PASTA ARMANDO, MARCHIO DI QUALITÀ ALLEATO DEGLI CHEF.
Pasta Armando nasce da un sogno: quello di creare una pasta fatta con il miglior grano 100% da filiera italiana. Armando celebra la tradizione agricola, promuove il rispetto dei territori e si prende cura del suo prodotto grazie ad attenti e costanti controlli lungo tutta la filiera. Da tutto questo nasce una pasta di elevato grado proteico, e dunque dalla eccellente tenuta in cottura, tenace e gustosa al morso. Una gamma ampia di formati quotidiani e speciali, ideale per le ricettazioni più semplici e per le più sofisticate. La trafilatura al bronzo conferisce a Pasta Armando una superficie rugosa ideale per trattenere e valorizzare ogni tipo di condimento.
grano dI Filiera 100% ItalianO
Contenuto proteico: 14 g
Trafilata al bronzo : superficie rugosa
ideale per trattenere i condimenti
Ottima TENUTA IN COTTURA
Tenace al morso
Ampia gamma di formati
quotidiani e speciali
La redazione
Mario Benhur Tondini presidente Edizioni Catering srl
Imprenditore nel settore della distribuzione alimentare, gestisce con il fratello Oscar l’azienda di famiglia a Cavriana (MN), dove ha svolto anche l’incarico di sindaco.
Le competenze maturate sul piano professionale e su quello amministrativo lo hanno portato alla convinzione che il principio della condivisione sia la miglior modalità di crescita. Molte sue iniziative, anche all’interno del gruppo Cateringross (che detiene la titolarità della casa editrice), di cui è consigliere d’amministrazione, vanno in questa direzione. A questo affianca una forte sensibilità per ogni azione che dia valore al suo territorio.
benhurtondini@salaecucina.it
Marina Caccialanza Redazione
Milanese, un passato come traduttrice, da diversi anni giornalista e redattrice per riviste del settore alimentare rivolte al mondo dell’artigianato e all’industria, in particolare nel campo della ristorazione, del dettaglio specializzato e della ricerca. Contribuisce alla realizzazione di importanti libri di comunicazione gastronomica in Italia e all’estero diretti ai professionisti e ai consumatori. Collabora con le redazioni di sala&cucina, Ecod e Trenta Editore.
marina.caccialanza@salaecucina.it
Giulia Zampieri Redazione
Ricorda con esattezza il profumo del primo pane preparato all’età di sette anni.
Forse il suo primo traguardo e, soprattutto, l’inizio di una grande passione: per le cose semplici, per la genuinità, per gli alimenti che crescono e prendono forma. Dopo la Laurea in Scienze Gastronomiche, la specializzazione in comunicazione enogastronomica, e un periodo di alternanza nelle cucine, ha chiara la missione: scrivere per comunicare. Come? Utilizzando gli strumenti di oggi e la curiosità di sempre. Gionalista pubblicista, collabora anche con la guida di Identità Golose.
giuliazampieri@salaecucina.it
Luigi Franchi Direttore responsabile
Prima fotografo di cibo e territori, poi comunicatore, autore di numerosi libri di enogastronomia e di turismo enogastronomico. e infine giornalista di enogastronomia. Tra le sue principali pubblicazioni, scritte e/o coordinate: La prima edizione della Guida al turismo del vino in Italia, per conto del Movimento Turismo del Vino, (1997), I parchi e il turismo enogastronomico (2004), Il marketing delle Strade del Vino edizioni Agra – Rai Eri (2005), Atlante Alimentare Piacentino, con Valentina Bernardelli (2007), “cuo chi, due anime in cucina”, con Alessandra Locatelli, GL.Editore (2009), Dalle Terre Traverse al Po, GL.Editore (2010), ideatore e coautore dei Maestri del lievito madre, Edizioni Catering (2014), coautore della guida online dedicata alla ristorazione Meglio Prenotare, Edizioni Catering, Le interviste (2018) editore Mediavalue. Co-direttore di Food & Book, festival nazionale di editoria enogastronomica luigifranchi@salaecucina.it
Simona Vitali Redazione
Laureata in filosofia, ha lavorato nella comunicazione e organizzazione di grandi eventi a Parma. Ha ricevuto una prima inconsapevole educazione al gusto per il cibo grazie all’ indimenticato oste dell’Osteria di Felino (PR), il nonno materno Massimino. Con gli studi umanistici è poi arrivata una seconda, consapevole, educazione al gusto per l’utilizzo delle parole secondo il loro significato. Poi sono seguiti un corso di Alta Formazione alla scuola Holden e un master in Filosofia del cibo e del vino. Della ristorazione l’affascina il pensiero e la componente umana. Della formazione di settore segue movimenti ed evoluzioni.
s.vitali@salaecucina.it
Gabriele Adani
Grafico
Modenese, appassionato di arte figurativa, fotografia e linguaggi di comunicazione visiva.
Nel 1992 inizia il suo percorso professionale presso una casa editrice. Lavora poi in uno studio grafico e fonda una piccola agenzia di comunicazione in cui ricopre il ruolo di direttore creativo per 18 anni. Viaggiatore, utilizza i frequenti viaggi a Londra e nel Sud Est asiatico per arricchire il suo bagaglio culturale e placare la sua innata curiosità per le altre culture.
Dal 2019 lavora in proprio, occupandosi di fotografia, grafica e consulenze nel campo della comunicazione.
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7 LA LETTERA APERTA
Bisogna ascoltare i camerieri | Luigi Franchi
9 L' EDITORIALE
Torniamo sul tema dello spreco alimentare | Benhur Tondini
10 IL CONFRONTO
Massimo Milano e Federica Rossini | Luigi Franchi
15 LA NEUROVENDITA
5 è il numero perfetto del menù | Lorenzo Dornetti
17 L’OLIO AL CENTRO
Un ristoratore non può tradire l’olio del territorio | Luigi Caricato
19 L’OSPITALITÀ
Comprendere se le campagne online dell’hotel stanno intercettando la domanda | Martina Manescalchi
21 LA DIGITAL TRANSFORMATION
Nuova stagione, nuova emergenza: mancano almeno 50 mila lavoratori | Claudia Ferrero
23 SCIENZA E NUTRIZIONE
Ci siamo persi i contorni | Ferdinando A. Giannone
24 LA RISTORAZIONE
Il Fenicottero Rosa Gourmet di Faenza | Simona Vitali
28 LA RIFLESSIONE
Se fosse un pane comune | Giulia Zampieri
31 L'ANALISI
Il Rapporto Ristorazione 2023 | Luigi Franchi
34 AMODO LA RETE DEI RISTORANTI ETICI
Parlare di carne oggi | Giulia Zampieri
37 AMODO LA RETE DEI RISTORANTI ETICI
Bramea | Antonella Petitti
40 LA FORMAZIONE
Un bel progetto didattico a certificazione europea | Simona Vitali
43 IL TERRITORIO E LA RISTORAZIONE
Il richiamo della Calabria | Simona Vitali
47 L'ARTE E LA RISTORAZIONE
Il Tiepolo scomposto a Verolanuova | Luigi Franchi
50 LE PERSONE
Maria Grazia Soncini: un cuore rock nella Capanna di Eraclio | Bruno Damini
53 IL PRODOTTO
L’affinatore di formaggi, che mestiere magnifico | Giulia Zampieri
56 IL VINO
SOStain | Giulia Zampieri
59 IL TERRITORIO
Io sono Friuli Venezia Giulia | Luigi Franchi
62 LA PIZZERIA
House Pizza e Grill, squadra coesa vince | Marina Caccialanza
65 GLI EVENTI
Testo… Pretesto | Guido Parri
66 GLI EVENTI
Madia Expo, un vero successo | Guido Parri
69 GLI EVENTI
La nona edizione di Horecoast a Salerno | Massimiliano Terminelli
70 LE AZIENDE
Qualità e servizio a portata di freezer | Marina Caccialanza
74 LE AZIENDE
Una storia di qualità superiore | Marina Caccialanza
76 LE AZIENDE
La mixology secondo Polot | Marina Caccialanza
78 LE AZIENDE
Nova si rinnova: la nuova frontiera dei prodotti healthy | Marina Caccialanza
82 I LIBRI
Buon Appennino, la cultura del cibo nell’Italia interna
Malvasia, un diario mediterraneo | Luigi Franchi
N° 69 maggio 2023
EDITORE
Edizioni Catering srl
Via Margotti, 8 40033 Casalecchio di Reno (BO) Tel. 051 751087 – Fax 051 751011 info@salaecucina.it - www.salaecucina.it
PRESIDENTE
Benhur Mario Tondini benhurtondini@salaecucina.it
DIRETTORE RESPONSABILE
Luigi Franchi luigifranchi@salaecucina.it
COLLABORATORI ESTERNI
Luigi Caricato, Bruno Damini, Lorenzo Dornetti, Martina Manescalchi, Elena Monteverdi, Guido Parri,Antonella Petitti
FOTOGRAFIE
Archivio Ristorante Cacciatori, Archivio sala&cucina, Laura Ferrari, Marco Liverani, Cabriolet Studio, Cinefood, Virginio Gilberti, Fabrice Gallina, Ulderica Da Pozzo
* L’editore è a disposizione per eventuali crediti fotografici di cui si ignora la fonte
RIVISTA PARTNER di AMODO
PUBBLICITÀ
Tel. 331 6872138 marketing@salaecucina.it www.salaecucina.it
PROGETTO GRAFICO
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“Bisogna ascoltare i camerieri!”
Mi sono preso questa sacrosanta ramanzina una sera a Roma, in un ristorante del centro. A me che dirigo una rivista dove il termine sala è pure nel titolo della testata.
Ma era un richiamo sacrosanto e ho ammesso, con grande rispetto per quell’affermazione che voleva dare valore ad una professione troppe volte bistrattata, la ragione di Altan Gini, il cameriere che l’aveva fatta. Avevo prenotato per una cena solitaria a La Carbonara, in Campo de’ Fiori, all’ultimo minuto; sarei passato dopo una mezz’ora e il cameriere mi aveva consigliato il piano superiore. Arrivato sul posto ho optato per un tavolo all’aperto, dopo avermi consigliato due otre postazioni Antan Gini si è rassegnato dandomi il tavolo che avevo scelto io. Mi sono seduto e il tavolo ballava sui sanpietrini sconnessi. Quando l’ho fatto notare il cameriere mi ha detto quella frase, aggiungendo che quel tavolo, in quella buca, lo sapeva che non andava bene. Una vera e propria buca che non si poteva coprire neppure con sette centimetri di solette. Solo se stava unito all’altro tavolo reggeva ma, a quel punto, diventava da quattro e, a Roma, un tavolo da quattro per un solo commensale è impossibile poterlo sfruttare.
Antan Gini è un signore albanese arrivato in Italia nel 1990, probabilmente a bordo di quella nave stracolma di persone la cui foto aveva fatto il giro del mondo, e da 24 anni fa il cameriere a La Carbonara, un locale storico - è del 1912 - sempre gestito dalla stessa famiglia. Si trova a fronteggiare, ogni giorno, il fatto che quello non è un ristorante con menu turistico, come potrebbe apparire vista la posizione. Io stesso all’inizio pensavo così. E si trova a presentare una cucina, prevalentemente romana, che vanta materie prime di assoluta qualità come la cacio e pepe con gli spaghettoni monograno Felicetti o le acciughe di Cetara a marchio Armatore, non prodotti da primo prezzo.
Mangiare da solo a volte aiuta, guardarsi intorno, curiosare nei tavoli dei vicini, raccogliere brandelli di conversazione in varie lingue, vedere cosa e come be-
Bisogna ascoltare i camerieri
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vono i turisti a Roma, come probabilmente in qualsiasi altra località italiana, ci porta a riconsiderare la conoscenza che si ha delle nostre abitudini alimentari; gli italiani mangiano per il piacere che questo comporta, gli stranieri solitamente solo per nutrirsi.
“È la carbonara il piatto più scelto” mi confida Antan Gini. Quello, del resto, che più si avvicina al gusto degli americani; non è un caso che la storia di questo piatto prenda le mosse dalle razioni K che gli americani avevano durante la seconda guerra mondiale in Italia.
Con Artan quella sera, nonostante la carenza di personale, si trovava sempre il tempo di scambiare due battute. E mi ha fatto riflettere la storia di quest’uomo che si è creato una vita e uno stile tutto italiano, che lavora da 24 anni sempre nello stesso luogo e che parla bene della famiglia proprietaria, dell’olio che mi mette in tavola dicendo che arriva dagli oliveti che questa famiglia ha fuori Roma e che quelle bottiglie si trovano solo a La Carbonara. Soprattutto mi ha dato una grande lezione; i camerieri vanno ascoltati!
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Rispetto per la stagionalità delle materie prime, “dalla terra in cucina”, dalla raccolta alle preparazioni sapienti, prodotti gustosi e freschi direttamente nelle tue mani. Un’attenta selezione di pomodori conservati in innovative confezioni: polpa, passata, datterini, ciliegini e pomodori pelati... questo è il segreto di Demetra perchè ogni pizza diventi straordinaria.
Ne abbiamo accennato nello scorso numero di questa rivista ma vogliamo tornare sull’argomento dello spreco alimentare perché è uno degli temi più importanti per stabilire quanta cultura del cibo c’è nelle teste degli italiani.
Infatti il problema dello spreco alimentare è riconosciuto come uno dei più gravi paradossi dell’attuale sistema di produzione del cibo. Nel nostro Paese sprechiamo poco più di 27 chili di cibo a persona con un costo complessivo di oltre nove miliardi lungo tutta la filiera, dai campi alle case.
