo dicono già dall’aspetto - , la loro esaltazione attraverso giusti accostamenti e i profumi diffusi dal forno…

Foto: archivio Melinda

Un vivace fermento connota Graziadei, nella sua instancabile volontà di realizzare specialità dolci a base di mela - sempre e solo trentina - in tutte le declinazioni possibili (e in questi ultimi anni ne ha sfornati non pochi tra mele in camicia, crumble di mele, torta di mele…), dopo aver fatto dello strudel - declinato in molteplici versioni - il proprio fiore all’occhiello, senza mai ricorrere a conservanti se non il freddo. Grande elemento di valore quest’ultimo aspetto!

Gli occhi “a flipper” fra strudel gourmet, strudel Christmas edition e strudel di pasta morbida a base ricotta di montagna

Sono trascorsi solo pochi mesi dal lancio dello strudel gourmet con la sua croccante sfoglia, la vera cifra stilistica di Graziadei, una cannella di particolare intensità olfattiva, varietà di mela con caratteristiche aromatiche importanti tagliate a fette e non a cubetti per un ripieno più pieno, l’uvetta bagnata nel rum, pinoli dal gusto deciso e già la scelta degli estimatori si è indirizzata in questa direzione. Giusto oggi nel laboratorio qualità & sviluppo si stanno mettendo a punto, sotto i miei occhi, un paio di prodotti alquanto tentatori. Vedo sbucciare mele a polpa rossa e spezzettare un liffo ingrediente che lascio segreto, entrambi parte del ripieno di quello che sarà lo Strudel Christmas edition, sorprendente per la colorazione della mela, giusto a tema con le festività, e il suo sapore unico che richiama quello dei frutti rossi, la fragola di bosco in particolare. Un prodotto che uscirà in edizione limitata, perché limitata è la produzione di questa varietà di mela, che ha una sua stagionalità molto stretta.

“Un dolce da condividere e da alternare all’onnipre-

sente panettone, nelle tante festività di quel periodo, per il piacere di variare rispetto all’atteso”, mi dico riflettendo sull’appeal che questo prodotto del buon ricordo esercita su di noi…

Ma mi intriga pure la preparazione di una pasta morbida a base ricotta di montagna, altra soluzione rispetto alla pasta sfoglia o alla pasta matta di cui solitamente è rivestito lo strudel, molto interessante per la superficie croccante e l’interno morbido appunto: un’altra visione dello strudel che richiama il sapore delle buone cose caserecce.

Melinda, un signor partner

E queste sono solo alcune delle combinazioni possibili di un’azienda, Graziadei appunto, che non è solo sperimentatrice capace di formulare diverse ricettazioni (in termini di pasta e abbinamento di ripieni) ma che dal 2011, è in partnership con uno sperimentatore per eccellenza: Melinda, il noto consorzio ortofrutticolo della Val di Non, in Trentino, che raggruppa circa 4000 piccoli produttori riuniti in 16 cooperative che vivono e coltivano mele in Val di Non e Val di Sole (Valli del Noce) e le conferiscono a questo consorzio per valorizzarle al meglio (sia come mela da tavola che come trasformato). Il dinamismo di questa realtà lo si può rilevare su diversi fronti, a partire dal certosino lavoro per mantenere l’elevata qualità riconosciuta delle proprie mele – dal campo passando per la lavorazione e lo stoccaggio - ma anche dal lavoro di innovazione mediante lo studio e la coltivazione di nuove varietà di mela, “varietà club” come si dice in gergo, da affiancare alle regine di quelle valli quali Golden e Renetta, lavorando sulle caratteristiche più diverse, fra croccantezza, succosità, aromaticità, e perché no,

Strudel Gourmet

, Sweetango , Isaaq , I frutticoltori che hanno che le hanno già piantumate e coltivate ci hanno creduto e il loro spirito di cooperazione emerge anche dall’adeguarsi alle necessità, come il comprendere di dover adattare la propria offerta all’evolvere del gusto e delle preferenze dei consumatori moderni. Non è sempre facile accettare la scommessa ma innovare significa osare e rischiare e, il più delle volte, vincere - come nel caso della mela aromatica dalla polpa rossa - ora ricercatissima, che ritroveremo nell’intrigante nuovo dolce di Natale proposto da Graziadei.

Perché le mele prodotte nelle Valli del Noce (Val di Non e Val di sole) hanno un particolare pregio organolettico-qualitativo?

Per tutto un insieme di fattori che fanno di questo territorio un unicum, fra cui citiamo principalmente un clima dalle spiccate condizioni alpine, con estati brevi, fresche e con temporali frequenti e inverni molto rigidi e nevosi; importanti escursioni termiche tra il giorno e la notte; un’elevata limpidezza dell’atmosfera dovuta alla totale assenza di nebbie e foschie e

Sulla stessa via della sostenibilità, ciascuno a proprio modo

Ci stanno credendo, tanto Graziadei quanto Melinda ed entrambi stanno affrontando un impegnato percorso di sostenibilità.

È il 2022 quando Graziadei accede con successo all’agevolazione MISE relativa al bando “Investimenti Sostenibili 4.0” con un progetto di efficientamento energetico, consistente nella realizzazione di un magazzino automatizzato per lo stoccaggio del prodotto finito che, congiuntamente a un impianto di produzione di energia fotovoltaica esteso su tutta la copertura dello stabilimento e un sistema di monitoraggio di consumi energetici proattivo, consente di massimizzare l’autoconsumo di energia fotovoltaica quando presente – anche stoccando frigorie per ritardare l’accensione dei motori nelle ore serali - riducendo di fatto le emissioni di CO2, con la conseguente eliminazione dei camion che quotidianamente spostavano i prodotti surgelati dal sito di produzione al sito di stoccaggio. Quanto a Melinda c’è qualcosa di cui non tutti, probabilmente, sono a conoscenza. Nella Miniera di Rio Maggiore, all’interno delle gallerie (cavità) lasciate dall’attività estrattiva di roccia Dolomia, ha ricavato ben 46

celle ipogee - una sorta di frigorifero naturale, unico al mondo, per la frigo-conservazione di frutta sottoterra, in atmosfera controllata-. Ciò consente di stivare fino a 40.000 tonnellate di mele e un risparmio energetico molto importante rispetto alla conservazione in superficie (circa 1,9 GW/h, pari alla quantità di energia elettrica utilizzata da 2.000 persone in un anno).

In questo periodo fervono i lavori per completare il progetto della Funivia delle mele, che ha vinto il bando PNRR per la logistica agroalimentare e collegherà

uno degli stabilimenti di Melinda con la miniera di Riomaggiore, dove avverrà lo stoccaggio delle mele. Unica al mondo a trasportare frutta, percorrerà un tratto a cielo aperto e uno in galleria per 1300 metri e un dislivello di 87 metri, sostituendosi ai veicoli a motore cha annualmente percorrono 12.000 km di strade (nell’ottica della riduzione dell’impatto di Co2).

Che dire? Nel lavoro, come nella vita, ci si sceglie perché si è affini.

Matteo Cavagna, responsabile commerciale di Graziadei Strudel di pasta morbida a base di ricotta di montagna
Celle Ipogee Melinda

I CUOCHI

La formazione continua è utile per studenti, cuochi e aziende

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Anche nel 2025 la formazione proposta da Federcuochi ha dei validi alleati in scuole, istituti alberghieri e centri di formazione specializzati, divenuti nel tempo punto di riferimento per migliaia di giovani, ma anche per allievi più maturi, che vedono nella ristorazione il proprio percorso professionale. Alleati non nuovi, che spesso hanno visto FIC protagonista di eventi prestigiosi.

Pensiamo a CAST Alimenti, la Scuola di cucina e dei mestieri del gusto, nel Bresciano, che dal 1997 avvia corsi di formazione con importanti firme della cucina, molte delle quali FIC, e infatti non è la prima volta che i nostri chef intervengono dalle aule di questa Scuola.

Pensiamo a In Cibum, la Scuola di alta formazione gastronomica nel Salernitano, altro partner FIC, che durante l’anno svolge corsi per chef, pasticceri, pizzaioli, panificatori. Anche qui siamo di casa e sono numerose le dirette che avviamo con centinaia di iscritti, oltre a quelli in presenza.

O ancora, la collaborazione con la Scuola Tessieri, in Toscana, l’Atelier delle arti culinarie, dove abbiamo svolto concorsi di rilievo nazionale, mentre nuovi appuntamenti ci vedono in prima linea con questa squadra di professionisti.

Naturalmente, sarebbe impossibile citare tutte le scuole di specializzazione in Italia con cui collaborano le nostre Associazioni Provinciali e Unioni Regionali nei singoli territori. Ma è proprio a loro che va il nostro plauso e il nostro ringraziamento per voler condividere ogni anno il proprio percorso di formazione continua con FIC. Poi, ci sono gli istituti alberghieri, dove sono migliaia in tutta Italia sia i docenti sia gli allievi che fanno parte della nostra “grande famiglia” di cucina. Anche

qui opera la Nazionale Italiana Cuochi, con il progetto avviato pure per il 2025 di “NIC in School”: grandi professionisti del nostro Team azzurro avviano ogni anno un calendario preciso e puntuale su tutto il territorio nazionale, per incontrare i giovani allievi, informarli e “illuminarli” su molteplici aspetti della vita associativa FIC: dal mondo delle competizioni a quello della cucina professionale, dai diversi Compartimenti NIC (Eventi, Gare, Formazione…) ai numerosi sbocchi professionali che il percorso gastronomico italiano può offrire loro, comprese le esperienze lavorative e stagionali all’estero. Molto spesso sono gli stessi docenti NIC a portare l’esempio concreto delle loro carriere direttamente nelle aule, mentre l’operato della Nazionale si affianca al lavoro importante, prezioso e meticoloso che svolgono ogni giorno i docenti della scuola italiana.

Infine, come non citare proprio la nostra Alta Formazione, il progetto che ormai da anni Federcuochi mette in campo direttamente per i propri iscritti, per cui vengono attivati corsi specifici su determinati campi e aspetti della cucina professionale: dalle nuove tecniche di cottura alle esigenze del catering e del banqueting; dalle sfide dei ristoranti gourmet a quelle delle trattorie e dei ristoranti tradizionali. I corsi sono sempre tenuti da docenti iscritti all’Albo FIC di Alta Formazione. Con una solida certezza: la formazione continua è elemento utilissimo anche per le aziende partner FIC, 365 giorni all’anno! Infatti, è notevole il supporto che riceviamo dalle stesse aziende che ci seguono da anni e che sono sempre presenti ai nostri appuntamenti di aggiornamento professionale.

Petti interi da filiera 100% italiana sono preparati rispettando il rituale della “Lenta Cottura”. Per un gusto eccelso.

LA NEUROVENDITA

Quando una pizza vale tre stelle

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In una giornata qualunque all’Osteria Francescana, uno dei templi mondiali dell’alta cucina, succede qualcosa che non finisce sul menu, né nel pairing dei vini, né in una guida gastronomica. Succede che un bambino piange. Un gesto naturale, umano, ma fuori luogo rispetto alla scenografia perfetta di un pranzo tre stelle Michelin. Quel pianto però non viene ignorato, né delegato, né considerato una nota stonata da mascherare. Succede invece che Massimo Bottura, in persona, esca dalla cucina e serva al bambino una pizza. Una semplice pizza. Un piatto che non figura nella carta, che non è parte di un percorso di degustazione elaborato, eppure, in quel momento, è la risposta più alta che un grande ristoratore potesse dare. Non è una questione di ricette, di tecniche né di storytelling. È una questione di intelligenza del servizio, di empatia, di sensibilità nel cogliere il bisogno dell’altro e nel saper rispondere con semplicità ed eleganza. È un atto che mostra che non servono solo budget straordinari per fare cose straordinarie. Servono occhi attenti, orecchie aperte e un cuore pronto a uscire dagli schemi. Bottura ha letto la sala, ha capito il contesto e ha agito. E lo ha fatto con un piatto che, per quanto semplice, ha assunto il valore di un gesto simbolico. Quel bambino, che non sapeva cosa mangiare in un ristorante stellato, ha ricevuto qualcosa che conosceva, che amava, che gli ha restituito sicurezza. E quel gesto ha rappresentato un innalzamento radicale del servizio. Non ha abbassato la qualità dell’esperienza: l’ha elevata. Ha trasformato un limite in una possibilità, un problema in una relazione. Ha mostrato che la vera creatività, in sala come in cucina, non è solo pensare cose impossibili, ma saper mettere insieme le cose possibili

Lorenzo Dornetti ceo Neurovendita

in modi nuovi, sorprendenti, generosi. E allora, cosa possiamo imparare da questa scena che ha fatto il giro del web e che merita di entrare in ogni manuale non di cucina, ma di ospitalità? Che l’accoglienza non è solo forma, è sostanza. Che il lusso vero non è rigidità, ma flessibilità. Che la capacità di adattarsi ai bisogni degli ospiti – anche quelli piccoli, non previsti, fuori target – è un indice di maturità professionale. Che la relazione è il piatto più importante da servire, ogni giorno. E che la personalizzazione del servizio, quando è autentica e non forzata, è la chiave per costruire esperienze memorabili. Ogni ristoratore, ogni maître, ogni cameriere dovrebbe portarsi a casa questa immagine e tenerla appesa nella sua mente. Perché la vera sfida oggi, per chi lavora nella ristorazione, non è solo stupire. È donare esperienze di piacere autentico. Non è solo creare piatti spettacolari, ma creare momenti che lasciano il segno. Proviamo a porre una domanda a noi stessi ed ai nostri staff: quali attenzioni nel servizio possono fare la differenza? Cosa possiamo fare per rendere l’esperienza da noi qualcosa di piacevole oltre le aspettative? Niente budget milionari. Niente tecnologia robotica mischiata all’intelligenza artificiale. Solo tanta cura per chi conta davvero, il cliente, in tutte le situazioni e sfaccettature. Mettendo il meglio della nostra capacità di relazione, di ascolto e creatività. Questa è la lezione che ci ha lasciato Bottura. Una lezione che non costa nulla, ma vale tantissimo. E che, forse, inizia proprio così: con una pizza, e un sorriso.

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La Mozzarella di Bufala Campana DOP

Il termine “mozzarella” deriva dal verbo “mozzare”, un’operazione antica, praticata ancora oggi in tutti i caseifici, che consiste nel forgiare con le mani il pezzo di cagliata filata, staccando con gli indici e i pollici le singole mozzarelle.

È così che si ottiene la tipica forma tondeggiante di questo formaggio dalla straordinaria versatilità. Ma questo nome non è altro che un grande contenitore di pezzature e origini diverse che meritano un’accurata distinzione.

La Mozzarella di Bufala Campana DOP, come da disciplinare, può essere prodotta solo con latte di bufala fresco lavorato entro 60 ore.

È un formaggio a pasta filata unico, che ha saputo affermarsi in tutto il mondo per le sue specifiche caratteristiche organolettiche: il colore bianco porcellana, la superficie liscia e compatta, il profumo di latte di bufala appena munto.

Per essere certi della veridicità del prodotto, è fondamentale saperne riconoscere anche le peculiarità al taglio: la Mozzarella di Bufala Campana DOP infatti suda golose gocce di siero dal sentore di fermenti lattici e fieno, che ne garantiscono la freschezza e la qualità.

È resistente al taglio e al morso, poi diventa morbida e avvolgente.

DoGusto ha selezionato una delle migliori mozzarelle di bufala campana DOP da un’azienda che vanta un allevamento di oltre 3000 bufale, per un ciclo produttivo corto, interamente tacciabile, e pertanto garanzia di qualità e autenticità.

Viene proposta in diversi formati, anche affumicata, per arrivare a rispondere ad ogni esigenza di cuochi e di pizzaioli.

Nella versione affumicata le caratteristiche della mozzarella di bufala campana si combinano ad un’affumicatura equilibrata e invitante, che conferisce alla crosta della mozzarella di bufala un colore ambrato e un sapore intenso e deciso.

L'ANALISI

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Rapporto Ristorazione FIPE

Il 2024 si chiude per il mercato del fuori casa con un valore stimato di 96,4 miliardi di euro

Puntuale e preciso come sempre il Rapporto Ristorazione della FIPE è stato presentato mercoledì 9 aprile presso la sede di Confcommercio nazionale a Roma.

L’indagine del centro Studi FIPE, diretto da Luciano Sbraga, è uno strumento importante per capire, da parte degli operatori di tutta la filiera dei consumi fuori casa, come si evolve questo mercato. I dati che vengono presentati, oltre a tracciare un quadro sintetico, ma molto efficace, del contesto macroeconomico del pianeta e la situazione economica del Paese, come condizione per capire le scelte di consumo delle persone, servono a dare il giusto valore a un comparto – quello della ristorazione – mai sufficientemente valorizzato come merita.

L’Italia, un paese di mediani

“Il Censis ha definito il 2024 come l’anno dove in modo emblematico è emersa una tipica sindrome italiana: quella della medietà, dove il Paese si muove intorno ad una linea di galleggiamento senza “capitomboli rovinosi” né scalate eroiche”. – afferma il presidente FIPE, Lino Enrico Stoppani, nell’introdurre la presentazione - È questa in un certo senso una buona sintesi anche dell’anno della ristorazione italiana, laddove, rispetto al periodo pre-pandemico, i consumi aumentano di valore (+11,3%), ma diminuiscono di volume (-6%) e il saldo tra le imprese che hanno migliorato il risultato economico e quelle che l’hanno peggiorato resta positivo (+26,2%), ma è comunque parecchio inferiore al saldo di un anno prima (+34,5%). Similmente, anche altri dati confermano questo andamento timido. Il trend positivo dell’occupazione - ad esempio - si consolida, con 70mila occupati in più e un +6,7% rispetto al 2023, eppure la capacità attrattiva del settore sembra indebolita con una difficoltà ormai strutturale a reperire personale e - quasi - una rinuncia alla speranza di trovarlo qualificato. Solo una minoranza delle imprese sfrutta per reperire personale le sinergie con istituti di formazione, il 70% di affida ancora al passaparola, con impatti inevitabili anche sulla produttività aziendale”.

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Forte pressione competitiva

ASIMMETRIE:

Quanto valgono i consumi fuoricasa

Nel 2024 sono attive 327.850 imprese nel settore della ristorazione, in lieve calo rispetto al 2023 (-1,2%). Nel comparto bar le imprese sono 127.667 (-3,3% sul 2023), mentre i ristoranti e le attività di ristorazione mobile sono 195.670 (+0,1%). Le imprese attive nel comparto del banqueting, della fornitura di pasti preparati e della ristorazione collettiva sono 3.849 (+3,9%).

Donne, giovani e stranieri si confermano protagonisti del settore. Le imprese femminili sono circa 94.400 (pari al 28,8% del totale), mentre quelle gestite da under 35 superano le 40 mila unità (12,3% del totale). Le imprese con titolari stranieri rimangono nel 2024 stabili sopra le 50 mila unità (14,5% del totale).

Rimane elevato il turn-over imprenditoriale. Nel 2024 sono 10.719 le nuove imprese, mentre 29.097 hanno cessato l’attività, per un saldo che è negativo e segna -18.378 unità. Rispetto al 2023 si registra una crescita più moderata delle nuove iscrizioni, che passano dal 6,5% al 3,9%.

Stesso tasso di crescita registrano le cessazioni, anch’esse aumentate del 3,9% rispetto al 2023.

Il dato sulle chiusure richiama l’importanza di rafforzare le capacità manageriali e imprenditoriali, decisive per contrastare la fragilità imprenditoriale che caratterizza il settore. Il tasso di sopravvivenza delle imprese rende ancora più evidente questo aspetto: a 5 anni dalla nascita rimane ancora aperto il 53% delle imprese: di fatto, quasi cinque aziende su 10 cessano la loro attività entro il quinto anno di vita.

Il 2024 si chiude per il mercato del fuori casa con un valore stimato di 96,4 miliardi di euro, che rappresentano il 33% dei consumi alimentari, che hanno superato i 292 miliardi di euro (circa 196 miliardi sono quelli At Home).

Rispetto al 2023, si registra un incremento del +1,6% a prezzi costanti. Tuttavia, la ferita causata dal Covid-19 non si è ancora rimarginata: infatti, se in valore nel 2024 la crescita rispetto al 2019 è dell’11,3%, in volume il dato è di segno opposto (-6%).

I dati rilevati nell’ambito dell’indagine continuativa AFH Consumer Tracking nel 2024 mostrano come siano state complessivamente realizzate circa 8 miliardi di visite nei luoghi del fuoricasa, per uno scontrino medio che è stato pari a 10,40 euro.

Entrando nel merito delle singole occasioni di consumo, emerge che:

- cresce la colazione, che nel 2024 assume una nuova valenza esperienziale, qualificandosi anche come un momento di socialità;

- per l’occasione del pranzo continua ad incidere - in negativo - il fenomeno dello smart working soprattutto per quanto riguarda i grandi centri urbani, mentre gioca un ruolo positivo la componente dei consumi leisure e/o legati al turismo;

- la cena resta l’occasione di consumo preferita dai consumatori, specialmente per feste e/o ricorrenze;

- aperitivo e dopocena risentono entrambe del calo delle visite delle generazioni più giovani (Z e Millennials), componenti della domanda che dalla pandemia in avanti sembrano aver cambiato in modo sensibile le proprie abitudini di consumo.

Gli investimenti

Nel 2024 il 43,2% degli imprenditori dichiara di aver effettuato almeno un investimento per il proprio ristorante o bar. Prosegue quindi la spinta all’innovazione, nel solco delle grandi transizioni in atto, a cominciare da quella digitale, che resta il principale ambito di

investimento per bar e ristoranti. Infatti, tra le imprese che hanno investito, la maggioranza lo ha fatto per potenziare la comunicazione digitale attraverso sito web, app, ecc. (8%), migliorare i sistemi di interfaccia con la clientela grazie a palmari per le comande, registratori di cassa, ecc. (7%) e i processi gestionali, mediante software per la contabilità, l’amministrazione, ecc. (6,4%). Considerando l’importo medio dichiarato dalle imprese, complessivamente si stima che il settore abbia generato nel 2024, grazie agli investimenti, un giro d’affari di circa 3 miliardi di euro. E circa un terzo delle imprese ha in programma di investire nel 2025. Considerando la cifra media preventivata, la spesa complessiva per gli investimenti sfiorerebbe i 2 miliardi di euro.

L’occupazione e la selezione del personale

Segnali positivi provengono anche dall’occupazione, che nel 2024 ha visto consolidarsi il trend positivo che ha portato al progressivo recupero dell’emorragia di lavoratori causata dalla pandemia. L’input di lavoro (espresso in unità di lavoro standard) ha superato nel 2024 la soglia di 1,3 milioni di unità, con un incremento che è stato del 5,3% sul 2023 e del 7,6% rispetto al 2019. Sul lavoro, anche la ristorazione si sta misurando con alcuni dei fenomeni che, nella fase attuale, stanno ridisegnando le dinamiche del mercato del lavoro del nostro paese.