La suddivisione degli sprechi vede il consumo domestico in testa seguito dal 26% in agricoltura, dal 28% nell’industria e dall’8% nella distribuzione.
Sono oltre quattro milioni le tonnellate di cibo sprecate nel 2022, con costi esorbitanti anche nello smaltimento dei rifiuti.
Paradossi insopportabili se pensiamo a quante sono le persone denutrite nel mondo e, per restare in Italia, a tutti quelli che faticano a raggiungere la fine del mese. Sono stimate in 2,6 milioni di persone quelle che faticano a nutrirsi regolarmente a causa dell’aumento dei prezzi e dei rincari delle bollette.
È in queste condizioni che si rischia l’affermazione del junk food, del cibo a basso costo con conseguenze sulla salute, sul rischio di obesità, sui costi sanitari che già incidono in maniera pesante sul bilancio dello stato.
Oltre al fatto che lo spreco e le perdite sono responsabili del 10% di emissioni di gas serra. Ridurlo significa anche allentare la pressione sulle risorse naturali, in particolare il consumo di acqua e di suolo, per aumentare la sostenibilità dei nostri sistemi di produzione e delle nostre società.
Analisi che vengono fatte regolarmente, ad ogni giornata mondiale di qualcosa, contro lo spreco, dell’alimentazione, della terra. Giornate volute dall’ONU che qualche effetto sortiscono nel breve periodo in cui si svolgono, grazie al rumore mediatico che si crea attorno all’argomento ma il vero risultato lo si otterrà solo quando tutte le persone smetteranno di considerare
Torniamo sul tema dello spreco alimentare
questo come un problema troppo grande e quindi irrisolvibile con i singoli comportamenti.
È questa mentalità che va cambiata: sono proprio i nostri piccoli gesti quotidiani a dare un contributo importante. Sono le nostre scelte quando compriamo le cose, la nostra disponibilità a fare la raccolta differenziata che invece consideriamo come rottura di scatole, gli eccessi dei nostri frigoriferi e le porzioni esagerate di cibo nei banchetti dei ristoranti le prime cause di spreco. Tutte azioni che si possono rivedere con la buona volontà, una cosa che non costa niente, che richiede semplice attenzione. Basta, come piccolo esempio, far ruotare i cibi nel frigo: portando avanti quelli più vecchi e indietro i più nuovi. Solo con questo piccolo gesto si ridurrebbe del 30/40% lo spreco domestico.
Il dato positivo è che, nella logistica del cibo, quella dei distributori, in particolare quelli che servono ogni giorno la ristorazione, lo spreco è molto ridotto; l’attenzione al carico dei mezzi per le consegne, la cura con cui queste vengono fatte è sempre meglio organizzata e anche i ristoranti, complice il lungo periodo del Covid, fanno acquisti più mirati, tengono meno magazzino e riescono, in questo modo, anche a rispettare i pagamenti.
Massimo Milano e Federica Rossini
Guadagnare il senso del tempo
Autore: Luigi Franchi
Massimo Milano e Federica Rossini1818! È da questa data, 205 anni fa, che la famiglia Milano gestisce il ristorante Cacciatori a Cartosio, in provincia di Alessandria. Stessa famiglia, stesso luogo, stessa tipologia professionale. Un autentico primato ma se ascoltiamo Massimo Milano e sua moglie, Federica Rossini, che, oggi, conducono i Cacciatori scopriamo che la storia è ben più complessa e lunga.
Massimo, raccontaci la storia della tua famiglia, quella che va oltre l’insegna ufficiale del ristorante…
Massimo Milano: “Arriviamo a conoscere la data di apertura del ristorante tramite un nostro vicino di casa che ha la folle idea di scrivere la storia di Cartosio attraverso la storia delle famiglie. Ha accesso agli archivi della diocesi di Acqui Terme, del Comune e dello Stato. È in quello della diocesi che trova una regia patente dove si parla di casa nostra. Ovviamente era un’idea completamente diversa di ristorazione: era un’attività di osteria, bottega di alimentari, macelleria, panetteria e tabacchi e, dalla regia patente, non si capisce se l’attività era addirittura precedente. Lui trova anche un documento che attesta l’arrivo della famiglia Milano a Cartosio nel 1642, provenienti da Nocco, una frazione di Gignese, in provincia di Verbania, dove c’è il museo dell’ombrello e del parasole. Sono identificati come ciabattini scolarizzati. Poi, un altro documento interessante, della metà del Settecento, riguarda un mandato a pagare i pasti della guarnigione militare a un Milano che non sappiamo se è diretto discendente o un cugino. Arriviamo al secolo scorso, quando negli anni ’70 a Cartosio c’erano tre ristoranti gestiti tutti dai Milano. Di certo sappiamo che siamo una delle famiglie con più storia di Cartosio”.
Voi fate parte di quella che possiamo definire l’Italia dal di dentro: quella dei valori, della bellezza, dell’impegno per affrontare le difficoltà: quali sono i pro e i contro del vivere questa condizione?
Massimo Milano: “Cartosio, fino all’apertura dell’autostrada A26 a metà degli anni Settanta del ‘900, era sulla strada d’accesso al mare tramite il Passo del Giovo. Mare che si trova a 39 km da qui. Nella zona c’erano 17 ristoranti, ora ci siamo solo noi, anche se qualcuno, per fortuna, sta ricominciando a crederci. Negli anni d’oro erano i miei genitori e i miei nonni che gestivano il ristorante. Mio padre mi raccontava che, nel periodo estivo, quando c’era la villeggiatura, la sua camera veniva venduta e lui andava a dormire in solaio. A quel tempo l’osteria era in mano alle donne, mio papà e mio nonno aiutavano, ma loro facevano i maniscalchi perché di osteria non si viveva almeno fino al secondo dopoguerra quando la città di Acqui non cominciò un’epoca termale che portò moltissime persone; ad Acqui Terme c’erano due hotel cinque stelle lusso. Ora la situazione è completamente diversa. I pro? Un’identità molto forte che permette un contatto diretto con chi produce e alleva. Le persone che scelgono di venire qui non arrivano mai per caso ma ci scelgono; vorrei che venissero anche per altri ma non ci sono. E un’idea molto forte di essere Italia con la clientela che ci chiede esattamente questo”.
Federica Rossini: “Il pro è anche guadagnare un senso del tempo, dove tutto si accelera. Qui, in cui in ogni caso, lo si porta a casa dove tutto viene decantato. Quindi tu devi essere vigile ma aperto, alla ricerca di stimoli nuovi, dalla cucina alla scoperta di altri luoghi che possono anche essere diametralmente diversi dal tuo. Questo diventa trasformazione costante ma con un ritmo di vita diverso da quello
1818! È da questa data, 205 anni fa, che la famiglia Milano gestisce il ristorante Cacciatori a Cartosio, in provincia di Alessandria. Stessa famiglia, stesso luogo, stessa tipologia professionale. Un autentico primato ma se ascoltiamo Massimo Milano e sua moglie, Federica Rossini, che, oggi, conducono i Cacciatori scopriamo che la storia è ben più complessa e lunga.
Massimo, raccontaci la storia della tua famiglia, quella che va oltre l’insegna ufficiale del ristorante…
Massimo Milano: “Arriviamo a conoscere la data di apertura del ristorante tramite un nostro vicino di casa che ha la folle idea di scrivere la storia di Cartosio attraverso la storia delle famiglie. Ha accesso agli archivi della diocesi di Acqui Terme, del Comune e dello Stato. È in quello della diocesi che trova una regia patente dove si parla di casa nostra. Ovviamente era un’idea completamente diversa di ristorazione: era un’attività di osteria, bottega di alimentari, macelleria, panetteria e tabacchi e, dalla regia patente, non si capisce se l’attività era addirittura precedente. Lui trova anche un documento che attesta l’arrivo della famiglia Milano a Cartosio nel 1642, provenienti da Nocco, una frazione di Gignese, in provincia di Verbania, dove c’è il museo dell’ombrello e del parasole. Sono identificati come ciabattini scolarizzati. Poi, un altro documento interessante, della metà del Settecento, riguarda un mandato a pagare i pasti della guarnigione militare a un Milano che non sappiamo se è diretto discendente o un cugino. Arriviamo al secolo scorso, quando negli anni ’70 a Cartosio c’erano tre ristoranti gestiti tutti dai Milano. Di certo sappiamo che siamo una delle famiglie con più storia di Cartosio”.
Voi fate parte di quella che possiamo definire l’Italia dal di dentro: quella dei valori, della bellezza, dell’impegno per affrontare le difficoltà: quali sono i pro e i contro del vivere questa condizione?
Massimo Milano: “Cartosio, fino all’apertura dell’autostrada A26 a metà degli anni Settanta del ‘900, era sulla strada d’accesso al mare tramite il Passo del Giovo. Mare che si trova a 39 km da qui. Nella zona c’erano 17 ristoranti, ora ci siamo solo noi, anche se qualcuno, per fortuna, sta ricominciando a crederci. Negli anni d’oro erano i miei genitori e i miei nonni che gestivano il ristorante. Mio padre mi raccontava che, nel periodo estivo, quando c’era la villeggiatura, la sua camera veniva venduta e lui andava a dormire in solaio. A quel tempo l’osteria era in mano alle donne, mio papà e mio nonno aiutavano, ma loro facevano i maniscalchi perché di osteria non si viveva almeno fino al secondo dopoguerra quando la città di Acqui non cominciò un’epoca termale che portò moltissime persone; ad Acqui Terme c’erano due hotel cinque stelle lusso. Ora la situazione è completamente diversa. I pro? Un’identità molto forte che permette un contatto diretto con chi produce e alleva. Le persone che scelgono di venire qui non arrivano mai per caso ma ci scelgono; vorrei che venissero anche per altri ma non ci sono. E un’idea molto forte di essere Italia con la clientela che ci chiede esattamente questo”.
Federica Rossini: “Il pro è anche guadagnare un senso del tempo, dove tutto si accelera. Qui, in cui in ogni caso, lo si porta a casa dove tutto viene decantato. Quindi tu devi essere vigile ma aperto, alla ricerca di stimoli nuovi, dalla cucina alla scoperta di altri luoghi che possono anche essere diametralmente diversi dal tuo. Questo diventa trasformazione costante ma con un ritmo di vita diverso da quello
della frenesia. Qui c’è già ciò che oggi viene ricercato: un senso del tempo dove i valori fondanti devono ritornare alla luce. Una dimensione dove poter lavorare bene, con serenità e determinazione, per far star bene le persone”.
Massimo Milano: “I contro invece sono la distanza da tutto. Chiedere alla gente di impiegare del tempo, di mettere in campo la fiducia per venire da noi ma questo diventa un pro. Perché quando arrivi da noi trovi identità vera e così varia che hai una prateria davanti da raccontare agli ospiti”.
Federica Rossini: “Trasformare i problemi in sfide è il motto che ho scritto su un foglio appeso alla parete di casa”.
Trattoria o ristorante: qual è la definizione corretta per il vostro locale?
Federica Rossini: “Per la Camera di Commercio di Alessandria siamo Albergo Ristorante Cacciatori, ma per noi non esiste come argomento. Vogliamo semplicemente essere un posto dove ti piace andare”.
Massimo Milano: “Non vedo la differenza tra trattoria e ristorante. Vedo invece profondamente sbagliato che un McDonald’s e un luogo come Dal Pescatore, tre stelle Michelin, siano classificati allo stesso modo ristoranti”.
I Cacciatori sono conosciuti per l’utilizzo di una cucina economica, quella che funziona ancora con la legna. Perché utilizzate ancora questa cucina, quali sono le tecniche, come si imparano e come è il gusto di un piatto realizzato con questo tipo di cottura?
Federica Rossini: “Io sono entrata in cucina arrivando da un percorso diverso, dall’analisi sensoriale. Vengo da una famiglia dove nonna e mamma sono state donne emancipate, che lavoravano: commerciante la nonna, maestra la mamma. Una mamma che dava importanza a
come si cucinava, per lei non aveva senso andare in macelleria a farsi tagliare un pezzo di pollo quando non ci vuole niente a farlo da soli. Questo metodo mi ha portato a guardare alla cucina in modo diverso, ho fatto un master in analisi sensoriale e, per passione, facevo raccolta di ricette pensando che un giorno, forse, le avrei fatte. L’approccio sensoriale mi ha aiutato tanto e Davide Scabin un giorno mi disse: i tuoi studi ti aiuteranno quando e solo quando avrai il senso del posto. Poi ho conosciuto Massimo e il posto è diventato questo. Voglio ricordare un’altra grande persona, Nadia Santini, che mi disse: anch’io ho imparato da mia suocera. Qui ho trovato questa stufa, del 1952, dove ci lavorava su mia suocera, non c’era altro e su questa ho dovuto imparare. Non è facile, è un vero e proprio sapere, non tutto reagisce allo stesso modo su questi fuochi che non si vedono. Un fuoco nascosto, che lo senti ma non lo vedi, che ti fa anche riflettere sul tempo. Molte volte mi ritrovo a guardare fuori dalla finestra intanto che i cibi cuociono e vedo il tempo che cambia le cose, i colori, il cielo. È un tempo più lento, che si lascia osservare. Il sapore? Diventa subito familiare per chi l’ha conosciuto da bambino; diventa di una bontà diversa da tutto per chi lo assaggia per la prima volta. Oggi vengono da noi anche per questo, gli ospiti ci chiedono di vederla questa vecchia signora che compie 71
Federica Rossini e la stufa del 1952anni, un’amica con cui devi passare del tempo, un’ottima compagna di lavoro”.