Ecco allora che le buone performance dell’occupazione certificate dai dati ufficiali, nascondono una realtà interna alle aziende che è dinamica, non priva di difficoltà legate alla dotazione organica di personale (il 23,1% le rileva) e in cui anche la ricerca di nuovo personale non è semplice in molti casi. A questo proposito, il 35,6% delle imprese con almeno un dipendente ha nell’ultimo anno ricercato o assunto nuovo personale o ha in programma di farlo. Di queste, ben Il 90,2% ha avuto una qualche difficoltà nel reperire banconisti, cuochi, camerieri, lavapiatti. Difficoltà che, in diversi casi, hanno

portato a non finalizzare le assunzioni.

Sulle difficoltà di reperimento del personale vi è in primo luogo un problema strutturale legato al match tra lavoratori e competenze da un lato e fabbisogni delle imprese che è sempre più spesso inefficiente: il 38,1% degli imprenditori lo indica come prima causa delle difficoltà. Il 34,8% invece afferma che sono in diversi casi i candidati stessi a rifiutare il lavoro offerto, evidenziando il rischio di una crisi di attrattività che può colpire il settore. Non a caso, il 21,5% degli imprenditori esplicita l’esistenza di tale rischio.

Al tempo stesso appare importante, per reperire personale qualificato, utilizzare i canali più adeguati. Circa il 70% di bar e ristoranti utilizza il passaparola tra familiari e amici come principale canale di ricerca di personale, di contro appena il 5,8% sfrutta le sinergie con il mondo della formazione, dalle scuole professionali agli istituti dell’enogastronomia. Il passaparola velocizza e semplifica la ricerca, tuttavia il rischio è di mettere in secondo piano il tema, fondamentale, della qualità del capitale umano e della valorizzazione delle competenze, aspetti entrambi decisivi per innalzare la qualità del servizio.

Sulle competenze per lavorare nel settore gli imprenditori hanno le idee chiare: occorre avere capacità comunicative per sapersi relazionare con la clientela (91,1%), spiriti di squadra per lavorare in team e collaborare con i colleghi (89,6%), precisione, affidabilità e cura dei dettagli (89,5%), oltre che motivazione e passione per il mestiere (88,9%). Un gradino sotto si collocano aspetti più legati alle cosiddette competenze hard, come avere esperienza nel settore (76,8%), competenze tecniche specifiche (74,2%) o un titolo di studio coerente con la professione (66,9%).

Questi sono alcuni dei moltissimi indicatori contenuti nel Rapporto Ristorazione 2025 elaborato dal Centro Studi FIPE, in collaborazione con TradeLab e Bain & Company

La ricerca di personale resta difficile

FOCUS RISTORAZIONE

FOCUS RISTORAZIONE

LE IMPRESE

focus ristorazione

IL LAVORO

NEL 2025

Strumenti digitali

Interventi

I CONSUMI ALIMENTARI

LA STORIA

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Artusi, il padre fondatore della cucina domestica italiana

“La scienza in cucina” è il ricettario italiano per antonomasia, appetitoso, stimolante e alla portata di tutti, tutt’ora presente in molte cucine. È un testo moderno e innovativo che racchiude lo spirito risorgimentale, ma anche la volontà di affermare una cucina di casa e una lingua post-unitarie. Con una caratteristica unica: è il primo manuale scritto con i lettori.

Tra i più importanti classici della letteratura ottocentesca, noto quanto Cuore, Pinocchio e I Promessi Sposi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie è un long-seller arrivato, oggi, a circa 130 edizioni e molteplici traduzioni. Stampato a spese dell’autore nel 1891, venne corretto e ampliato fino alla quattordicesima edizione, ossia fino alla sua morte avvenuta a Firenze nel 1911: da allora, le edizioni in commercio, sono rimaste tal quali.

Artusi, personaggio eclettico ma pur sempre un borghese che trascorse una tranquilla vita agiata ed elegante, si occupò di letteratura (scrisse “Vita di Ugo Foscolo” (1878) e di gastronomia, dedicandosi anima, corpo e palato alla sua opera più celebre La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene scritto solo trent’anni dopo l’Unità d’Italia.

L’Italia era fatta, ora bisognava fare gli italiani e, raccoglierli attorno ad un tavolo di fronte a gustosi

piatti fumanti, risultò più efficace, come evidenziò lo studioso Pietro Camporesi nella sua interessante prefazione all’edizione Einaudi del 1970 del manuale.

Artusi: un gourmet italiano

Pellegrino Artusi (1820-1911) fu un dotto, benestante ed elegante scrittore, un critico letterario, un nazionalista ma moderato e un gastronomo, non sempre in questo ordine, come tutti i gourmet ottocenteschi che si rispettino.

Figlio di un ricco commerciante, a seguito di una violenta aggressione subita, lasciò a 31 anni il suo paese natio Forlimpopoli (FO) con tutta la sua famiglia alla volta di Firenze, in pieno Risorgimento, del quale abbracciò gli ideali. Nel 1865 andò a vivere in Piazza

D’Azeglio, da single, altra caratteristica tipica del gourmet del periodo, assieme a quella che divenne la sua celebre cuoca e domestica Marietta Sabatini e al cuoco Francesco Ruffilli con il quale amò confrontarsi sulle ricette del suo trattato. La cucina di quella casa, con i suoi profumi e i suoi fuochi sempre accesi, fu il centro delle sue sperimentazioni culinarie.

Contrariamente ai testi francesi ottocenteschi come La fisiologia del gusto (1825) di Brillat-Savarin, Artusi trattò la tavola e la cucina non come luoghi “impegnati” dal punto di vista culturale o filosofico ma come veri spazi del sapere domestico ad uso delle famiglie medio-borghesi ormai “italiane”, offrendo a chiunque la possibilità di cucinare grazie a un manuale-guida dal linguaggio chiaro e scorrevole e, soprattutto, alla pratica: era sufficiente che sapesse “tener in mano un mestolo”.

Scriveva Artusi nella sua prefazione: “Diffidate dei libri che trattano di quest’arte: sono la maggior parte fallaci o incomprensibili, specialmente quelli italiani; meno peggio i francesi. [...] Il miglior maestro è la pratica”. Perché, afferma Artusi: “: “La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa disperare, ma dà anche piacere, perché quelle volte che riuscite o che avete superata una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria.”

Un manuale di cucina unitaria

La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie non era frutto di un’esperienza decennale come cuoco a servizio delle famiglie più importanti d’Europa, o una raccolta di ricette prese a prestito da altri ricettari, come spesso accadeva al tempo: manifestando da subito i suoi intenti da curioso e aperto dilettante ai fornelli, l’intento di Artusi fu raccogliere un numero corposo di ricette della penisola, scritte alla portata di tutti. Fu, quindi, un testo divulgativo e didattico, ma non solo.

In quanto manuale ottocentesco citava le nuove scoperte ma, soprattutto, si presentava ricco di consigli riguardanti l’igiene degli alimenti, l’economia domestica, la dietetica e il “buon gusto”, come riportato sulla copertina: in un’Italia post-unitaria frammentata dal punto di vista culturale e territoriale, analfabeta e poverissima, il testo dedicato alle famiglie medio-borghesi, assunse il compito di istruire numeri sempre maggiori di lettori e lettrici e divulgare una cultura gastronomica nazionale che raccoglieva le ricette, i sa-

Un ritratto di Pellegrino Artusi

peri e i sapori locali, ricomponendoli in una sorta di antologia delle tradizioni territoriali del Bel Paese di allora. Artusi non volle codificare una cucina “nazionale”, ma la raccontò, provando e riprovando le ricette nella sua cucina di casa, aiutato dai suoi due abili e fedeli domestici.

Comprensibili a tutti, le ricette del testo artusiano riportano quantità, preparazioni e cotture, ma anche, con uno stile squisitamente narrativo, aneddoti, proverbi e rime tanto che La scienza in cucina può essere letto anche come un piacevole testo senza avere necessariamente una grande passione per la cucina pratica.

Il menu all’ italiana

Sono tutte numerate le 790 ricette compilate da Artusi nel testo: suddivise in categorie, rispecchiano la cultura gastronomica d’oltralpe, pur con numerosi atti di ribellione da parte di Artusi contro lo strapotere indiscusso della cucina e della lingua francese, ‘italianizzando’ alcune espressioni come, ad esempio, “tramessi” al posto di “entremets” e molti altri. Ecco la successione delle portate o il menu all’italiana dell’Artusi: brodi, minestre, principi, salse, uova, paste, ripieni, fritti, lesso, tramessi, umidi, rifreddi, vegetali, pesci, arrosti, pasticceria, torte e dolci al cucchiaio. Gli antipasti, poi, fino ad allora considerati come portate “fuori dall’opera” ( hors-d’oeuvre) o entrée secondo lo schema classico francese, cambiarono nome in “Principii”, assumendo una connotazione e posizione più “italiane”. Così li descriveva: “Principii o antipasto sono propriamente quelle cosette appetitose che s’imbandiscono sulla mensa per mangiarle o dopo la minestra, come si usa in Toscana, cosa che mi sembra più ragionevole, o prima, come si pratica in altre parti d’Italia. Le ostriche, i salumi tanto di grasso, come presciutto, salame, mortadella, lingua; come di magro: acciughe, sardine, caviale, mosciame (che è la schiena salata del tonno) ecc. ; possono servire da principii tanto soli che accompagnati col burro. Oltre a ciò i crostini, che vi descriverò nei seguenti paragrafi, servono benissimo all’uopo”.

Vi è una grande attenzione alle ricette stagionali, a come rispettare le materie prime, a come cucinarle: senza esprimere giudizi o imposizioni ma da umile e gioviale consigliere, Artusi lascia libero il lettore nella scelta delle ricette da preparare, proponendo, addirittura, più versioni di alcune portate come quella del Risotto alla milanese I, Risotto alla milanese II, Risotto alla milanese III secondo i gusti personali.

Un manuale collettivo

Grazie ai suoi numerosi viaggi in treno, ove possibile, o in calesse, alla scoperta di territori gastronomici e ai fitti scambi epistolari fra l’autore e il suo affezionato pubblico, Artusi riuscì a creare una vasta rete di ap-

passionati lettori e lettrici che gli scrivevano per dubbi, consigli o per suggerire nuove ricette. Come ammise Artusi nella ricetta n. 502: “Mancherei a un dovere di riconoscenza se non dichiarassi che parecchie ricette del presente volume le devo alla cortesia di alcune signore e specialmente della signora Rosita Mosquera che mi favorì anche questa”.

La scienza in cucina può essere considerato, quindi, un manuale a più mani, collettivo, grazie alla “community” creatasi attorno a questo testo, ascoltando e dando voce a coloro che cucinavano quotidianamente nelle proprie cucine, non per professione.

Come scrisse il prof. Massimo Montanari (2012) ne “Le ragioni di un successo”: “L’Artusi (inteso come libro) è un’opera rivoluzionaria. Un libro modernissimo, scritto dall’autore – un autore, peraltro, di enorme personalità e dallo stile inconfondibile – non per i suoi lettori, ma con i suoi lettori. Fin dall’inizio, Artusi trasforma La scienza in cucina in una sorta di grande blog a cui molti partecipano, con richieste, consigli, suggerimenti.”

E si parla di 134 anni fa.

www.casaartusi.it

La Fondazione Casa Artusi dal 2007 è a servizio delle Istituzioni per la promozione e la diffusione della cultura artusiana.

Podcast

Voci di carta. Storie dal carteggio artusiano

La nuova serie Podcast coordinata dalla prof.ssa Giovanna Frosini per Casa Artusi, con la partecipazione di studiosi della lingua e del cibo del progetto AtLiTeg (www.atliteg.org) e altri.

Frontespizio della 14ª edizione (1910) de La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene

LA FORMAZIONE

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(Far) coltivare il mestiere

Riflessioni da Il Piatto Verde, il più longevo concorso alberghiero d’Italia

Ci sono foto che suonano come dei manifesti.

Vorrei chiedere a chi guarderà lo scatto di questa pagina, che ritrae uno studente dell’alberghiero mentre presenta e guarda il piatto che ha realizzato, dicevo che vorrei chiedere cosa suscita questa immagine, a mio avviso assai significativa, che un prof di scienze degli alimenti, Giacomo Errante, appassionato di fotografia, ha realizzato durante la trentesima edizione de Il Piatto Verde a Riolo Terme (RA). In attesa dell’onda perfetta, e della sua rarità i surfisti ne sanno qualcosa, capace di dare slancio emozionalmente e accendere il cuore dei ragazzi in cerca della propria strada, ci sono iniziative, non poche, ma ci possono essere anche gesti, azioni ancora più semplici, immagini, - che sono quelle di cui i ragazzi si nutrono - video su tik tok, stories da divulgare…e chi più ne ha più ne metta. Regola numero uno: imparare a usare il loro linguaggio!

Mutuo scambio tra scuola e territorio

A volte ci incartiamo in percorsi più perigliosi e complessi, quando basterebbe molto meno, tanto per cominciare. Siamo esseri contorti anche noi…

Comunque torniamo alle iniziative, e ormai mi sono stancata anche di ripetere che ci sono diversi buoni modelli che basterebbe anche solo emulare perché non è peccato e che mi sto impegnando a far meglio conoscere. Prendiamo, ad esempio, il Concorso Il Piatto Verde che l’istituto alberghiero

Christian Zambelli e il suo piatto

Pellegrino Artusi di Riolo Terme ha organizzato nella sua trentesima edizione, in collaborazione con IF “Imola Faenza Tourisim Company”, che lo ha coronato in questi anni all’interno di una sempre più ricca rassegna gastronomica, dedicata all’uso delle piante officinali in cucina.

Ecco qui, l’aver colto, scuola e territorio, l’importanza di mantenersi collegati in un mutuo scambio, un travaso reciproco, per alimentare a vicenda il proprio valore e quindi quello dell’insieme.

La rassegna, quest’anno dedicata alle erbe della longevità, ha mandato a segno quasi un mese di iniziative, dal 15 marzo al 13 aprile, su ben tre centri (Imola, Riolo Terme e Casola Valsenio), tra visite guidate e laboratori di tisane presso il Giardino delle erbe (Casola Valsenio), masterclass con lo chef stellato Enrico Mazzaroni del ristorante Il Tiglio di Montemonaco (AP), seminari, visite didattiche presso realtà produttive del territorio.

Cosa comporta decidere di partecipare ad un concorso

Ma è sul concorso, in particolare, di cui sala&cucina è stato media partner e sulla partecipazione di una variegata rappresentanza di scuole che mi interessa soffermarmi. La miglior gara di sempre fra le diverse edizioni del Piatto Verde, in cui i concorrenti si sono rincorsi, rilanciando e superandosi l’uno con l’altro. Parlando con i docenti, di cui come giuria abbiamo voluto raccogliere le testimonianze e i contributi, è emerso chiaramente tutto il lavoro extra, rispetto ai tempi canonici della scuola, che c’è stato dietro. C’è addirittura chi ha costituito una squadra per le gare. Proviamo solo a immaginare…sono pomeriggi, orari supplementari non previsti, è il tentativo di innestare qualcosa di inoltre nei ragazzi, un indurli a coltivare, prendersi cura del mestiere, chiedere loro di alzare l’asticella superandosi un poco…poi c’è chi arriva davanti alla giuria e, a sorpresa, dice che ha cercato di curare ogni aspetto, che si è persino preoccupato di acquistare personalmente quell’alzatina per meglio far risaltare la sua ricetta…

Ci sentiamo la coscienza così a posto?

È forse il caso di dire a noi stessi, tutti, che con i nostri inasprimenti, le pretese incattivite dall’ossigeno che manca nella ricerca e selezione del personale nella ristorazione, che non siamo forse un granché predisposti verso queste giovani generazioni. Che poi non si tratta tanto di fare la propria parte ma di come la si fa, di qual è l’atteggiamento ad esempio quando li si accoglie nel fare stage.

È vero li si vorrebbe già imparati ma si dimentica che si ha una responsabilità nel completare la loro formazione. Questione di atteggiamento… e qui si andrebbe lontano a parlare… ci sono scuole che a certe

realtà ristorative di ragazzi in stage non ne mandano più. Come presa di posizione.

I vincitori del concorso

Tornando al concorso, dico la verità, sono rimasta impressionata da più di un piatto e, come me, anche i due chef in giuria: Roberto Carcangiu, presidente APCI e Alessandro Giraldi, executive chef del Fenicottero Rosa Gourmet di Faenza. Alla fine, per pochissimi punti veramente rispetto al secondo, ha avuto la meglio Enzo Mechenet, del Lycée Professionel Saint Jean di Limoges, che ci ha conquistato con il piatto “Lapin de Jade”. Il secondo podio è andato a Christian Zambellli dell’I.I.S. Tonino Guerra di Cervia, con un’interpretazione veramente magistrale dell’anguilla ed il terzo ad Alessandro Carlino dell’I.P.E.O.A. Mattei di Vieste con un intrigante Speck-chiamoci.

Ci abbiamo tenuto anche noi di sala&cucina a mettere in risalto nel gruppo un’altra figura meritevole: a Noemi del Tito dell’I.S.I.S.S. Guerra di Novafeltria (RN) è andata la menzione speciale per il “racconto del piatto”, Ravioli all’ortica ripieni di ricotta, noci e buccia di limone grattugiata (tocco molto interessante) con spuma di parmigiano al sifone. Noemi è stata l’unica fra tutti ad aver pensato ad una brochure, peraltro di una certa potenza espressiva, con tutti i crismi per far diventare quella ricetta un piatto identitario del suo territorio. Il potere della comunicazione! La stessa comunicazione che oggi prende il suo nome e lo colloca, a diritto, accanto a quello dei tre vincitori.

Fa bene alla salute stare in mezzo a simili concorsi. Non è vero che tutto è perduto.

Enzo Mechenet

Autore: Luigi Franchi

Futura 2025: all’evento degli Ambasciatori del Gusto si discute di intelligenza artificiale

Della tre giorni sapientemente organizzata dall’associazione degli Ambasciatori del Gusto, presieduta dallo chef Alessandro Gilmozzi, il momento più significativo è stato il convegno su ‘Tecnologia e Intelligenza Artificiale, tra suggestione e realtà’. Significativo perché è un argomento di forte attualità ed è uscito dalle secche in cui, troppe volte, ci si infila nei momenti di confronto attuati dalla ristorazione. Del resto sono state le proiezioni di PwC Italia, presentate da Vincenzo Tatania, ad aprire il confronto su come l’intelligenza artificiale inciderà sul mondo della ristorazione nel prossimo futuro. “Gli ambiti in cui l’Ai potrà aiutare a migliorare il business dei ristoratori-imprenditori che sapranno cogliere e utilizzare al meglio i nuovi strumenti messi a disposizione saranno molteplici – ha detto Tatania a Food24 – e andranno a incidere lungo tutta la filiera. Si andrà dai modelli Ai che supporteranno i ristoratori nella gestione degli ordini, a quelli che regoleranno dinamicamente i prezzi in base alla stagionalità e alla domanda, fino ai bracci robotici trainati da algoritmi Ai. Ma il concetto principale che vorrei sottolineare è l’importanza di non perdere di vista l’intero ecosistema dell’innovazione a cui dovranno saper guardare gli operatori, a monte e a valle. Dovranno saper cogliere le opportunità di collaborazione perché l’innovazione non è mai un processo isolato. L’offerta è già molto strutturata in termini di start up che continueranno a evolversi. Nel team di un ristorante dovrà entrare anche l’esperto di Ai per capire come questa potrà aiutare il modello di business che si vuole percorrere. Non si possono non fare i conti con la tecnologia, è sempre stato così e ora la frontiera, più vicina di quel che si pensi, è l’intelligenza artificiale: chi saprà utilizzarla meglio andrà più veloce degli altri. Quindi la domanda non è se serve o a cosa serve l’Ai: può servire a più cose e ognuno dovrà porre le domande giuste più funzionali al suo modello di sviluppo”.

Secondo le ultime proiezioni di PwC, il mercato globale dell’Ai nel settore food&beverage raggiungerà i 41,7 miliardi di dollari entro il 2029. In questo panorama, le analisi condotte dal Team Innovation di PwC Italia, basate su oltre 105 mila conversazioni social e web, mostrano come le scelte dei consuma-

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tori stiano evolvendo. Alcuni dati: la qualità dei piatti e degli ingredienti incide per il 23% sulle preferenze dei clienti, sempre più attenti all’impiattamento e all’equilibrio dei sapori; il 16% dei consumatori è influenzato dall’atmosfera e dal design del locale; il 13% dei consumatori presta attenzione alla creatività del menù: piatti innovativi e presentazioni curate catturano l’attenzione e stimolano la curiosità.

È in questo contesto che alcuni degli chef intervenuti nei dibattiti di Futura - Andrea Berton, Andrea Aprea e Alberto Gipponi – hanno raccontato delle loro esperienze sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella creazioni di piatti, mettendo in evidenza come questa può essere alleata nella gestione dei processi ma non potrà mai sostituire la creatività e la competenza di uno chef.

Dello stesso pensiero anche Davide Cassi, docente di Fisica della Materia all’Università di Parma e inventore della gastronomia molecolare: “Possiamo usare l’IA come consigliera, ma dobbiamo sempre mantenere il controllo”.

L’innovazione e la tecnologia portano con sé opportunità e sfide che dobbiamo affrontare con consapevolezza e spirito critico

Con queste parole Alessandro Gilmozzi ha sintetizzato bene i lavori di questa edizione di Futura che,

oltre al dibattito sull’intelligenza artificiale, ha visto altri convegni come quello coordinato da Paolo Marchi: L’evoluzione del gusto tra sostenibilità e identità Culinaria.

La parte gastronomica dei pranzi e delle cene è stata affidata agli ambasciatori Renato Bosco, Mirco Polli, Giovanni Ricciardella, Andrea Fugnanesi, Vincenzo e Salvatore Butticè, Francesco Arena, Vittorio Borgia, Aya Yamamoto, Mauro Enoch e Mauro Elli.

L’elezione del consiglio direttivo dell’associazione

La seconda giornata di Futura ha visto riunita l’assemblea degli Ambasciatori del Gusto che hanno provveduto a ratificare l’elezione del consiglio direttivo e le nuove cariche di presidente e vicepresidente, per cui sono state riconfermate le figure di Alessandro Gilmozzi e Mariella Caputo; mentre il consiglio è composto da Gianvito Matarrese, Paolo Marchi, Cesare Battisti, Matteo Sormani, Eleonora Andriolo, Riccardo Polo Pardise e Tommaso Vatti.

Inoltre sono stati presentati i 18 nuovi associati: Federico Anzellotti, Carmen Castillett, Michel Greco, Francesco Morano, Anisia Cafiero, Danilo Massa, Gianluca Durillo, Lorenzo De Lio, Antonio Lepore, Stefania Erroi, Stefano Rufo, Alberto Gipponi, Gioacchino Attianese, Fabrizio De Simone, Davide Greggio, Davide Laudato, Vasiliki Pierrakea, Ettore Bocchia.

oggi a firma Zucchi Professional.