La vostra sala ha subito grandi trasformazioni: dai 200 coperti di anni fa a spazi ampi tra un tavolo e un altro, ad esempio. Come fate a far sentire bene i vostri ospiti?
Massimo Milano: “Ci sono nato dentro in questa sala. I miei non mi hanno mai detto che dovevo fare questo lavoro. L’ho scelto, dopo gli studi classici, qui ho incontrato persone che mi hanno permesso di vedere un mondo diverso. Potevo fare altro ma ho scelto di non farlo, di restare qui, in questa sala. Per sentirsi bene non è solo compito nostro. Ci vuole anche una predisposizione dell’ospite a entrare in sintonia con un mondo che cerca di raccontarsi. Gli ospiti sono comunque diversi, c’è chi ama sentire il racconto, chi vuole stare in pace, chi non gliene importa nulla. Occorre una buona dose di psicologia per questa professione”
Vi basta questa dimensione per rendere produttiva l’azienda? O meglio, quali sono le condizioni ottimali per farlo?
Massimo Milano: “Dopo il periodo pandemico sono cambiate molte cose: la marginalità, con gli aumenti di costi che ci sono stati, è scesa perché non vogliamo far pagare all’ospite questi rincari; la forza lavoro è più complicata da gestire; è vergognoso il delta tra ciò che paghiamo di tasse e i servizi che queste tasse dovrebbero darci. In più l’offerta di ristorazione è stata eccessiva negli ultimi anni. Questo aspetto ha inciso sugli assetti economici di un settore che è al centro di un cambiamento che, a oggi, sappiamo esserci, indispensabile, ma non sappiamo che strade prenderà. Siamo andati troppo verso il bello, l’estetica, tralasciando il buono che resta il vero motivo per cui le persone scelgono di mangiare fuori casa. Noi ce la caviamo, siamo in una dimensione dove il costo della vita
è minore rispetto alle città ma non basta questo, occorre definire in maniera diversa l’imprenditorialità di questa professione, per tutto il sistema”.
Come riuscite a farvi riconoscere e trovare?
Federica Rossini: “Attraverso un sito che funziona, che viene aggiornato il più possibile, dove la carta dei vini e il menu portano la data dell’aggiornamento. Abbiamo le pagine social molto attive. Il fatto che gli ospiti si sentano davvero a casa ci sta creando molta fidelizzazione. Poi conta anche una carta dei vini che si è costruita con un rapporto diretto e di amicizia con le cantine del territorio che portano ospiti importanti. Infine l’adesione alle Premiate Trattorie Italiane e ad Amodo, la rete dei ristoranti etici che ci proietta in una dimensione originale e diversa rispetto al resto della ristorazione”.
Quali criteri utilizzate per creare la vostra carta?
Federica Rossini: “I piatti che non possono non esserci, prima di tutto: il pollo alla cacciatora, alcuni primi e dolci. Poi la stagionalità, i condimenti, gli antipasti di verdure. La nostra si può definire una cucina piemontese di confine. Oggi cerchiamo di dare uno stimolo diverso con il vassoio che rappresenta il grande antipasto alessandrino. E abbiamo una carta che cambia molto velocemente, ad aprile è il quarto cambio da inizio anno”:
E per la carta dei vini?
Massimo Milano: “La nostra carta nasce da una storia lunga che ha creato rapporti storici con cantine del calibro di Gaia, per fare solo uno dei tanti nomi. Questo ci consente di proporre anche verticali importanti. In generale credo, però, che il criterio prevalente sia quello di proporre vini rispettosi e buoni”.
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cirioaltacucina.it
Ricetta di Fabio PotenzanoLa neurovendita
Lorenzo Dornetti ceo NeurovenditaIl menù, ormai diventato protagonista assoluto anche online, sappiamo bene che ricopre un ruolo centrale nella costruzione dell’esperienza del cliente. Ha un impatto comunicativo, ovvero presenta al cliente l’identità del locale e dell’offerta. È persuasivo, nel senso che può influenzare la scelta dei piatti. Ha una ricaduta organizzativa, il numero di proposte impatta sulla velocità e la qualità dell’offerta. Ma quanto deve essere lungo il menù? Fuori dalle mode e dalle strategie, esiste una lunghezza ideale? Quante opzioni devo inserire nella categoria antipasti? Quanti dolci è meglio proporre prima del caffè? Le neuroscienze hanno dimostrato che il cervello può elaborare quando sta prendendo una decisione, 7 con più o meno 2 opzioni. Il cervello umano riesce a valutare un numero di opportunità non superiore a 9. È il numero di Miller Qualcuno lo chiama ‘Magic Number’. Quando il cliente si trova a decidere tra dieci antipasti, il cervello va in sovraccarico. È richiesto un lavoro extra alle cortecce e questo genera un senso di affaticamento. L’articolo uscito nel 2000 di Lepper aveva questo titolo: “When choice is demotivating”. Tradotto: “Quando la scelta è demotivante”. Il numero di Miller fornisce un range ampio, tra 5 e 9 Meglio proporre 5 alternative o 9 alternative? Oggi la tecnologia ci permette di essere estremamente accurati nel rispondere a questa domanda. La risposta è nel TAR. Si tratta di un indice che rielabora l’attività elettrica del nostro cervello a partire dall’elettroencefalogramma. Il TAR (Theta Alpha Ratio) è il rapporto tra onde theta (attività elettrica dell’area frontale) e le onde alpha (attività elettrica dell’area parietale). L’aumento di questo indice è collegato all’aumento del carico cognitivo. In pratica la rielaborazione dell’elettroencefalogramma ci dice che più questo TAR cresce, più il nostro cervello sta facendo fatica per scegliere tra più opzioni disponibili. Nel Brain Fitness Lab di NEUROVENDITA abbiamo studiato l’attività elettrica di soggetti di fronte a diversi menù con diverse lunghezze. L’obiettivo era capire se il numero di Miller, che indicava una forbice, an-
5 è il numero perfetto del menù
dava considerato nella parte alta o bassa. Meglio avvicinarsi quindi a 5 o a 9? Cosa abbiamo scoperto? Meglio porsi nella parte bassa, non superando le 6 proposte per ogni categoria. Si osserva che su 5/6 proposte, il cliente ne esclude subito 3. Il 50%. Cosa succede all’indice di carico cognitivo a questo punto? Se resta in dubbio tra 2/3 opzioni l’attività elettrica cresce ma è compatibile con una scelta serena. Portare il cliente a scegliere tra più opzioni, accresce il carico cognitivo, generando malessere. Il risultato è che il cliente consuma meno. Vive un’esperienza meno piacevole. Sviluppa un ricordo negativo. Quindi per chi ha menù lunghi il consiglio è di arrivare a 5 proposte per categoria. 5 antipasti, 5 primi, 5 secondi, 5 dolci. Il top per il cervello del cliente! Un consiglio targato NEUROVENDITA: prendere in mano le ‘forbici’ per tagliare le proposte del menù. Il cervello dei vostri clienti ringrazierà!
Clicca e leggi l’articolo sul webLuigi Caricato oleologo
Il paradosso più frequente è che molti ristoranti dediti a una cucina territoriale non sempre accolgono e utilizzano gli oli extra vergini prodotti nel proprio areale. Forse perché molti immaginano l’olio come una sostanza grassa tra le tante, destinata unicamente a svolgere una mera funzione di complemento, e pertanto marginale, seppure di per sé utilissima. Nelle varie preparazioni l’olio ha funzioni antiaderenti, amalgamanti, plastificanti, lubrificanti, e, a crudo, è un semplice condimento che si limita a interagire con i vari ingredienti che costituiscono una pietanza. Apporta profumo e sapore, e rappresenta, insieme a sale, pepe e aceto, l’isola dei condimenti disponibili a tavola per quanti desiderano usufruirne. Si trascura invece il fatto che sia un alimento e proprio per questo l’olio, alla pari di altri condimenti, viene ritenuto un elemento accessorio collaterale, concettualmente trascurabile, per cui un olio vale l’altro: interessa solo averlo, perché svolga le funzioni per le quali è destinato. Olio q.b. Poco importa che sia Dop, Igp o un extra vergine mono olivigno (espressione di un unico genotipo di olivo) o comunque espressione di uno specifico territorio. Ebbene, tutto questo ho pensato partecipando alla inaugurazione ufficiale a Torri del Benaco, alla presenza di sindaco e parroco, dello show room Le Prandine. Da parte mia ho evidenziato l’importanza di un negozio d’olio in centro città, in una prestigiosa e frequentatissima località turistica. Il patron è l’audace produttore Giovanni Morselli, coraggioso nel collocare un punto vendita esterno all’azienda agricola di proprietà. L’olio che produce è quello degli olivi di una sua tenuta nelle campagne di Torri del Benaco. L’olio del territorio nel territorio. Una bella sfida, non facile. L’olio extra vergine di oliva è stato per decenni depotenziato e ridotto a commodity nei supermercati, venduto di frequente in promozione con l’aggravante del sottocosto. È evidente che se la Grande distribuzione lo ha svilito, banalizzandolo, lo stesso atteggiamento lo ha assunto la ristorazione. Il concetto è: purché sia olio. Ci si affida alla sola indicazione merceologica: purché sia extra
Un ristoratore non può tradire l’olio del territorio
vergine. Poco importa il legame con il territorio. Attenzione, però. Non occorre essere contrari alle diverse origini, perché quel che conta è la qualità in relazione con le peculiarità con cui questa si esprime. Tuttavia è incomprensibile che non si disponga di oli del territorio quando la cucina di un ristorante fa perno esclusivo sul territorio. Non è un caso che le ricette di uno specifico territorio nascano proprio a partire dall’identità agricola di quel dato territorio. Gli abbinamenti olio/cibo, come pure quelli con i vini, sono sempre in piena sintonia con il territorio. Le ricette della tradizione sono nate a partire dagli ingredienti del territorio. Tutto rientra in un ordine logico inappuntabile sul piano sensoriale. Se l’olio ha determinate caratteristiche, lo stesso vale per gli altri ingredienti del luogo. La ricetta territoriale si elabora da ciò che la natura, egregiamente mediata dall’intervento umano, ci consegna gratificandoci anche in termini di gusto e appetibilità. Tutto torna, e così, restando all’esempio di Torri del Benaco, l’olio Dop Garda si integra alla perfezione con i pesci del bacino lacustre: la delicatezza delle carni del pesce incontra la finezza degli extra vergini gardesani. Sembra fatto apposta, l’accostamento; e non è una questione di difesa del campanile, quanto di una oggettiva e concreta esigenza tecnica.
LA RETE DEI RISTORANTI ETICI
2023
LA RETE DEI
È un progetto
RISTORANTI ETICI
che vuole dare valore ai ristoranti che abbiano l’etica del lavoro.
Per saperne di più amodo.salaecucina.it dove si può inviare la scheda di adesione
Martina Manescalchi Consulente e formatore Teamwork HospitalityCapire se le campagne stiano realmente rispondendo a una effettiva domanda di mercato non è semplice. Tuttavia, si può tener conto di alcuni segnali d’allarme. I costi di disintermediazione non possono e non devono superare gli eventuali costi di intermediazione. Questo è un rischio che spesso si corre attivando campagne inadeguate. Lo scopo delle campagne è sempre quello di incrementare le prenotazioni dirette. Ma ne vale sempre la pena? In generale, sì. Ma non è sempre così. Se si mettono insieme i costi (in denaro, tempo e risorse) che vengono affronti in un anno nel tentativo di disintermediare si potrebbe infatti scoprire che, affidandosi alle OTA, a parità di prenotazioni, si sarebbe speso meno in commissioni che in attività volte, appunto, alla disintermediazione. Ovviamente, questo è molto difficile da valutare, in quanto il tentativo di disintermediazione passa da molti investimenti: materiale cartaceo, restyling e mantenimento del sito, booking engine, social media, newsletter, advertising di vario genere e il valore dell’acquisizione diretta non risiede soltanto nel risparmio economico della commissione, ma anche nella relazione con il cliente. Diciamo però che non è consigliato cimentarsi in queste attività, soprattutto se nell’approccio al web marketing si rispecchia una di queste condizioni:
• Scetticismo
Il web marketing viene visto spesso come un’attività non monitorabile. Niente di più sbagliato. Il web, come abbiamo visto, fornisce strumenti in grado di analizzare in profondità ogni performance. Nonostante questo, molte attività vengono frequentemente svolte sull’onta della tendenza del momento o semplicemente perché lo stanno facendo i competitor, ma senza una reale fiducia sui risultati effettivi. Le campagne costano: non si può pensare di attivarle se non si è pronti per la di obiettivi concreti e condivisi e a mettere a disposizione la conoscenza e i dati clientela per fare in modo che funzionino
• Incertezza
A volte i risultati vengono giudicati in virtù di aspettative mal riposte. Questo avviene perché le idee non sono chiare fin dall’inizio. Voglio essere primo su Google, Voglio superare il mio competitor, Voglio superare Booking. com, Voglio vendere di più, Voglio visite sul sito, Voglio destagionalizzare. Tutte richieste troppo generiche che non possono definire il successo o l’insuccesso di una campagna. Le campagne Ads agiscono su annunci ben specifici, spesso tanto più efficaci quanto più specifica
Comprendere se le campagne online dell’hotel stanno i ntercettando la domanda
e descrittiva la combinazione di parole chiave. Occorre definisci obiettivi concreti e circoscritti e valutare i risultati precisi corrispondenti, escludendo tutto ciò che non afferisce direttamente alla campagna.