Ogni gesto in cucina è precisione, creatività, impegno. Lo sappiamo, perché siamo al fianco, da oltre due secoli, di chi ogni giorno trasforma ingredienti in esperienze. Da oggi nasce una gamma studiata appositamente per le necessità e le richieste dei professionisti, apponendo la firma Zucchi come sigillo dei nostri valori e della nostra qualità.

L’OLIO AL CENTRO

A cosa serve la qualità se non la si conserva bene

La qualità degli oli extra vergini di oliva non ha mai raggiunto i livelli attuali, in nessun’epoca precedente. Oggi abbiamo produzioni di eccellenza pregiate, non soltanto per intensità e varietà di profumi, sapori, aromi e sensazioni tattili e chinestetiche, ma anche per longevità. Gli oli esprimono una persistenza delle note sensoriali che può perdurare per un tempo sempre più esteso, tant’è che non esiste un data di scadenza del prodotto, ma un’indicazione generica: “consumare preferibilmente entro”, ovvero, come si dice in gergo, un “tmc”, un termine minimo di conservazione. Tutto ciò è dovuto al fatto che la qualità è frutto di una serie di processi che partono dal campo, con una materia prima sana, con olive che vengono raccolte integre, in fase di invaiatura, non ancora mature e trattate bene, riposte in cassette forate affinché respirino. Massima cura anche nel trasporto in frantoio a poche ore dalla raccolta: olive lavate e defogliate, molite in tempi rapidi, con moderni sistemi di frangitura. Oggi si ricorre perfino agli infrasuoni, nell’estrarre l’olio dalle olive. L’obiettivo è preservare tutta la bontà contenuta nel frutto, in modo che le molecole responsabili del valore nutrizionale e del profilo sensoriale restino inalterate. Anche le fasi successive sono importanti: l’olio deve essere conservato al riparo dalla luce, in ambienti a temperature costanti, di circa 12-15°C, e si deve ridurre il più possibile la presenza dell’ossigeno a contatto con l’olio. Prima di essere conservati nelle migliori condizioni possibili, gli extra vergini vengono sottoposti a filtrazione, così da eliminare tutte le particelle sospese di parti di buccia e residui d’acqua. Conservati in silos d’acciaio inossidabile, dove viene insufflato del gas inerte, azoto o argon, per impedire che l’olio si ossidi, gli extra vergini sono pronti per essere imbottigliati, operazione che si preferisce fare solo

quando vi è un ordine da soddisfare, perché quando vien posto in bottiglia la vita dell’olio si riduce. Ebbene, tutte queste attenzioni giovano al prodotto. La stessa scelta dei contenitori è determinante. Anche la cura riservata alle spedizioni consente di preservare al meglio le caratteristiche originarie dell’olio, estendendone sempre più la shelf-life. C’è solo un problema: tutte queste attenzioni - che comportano una serie di costi, proprio al fine di garantire una qualità che perduri a lungo - si fermano alla sola sensibilità e professionalità del produttore e confezionatore. La catena virtuosa, tuttavia, si interrompe brutalmente qui. Il punto debole, ancora irrisolto, risiede nella catena distributiva, la quale non ricorre ad alcun accorgimento. La gestione dei magazzini e degli scaffali dei punti vendita non garantisce una buona tenuta della qualità originaria del prodotto. Sono troppi gli errori. Lo stesso vale per i magazzini e le cucine dei ristoranti. Nessuno si rende conto di quanto sia fragile la materia prima olio extra vergine di oliva. Sarebbe utile cambiare atteggiamento, modalità di conservazione e gestione del prodotto. Cosa può fare un ristoratore? Come prima cosa deve poter disporre di un’area del magazzino che garantisca in qualche modo una temperatura tra i 14 e i 18°C, e in ogni caso la temperatura è bene che non scenda mai al di sotto dei 10 e nemmeno al di sopra dei 25 °C. Per il resto, tutte le accortezze dipendono solo da una grande attenzione verso una materia prima sicuramente molto buona ma anche tanto fragile.

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LA RETE DEI RISTORANTI ETICI

LA RETE DEI RISTORANTI ETICI

È un progetto

che vuole dare valore ai ristoranti che abbiano l’etica del lavoro.

Per saperne di più amodo.salaecucina.it

dove si può inviare la scheda di adesione

Affrontare la carenza di personale con l'intelligenza artificiale

Tra carenze di personale, costi operativi crescenti e ospiti che pretendono esperienze uniche, gli albergatori oggi devono trovare soluzioni innovative per rimanere competitivi. Fortunatamente, la tecnologia avanzata, in particolare l’intelligenza artificiale (AI), affronta efficacemente questi problemi.

Il settore dell’ospitalità è da tempo un’attività guidata dalle persone, ma la pandemia e le sue conseguenze hanno avuto un impatto significativo sui livelli di personale. La carenza di manodopera è diventata uno dei problemi più devastanti.

Con meno dipendenti disponibili, molti hotel e ristoranti trovano più difficile mantenere l’elevato livello di servizio clienti che gli ospiti si aspettano.

È qui che le nuove generazioni di agenti virtuali possono dare una grande mano. Facendo fronte alle attività di routine che normalmente ricadono sullo staff umano, come rispondere alle domande frequenti, fornire consigli locali e gestire semplici richieste di servizio, questi nuovi agenti aiutano le aziende a mantenere gli standard di servizio riducendo al contempo il carico di lavoro del personale dell’accoglienza.

Occupandosi quindi della maggior parte delle comunicazioni di routine gli hotel in particolare possono operare con meno personale e ridurre la necessità di turni notturni e straordinari (gli agenti lavorano h24, 7/7), abbassando ulteriormente le spese legate alla manodopera e migliorando la loro reddittività.

Oltre a gestire le chiamate infatti gli agenti AI possono infatti inviare anche messaggi di testo di follow-up, indirizzare le chiamate ai reparti appropriati e fornire agli ospiti informazioni in tempo reale sul loro soggiorno, il tutto semplificando le operazioni e prevenendo costosi errori o opportunità perse.

Ciò aiuta gli hotel a rimanere nei budget e ad aumentare la soddisfazione degli ospiti offrendo un servizio rapido, accurato e personalizzato.

Che si tratti di fornire assistenza per i servizi o di fornire consigli locali, l’elaborazione del linguaggio naturale (LLM) dei nuovi agenti garantisce un’interazione simile a quella umana - del tutto differente dai chatbot di prima generazione – e che all’udito risulta incredibilmente personale e coinvolgente.

Oltretutto possono comunicare con gli ospiti in più lingue, superando le barriere linguistiche e facendo sentire a casa i viaggiatori internazionali. Questo supporto multilingue è fondamentale poiché gli hotel continuano a soddisfare una clientela globale più diversificata.

Un altro aspetto fondamentale per soddisfare le aspettative degli ospiti è la personalizzazione. Gli ospiti non vogliono più esperienze generiche e standardizzate. Vogliono interazioni che sembrino su misura per le loro esigenze e preferenze. Che un ospite chieda informazioni su un servizio esclusivo, opzioni di spa e fitness o opzioni di ristorazione, gli agenti AI possono fornire risposte specifiche per le offerte dell’hotel. Guardando al futuro, è chiaro che l’intelligenza artificiale non è solo una tendenza passeggera nel settore dell’ospitalità. Sta diventando uno strumento essenziale per gli hotel che vogliono rimanere competitivi di fronte alle molteplici sfide legate alla redditività. Automatizzando le attività di routine, gestendo grandi volumi di interazioni con gli ospiti e offrendo supporto multilingue e personalizzato, i nuovi agenti AI consentono agli hotel di concentrarsi su ciò che conta davvero: ideare esperienze eccezionali ai propri ospiti.

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IL VINO

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Maria Pia Castelli

Ripartiamo dal vino

Il primo Stella Flora non si scorda mai. Rievocando quell’assaggio, ormai di qualche anno fa, si è mossa un’associazione che non avevo ancora colto: lo Stella Flora, straordinario uvaggio di uve bianche di Maria Pia Castelli, indossa il colore delle Marche. Immaginatevi di sovrapporre il calice, intriso di un dorato intenso, alle delicate colline marchigiane quando, nel pieno della stagione estiva, si presentano bionde e ordinate. Avrete una percezione di continuità, prolungamento, affettività profonda. Segno, ci viene da pensare con un filo di romanticismo, che quando si vinifica con una certa attenzione, un vino è davvero figlio del suo territorio.

Come si cambia

Ripercorriamo la storia, scritta ma anche da scrivere, di quest’azienda non lontana dal suo trentesimo compleanno, attraverso le parole di Alessandro Bartoletti, figlio di Maria Pia Castelli. Alessandro oggi conduce l’attività su binari lucidissimi, come avremo modo di raccontare. Ma partiamo dalle origini, come ci suggerisce lui stesso, visto l’intimo rispetto che nutre per ciò che è stato.

“Il padre di mia madre, nonno Erasmo, piantò i vigneti qui, a Monte Urano, all’inizio degli anni ’90. Le uve che raccoglieva erano destinate a consorzi o aziende, non le vinificava. Un po’ di anni dopo mamma e papà, in ritorno da un viaggio in camper in Francia, in cui raggiungessero la Borgogna, iniziarono a domandarsi se non fosse una buona idea iniziare a produrre del vino ispirandosi alle maison francesi. Il nonno oppose un’iniziale resistenza, gli sembrava una follia. Dopo aver assaggiato i primi esperimenti di Montepulciano, affinato in barrique, dovette ricredersi! Nacque l’azienda. I primi vini messi in bottiglia furono Erasmo Castelli, dedicato al nonno, e proprio lo Stella Flora, diventato simbolo dell’azienda. L’an-

no successivo, quindi nel 2003, imbottigliammo anche altre due produzioni, il Lorano e Sant’Isidoro Uscimmo due anni più tardi con le prime annate… ma il mercato subì un duro colpo nel 2008, come sanno tutti”.

All’epoca Alessandro era giovanissimo ma ricorda l’aria tesa e pessimista che si respirava nel mondo del commercio e del vino, ma pure una particolarità, tutta marchigiana.

“C’erano meno vini, naturalmente, ma le Marche godevano di una certa emancipazione. Si era formata una ristretta cerchia di produttori, i cosiddetti Piceni Invisibili, accumunati dal desiderio di valorizzare il territorio. C’era un sentimento condiviso molto più forte di oggi a cui dovremmo ispirarci”.

Alessandro è entrato in azienda nel 2009.

“Per sette anni mi sono dedicato esclusivamente a vigna e cantina. C’era bisogno di ripartire e focalizzarsi sul cuore dell’attività era cruciale. Come lo era assaggiare tante etichette, confrontarsi, fare visita ad altri produttori, leggere tantissimo. Non si arriva a comprendere se non si ha sete”.

Quanto conta l’uomo

In questa rubrica abbiamo ospitato scuole di pensiero diverse, a volte nettamente diverse. E ci pare sempre più evidente l’eterogeneità che si nasconde dietro all’espressione “fare vino” È una somma di esperienze, stratificazioni, deviazioni, idee, intuizioni che ciascun produttore mette a fuoco e in pratica. Non c’è una verità univoca, c’è un modo che ciascuno disegna per sé. Anche

in questo caso è un piacere appuntare un approccio sensibile, misurato, rispettoso.