• Aspettative troppo elevate
In generale, è molto difficile che i risultati siano immediati. Il marketing, a tutti i livelli, non è una scienza esatta. Né le campagne racchiudono in sè il concetto di web marketing. Google Ads è uno strumento e come tale interviene in un contesto già esistente da cui dipende strettamente (sito web, brand reputation, integrazione di strumenti di vendita). Contesto in cui basta che si rompa un ingranaggio per compromettere i risultati di ogni singola attività
• Deleghe eccessive
Se la realizzazione delle campagne spetta sicuramente a professionisti del settore, questo non significa che l’albergatore e tutto lo staff possano permettersi di chiamarsene completamente fuori. Sarà loro dovere monitorare continuamente l’andamento delle campagne e i risultati. Se si conoscono gli strumenti e si controllano le performance, nessuno potrà investire soldi con superficialità o fornire report fumosi e troppo generici
In conclusione, tutti i reparti dell’hotel hanno il dovere di confrontarsi sia in fase di pianificazione che di monitoraggio per calcolare bene i costi e valutare ogni variabile che possa portare a risultati insoddisfacenti.
La digital trasformation
Claudia Ferrero Digital Strategist & EvangelistDopo la marcata ripresa del 2022, per l’anno in corso si prevede un aumento dei flussi di turisti e di consumi che, con molta probabilità, raggiungerà finalmente i livelli registrati nel 2019.
Ciò che invece non tornerà più come prima è il reperimento del personale: per la Pasqua ed i mesi primaverili dei Ponti, Assoturismo Confesercenti stima oltre 50 mila lavoratori mancanti nelle imprese turistiche sulla base di elaborazioni sul mercato del lavoro condotte da Cst.
Servirebbero nuove soluzioni, magari utilizzando le risorse del Pnrr (così come ha fatto la Spagna, dedicando al turismo il 10% della spesa).
A oggi le politiche attive sono quasi del tutto assenti, le istituzioni dovrebbero occuparsi di risolvere il problema legato alla mobilità dei lavoratori, di normative speciali per garantire una ‘staffetta’ tra i lavoratori nelle attività stagionali e di formazione.
Le scuole alberghiere, ormai è risaputo, vivono dei limiti oggettivi, pertanto le Regioni dovrebbero perlomeno rafforzare la formazione professionale di figure turistiche e aprire ai ragazzi in età scolare prevedendo occupazioni temporanee a totale esenzioni di imposta.
A tutto ciò si aggiunge la diffusa irregolarità dei rapporti di lavoro e nella precarietà degli stessi. Il turismo è un comparto nel quale si fa ampio uso e abuso di contratti precari e dove è presente una diffusa irregolarità, come dimostra periodicamente l’Ispettorato del lavoro.
Ma è anche la volontà di occuparsi che non deriva dal non trovare occupazione, ma dal non cercarla.
Con il rafforzamento del sussidio per la disoccupazione prima – la Naspi – e del RDC poi, negli ultimi anni si è creata una trappola che tiene nell’inattività molti di coloro che trovando lavoro vedrebbero le proprie entrate crescere di poco rispetto ai sussidi che ricevono, mangiati anche delle imposte.
Per il momento quindi la situazione è paradossale: da un lato si prospetta un aumento del volume della produzione e dei posti di lavoro creati, dall’altro Assohotel Confercenti prevede che a causa proprio del mancato
Nuova stagione, nuova emergenza: mancano almeno 50 mila lavoratori
reperimento degli addetti necessari, la perdita media di fatturato sarà del -5,3%.
Secondo l’ultimo rapporto FIPE nel 2022 tra le imprese della ristorazione che hanno effettuato ricerca di personale, il 64% dichiara di aver incontrato grandi difficoltà nelle oltre 756.300 ricerche.
Considerando oltretutto che il comparto si è sempre rivolto ai giovani (il 40% dei lavoratori ha meno di 30 anni), anche le aziende dell’horeca devono ripensare alle loro offerte di lavoro e al loro modello di business per ritornare ad essere attrattive.
Millenials e generazione Z ricercano infatti aziende che offrono percorsi di formazione interna per avere la possibilità di fare carriera, luoghi dove viene premiato il merito ma soprattutto realtà a impronta etica e con chiari valori sociali.
Insomma, la ricerca del personale ormai ha assunto un contorno strutturale e non più emergenziale, ecco perché istituzioni e mondo privato devono riprendere in mano la situazione e contribuire affinché si evitino conseguenze future molto importanti sul PIL del Paese.
Scienza e nutrizione
Ferdinando A. GiannoneBiologo e Nutrizionista
Co-founder ARNAFOOD LAB
Che sia una tendenza o un’evoluzione naturale verso il benessere e la sostenibilità a tavola, questo non mi è ancora chiaro, ma sicuramente il mondo della ristorazione e gli chef si sono accorti delle potenzialità dei vegetali, delle verdure e degli ortaggi. Leggo e ascolto di menù degustazione, di manifesti, di percorsi e di piatti a base vegetale: ma è una novità o solo una moda? Al momento non ho ancora una risposta, ma mi auguro di poter andare al ristorante o in pizzeria nei prossimi anni e trovare tra i vegetali proposti più varietà, stagionalità, territorialità, tradizione o anche solo una filosofia più precisa sul ruolo che possono avere le verdure e gli ortaggi nella proposta enogastronomica italiana.
Tra il 2022 e quest’inizio del 2023 ho provato a ordinare un’insalata e un contorno di verdure a dicembre e una pizza alle verdure prima a luglio e dopo a gennaio, e ho avuto la possibilità di farlo a Torino, Pescara, Roma e Catania. Spero che voi possiate essere più fortunati di me, perché io ho scoperto ancora poca varietà, stagionalità e territorialità. L’insalata di dicembre è stata a base di lattuga, radicchio, pomodori e carote senza dimenticare il mais mentre il contorno se non erano spinaci o erbette erano melanzane, zucchine, peperoni e le immancabili patate. La pizza però è quella che mi continua a sorprendere negativamente perché cambia la stagione o la latitudine, ma i protagonisti sulla pizza rimangono sempre melanzane, zucchine e peperoni con qualche aggiunta. Inoltre mi sorprendo ancora per le porzioni dei contorni sempre “troppo minute”; eppure la parola contorno deriva da contornare ovvero che circonda, che cinge ossia che avvolge; quindi se una delle voci del menu è contorni questi dovrebbero non essere un semplice accompagnamento ma una portata che potrebbe essere utilizzata a proprio piacimento nel pasto.
Eppure questa evoluzione vegetale della cucina mi affascina perché ci vedo molto potenziale (soprattutto educativo e culturale) in una nazione come Italia che ha una storia di piatti a base vegetale con connotazioni regionali e stagionali molto forti. Una storia
Ci siamo persi i contorni
quella della cucina italiana e della cultura gastronomica del Mediterraneo che ha una forte personalità vegetale e che si è dimostrata scientificamente la scelta migliore sia per mantenere un buono stato di salute sia per la prevenzione di molte patologie cronico-infiammatorie sia per la sostenibilità ambientale. Quindi l’invito a tutto il mondo della ristorazione è quello di osare, sperimentare, studiare e ritrovare i ‘contorni Italiani’ perché di verdure e ricette ne abbiamo per tutti i gusti e le stagioni: zucchine e zucca alla scapece; vignarola, ciaudedda, insalata di rinforzo, cavolfiore arriminati, puntarelle alla romana, insalata tirolese di cavolo cappuccio, brovada friulana, scarole alla monachina o ‘mbuttunate, preboggion, caponata, ciabotta o ciambotta, rape o broccoli strascinati, friggione alla bolognese, cardi alla piemontese o romagnola o brindisina, insalata di finocchi e arance, parmigiana o melanzane a funghetto, articiochi alla triestina o carciofi alla giudia, imbrogliata di carciofi o fricassea, cime calate, fronne e patate, cundigiun e tocco de funzi genovese, asparagi alla milanese o bassanese, e così ancora mille e più ‘contorni Italiani’!
Autrice: Simona Vitali
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Il Fenicottero Rosa Gourmet di Faenza
Parola chiave: coinvolgere
Vi capita di chiedervi cosa celi il nome di un ristorante, vale a dire di indagare sul perché si chiami così?
Se spesso la risposta è immediata, a volte invece non lo è ma vale la pena di essere sondata. Scoprire ad esempio che in quel di Faenza è sorto da poco Il Fenicottero Rosa Gourmet, che vuole omaggiare una colonia di 35 fenicotteri rosa - presenze improbabili in Romagna - che popola il laghetto di un parco secolare su cui lo stesso ristorante si affaccia, è solo un primo indizio che a uno spirito curioso innesca altre domande. Perché quei fenicotteri rosa, uccelli esotici, sono lì? Chi li ha voluti e con quale intento? Così facendo si arriva dritti a un’illuminata e generosa famiglia di imprenditori faentini, la famiglia Bucci, che da generazioni qui ci abita e ha fatto dell’apertura della propria casa agli altri, cioè il condividere la bellezza di cui ha amato circondarsi, la propria cifra stilistica.
Quando la location è una storica villa pulsante di vita
Nei pressi del parco sorge Villa Abbondanzi, oggi sede del Fenicottero Rosa Gourmet nonché di cinque splendide suite, che non è altro che il nucleo da cui - a partire dagli anni ’50 - ha preso il via un grande dise-
gno: “Il mio nonno paterno, Roberto - racconta Martina Bucci che oggi è direttrice di Villa Abbondanzi Resort - alla morte di suo padre ha scelto fortemente la villa, trasformandola in residenza e ridisegnando personalmente la scenografia naturale del complesso. Lui, con la sua grande passione per i viaggi, la natura, gli animali esotici che, nel possibile, portava a casa ricreandone l’habitat, gli ambienti. Paesaggi diversi: dalla folta vegetazione - quasi selvaggia - che circonda il laghetto all’ampio respiro del giardino fino all’imponenza di alberi autoctoni ma anche di esclusiva rarità, che amava popolare di specie animali.
Per un periodo ha tenuto gli struzzi poi sono arrivati i fenicotteri rosa, che ancora abbiamo cura di conservare, come una sua eredità, ma anche cicogne - che nidificano indisturbate su alti pali - aironi, anatre...
Un senso di ospitalità grandissimo spingeva nonno Roberto, con la complicità di nonna Mary, donna brillan-te, ad invitare spessissimo amici a casa, un luogo vivo, pieno di libri, di ricordi dei suoi viaggi e di arte”. Oggi Villa Abbondanzi e il suo parco per volere di Massimo, padre di Martina e figlio di Roberto - che ha tanto dello spirito del padre - sono inglobati all’interno di un resort con un’offerta di servizi talmente ricca da giustificare una permanenza di più giorni, certi di poter vivere esperienze sempre diverse, tutte rigeneranti.
Un progetto condiviso
Il Fenicottero Rosa Gourmet ha fatto capolino nel panorama ristorativo giusto tra un lockdown e l’altro, approfittando però di quel periodo lavorativo discontinuo per alzare il livello della propria offerta con interventi significativi, a partire dal restauro del piano terra della villa che avrebbe ospitato il ristorante (precedentemente sito
in una location limitrofa) ma anche per ridefinire la composizione di quella brigata, come lo chef Alessandro Giraldi - che con Massimo Bucci ha condiviso il progetto dal suo nascere - aveva bene in mente. Si è dovuti arrivare a marzo 2022 per poter a tutti gli effetti ripartire. Semmai gli accadimenti possano risultare essi stessi segnali di buon auspicio, a settembre 2022 nella colonia di fenicotteri, non così avvezza alle riproduzioni, è nato un piccolo fenicotterino, un simpatico piumoso di indefinito colore grigio chiaro, che oggi zampetta insieme a tutti gli altri compagni, sotto lo sguardo intenerito degli ospiti che non mancano di passare di lì.
La bellezza di certe esperienze non programmate
La vita insegna, a volte mai abbastanza, che le esperienze non programmate e per le quali non nutri aspettative, semplicemente perché capitano improvvise senza lasciarti il tempo di prepararti, possono avere il potere più che di lasciare il segno di spiazzarti letteralmente.
La serata al Fenicottero Rosa Gourmet è andata proprio così, con un menù degustazione che pietanza dopo pietanza, dalle entrèes alla piccola pasticceria, ha saputo mantenere lo stesso linguaggio e lo stesso livello qualitativo, senza dissonanza alcuna.
Riuscire in questo, ci siamo detti, presuppone che la brigata si parli, comunichi, condivida, ergo chi ne è alla guida abbia una certa mentalità. Ne abbiamo quindi voluto parlare con lo chef Alessandro Giraldi, classe ‘88, che fa questo mestiere perché lo ha scelto, perché i genitori hanno ascoltato la sua volontà e non il tentativo di depi-
Lo Chef Alessandro Giraldistaggio degli allora professori delle medie, che consigliavano altri studi. Diversamente oggi sarebbe altrove e non conterebbe certamente esperienze come quella al Noma.
Coinvolgere la brigata nella pianificazione del menù
“Ho sempre pensato - ci confida lo chef - che per fare un bel progetto qualsiasi persona che vi prenda parte debba sentirsi molto coinvolta perché questo mestiere richiede tanto a livello personale, familiare, per cui quello che torna indietro dev’essere una soddisfazione personale importante. In più di un’esperienza che ho fatto c’era solo una voce unica e i successi che arrivavano non li sentivi anche un po’ tuoi Ecco, mi sono detto che volevo lasciare spazio di espressione, coinvolgere, tutti. Ho cominciato a leggere un sacco di libri sulle dinamiche a spirale, la programmazione neurolinguistica...per capire come potevo interagire con la squadra. Nel mettere a punto un nuovo menù, operazione che ci impegna per almeno 40 giorni, non decido io solo ma chiamo a raccolta la brigata
di cucina e invito ciascuno a portare le proprie idee, dalle entrèes alla piccola pasticceria. Ho quaderni su quaderni dove annoto tutto, l’abilità dev’essere poi il canalizzare e lo sfruttare il più possibile quanto raccolto. Ovviamente rimangono anche spunti che non vengono lavorati e su questo ci attrezzeremo ulteriormente. A questa fase di pianificazione sulla carta segue quella delle prove (non più di un piatto al giorno). Di fatto ci concentriamo su un ingrediente, sulla sua comfort-zone e poi ci allontaniamo il più possibile in termini di acido, cechiamo di inserire l’amaro, la masticazione, la croccantezza, la fluidità... dipende dall’ingrediente da cui partiamo. Poi dobbiamo stare attenti a non oltrepassare il limite oltre il quale la gente non ci seguirebbe più. Molti si fermano all’aspetto piacione, noi cerchiamo di alternare prodotti di nicchia a prodotti poveri combinati in maniera tale che risultino inaspettati come sapore. Dal nocciolo della susina, ad esempio, abbiamo ricavato una maionese poi abbinata alla mazzancolla. Una volta standardizzati i piatti in cu-
Carciofo Moretto La brigati de Il Fenicottero Rosa Gourmet, da sinistra: Riccardo Statella, Andrea Serafini, Matteo Maiorani Cavina, Francesco Samorì, Marco Farina, Andrea D'Alonzo, Nicola Decesaricina si procede con l’assaggio per la sala, avendo sempre cura di tenere un margine di qualche giorno per aggiustamenti, anche in funzione dell’abbinamento con i vini”.
La pasticceria, cartina di tornasole di un modus operandi
Una nota di merito va alla pasticceria, che troppo spesso si avverte come un altro mondo, non così bene allineato al resto. Chiediamo se c’è un pastry chef o comunque qualche figura dedicata.
“Devo dire che sulla pasticceria siamo partiti un po’ più deboli, avevamo una pastry chef, bravissima ma forse non ancora pronta per il fine dining, diciamo con meno slancio sperimentale della cucina. Quando se ne è andata abbiamo deciso, senza voler penalizzare troppo la parte salata, di focalizzarci noi sulla pasticceria. La sfida è stata raccolta da Andrea Serafini a, che è sempre stato nelle partite classiche, probabilmente come stimolo per tener viva la fiamma della passione”.
Riccardo Stratella , che con lo chef ha condiviso l’impegno fin dall’inizio e, a oggi, è l’head chef, conferma la linea: “ È importantissimo – dice – che ciascuno di noi non si focalizzi su una sola partita ma prenda confidenza con tutte, per non diventare statico, fossilizzarsi in un unico ruolo. Il vantaggio di essere giovani, siamo tutti under 30, ci restituisce la voglia di sperimentare cose nuove e di metterci in discussione fra noi”. Ecco spiegato perché Andrea, seppur confortato da esperienze che nel tempo gli hanno fatto apprezzare la pasticceria ha deciso, come mai era accaduto fino ad ora, di mettersi alla prova. “Devo dire che all’inizio ho avuto un po’ di paura: tra il dire e il mettere in pratica possono passarci in mezzo tanti errori che a questo livello costano cari. Tuttavia il ragionare tutti insieme sui piatti cioè il fatto, ad esempio, che io proponga un dessert su cui altri portano il loro contributo di idee, certamente aiuta tanto. Ed è probabilmente anche il motivo per cui si avverte di trovare un filo logico nell’intero menù, dolce compreso”. Ma prima di tutto questo, come ci racconta Marco Fari-
na, maître di sala, c’è un appuntamento settimanale, al giovedì, che suona come un impegno a voler fare gruppo, smussare gli angoli che connotano ciascun carattere ma soprattutto stemperare quel non detto che si può accumulare durante il servizio: “Per questo - racconta il maître - ho fortemente voluto un momento di incontro fra sala e cucina in cui guardarci in faccia, chiarire qualche eventuale malinteso, cercare di conoscerci un pochino di più e imparare a stare fra noi, in una parola: crescere, per alimentare quel collante fra sala e cucina che poi al tavolo si percepisce. Poi è chiaro che noi di sala dobbiamo essere aperti a qualsiasi imprevisto e capaci di modellarci rispetto alle esigenze di chi abbiamo di fronte”.
Storia, bellezza, natura stanno tenendo a battesimo un ristorante che da solo vale il viaggio e che non tarderà, ne siamo certi, a imporsi nel panorama della ristorazione per la freschezza delle sue idee e il raffinato piacere che sa regalare al palato.
La riflessione
Autrice: Giulia Zampieri
Se fosse un pane comune
“Dateci una mano”. Una delle giovani voci che hanno ispirato questo articolo sul pane ha pronunciato esattamente queste parole al termine dell’intervista. Le riporto perché danno la misura di quanto sta accadendo in alcuni anfratti del nostro Paese.
Ci sono panificatori, spesso giovani, con le idee chiare posate sui polpastrelli, che sanno qual è il rischio di non innovare il mondo del pane in Italia.
Il rischio è che continui ad avere la meglio la mediocrità, lo spreco, e che si perda il rispetto per un alimento che tiene in piedi il mondo da secoli.
Ne avevamo parlato meno di un anno fa, nell’articolo Il pane di oggi e quello di domani, coinvolgendo due ragazzi che stanno coltivando progetti virtuosi e genuini: parlo di Francesco Bonfiglioli (Madré) e Giulia Busato (Tòcio). Torniamo sul tema coinvolgendo altri giovani, altri progetti: uno a Bastia Umbra, uno a Parma, l’altro a Cison di Valmarino (TV).
Lo facciamo proprio nei giorni in cui a Venezia scatta lo scontro tra panifici e baristi: i primi per far ritornare la clientela vogliono introdurre le macchine del caffè, i secondi inveiscono perché non vogliono farsi sottrarre lavoro. Ecco, nel corso dell’articolo - i cui protagonisti sono intrecciati da un filo comune - capiremo che questa è una diatriba inutile Il tema, per innestare la cultura del buon pane, è tutt’altro.
Alvé a Parma
Dovremmo dirvi che Alessio Rosselli ed Eliana Caggiati hanno cambiato totalmente vita aprendo nel 2018 a Parma una bottega, ricca di eccellenze gastronomiche, ma che poi per un’ispirazione sono diventati anche forno. Dovremmo dirvi che lavorano assecondando i ritmi naturali, utilizzano solo lievito madre liquido, e hanno il laboratorio a vista. Che impiegano solo farine di filiera provenienti da coltivazioni biologiche, prevalentemente macinate a pietra da mulini artigianali, che trattano solo grani italiani.
Vi raccontiamo, invece, le loro riflessioni sul mondo del pane e i loro accorgimenti per gestire, con gioia, un lavoro complesso e dispendioso, che nasconde grande umanità e presuppone determinazione e ingegno.
“Al mattino apriamo più tardi degli altri forni, anche se arriviamo naturalmente molto presto. Perché apriamo dalle nove? Perché dovevamo trovare un modo di rendere sostenibile la nostra attività anche in termini di orari, avendo anche la bottega. E poi, alla fine, molti ritengono un’opportunità poter venire a ritirare il pane fino a sera, tanti panifici chiudono nel primo pomeriggio. Inoltre abbiamo istituito un calendario settimanale del pane per agevolare la nostra clientela, in modo che possa avere dei riferimenti”.
La loro è un’attività con intenzioni chiare, non solo sul fronte della qualità e dell’organizzazione. Sostenibilità ed etica sono due termini che ricorrono, come sottofondo, alla conversazione con Alessio ed Eliana.
“Le lavorazioni veloci, l’utilizzo di materie prime di scarsa qualità non hanno solo come effetto pratico pani poco digeribili. Si innesca un meccanismo malato: basso costo diventa spreco. Pensate a quanto pane viene gettato ogni giorno. Molti clienti non hanno capito che se il prezzo di un prodotto è basso, qualcuno sta pagando la differenza al posto suo, e non necessariamente in termini economici. Ci sono parametri come l’ambiente, lo sfruttamento delle persone, o l’inadeguato pagamento dei fornitori… che vanno considerati”.
L’altro aspetto, di cui pochi parlano quando si cita il pane,
affrontato chirurgicamente da Alessio, è l’abbondanza. “Viviamo in un sistema capitalistico, di iperconsumo, in cui lo spazio vuoto nello scaffale ci mette tristezza. Ma non sarebbe meglio ci fossero più spazi vuoti per far comprendere alle persone che i prodotti hanno un valore e… finiscono?”.
Madamodoré a Cison di Valmarino
Vi capita spesso di essere ospiti a casa di amici e trovare al centro del tavolo un pane che vi ricorderete il giorno dopo e quello dopo ancora? È ciò che mi è accaduto qualche settimana fa. Il pane era quello sfornato da Adamo Faraon, nel suo neonato Madamodorè, un punto vendita con laboratorio collocato nel centro storico del piccolo borgo di Cison di Valmarino (TV).
Adamo ha inaugurato questo sogno dal nome vivace nemmeno un anno fa avvicinando già molti clienti, soprattutto da fuori.
“A fare il panificatore ci sono arrivato per caso” ci dice, poi si corregge: “in realtà per una passione che è diventata una missione. Mi sono innamorato del fatto che fare il pane sia un gesto d’amore. Una pianta muore per dare vita a un alimento, a un cibo. Ma c’è anche il lavoro dell’uomo che fa da tramite”.
“Tante persone inizialmente mi hanno messo in guardia sugli sforzi e ritmi di questo mestiere ma io sono andato
Alessio Roselli e Eliana Caggiati Adamo Faraon di Madamadoré Ora Forneriaavanti, sempre più convinto della strada che sto percorrendo. È un lavoro di responsabilità: ogni giorno devi fare trovare il pane a chi entra in negozio. Ma è una responsabilità che si allarga se vogliamo parlare di quanto il pane rappresenti l’emblema della nostra cultura, del nostro tempo. Sono convinto che se mangiassimo tutti certi panificati, che rispettano l’etica, le materie prime ed evitano sprechi, cambierebbe il mondo. La mia missione è anche quella di veicolare questo pensiero, di educare chi non conosce il mondo del pane ed è andato avanti sempre per abitudine”.
Adamo ci racconta il suo Panifesto, un manifesto che definisce i valori rispettati da Madamodorè: territorio, stagionalità, pochi ingredienti, lunghe lievitazioni.
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
“Ci sono panificatori c he l avorano c on g li s tessi p rincipi, e non posso che esserne fiero. È molto difficile però abbattere alcune resistenze, quando si tratta di pane sono particolarmente radicate. Cerchiamo di avvicinare le persone facendo provare, spiegando che questo pane è buono per giorni, è molto digeribile, e non per ultimo cercando di incuriosirli con i nomi”.
Il Pane Nostro (la versione di pane quotidiano, integrale), Sole (con grano duro siciliano), Olly (alle olive verdi Nocellara del Belice), Madamodorè (include tutte le farine utilizzate negl altri impasti): sono le principali sfornate di Adamo, che anticipano con espressioni originali qualcosa di buo-no e duraturo nel tempo.
Ora Forneria a Bastia Umbra
Alcuni ristoratori hanno capito che si può fare del bene prendendo il pane da fuori, si crea indotto. Così accade da Luce Ristorante a Perugia. Qui viene servito il pane di Ora Forneria, un piccolo panificio aperto da meno di un anno, in una delle viuzze di Bastia Umbra. Appena lo si mette in bocca ci si domanda da dove provenga quella pagnotta dal profumo denso e sincero.
La risposta arriva da Federico Gori, proprietario di Luce: “lo fanno i ragazzi di Ora Forneria, Riccardo Raspa e Carlo Massucci”
Sono amici da vent’anni. Carlo ha trascorsi come pa-
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
Il Rapporto Ristorazione 2023
Una nuova primavera per la ristorazione italiana
“Datemi un buon cuoco e vi darò un buon trattato”, si apre con questa frase di Charles Maurice de Talleyrand, ministro degli esteri di Francia a cavallo tra ancien regime e rivolzione, il Rapporto Ristorazione 2023 presentato dal Centro Studi FIPE nelle scorse settimane.
Il ministro francese portava sempre con sé Marie Antoine Carême, il cuoco che si può definire come il principale ideatore dell’alta cucina.
Un buon auspicio
Un’apertura che vuole essere un buon auspicio, evidenziando quanto il ruolo della ristorazione può fare nella costruzione di importanti relazioni, come rivendicano i numeri del rapporto che vedono la ristorazione italiana, pur in calo nel parametro aperture-chiusure nel 2022. Nel 2022 hanno avviato l’attività 9.688 imprese mentre 20.384 l’hanno cessata, il saldo è negativo per 10.696 unità per circa un terzo concentrato nell’Italia meridionale. Un dato che, per quanto riguarda specificatamente la ristorazione vede un anno, il 2022 per l’appunto, dove hanno avviato l’attività 5.716 imprese a fronte delle 11.292 l’hanno cessata, con un saldo negativo di 5.576 unità.
I consumi fuoricasa, nonostante il calo degli esercizi, sono invece cresciuti in maniera molto forte (le immagini dei pubblici esercizi pienissimi di persone l’estate scorsa erano all’ordine del giorno)
Fig.
I11 - L’evoluzione
attesa per il mercato Horeca nel 2023 rispetto al 2022
L'evoluzione attesa per il mercato Horeca nel 2023 rispetto al 2022
Fonte: Survey ad esperti del settore
anche verso gli ultimi mesi del 2022 nonostante i timori dettati dalla crisi energetica. Infatti il valore economico dei consumi fuoricasa è risalito a circa 82 miliardi di euro, avvicinandosi agli 85 miliardi e mezzo del periodo pre-Covid, trainato anche dal ritorno del turismo internazionale, mentre il valore aggiunto del settore ha superato nel 2022 i 43 miliardi di euro (+18% rispetto all’anno precedente).