“Siamo convinti che in campagna tutto vada calcolato. Abbiamo un approccio semplice ma metodico. Il nostro obiettivo è dare al vigneto tutti gli strumenti per esprimersi al meglio, metterlo nelle condizioni di svilupparsi a seconda del clima. Utilizziamo bassissime dosi di rame e zolfo; ci avvaliamo di tanti supporti naturali come estratti di agrumi e propoli, effettuiamo la bruciatura degli stralci da cui otteniamo la cenere da spargere, con l’obiettivo di portare in cantina delle uve sane e ricche. Per noi, oltre a questo, conta la salubrità del vigneto. Dev’essere curato, sempre sfalciato, con pochi speroni, quindi pochissimi grappoli per pianta. Copriamo e defogliamo in funzione del benessere della vite, perché è su questi aspetti che l’uomo conta. In questa fase dell’anno, quando esplode la vegetazione, sembra un giardino. Proprio perché per noi il vigneto è l’origine, inizio da qui a mostrare l’azienda”.

Il quadro dell’azienda, con una novità importante

Maria Pia Castelli è sviluppata su otto ettari, ripartiti tra Sangiovese, Montepulciano, altre uve a bacca rossa, Trebbiano, Pecorino, Passerina, Malvasia di Candia. Non c’è mai stata volontà espansionistica. Solo di recente la famiglia Castelli ha acquisito una Villa Liberty a Falerone (da cui si presuppone derivi il vino Falerio), dotata di una cantina storica e di un appezzamento su cui hanno innestato un giovane impianto di uve Trebbiano, Verdicchio e Malvasia da cui ricaveranno un Falerio - appunto - in

tiratura limitatissima.

“Non vogliamo crescere numericamente, non è mai stato il fine. Ci siamo sempre posti l’obiettivo di arrivare in luoghi in cui sappiamo di essere ben raccontati, in particolare nella ristorazione. Questo nuovo progetto però ci è sembrato di grande significato e non andrà a scombinare la nostra natura. Anzi, sigilla ancora di più il legame con questa terra”.

Tra terra e nobiltà

Le Marche tornano spesso nei pensieri di Alessandro, segno che sono una priorità.

“Siamo una delle regioni con il potenziale più elevato in ambito enologico… e non solo. Ma siamo spesso frenati da alcuni retaggi culturali. Sono convito che dovremmo partire dal piccolo per ricucirci e crescere un po’ per volta. Ci manca anche molto l’attitudine ad osservare chi eccelle, ci aiuterebbe a tracciare la via”.

Affrontando l’argomento gli facciamo notare la sua tendenza a rimanere defilato, senza esercitare esibizionismi; profilo che risulta quasi atipico, in un periodo storico in cui spesso il produttore sembra protagonista più del vino. Alessandro continua a parlare della sua regione senza voler spiegare troppo:

“Sembra che si debba essere fighi per vendere. Io credo che ci siamo dimenticati di dare valore a due elementi fondamentali che caratterizzano questo mestiere e, in generale, le professioni intrecciate alla natura: la sensibilità e il tempo. Dobbiamo recuperare il tatto, la capacità di leggere ciò che abbiamo intorno. Questo significa anche rimettere al centro il tempo, la pazienza, il silenzio. L’attesa non è mai slegata da questo lavoro e dedicare tempo ad altro lo sottrae all’attività”.

Da quando abbiamo inaugurato questa rubrica, ormai più di due anni fa, nessuno aveva mai associato la parola nobiltà all’atto di fare il vino. Direte “impossibile”. E invece è così. Lo prendiamo come sintomo di una terminologia che è cambiata negli ultimi anni. Per alcuni nobiltà potrebbe risultare fuori moda; al contrario l’essere alter-

nativi, scompigliati, anarchici connota ed esalta. Alessandro, invece, ci riporta proprio lì, al concetto di compiere un gesto privilegiato.

“Il mondo del vino è nobile. C’è privilegio nel poter vivere la natura, nel condividere con lei uno spazio, un progetto. Ed è altrettanto un privilegio produrre immaginando che quel vino un giorno giungerà su una tavola, qualunque essa sia!”

Ci accingiamo a un periodo intenso di fiere e manifestazioni in cui il vino è protagonista o felice compagno. E, alla luce di quanto stia cambiando il settore, non potevamo che scivolare in una riflessione. Anche questo capitolo marchigiano - che si aggiunge a una collezione di storie preziose - concorre a farci dire che il vino è di più di quanto ci raccontano le mode, i classicismi, e tanti eno-influencer. Non è un bottiglia da stappare e da esibire come un trofeo. Non è un nome da depennare o un’immagine da incasellare negli highlights di Instagram. È un distillato di cultura, storie, scelte territoriali e spesso familiari, a cui si devono rispetto e cura. E tempo, come suggeriva Alessandro Bartoletti.

“Serve aprire… ma anche capire” mi disse un produttore langarolo qualche mese fa mentre, con estrema cura, ascoltava l’evoluzione di un gruzzolo di bottiglie aperte da settimane e lasciate lì, a muoversi lentamente. Non c’era fretta di bere, c’era urgenza di ascoltare. Se ripartiamo da questa narrazione, dall’idea che il vino debba essere un racconto avvicinabile e comprensibile a tutti, e che merita orecchio, forse possiamo garantirci ancora tanto buon vino sulle tavole di domani. Ce lo auguriamo davvero.

Maria Pia Castelli

Contrada Sant'Isidoro, 22Monte Urano (Fm) (+39) 0734 841774 www.mariapiacastelli.it

pesce

come non le avete mai provate

Tutto il sapore della carne in prelibate bontà

LA PRODUZIONE

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Il meglio per i professionisti dell’arte bianca

Molino Dallagiovanna e le farine su misura DoGusto, create e bilanciate per le esigenze specifiche di

Cateringross: l’impasto perfetto per prodotti di eccellenza

Quando realtà eccellenti come Molino Dallagiovanna, dal 1832 a Gragnano Trebbiense in provincia di Piacenza punto di riferimento per il mondo molitorio, e Cateringross, il primo gruppo cooperativo di distribuzione nel canale ho.re.ca in Italia, si incontrano non possono che nascere iniziative meritevoli di attenzione. È il caso di DoGusto, la linea di prodotti di alta qualità realizzati a marchio dalle migliori aziende produttrici italiane.

Molino Dallagiovanna ha sviluppato infatti, per il marchio DoGusto, nove referenze.

Disponibili in formato da 10 kg troviamo:

• le tipo 0 con germe di grano Verde, Azzurra e Rossa per pizze;

• la tipo 1, sempre con germe di grano, ideale per il rinfresco del lievito, la preparazione di qualsiasi tipo di pane, pizze e focacce a media lievitazione, pasta sfoglia, croissant, veneziane, pasta fresca;

• la tipo 00 Spolvero per spolvero e gnocchi.

Completano la gamma altri quattro prodotti, tutti in formato da 5 kg:

• Dogusto per Pasta,

• Dogusto per Pane e le due referenze Lievitati e Frolla specifiche per pasticceria.

Le farine Dogusto nascono dal processo produttivo unico di Molino Dallagiovanna, che si distingue per il lavaggio del grano, fase fondamentale per ottenere un prodotto puro e di qualità, e per una macinazione lenta che preserva tutte le proprietà organolettiche.

Inoltre, le farine Dogusto sono principalmente con germe di grano, elemento essenziale per conferire agli impasti un gusto più ricco e una croccantezza superiore.

Molino Dallagiovanna, farine superiori

È una storia che inizia nel lontano ‘800 quella di Molino Dallagiovanna, oggi alla sesta generazione della famiglia. Una storia che continua, attraverso quasi duecento anni di grandi trasformazioni.

I punti di forza dell’azienda sono l’accurata selezione dei migliori grani, il lavaggio del grano - unico grande molino in Italia ad effettuare ancora questo passaggio fondamentale per una pulizia ottimale e una bagnatura omogenea del grano-, la macinazione lenta e delicata nel rispetto delle componenti organolettiche del chicco e la continua innovazione.

In quasi duecento anni, il Molino si è evoluto ed è cresciuto fino a diventare una delle realtà più produttive del settore molitorio, in grado di esportare in 67 Paesi nel mondo i valori e l’eccellenza alimentare italiana. Nel 2021 è stata inaugurata una filiale negli USA.

Molino Dallagiovanna offre oltre 450 tipologie di farine, da quelle tradizionali per pane, pizza, pasta e dolci alle

linee senza glutine e lattosio.

Tra le novità più recenti leDivine, farine da grano italiano, Uniqua, la linea di farine multiuso per soddisfare il desiderio di gusto e benessere, che nel 2025 celebra i 10 anni dalla sua nascita con la Purple Edition, le Miscele Oltregrano, sviluppate per garantire facilità d’utilizzo, unicità e ottime performance in cottura e le farine su misura, come DoGusto.

Infine, nel 2023, Molino Dallagiovanna ha lanciato PH4, la linea di lieviti naturali, attivi e inattivi, con la quale l’azienda emiliana ha arricchito e completato la sua offerta ai professionisti dell’arte bianca per realizzare l’impasto perfetto.

Ogni lavorazione, la sua farina

I professionisti sanno che scegliere la farina giusta per l’utilizzo che si vuole fare è fondamentale per la riuscita del prodotto finito. Ogni farina ha le sue specificità e caratteristiche organolettiche. Nel caso della pizza per esempio oltre alle tradizionali farine tipo 00 e 0 a forza crescente e la linea di farine Nobilgrano con germe di grano, Molino Dallagiovanna propone la linea laNapoletana: laNapoletana di tipo 00, laNapoletana 2.0 e la laNapoletana 2.0 Plus di tipo 0, sviluppata per offrire al pizzaiolo la ricetta perfetta per impasti innovativi e ricchi di gusto, in grado di esaltare al massimo le eccellenze della Pizza Napoletana - una pizza dal cornicione ancora più sviluppato e dorato, una pasta più alveolata, morbida ed elastica e il gusto di ingredienti unici, come il pomodoro, la mozzarella e l’olio d’oliva.

Al mondo della pasticceria, settore nel quale Molino Dallagiovanna è leader, l’azienda molitoria piacentina propone la linea leDolcissime, composta da 8 referenze per soddisfare tutte le esigenze di impasto della pasticceria

Il team Molino Dallagiovanna a Sigep World 2025

contemporanea: referenze sviluppate in collaborazione con pasticceri di fama come Achille Zoia e Iginio Massari. Per chi si cimenta con la produzione di pane il molino suggerisce la miscela speciale ilContadino, che fa parte di Oltregrano, la linea di miscele professionali studiate e bilanciate dai maestri e tecnici dell’Arte Bianca. Anche la pasta richiede una farina apposita e Dallagiovanna risponde a questa esigenza con Pasta Fresca, una farina di grano tenero 00, bianchissima, con un valore di ceneri inferiore allo 0,40%: ideale per pasta fresca, anche ripiena, esalta il colore giallo della pasta all’uovo e la sfoglia che si ottiene è morbida, elastica e vellutata. Infine Uniqua Viola, la nuova farina integrale di grano tenero con germe di grano, ottenuta dalla macinazione di grani naturalmente pigmentati e lavati, con la quale Molino Dallagiovanna celebra i 10 anni dalla nascita

della linea Uniqua. Ricca di fibre e antiossidanti, è di media forza, ideale per pani rustici, focacce, pizze a media lievitazione, frolle, cakes e croissant dal gusto connotato e deciso e dal colore purpureo e violaceo. Disponibile in sacchi da 10 kg, pratici e facili da gestire e stoccare.