Le imprese femminili e giovanili
Sono 110.806 le imprese del settore gestite da donne, pari al 28,2% del totale. Le imprese femminili sono tali quando la partecipazione di genere risulta complessivamente superiore al 50%, mediando tra quote di partecipazione e cariche attribuite.
Le imprese femminili si equi-distribuiscono all’interno dei diversi canali della ristorazione con una prevalenza nel canale bar dove sono poco più di un terzo della platea (32,0%) mentre negli altri comparti rappresentano quote intorno al 26%.
Le imprese giovanili, cioè quelle gestite da under35, sono in totale 48.408, pari al 12,3% del totale così distribuite: 59,0% ristoranti, 40,3% bar e 0,7% mense e catering. In questo caso, soprattutto nella ristorazione, si sta avvertendo un cambio di passo nei modelli gestionali: sempre meno gerarchie di stampo militaresco in favore di una strategia di coinvolgimento delle persone che qui lavorano, in un’ottica di impulso alla professione e maggior soddisfazione anche della clientela. Un fenomeno che va attentamente monitorato perché segnerà il futuro di questa professione.
L’occupazione nel comparto
Esiste, come in tutti i comparti produttivi, un problema dato dalla carenza di personale che, nella ristorazione, si ripercuote sulla qualità complessiva del servizio.
“Il lavoro dei pubblici esercizi è un piano traballan-
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
te dove risultano incerte sia le gambe della qualità, sia quelle della quantità dell’offerta di lavoratori. Dal lato della quantità, basti notare che, come emerge da queste pagine, quasi un’impresa su due ha effettuato almeno una ricerca di personale nel 2022 e due su tre hanno incontrato difficoltà di reperimento (8 su dieci nel caso dei bar). Dal lato della qualità dell’occupazione, se il numero degli occupati ha recuperato, mancano all’appello quote di contratti a tempo indeterminato e fasce importantissime come giovani e donne, che hanno nel tempo qualificato il settore per capacità di inclusione e nuove energie. Rimettere al centro il lavoro di qualità e ripensare i modelli di business in termini di sostenibilità sono i due assi portanti di una strategia imprenditoriale per i prossimi anni, che in questo 2022 potrebbe aver visto un momento di svolta” afferma il presidente di FIPE, Lino Stoppani, nell’introduzione al Rapporto Ristorazione.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
Nello specifico, le oltre 165mila aziende con almeno un dipendente hanno impiegato nel 2022 una media di oltre 987mila lavoratori, solo 3.700 in meno del 2019. Si tratta però di un aspetto su cui ancora c’è molto da fare, soprattutto rispetto al numero di contratti a tempo indeterminato e a quelli che riguardano donne e giovani impiegati nel settore, che invece restano abbondantemente sotto i livelli pre-covid. A questi va aggiunta la fetta di occupazione indipendente (titolari, soci, ecc.) che vale oltre 350 mila persone e che, invece, appare più lenta a tornare ai livelli del 2019.
La ristorazione è stato il comparto che nel 2022 ha offerto le maggiori opportunità di impiego.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Le imprese hanno ricercato oltre 756.300 figure professionali. Si tratta di giovani al di sotto dei 30 anni in quattro casi su dieci. Poco meno di una su tre ricerca personale oltre i 30 anni. Le figure richieste sono state i camerieri (356.570) e i cuochi (circa 208.880). Seguono i baristi con oltre 143.600 unità.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
L’andamento economico delle imprese di ristorazione
a un valore pari a circa il 5% per salire nel 2021 al 6%. Nel 2022 si rileva un tendenziale riallineamento ai valori del 2019.
Per un ristorante su tre il risultato economico è migliorato mentre per poco più della metà è rimasto sui livelli del 2021. Soltanto per poco più dell’11% delle imprese il 2022 non è stato migliore dell’anno precedente. Il dato ancora più interessante è che per 7 ristoranti su 10 il fatturato ha raggiunto nel 2022 i livelli del periodo pre-pandemia. Per il 4,1% è addirittura superiore.
Le società di persone si confermano opzione diffusa di organizzazione imprenditoriale soprattutto nelle aree settentrionali del Paese. La quota di società di capitale, pur minoritaria, è significativa in alcune regioni come nel Lazio dove costituiscono una presenza importante probabilmente perché Roma è la sede legale preferita dalle molte imprese di maggiore dimensione.
2.1.2 Il comparto bar
Tendenze per il 2023
Gli operatori della filiera non prevedono, a oggi, una contrazione dei consumi significativa nel canale a fronte della pressione inflattiva. Lo scenario del 2023 rimane cautamente positivo, prospettando una crescita del segmento nell’ordine del +5-10% nel 2023 rispetto all’anno precedente.
Questo è un comparto in cui, nel 93,8% dei casi, l’imprenditore è anche lavoratore dell’impresa. Un tassello importante dal momento che vi lavora in media, nel caso di uno su due, nove ore al giorno e, in uno su tre, oltre 10 ore. L’orario di servizio è il punto centrale intorno al quale si snoda l’organizzazione del ristorante. Una delle complicazioni maggiori insite nel modello di consumo della ristorazione è la forte concentrazione della domanda nel fine settimana. Spesso si fa fatica a capire che un ristorante pieno la sera del venerdì o del sabato non vuol dire che sia pieno anche il martedì o il mercoledì. Nei ristoranti il 62% dei ricavi si realizza tra venerdì e sabato e il 60% a cena. Ovviamente questo dipende anche dal segmento di ristorazione nel quale si opera. Il mercato di una pizzeria è ben diverso da quello della ristorazione. La crescita del mercato fuori casa è stata rilevante, con incremento del 26% rispetto all’anno precedente; i consumi alimentari domestici sono cresciuti ma in modo meno rilevante (+ 4,7%) e ben al di sotto del tasso di inflazione ad indicare che la crescita in volume è stata negativa. Uno dei maggiori cambiamenti della domanda che ha avuto impatto sui consumi fuori casa è senz’altro il turismo. L’incidenza del turismo estero, che nel periodo pre-pandemia, era arrivata a pesare circa il 10% dei consumi fuori casa, nel 2020 è scesa
Inoltre dal 2021 al 2022 si è registrato un notevole incremento di coloro che pongono come priorità di miglioramento della propria salute l’assunzione di cibo sano, passando da un 32% a un 42%. Una tendenza che crescerà sempre di più e che dovrà portare tutta la filiera, dalle aziende produttrici alla distribuzione e al ristoratore a smetterla di considerare il prezzo più basso delle materie prime una componente fondamentale per questo settore, puntando sempre di più sulla qualità delle stesse.
Il bar è sempre stata una delle articolazioni forti della rete dei pubblici esercizi. Nei registri delle Camere di Commercio si contano 136.101 imprese appartenenti al codice di attività 56.3 (bar e altri esercizi simili senza cucina). In nove regioni (in ordine decrescente per numerosità: Lombardia, Campania, Lazio, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Sicilia, Puglia e Toscana) si concentrano oltre i tre quarti delle imprese del settore.
Bar e altri esercizi simili senza cucina (distribuzione delle imprese attive - anno 2022)
Tab.11 - Bar e altri esercizi simili senza cucina (Distribuzione delle imprese attive - anno 2022)
Amodo, la rete dei ristoranti etici
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Autrice: Giulia Zampieri www.cucinateochef.it
foto: Leo Sanzo
Parlare di carne oggi
I cultori della carne sono preoccupati se dovesse arrivare la carne coltivata in Italia?
Ne parliamo con Matteo Zanus, in arte Teo Chef
Mentre leggo Aglio e Zaffiri di Ruth Reichl - autentica goduria per chi è appassionato di critica gastronomica - penso a quanto in questi dieci anni sia cambiato il modo di comunicare, cucinare, selezionare (e produrre) gli ingredienti.
Siamo arrivati a punto che pareva fantascienza: in cui si sviluppa carne alimentare a partire da cellule staminali.
Ecco, mentre sfoglio quelle pagine della Reichl che sembrano raccontare una storia di un altro secolo, in cui alcuni termini non erano contemplati, e sicuramente l’edonismo prevaleva su interrogativi etici, Matteo Zanus (in arte Teo Chef) mi allunga un manzo in cheviche con friggitelli e succo di carota. Un piatto freschissimo in cui lo scamone, seppur abbinato a ingredienti di tono, è protagonista. Non c’è nemmeno il sale, ma è straor-
dinario. Chissà da dove viene e come lo hanno scelto, mi domando.
Quel giorno avevo letto almeno tre articoli che discutevano - un po’ alla rinfusa - dell’avvento della carne coltivata. L’occasione perfetta per discuterne con Teo.
Ma cos’è Teo Chef?
Per alcuni è un locale di tendenza. Chi lo conosce lo definirebbe un covo di convergenza gastronomica Un melting pot di tecniche e ingredienti prelevati da vari angoli del pianeta, posizionato nel centro storico di Bassano del Grappa.
La musica è in linea e batte in testa mentre ci si perde a guardare i libri sugli scaffali, gli oggetti infilati nelle insenature delle pareti, la gigantografia del maiale con tutti i tagli in vista.
Non c’è mai fretta qui. Matteo e i suoi ragazzi si fanno in quattro (come i menu che escono puntuali a ogni stagione) sempre più originali ed esterofili. Mettono insieme materie prime stanate con ardore e tecniche orientali, meso americane, nordiche, senza trascurare il culto del barbecue a cui è riservato un ruolo speciale. Di tutto questo potremmo parlare per ore… ma torno allo scamone.
Come si risponde a un possibile cambio di paradigma
La sensibilità di Teo sulla carne, in un momento in cui c’è un ciclone di verità e non verità, informazione e
disinformazione, è inamovibile e rassicurante. “Non temo l’avvento della carne coltivata o sintetica, come potrei dirti che non mi preoccupa il metaverso. Eppure il tema carne è centrale in questo locale, è il nostro focus. Penso che ci siano delle fasi di assestamento nella cultura e nelle scelte alimentari. Per esempio, il veganesimo: chi sceglie questo stile alimentare oggi ha trovato la sua collocazione, sa dove andare a mangiare, trova le insegne in cui può mangiare e bene. Prima veniva guardato con disprezzo e diffidenza e sicuramente con un locale come questo non ci andava a nozze. Qui facciamo carne, la scegliamo e la lavoriamo con attenzione cercando di valorizzarla e valorizzare il produttore. Siamo felici di ciò che facciamo e la clientela risponde con entusiasmo. Chi vuole altro sceglie un altro tipo di ristorazione, non sbraita qui dentro”.
A proposito di fornitori, e produttori, aggiunge: “Lavoriamo solo con chi si relaziona e lavora in un certo modo con gli animali. Penso alla Macelleria Borgato per la carne equina, con cui collaboriamo su fiducia totale. Non faccio nemmeno più l’ordine, ci pensa Nicola in base al prodotto migliore che ha a scegliere cosa portarmi. Ecco, come posso pensare al mio lavoro senza queste relazioni? Fare il ristoratore significa portare a compimento più filiere, non possiamo pensare che gli attori del mercato si contino sul palmo di una mano né che tutti acquistino il medesimo prodotto, né che spariscano aziende come quella di Nicola”.
Molti però credono che solo avendo l’orto e l’alleva-
mento di proprietà si possa essere davvero sostenibili. Ma non è utopico? È questo il modo giusto per convertire un sistema che ha portato gravi danni? Discutiamo anche di questo con Teo.
“È estremamente difficile pensare che oggi tutti i ristoratori possano avere l’allevamento e l’orto fuori dal proprio ristorante. Lavoriamo con un mercato aperto e globalizzato, in cui saper scegliere è fondamentale, nella carne come nelle verdure e nel pesce. Quindi farei più leva sulla responsabilizzazione nelle scelte, che per noi sono dettate da disponibilità, metodo, gusto e stagionalità”.
Gli domando anche se il cliente riesce a comprendere il valore delle scelte del ristoratore in materia di carne.
“Anche il cliente sta cambiando il suo interesse. Però bisogna comunicare, creare curiosità, e far capire quanto pesa, in termini di costo, energia, etica, la tua scelta rispetto agli altri”.
Tra nuove correnti e gap organolettici
A questo punto, parlando di carne coltivata (che alcuni, erroneamente, chiamano sintetica), si potrebbe aprire un dibattito sul mangiare al ristorante e il mangiare a casa. Teo invece rimane sul primo, rimarcando l’evoluzione positiva percorsa da molti ristoratori negli ultimi anni.
“Già da qualche tempo tanti ristoratori premiano chi fa la carne bene - aggiunge Teo - infrangendo le precedenti tendenze, impiegando per esempio bestie vecchie perché con l’anzianità l’animale guadagna in sapore, massa, sapidità. Alcuni movimenti come il World’s 101 Best Steak Restaurant hanno dato una forte spinta sul ri-orientamento delle scelte dei locali e dei cultori della carne, favorendo correnti più etiche e rispettose e una maggiore qualità”.