La sede di Molino Dallagiovanna
Un impianto di produzione
Paolo Sabrina e Pierluigi Dallagiovanna durante la celebrazione dei 10 anni UNIQUA

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Serenella, da Tramonti a Brescia

L’arte della pizza emoziona, incontra la professionalità della ristorazione e accoglie e affascina coloro che amano la buona tavola

Francesco Giordano vanta una lunga esperienza familiare nel campo della ristorazione. Figlio di pizzaioli, da Tramonti, terra d’origine della pizza napoletana, ma nato a Brescia, può affermare di essere cresciuto nel mondo della cucina e da essa aver imparato l’abc dell’accoglienza. Soprattutto tutto ciò ha stimolato la sua curiosità, la voglia di sperimentare e approfondire ogni aspetto del mestiere, ha alimentato il desiderio di ricerca finalizzato ad affermare la propria identità e ogni particolare in grado di elevare un piatto definendone lo stile unico e ben delineato. L’innovazione è nelle sue corde, la creatività fonda su basi solide.

“Tutto nasce nel 2014 – racconta Francesco Giordano – quando, nella pizzeria di famiglia, non riuscendo a far capire ai vari pizzaioli che si avvicendavano qual era la mia idea di pizza decisi di mettere io stesso le mani in pasta: da allora la pizza la faccio io. Mio padre era pizzaiolo, possedevo le basi, la

formazione non mancava ma fu in quel momento che decisi di aprire un’attività tutta mia per esprimere il mio ideale di cucina. Nasce così Serenella”.

Francesco segue dei corsi per avere una visione più completa delle tecniche di lavorazione, si approccia al mondo dei lievitati, della panificazione, e nel 2015 decide di iscriversi al campionato europeo della pizza, per testare le sue capacità, per entrare nel vivo del tema. Supera le selezioni risultando secondo con la sua pizza San Marzano, il mese successivo partecipa alla finale ad Amburgo e vince il titolo. Una partenza col botto!

“Ero andato al concorso quasi per scherzo, per curiosità, per capire a punto ero – afferma Francesco – e ho coronato un sogno. Da allora, e quest’anno sono 10 anni, la mia pizza San Marzano è ancora la più richiesta dai clienti, la più venduta”.

Merito di una naturale predisposizione, di tanto impegno e ricerca, di perfezionismo; merito forse dell’im-

pasto che Giordano ha ideato e realizzato secondo un suo personale criterio e frutto di una accurata selezione degli ingredienti. Il risultato è un impasto verace di tipo “Napoli”. “La classica verace – spiega Francesco – ha per caratteristica una cottura molto aggressiva; la mia verace ne è l’evoluzione, ovvero una pizza col cornicione, molto idratata, intorno al 72% di idratazione, realizzata con la biga, un prefermento frutto di una miscela di farine creata da me con all’interno farina 0 di germe di grano, farina da grano autoctono del territorio bresciano, avena, cruschello e orzo: una pizza dal gusto intenso e dalla gradevole scioglievolezza in bocca”.

Per Giordano, avere una miscela di farine personalizzata è un elemento molto importante: “Sono anticonformista – afferma – sono molto esigente coi mulini, finché non trovo la formula che voglio continuo a cercare, ma ritengo che sia fondamentale fare una pizza che sia solo mia, riconoscibile tra tante”.

Spinto da questo obiettivo – la miscela perfetta – allo scoppio della guerra in Ukraina, quando il grano diventa materia prima rara, avvia una ricerca sul territorio e scopre nella bassa bresciana un bacino di coltivazione storica autoctona di una specie di grano di alta qualità; cerca un partner che possa aiutarlo nella ricerca e nella realizzazione della farina e lo trova in Molino Rivetti: “Insieme abbiamo trovato il grano

Francesco Giordano

giusto, ne abbiamo tratto farina e con essa ho creato la mia personale miscela. Perché aspettare che altri decidano del tuo destino: bisogna dare vita alle proprie idee. Ci siamo riusciti e oggi questa farina viene prodotta e venduta con ottimi risultati. Inoltre, poiché mi piace l’idea di condividere e diffondere cultura, nella mia veste di membro di A.R.T.Ho.B. (Associazione Ristoranti Trattorie Hostarie Bresciane), ho deciso di divulgare questa esperienza affinché altri possano beneficiarne. Oggi altri pizzaioli seguono il mio progetto e ne sono molto fiero. Con la farina ‘bresciana’ preparo un impasto creato apposta, con idratazione minore della verace, per distinguerla da essa, e piace molto perché ha una sua caratteristica di struttura e corpo. È una speciale pizza che abbiamo in carta”.

La valorizzazione del territorio diventa ingrediente fondamentale, secondo la filosofia di Francesco Giordano, e studio e ricerca ne sono le basi.

Ma Serenella è anche ristorante, e Francesco Giordano è prima di tutto un cuoco. Questa caratteristica fa sì che la proposta del locale sia ampia e articolata in un menù accuratamente studiato. Racconta Francesco: “Siamo in una fase di evoluzione; nasco cuoco e mi evolvo in pizzeria e panificazione ma resto cuoco. La tradizione mediterranea dei miei genitori, poi, è insita in me insieme all’appartenenza al territorio bresciano che mi ha dato i natali: escludere un elemento o un altro non è possibile. Per questo, ho deciso di dare una svolta al menù di Serenella e, dall’anno scorso, di unire i gusti. Per fare un esempio, ho inserito in carta i casoncelli, tipici bresciani, con burro e salvia, ma

conditi con gambero rosso di Sicilia a crudo e dadolata di calamaro cotto a bagnomaria col burro. Il gambero rosso viene sfumato col burro e la polpa viene tonificata: un piatto interessante e innovativo che la nostra clientela apprezza. Ci troviamo in una zona residenziale di Brescia, a 1 km dal centro storico, e abbiamo un bel giro di persone, anche per il business lunch, ma soprattutto la sera. Serenella è un locale dove si viene per mangiare quel determinato piatto, per trascorrere una serata piacevole in compagnia, tanto che stiamo cercando di ampliare il locale, 80 coperti non bastano più”.

È una scommessa Serenella, come dichiara Francesco Giordano, la scommessa di creare un luogo in cui professionalità e passione s’incontrano nell’arte della ristorazione, un luogo accogliente in cui un gourmet possa sentirsi a casa. È un luogo di studio e di approfondimento dove uno con la cucina nel sangue, come Francesco Giordano, cuoco per vocazione e pizzaiolo per passione, professionista per tenacia e impegno, può esprimere tutta l’energia e la visione che lo animano. È un continuo divenire.

Ristorante Pizzeria Serenella

Via Massimo D’Azeglio, 55 Brescia

Tel. 030 307317

www.ristoranteserenella.it

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Marzo mese di fiere

Agli inizi di una nuova stagione è normale che si espongano le merci

È così che possiamo riassumere la grande massa di eventi fieristici che, ogni anno, domina il mese di marzo. Soprattutto se si parla di cibo dal momento che, tra poche settimane, ricominceranno ad arrivare turisti da ogni parte del mondo che scelgono l’Italia anche per la buona cucina. Le fiere del food&beverage rappresentano, quindi, l’occasione per presentare ai diversi componenti della filiera le novità di settore, le proposte gastronomiche pensate per migliorare ulteriormente la qualità delle cucine dei ristoranti italiani. Vediamone qualcuna di queste occasioni di incontro a cui hanno partecipato anche diverse realtà distributive associate al gruppo Cateringross.

Horeca Expoforum a Torino

Horeca Expoforum è l’unico Salone Internazionale del Nord-Ovest Italia dedicato ai professionisti del mondo HO.RE.CA. Dopo il successo della prima edizione del nuovo format, l’evento si è posizionato come punto di riferimento per il territorio. L’evento ha consolidato la sua crescita nell’edizione 2025, svoltasi a Torino dal 16 al 18 marzo, ampliando l’area espositiva, aggiungendo aziende di qualità e consolidando il suo pubblico di qualità.

“Partecipare alle fiere di settore rappresenta oggi una leva strategica per chi desidera crescere in modo solido e strutturato. Sono occasioni preziose per confrontarsi con il mercato reale, osservare da vicino le nuove tendenze, ascoltare bisogni concreti e raccogliere stimoli utili all’innovazione.

– ha affermato Paolo Sampò, direttore commerciale di Mago Quality Food Srl, azienda di distribuzione di Montanera (CN) affiliata al gruppo CateringrossEsporre significa anche rafforzare il proprio posizionamento di mercato, aumentare la visibilità e consolidare relazioni professionali che possono fare la differenza. Per la mia azienda, Mago Quality Food Srl, essere presenti a Horeca Expoforum Torino è stato un momento importante di crescita: abbiamo avuto l’opportunità di dialogare con professionisti del settore, generare nuove connessioni e portare a casa idee e consapevolezze per affrontare con ancora più determinazione le sfide del mercato”.

Expocook a Roma

Da nove anni Expocook si afferma come un appuntamento fondamentale per esplorare le ultime innovazioni e le tendenze emergenti nel settore del food, della ristorazione e dell’hotellerie.

Questo evento è l’occasione ideale per scoprire nuove materie prime, tecnologie per la lavorazione, attrezzature avanzate, soluzioni di arredamento, opzioni di packaging innovativo e servizi vari.

Si è svolto alla Fiera Di Roma, dal 23 al 26 marzo, e ha visto la presenza di oltre 250 espositori e un’affluenza di più di 60.000 visitatori.

“Un evento importante per la nostra azienda che su Roma opera con la stragrande maggioranza dei ristoratori. –commenta Federico Villani, titolare di Faic, azienda di distribuzione nel mondo horeca, affiliata al gruppo Cateringross – Sono stati centinaia gli operatori che ci hanno fatto visita allo stand dove abbiamo presentato loro la nostra selezione di prodotti e i nostri servizi”.

Saral food

Al Live Campus Dromedian di Chieti Scalo si è svolta, dal 23 al 26 marzo, la 34° edizione di Saral food, la fiera di riferimento dedicata a ristorazione e alimentazione per l’area adriatica. In quest’occasione sono state numerose le iniziative di valorizzazione del food&beverage e tra queste ha spiccato il VI campionato nazionale accademico della Pizza. La fiera ha visto la partecipazione di oltre 250 espositori provenienti da tutta Europa e, tra questi, Baldi Food, l’azienda di distribuzione con sede a Jesi che copre tutta l’Italia centrale con i suoi servizi dedicati alla ristorazione. Emiliano Baldi, amministratore dell’omonima azienda, ha commentato così la partecipazione a Saral food: “Qualità, territorio e passione: il nostro Saral Food è sempre fatto di persone. Persone che vivono ogni giorno il mondo horeca e cercano partner, non semplici fornitori. In una terra che parla di accoglienza, tradizione e sapori veri, Baldi ha incontrato professionisti con cui condividere visioni, esperienze e futuro. Del resto sono sessant’anni, dal 1965, che raccontiamo la nostra eccellenza attraverso un’ampia gamma di prodotti e un approccio che va oltre la fornitura: affiancamento, consulenza, strategia. Grazie quindi a chi ha reso speciale ogni incontro. È da relazioni così che nasce il gusto del domani”.

Madia Expo

E poi c’è chi le fiere se le organizza per proprio conto, come nel caso di Madia spa, un’azienda di distribuzione che opera nel Nord-Est del Paese, con propaggini di mercato anche in Austria e Slovenia. Dal 30 marzo al 1° aprile lo staff di Madia spa ha organizzato a Villa Foscarini

Cornaro, in quel di Gorgo al Monticano (TV), la undicesima edizione di Madia Expo a cui hanno partecipato oltre 1600 professionisti del settore horeca, clienti di Madia spa ma anche nuovi potenziali, che hanno potuto interagire con aziende alimentari di primaria importanza che presentavano, in quei giorni, le loro proposte per ogni tipo di esigenza del fuoricasa, dalle bevande ai formaggi, dalla carne alle paste, dai prodotti ittici ai salumi, fino alle prime colazioni. Erano 130 gli espositori e un programma serrato di eventi tra cooking-show, master class, degustazioni i visitatori hanno potuto capire bene i servizi che Madia spa può mettere in campo grazie anche alle società collegate – Madiagastro, Mistervino, Rialto Gourmet e Tessaro - e al fatto che l’azienda è socia del gruppo Cateringross.