Oltre all’etica, vanno considerati anche gli aspetti organolettici
“A parer mio la carne coltivata sarà sempre e comunque diversa da quella ottenuta da un animale come il bovino irlandese, che si alimenta con erba fresca impregnata di note saline per via delle correnti dell’oceano. Quel bovino ha una carne tenace, con particolari sentori e sfumature. Sarà anche differente da un Black Angus del Nebraska, alimentato a fieno e cereale affinato, che pascola su distese lunghe. La sua carne diventa dolce, piaciona. Insomma credo che ci sarà sempre e comunque una differenza sostanziale tra carne da animali allevati secondo certi criteri e carne prodotta in laboratorio… E inoltre che non ci si possa permettere di perdere una cultura che sta trovando un equilibrio nuovo, sicuramente più compatibile con il pianeta rispetto alle modalità intensive”. Anche se scienza e tecnologia non smettono mai di stupirci, non possiamo sapere ora come si evolverà la produzione della carne coltivata. Ma c’è da interrogarsi su tutti questi temi insieme. Parlare con chi lavora in questo settore è il primo passo per sviluppare un pensiero autonomo e contemporaneo, quando il tempo sarà maturo. Forse mai come in questo periodo chi scrive di cibo e chi è in cucina ha l’obbligo di dialogare. Copriamo due spazi sovrapposti. Non è guardandoci dal basso verso l’alto, perseverando sulla critica gastronomica, sulle sfilate e le classifiche, sulle parole dette senza cognizione di causa, sulle discussioni sgarbate, che si darà una risposta vera e comprensibile al cambio di paradigma.
Scopri di più su Teo Chef in Amodo, la rete dei ristoranti etici
Amodo, la rete dei ristoranti etici
Autrice: Antonella Petitti
Bramea
Una falena del gusto in Basilicata
“Mettere al centro dell’universo la Basilicata, dare ampio spazio alle sue materie prime, provando però a mischiare le carte e a dare un’intonazione diversa”. Lo chef Francesco Lorusso ha le idee chiare sulla filosofia che sta alla base di Bramea. Nata nel 2020, è la sintesi dei percorsi professionali di due amici. In contatto dai tempi dell’Alberghiero a Potenza, gli anni a seguire li hanno visti in giro per l’Italia e per il mondo. Antonio Menchise soprattutto in Germania, sempre impegnato in sala. Mentre lo chef, tra le diverse nazioni, è la Norvegia che continua a portare nel cuore.
“Non ti senti mai bene come a casa tua, per questo siamo tornati. Bramea in pratica ha inaugurato in piena pandemia, eppure - nonostante tutto - pensavo sarebbe stato più difficile creare una propria identità in Basilicata. Invece, ci siamo già presi qualche soddisfazione e sono certo che non ci fermeremo qui”.
Il suo nome rappresenta la ricerca dell’autenticità, che Francesco e Antonio hanno trovato nella falena che nasce e cresce soltanto sul Monte Vulture.
Un antico rudere per un progetto innovativo
“Quando abbiamo avuto l’idea di unire le nostre esperienze e tornare a casa abbiamo cercato prima di sondare il terreno, capire se fosse il caso e dove. Ci ha conquistati l’antico rudere ristrutturato dell’ex tenuta della famiglia D’Errico. Lì dove c’erano un tempo la scuderia e il casale di campagna, un luogo circondato dal verde dove si respira la storia del paese”.
Un antico edificio ospita oggi Bramea, due sale in cui da una parte insiste la sala ristorante con 16 posti e dall’altra il salotto dove si propone una carta ‘basic’ per poter mangiare qualche piatto e bere un calice di vino in maniera più veloce ed informale. Il menù del ristorante propone un percorso
degustativo più lungo e più elaborato, a cui serve più tempo e più attenzione. La carta dei vini non è molto vasta ma propone una selezione territoriale importante, con i dovuti salti nel resto d’Italia e nel mondo.
“Il lucano ha vissuto in estrema povertà e ancora oggi è come se non si fosse mai dimenticato di quella condizione, nonostante la situazione sia completamente diversa. Un atteggiamento che ancora ci contraddistingue e che ha i suoi risvolti positivi, ma allo stesso tempo senza paura proponiamo una cucina in cui l’obiettivo finale non è saziare lo stomaco, ma fare un’esperienza”.
D’altronde Palazzo San Gervasio merita più attenzione di quanta non ne riceva. Immersa tra distese di grano e ulivi, consente una tappa interessante alla Pinacoteca D’Errico e, nei dintorni, ai borghi di Acerenza, Genzano di Lucania e Venosa. È anche il paese (tanto amato) del padre di Lina Wertmuller, dove la regista ha girato parte del suo film I Basilischi nel 1963.
La cucina di Bramea
Nessun piatto della nonna, delizia della mamma o antiche reminiscenze. Bramea rappresenta il gusto e l’esperienza di due professionisti under 35. Le tradizioni ispirano, si fanno racconto, ma non condizionano affatto. I tre percorsi gastronomici si dividono tra Vegetali, Terra e Territorio e Terra Mare Lago. Quest’ultimo è quello che più diverte lo chef.
“La cucina deve essere anche gioco, per questo capita di prendere della carne di canguro e di proporla senza stare troppo a pensare cosa se ne dirà a proposito. Non siamo medici né pionieri del territorio, diamo un contributo ma dobbiamo anche divertire e divertirci. Anche la questione territorialità merita un appunto: non tutto ciò che è prodotto in Basilicata è buono. Credo
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
più nel chilometro giusto, che è quello che mi divide da ciò che mi serve per creare piatti di grande qualità, nel rispetto di chi si siede alla mia tavola”, spiega lo chef.
Una posizione tutt’altro che provocatoria, seppure la scelta di aprire in un piccolo borgo d’entroterra li costringa a fare i conti con esso.
“Non possiamo dire di essere stati accolti a braccia aperte, ma pian piano le cose stanno cambiando, siamo fiduciosi”.
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
Così la pasta coi finocchi si trasforma in manate lucane con i finocchi con la salsa barbecue e bottarga di Salmerino, e la salsiccia a catena di Cancellara viene servita cruda, in purezza. Un affronto alla tradizione, che vuole che la carne di maiale venga rigorosamente servita ben cotta.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
In carta al momento anche la carne di asino, servita con topinambur e cavoli. È il nuovo corso, quello che sembra affronti il passato, mentre semplicemente lo legge diversamente. Un tempo gli asini erano più preziosi da vivi, servivano come mezzo di trasporto e di lavoro, ormai è il tempo di poterne apprezzare le carni dolci e tenere.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
Importante anche la presenza del pesce di lago e dei prodotti ad esso collegati. In una regione poco marinara, dove ha sempre trionfato il baccalà, rappresenta una riconquista identitaria recente.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Oggi che si può far a meno di allargare i rebbi delle forchette (che servivano per prendere più cibo possibile), la ricerca della materia prima è il passo più importante che necessita di grandi consapevolezze.
“Non possiamo fare a meno della tradizione, per me è grande fonte di ispirazione, ma non mi condiziona. Anzi, spesso credo sia rivoluzionario cercare di andare alle sue radici. Mi sono appassionato alla salsiccia
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
pezzente, ad esempio, e mi sono reso conto che ormai in pochi la fanno come si faceva un tempo. È cambiata assieme ai gusti della gente, io ho chiesto ad alcuni macellai della zona di fornirmene una versione autentica”.
Il salotto per una cucina basic
Un giovane ristorante d’avanguardia in un piccolo paese d’entroterra ha l’obbligo di tenere spalancate le porte. È una scelta di sopravvivenza e di intelligenza. Bramea lo fa grazie al suo salotto, dove in carta è possibile trovare opzioni veloci e low cost. Alici, pane e burro per accompagnare delle bollicine, ma anche carne di asino alla piastra, del baccalà o una degustazione di formaggi lucani, senza tralasciare il panino con il polpo e il ramen. Qui il menù cambia spesso e diverte. Un’occasione preziosa per entrare in contatto con questa realtà e cominciare a comprendere la sua filosofia. Non mancano cene degustazione con ospiti particolari, di recente il racconto del territorio da Bramea è passato attraverso le parole e la conoscenza del cuoco cibosofo Federico Valicenti.
Dolci profumi
Tra le ultime novità di Lorusso vi è un dolce ispirato ad un profumo. Così nasce Black Afgano, omonimo dell’essenza di Nasomatto. Un lavoro che nasce dalla volontà di riprodurre in pasticceria profumi che riconducessero a sentori lontani, rispetto a ciò che usualmente si ritrova con i dolci
Cuoio, plastica bruciata, tabacco, hashish: una sfida non semplice, che ha conquistato gli ospiti. A loro toc-
ca inspirare, espirare e gustare. Un’esperienza finale da ricordare che ha divertito i più.
“C’è stato un lungo lavoro di sperimentazione dietro, ma ne è valsa la pensa. Mi sono divertito, ho anche coinvolto dei produttori di cannabis legale coltivata in Basilicata. È la prima volta che creo un piatto da un profumo, ho rincorso l’eleganza. Un aspetto che non si scontra con la forchetta con i rebbi larghi della tradizione ma la abbraccia, perché l’una non esclude l’altra”.
Bramea è una nuova finestra su una Basilicata che cambia. Chi pensa che resti ferma non la guarda con attenzione.
Bramea
Viale Villa D’Errico, 10 Palazzo San Gervasio (PZ) Tel. 0972 209498
www.bramearistorante.it
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Salsiccia a catena di Cancellara con verdure macerate sotto vinaccia e vichyssoise Manate con finocchiLa formazione
Autrice: Simona Vitali
Un bel progetto didattico a certificazione europea
Dopo un excursus di buone pratiche alziamo il tiro focalizzandoci su un programma didattico, il più interessante fra quelli in cui si sia capitato di imbatterci. L’iniziativa nasce da due istituti professionali per l’enogastronomia e l’ospitalità, collegati fra loro: il Collegio Ballarini di Seregno e Il Collegio Castelli di Saronno. Si tratta di scuole paritarie (a tutti gli effetti assimilabili, nelle linee da seguire, a quelle statali) che, come vedremo hanno saputo rivelarsi allineate alle direttive europee e anticipatrici, in questo senso, dei nuovi dettami emananti dal Ministero dell’Istruzione e del Merito.
Il percorso
È il 2015 quando i responsabili didattici dei due istituti, Giovanni Guadagno per Seregno e Alberto Somaschini per Saronno, l’uno pure docente di cucina e responsabile formazione della FIC (Federazione Italiana Cuochi) e l’altro docente di cucina e presidente Unione Cuochi Lombardia FIC, danno vita a un primo progetto volto ad allineare il più possibile la scuola alle esigenze del mercato del lavoro.
“In quel periodo – racconta Giovanni Guadagno – decidiamo di fare un sondaggio fra i professionisti di Solidus (il forum permanente delle associazioni professionali legate al mondo dell’ospitalità nel senso più ampio) che ci restituisce oltre 200 contributi dettagliati, da cui ricaviamo un elenco puntuale di competenze (il cosiddetto quadro territoriale delle qualifiche). Queste diventano un riferimento per
Per allineare la scuola alle esigenze del mondo del lavoro
la programmazione didattica del quinquennio. Nel corso del 2020 ci accorgiamo che è necessario creare uno strumento di partnership territoriale, peraltro previsto dalla riforma degli istituti professionali, per far sì che le competenze riconosciute dalle associazioni di categoria possano essere certificate, messe nero su bianco, diventando per i nostri studenti una forma di riconoscimento ulteriore rispetto al titolo di studio, ancor meglio recepito dal mondo del lavoro. Cosa che in Europa sta già accadendo da oltre una decina di anni”.
“Nasce così – prosegue Alberto Somaschini - il Polo Tecnico Professionale, ossia una rete che collega i due istituti con un gruppo di 40 docenti al mondo delle professioni (Solidus), dove grazie a un continuo interscambio si può offrire un percorso più efficace agli studenti, con un elemento in più: la validazione delle competenze che le associazioni danno rappresenta l’unica modalità attraverso cui l’UE dà la possibilità di riconoscere agli studenti una certificazione europea (crediti professionali ECVET). Il credito europeo è come un passaporto: può essere letto, misurato, conteggiato in Italia come in tutte le altre nazioni della UE.
Ora, gli studenti che terminano il percorso dei cinque anni hanno il loro conteggio di crediti alimentato attraverso alternanza scuola/lavoro, esperienze lavorative, attività professionalizzanti che le stesse associazioni propongono... Questi crediti sono la cartina di tornasole del loro reale livello di preparazione.
Con le quinte di quest’anno si completa il primo ciclo di certificazione nel Polo Tecnico Europeo. Il progetto è aperto anche ad altri istituti che volessero valutare di farlo proprio. A gennaio il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha emanato nuove linee guida in cui ipotizza l’utilizzo del sistema dei crediti a partire dal 2028, il che significa che a livello organizzativo la macchina dovrebbe mettersi in moto dal prossimo anno”.
Progetto didattico a certificazione europea
I punti chiave del suddetto progetto sono:
• Il potenziamento delle discipline professionali, con un incremento delle ore di laboratorio dei servizi enogastronomici (cucina e sala vendita) di quasi il doppio rispetto all’orario ministeriale: 10 ore settimanali in prima e seconda, 12 in terza e 10 in quarta e quinta, avvalendosi del massimo delle quote di autonomia concesse dal Ministero. I laboratori servono anche per prendere consapevolezza di quanto acquisito in classe.
• altre occasioni di formazione nel lavoro che contribuiscono alla crescita professionale: c’è un ristorante didattico interamente gestito dagli allievi, una Bottega scuola per le piccole produzioni di nicchia (panetteria, norcineria, produzione di panettoni, ge-
lateria, vinificazione -dalla gestione di un vigneto all’imbottigliamento ed etichettatura - che operano in sinergia con le discipline teoriche.
• La scelta di indirizzo non avviene alla fine del secondo anno (I professionisti interpellati hanno espresso il parere che sia troppo presto per scegliere) ma alla fine del terzo anno, che significa: approfondire più elementi di tutte le professioni, fare un tirocinio che gli consenta di testare il settore di interesse, senza contare i professionisti in più con cui vengono a contatto a scuola.