Alessandro Piazza ha commentato così l’evento: “Abbiamo avuto accrediti per 1600 visitatori professionali. Insomma, siamo molto contenti. È stata un’autentica emozione ritornare dopo due anni di assenza. I due anni sono necessari anche per riuscire a rinnovare un’offerta con novità importanti, con un approccio diverso, anche maturato da esperienze sul mercato. Devo dire che siamo molto contenti del risultato. Vogliamo offrire al cliente l’opportunità di trovare in un partner che riesce a dare soluzioni a valore aggiunto. Non solo un servizio di consegna, ma anche di consulenza. Direi che siamo soddisfatti”.

BBQ Expo a Brescia

Dal 29 marzo al 1° aprile Brixia Forum, la struttura fieristica di Brescia, ospita la seconda edizione di BBQ Expo, la più importante fiera europea della cucina outdoor.

A sostenere questo primato parlano i numeri: 24.000 visitatori nel 2024, il raddoppio degli spazi espositivi nell’edizione di quest’anno.

Un settore, quello della cucina outdoor, che da un punto di vista economico, secondo Mordor Intelligence, nel 2024 ha toccato i 118 milioni di euro in Italia, con proiezioni di crescita annua del 4,69% fino a raggiungere i 150 milioni di euro nel 2029.

Dal punto di vista della socialità, invece, segna l’inizio dell’estate, la voglia di vacanza e di condivisione.

In fiera c’era anche lo stand di RZ Service, un distributore horeca di Palazzolo sull’Oglio (BS) che opera nelle province di Brescia, Bergamo, Milano, Lodi, Cremona e Piacenza, e che è socio del gruppo Cateringross. Riccardo Zuccali, proprietario dell’azienda, ha commentato con queste parole la partecipazione a BBQ Expo: “È andata bene, prettamente il focus, come si evince dal titolo dell’evento, era sulle carni, i visitatori erano molto professionali e il nostro stand si è avvalso di uno chef ambassador, Fabrizio Mazzantini, vincitore del Burger Battle 2025, che ha regalato spettacolo e buone carni ai nostri ospiti”.

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L'ANALISI SENSORIALE

Analista sensoriale

Il gap culturale tra scienze sensoriali e formazione gastronomica

L’educazione

sensoriale latita ancora nei contesti formativi,

e questa non è una buona notizia

Esiste una geografia dei sapori? E il palato assoluto? Perché è così difficile dare un nome a un odore? Vi siete mai chiesti quali meccanismi governino l’assaggio? Mangiare, degustare, valutare, comunicare. Qualunque sia la prospettiva da cui analizziamo la nostra relazione con il cibo, quello che stiamo osservando è frutto di un processo decisamente complesso, un groviglio di variabili che impattano significativamente sul nostro percepito per restituirci risposte soggettive, sulle quali basiamo le nostre scelte. Sbrogliare la matassa del meccanismo percettivo è il compito delle scienze sensoriali, una disciplina che si occupa di misurare, interpretare e comprendere la risposta umana alle proprietà sensoriali di un prodotto alimentare e che intreccia molteplici dottrine come fisiologia, psicologia, filosofia, antropologia, ma anche chimica, tecnologia e statistica.

Conoscere i meccanismi che sono alla base della matassa sensoriale che chiamiamo assaggio è fondamente per chi si occupa di cibo, perché ci permette di interpretare il percepito con maggiore consapevolezza. Eppure l’educazione sensoriale tende a latitare ancora nei percorsi formativi. Ma come si sono sviluppate le scienze sensoriali, e cosa significa educarsi all’assaggio?

Le scienze sensoriali e il ruolo nell’industria alimentare

La corrente pratica di questa multi-disciplina si è definita negli ultimi 50 anni, in un contesto che aveva come scopo quello di migliorare la qualità sensoriale nell’industria alimentare. I metodi utilizzati furono

Analisi sensoriale del pesce

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adattati a partire da quelli della psicologia sperimentale che si sono evoluti negli ultimi 150 anni e che, a loro volta, traggono radici nei 2500 anni di storia della filosofia. L’analisi sensoriale, oggi inserita nel più ampio contesto delle scienze sensoriali, si fa strada parallelamente (e in risposta a) al momento storico in cui cambiarono radicalmente i modi di reperire, cucinare e consumare il cibo. Nascono i supermercati, cresce il benessere economico e le aspettative rispetto a ciò che si trova a scaffale. Cresce anche la consapevolezza che il giudizio del singolo sia rischioso e privo di rigore scientifico. L’esperto, fino a quel momento giudice della qualità, viene sostituito da un sistema di valutazione collettivo, panel addestrati in grado di condurre valutazioni accurate perché inserite in una metodologia codificata, supportata da una statistica robusta.

Le scienze sensoriali analizzano oggi l’indissolubile relazione prodotto-persona, partendo dall’assunto che il cibo (prodotto) interagisce con gli esseri umani dopo essere stato consumato, stabilendo con questa affermazione relazioni interdisciplinari che spaziano dalla chimica molecolare alla psicologia cognitiva. Comprendere questa relazione solleva domande sul processo sensazione-percezione-cognizione, che dal punto di vista epistemologico, riguarda la scoperta mediante i sistemi sensoriali dell’esistenza e delle proprietà di ciò che ci circonda.

Educazione sensoriale e degustazione

Se mangiare è una necessità fisiologica, assaggiare è invece un’esperienza bio-cognitiva propria dell’uomo, il prodotto dell’evoluzione della natura (devo sfamarmi) in cultura. Siamo i soli animali capaci di superare, con una scelta cosciente, i limiti imposti dalla nostra biologia perfezionando processi e pratiche comportamentali. E questo perché abbiamo un sistema di comunicazione efficiente come il linguaggio.

Raccontare il percepito è però la risultante di molteplici fattori, non solo esperenziali e culturali, ma anche biochimici, psicologici e fisiologici. Insomma, posso conoscere ogni aspetto legato a quel prodotto, ma se non ho contezza di come funziona la strumentazione sensoriale che utilizzo durante l’assaggio, è un po’ come se stessi guidando un’auto senza patente. L’equipaggiamento sensoriale funziona a prescindere (e menomale), cambia semmai l’interpretazione di quello stimolo, anche in virtù di quanto ne ho compreso i meccanismi.

Educarsi all’assaggio e degustare non sono sinonimi: il primo è semmai funzionale al secondo. Le scienze sensoriali sono uno strumento efficace per fare chiarezza e sbrogliare la matassa, ma faticano ad uscire dai contesti accademici e di ricerca. Esistono ovviamente numerose eccezioni, che andremo ad analizzare nei prossimi numeri della rivista.

Il laboratorio dell'analisi sensoriale della Fondazione Edmund Mach
Analisi sensoriale del tè in Protea Academy

Autore: Guido Parri

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Mini Burger di Scottona: la nuova delizia di Centro Carni Company

Che si tratti di un buffet elegante o di un evento informale, i Mini Burger di Scottona sono la scelta ideale per creare piatti gourmet facili da gustare in piedi e portare un tocco di eccellenza Made in Italy in ogni occasione. Versatili, gustosi e pronti in pochi minuti, sono il perfetto equilibrio tra tradizione gastronomica e le esigenze del consumatore contemporaneo.

Piccoli, ma con una qualità che non passa inosservata, i Mini Burger di Scottona firmati Centro Carni Company sono la novità perfetta per chi cerca versatilità e qualità nel mondo dei finger food.

Caratterizzati da un formato mini e una carne di bovino selezionata, questi burger sono infatti l’ideale per eventi, buffet e banchetti e offrono una soluzione pratica e gustosa per ogni tipo di situazione. Vi spieghiamo ora il perché.

Pronti per essere cucinati in pochi minuti, senza glutine e senza lattosio, i Mini Burger consentono di preparare in modo rapido e semplice piatti deliziosi e sfiziosi. Ogni burger, con un peso di circa 40 g, può infatti essere abbinato a numerosi ingredienti.

Centro Carni Company suggerisce di utilizzarli per preparare dei piccoli panini, perfetti da consumare in piedi e - perché è no - con le mani, con pane al latte, formaggio,

lattuga e pomodoro oppure con verdure grigliate e maionese.

I Mini Burger di Scottona, quindi, sono più di una semplice novità: sono la sintesi perfetta tra la tradizione gastronomica italiana e la praticità di un prodotto pensato per le nuove tendenze culinarie.

In conclusione, con questo nuovo prodotto, Centro Carni Company continua a portare nel piatto un’eccellenza, pronta per essere assaporata in un formato mini, ma con tutta la qualità che merita.

Centro Carni Company, con oltre 40 anni di esperienza, continua a unire cura e ricerca in ogni prodotto. Ogni prodotto, realizzato con ingredienti di qualità, è il risultato di un perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione, sempre con l'obiettivo di soddisfare le esigenze dei consumatori moderni.

I LIBRI

Autore: Luigi Franchi

Pensa come mangi

Julian Baggini Pag. 496

Euro 19,00

Touring Club Italiano editore www.touringclub.it

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Pensa come mangi

Quali sono i cibi che meglio rappresentano i luoghi in cui vivete?

È con questa semplice domanda, a cui ognuno di noi potrebbe dare risposta, che Julian Baggini, filosofo e giornalista britannico, apre un saggio che offre un ripensamento generale delle nostre pratiche di produzione, approvvigionamento e consumo del cibo.

Infatti, mentre pensiamo di essere in grado di dare risposta a quella semplice domanda elencando le specialità del proprio territorio scopriamo, con un certo allarmismo, che nessuna è davvero indicativa del modo in cui mangiamo oggi, ogni giorno, almeno nel mondo industrializzato.

Il saggio è stracolmo di esempi di ogni specie tesi a dimostrare l’assoluta necessità di una nuova filosofia globale del cibo, infatti, nonostante dell’argomento se ne parli a ogni piè sospinto la maggior parte delle persone ha solo un’idea frammentaria delle storie che si nascondono dietro gli alimenti che teniamo in frigo o in dispensa.

Il saggista fa alcuni esempi di tutto ciò: i corn flakes, che vengono spacciati per alimento sano, che processo produttivo seguono? Non arrivano certo da una romantica fattoria.

Si potrebbe immaginarla così, e lo facciamo abitualmente ma quei fiocchi d’avena saranno stati acquistati da un intermediario internazionale che li ha messi in un container con alti cereali provenienti da aziende agricole diverse, tutti mescolati tra di loro. Probabile che arrivino da semi brevettati, comprati da una delle poche grandi società che dominano il mercato globale. Nel corso della produzione, magari, gli hanno dato un gusto talmente buono da creare assuefazione, utilizzando forse dosi di zucchero esagerate. E noi pensiamo, siamo convinti che sia un prodotto leggero e salutare. Ecco che, prestando un po’ di attenzione si scoprirà una storia intricata e complessa come quasi tutte le storie dei cibi contemporanei.

Un saggio affascinante che vi fornisce elementi di storia, cultura e filosofia per un approccio più corretto al cibo che consumiamo ogni giorno, perché ciò che mangiamo, volenti o nolenti, decide la forma e il futuro del mondo.

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