Il quarto e quinto anno diventano quindi dedicati all’indirizzo scelto, dove però oltre all’aspetto produttivo è contemplato anche quello organizzativo, dei costi...perché anche l’aspetto imprenditoriale non va sottovalutato.
• La preparazione degli studenti non viene misurata solo con i voti ma anche con i crediti professionali. Addirittura alla fine del quinquennio gli studenti vengono invitati a fare una mappatura delle competenze per renderli consapevoli di quanto hanno appreso oltre a consegnare loro documenti con le sintesi dei crediti.
• Una piccola postilla la merita anche il modo di gestire l’orientamento in ingresso per cui sono previsti mini stage sia per i genitori (tre ore) che per i ragazzi (10 ore).
Ai primi, ad esempio, viene fatta fare un’analisi sensoriale presso il laboratorio dedicato, per fare capire loro che si tratta di un percorso scolastico completo, integrato che contempla una parte di studio (es. chimica) e di intelligenza pratica. Questo per rompere lo schema che l’alberghiero sia l’ultima spiaggia. Ai ragazzi invece vengono dedicati tre pomeriggi in cui vivono attività di laboratorio con i docenti, integrate da materie teoriche funzionali al lavoro (es. cotture/tecniche e il legame con la fisica). Questo per far capire la visione a 360° di una scuola professionale.
Vogliamo fare notare come Giovanni Guadagno e Alberto Somaschini, fautori di questo progetto didattico a certificazione europea, sono - oltre che responsabili dei due istituti - docenti e al tempo stesso membri attivi, con ruoli ben precisi, dentro la FIC, che da sempre fa della formazione una delle priorità a cui guardare. Impariamo a capire dove ci sono spinte propulsive vere, dove le idee non nascono a caso ma da un lungo percorso di militanza. E apriamo le porte delle scuole a queste realtà quando vengono a bussare, con tutte le opportunità che offrono ai nostri giovani cuochi in erba.
AZIENDE DI SERVIZIO DEGLI DELLA
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra.
Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
| maggio 2023
Il territorio e la ristorazione
Autrice: Simona Vitali
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Il richiamo della Calabria
Luigi Lepore Ristorante
C’è un nuovo che avanza in Calabria e che vale la pena di conoscere. Porta nomi e cognomi di giovani under 30, diversamente applicati a un cibo che si fa ricordare, decisi a raccontare una Calabria per molti aspetti ancora da scoprire e con un orgoglio tale da superare qualsiasi pregiudizio.
Percorsi non semplici, che presuppongono una marcia in più ma talmente carichi di motivazione da portare a risultati che, a tratti, hanno dell’incredibile.
Pressoché tutti hanno fatto esperienza fuori regione e questo gli ha dato la spinta e il coraggio di volere ripartire dalla propria terra. È il caso di Bob Alchimia a spicchi - di cui abbiamo parlato nel precedente numero – evidenziandone, fra le altre cose, l’impegno civico.
Oggi è la volta di Luigi Lepore, dell’omonimo ristorante fine dining che, come avrete modo di leggere, ci coinvolgerà, non senza emozionarci, nelle scelte compiute con una sempre crescente determinazione, fino alla conclamata affermazione del suo ristorante.
Qui non c’è bisogno di strutturare articoli ma semplicemente di far seguire a domande risposte dirette dell’interessato. Nelle parole e considerazioni di Luigi Lepore c’è una forza comunicativa che va riportata, intonsa.
Luigi Lepore. Foto: Francesco AloeLuigi, avevi un percorso avviato nell’alta ristorazione con esperienze in corso di tutto rispetto. Cosa ti ha spinto a ritornare in Calabria per aprire una tua attività?
“Mi ha spinto il desiderio, dopo avere viaggiato tanto, di tornare a casa mia, perché sono legato al territorio dal punto di vista gustativo. La cucina che avevo in mente non aveva ragion d’essere se non in Calabria. Anche quando lavoravo in altri ristoranti trovavo che ci fossero piatti che rappresentavano un autentico richiamo alla mia terra. Se penso ad esempio alla cucina di Valeria Piccini in quella bassa Maremma che sento molto vicina alle mie radici, mi emozionava l’utilizzo del finocchietto, del peperone, dell’arancia... Per certi aspetti credo che siano state queste mie reazioni, a volte inconsce, a farmi ritornare”.
Con quale idea sei tornato? Possiamo parlare di atto di coraggio o di cosa?
“Sono rientrato a casa con un’idea chiarissima: volevo fortemente aprire un ristorante fine dining. Su questo non avevo alcun dubbio. A distanza di due o tre anni posso dire che è stata un’azione un po’ incosciente. Pensare a una forma di ristorazione di nicchia e non a Milano o sul lago di Garda, senza una famiglia di ristoratori alle spalle, seppur presente alle mie dinamiche (mio padre è commercialista e mia madre insegnante) e quindi senza una struttura dietro, direi che è stato anche un po’ folle”. A marzo 2019 hai aperto Luigi Lepore Ristorante in quel di Lamezia Terme (CZ). Raccontaci dell’inizio e gli sviluppi, considerando pure l’aggravante, imprevista, della pandemia
“A fronte di un investimento importante su locale e personale di cucina e sala, nei primi sei mesi mi sono trovato ad affrontare una partenza traumatica: zero, zero, 2, 5...era il numero di clienti che registravo nell’arco di una settimana. Ogni lunedì libero, giorno di riposo in cui
facevamo le nostre riunioni, era una continua discussione con mio padre, commercialista, peraltro abituato ad avere fra la clientela una tipologia di ristorazione che fa grandi numeri e quindi cassetto. Di fatto la città, Lamezia Terme, non rispondeva. Questa tipologia di ristorazione è poco praticata in Calabria. Poi è arrivata la prima chiusura per covid e, come tutti, abbiamo fatto valutazioni alternative ma il delivery, di cui mancava la cultura, non mi sono sentito di attivarlo. Quando stavo per riaprire ho detto a me stesso ‘Ho iniziato con il fine dining, ci riprovo... L’intento diventava quello di alzare l’asticella, con tutti gli sforzi possibili. Ne è uscito un menù ancora più elaborato. Quindi abbiamo riaperto e poi richiuso un’altra volta. A questo punto mi sono detto: Se devo morire muoio così. Come posso pensare di stravolgere un ristorante improntato all’eleganza, anche nell’arredo?’ Ho quindi pensato nuovamente ad un menù ancora più articolato, forte della buona squadra che mi sono trovato ad avere con me in quel momento (avevo preso due ragazzi bravi ed era tornato Federico Cari, il mio pasticcere). Quindi abbiamo spinto sull’acceleratore. In quel periodo entravo in cucina alle otto del mattino e tornavo a casa all’una di notte. Per riposare un attimo il cervello staccavo 10 minuti, facendo una piccola sosta di riposo sul pavimento della sala. Federico, figura con cui ho condiviso tutto fin dall’inizio, faceva lo stesso. Anche il lunedì, che è il giorno libero, io e lui ci trovavamo verso le 11 del mattino per fare briefing su carta e poi riprendere con le prove il martedì. A noi si è unita anche mia sorella Stefania, che si è dedicata alla sala. Nella nostra testa volevamo raggiungere un livello altissimo, è stata quasi un’ossessione. Il risultato è che con la seconda riapertura l’asticella, a livello creativo, si era alzata ancora di più. In tutto questo i clienti erano praticamente sempre gli stessi, una ventina a settimana. La situazione non era ancora rosea. Nel secondo anno c’è stato un po’ di miglioramento, però l’asticella l’abbiamo
Agnello
alzata comunque”.
Che anno è stato il 2022?
“Nel 2022 hanno iniziato ad arrivare spontaneamente i primi giornalisti (non abbiamo fatto azioni di comunicazione per richiamarli) e siamo stati segnalati in guida. Molti clienti venivano da fuori (Vico, Cosenza...) con un incremento nel periodo estivo. Tutto questo finché, sul finire dell’anno, non ci arriva una telefonata, la telefonata, in cui ci comunicano che abbiamo guadagnato una stella Michelin. Piangiamo come pazzi, mentre scorrono davanti ai nostri occhi le immagini di tutti i sacrifici fatti, annullando tutto per pensare solo a far guadagnare quota al ristorante. Da quel momento aumenta il lavoro, si alza il livello degli incassi e si normalizza l’andamento dell’attività. Non si vive nella bambagia perché, ogni volta che c’è la possibilità, si investe. A partire dal personale: oggi siamo in cinque in cucina e due in sala”.
Parlaci di tua sorella Stefania. Ha abbracciato la causa?
“Mia sorella Stefania la mia cucina la ama proprio, cioè la capisce. Per questo non le è difficile valorizzarla e rappresentarla con eleganza, come è nel suo stile. Ha un forte senso dell’ospitalità e devo dire che riesce bene nel mettere il cliente a proprio agio. Il suo servizio ha le formalità del caso ma è stemperato dal piacere nel relazionarsi con il cliente, a cui si rivolge con naturalezza. Capita che ci rida e ci scherzi anche".
Raccontaci la tua cucina…
“La mia è una cucina fatta di contrasti gustativi, che all’inizio erano molto forti. In questo senso ora è più matura. Parto sempre da gusti, sapori, odori del territorio (il ginepro lo si trova ovunque come il corbezzolo, il gelsomino. Anche l’anice nero è tipico della zona, in riva al mare a Soverato trovo l’eucalipto...). Mi piace da sempre
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
l’elemento balsamico, l’acido, l’amaro. Dico la verità, un percorso tutto rotondo non è nelle mie corde. Stiamo lavorando ad un dolce al gelsomino. La zona costiera di Reggio Calabria bagnata dal mar Jonio è chiamata anche costa dei gelsomini, dove anni addietro si era sviluppata un’economia intorno alla raccolta dei fiori del gelsomino. Erano le donne (chiamate gelsominaie) a dedicarsi alla raccolta dei fiori che venivano mandati in Francia per la preparazione dei profumi”.
La Calabria ti ha richiamato a casa. C’è in te la volontà di fare qualcosa per la tua regione?
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
“Direttamente o indirettamente la mia attività dà per forza qualcosa alla regione. Il fatto che sia tornato, che abbia investito, fatto qualcosa di alto, oltre a muovere gente da fuori e quindi stimolare il turismo e di conseguenza far girare l’economia, dà un contributo al miglioramento del settore. Chi viene a lavorare da me acquisisce una forma mentis diversa rispetto a chi lavora presso un’altra tipologia di ristorante. Se, a loro volta questi ragazzi apriranno un’attività, anche un pub, una paninoteca, una pizzeria, gli daranno un’impronta diversa, avendo una certa visione della qualità. Ora prendiamo tutti i ragazzi che stanno crescendo nelle scuderie under 30 di certa ristorazione o mondo pizza evoluto in Calabria e pensiamo a quanta semina è in corso, grazie a tutti noi folli”.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
Autore: Luigi Franchi
www.visitverolanuova.it
Il Tiepolo scomposto a Verolanuova
foto: Virginio Gilberti
Verolanuova è un paesone della pianura Padana, in provincia di Brescia; un’economia agricola, grandi campi e capannoni artigianali che circondano l’assetto urbano. Insomma, un posto che non ti verrebbe voglia di visitare e invece, come molti luoghi di questo Paese, racchiude sorprese e bellezza che, se affidate alle persone capaci, trasformano la convinzione sbagliata di tanti di noi.
In questo caso la persona capace è Pietro Arrigoni, regista teatrale, docente di public speaking ad ALMA, direttore artistico di molti eventi tra cui questo in corso a Verolanuova: la mostra sensoriale del Tiepolo Scomposto. Arrigoni è riuscito, in pochi mesi, a trasformare Verolanuova in una destinazione ambita di turismo culturale.
“Non ho fatto tutto da solo. – specifica l’artista – Non sarei riuscito a fare nulla se non avessi avuto un paese ospitante, un sindaco e una giunta, i giovani di Verolanuova, il parroco Don Lucio Sala, la splendida ricercatrice Laura Sala e il pool di restauratori delle tele del Tiepolo, Monica Abeni, Paola Guerra e Antonio Zaccaria, il coordinatore scientifico del progetto Davide Dotti, la famiglia di mecenati Fidanza, l’artista Omar Rossetti, lo storico della gastronomia Marino Marini e il creatore d’essenze olfattive Roberto Dario che hanno creduto nelle idee che ho proposto”.
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Le tele del Tiepolo
Tutto ha inizio nel 2022, quando i mecenati di Verolanuova decidono di finanziare il restauro delle due più grandi tele che Giovanbattista Tiepolo realizzò per la basilica del paese. Tele che sono collocate dalla prima metà del Settecento nella cappella di sinistra della basilica, a cura della Confraternita del Santissimo Sacramento. Esse raffigurano Il sacrificio di Melchisedech e La caduta della manna, di dimensioni enormi, 10 metri per 5,30 ciascuna. Furono commissionate dalla nobildonna veneziana Elisabetta Grimani, giunta a Verolanuova in sposa al conte Carlo Antonio Gambara, proprietario di queste terre, nel 1739. Il Tiepolo accettò ma, in quel momento, era al massimo della sua celebrità e aveva molte committenze aperte. Intascò quindi i soldi ma, per diverso tempo, non iniziò i lavori, fino a quando la nobildonna decise di scrivergli una lettera dai toni vagamente irritati. Lettera giunta sino a noi grazie al lavoro di ricerca di Laura Sala. Fu allora che il Tiepolo spedì a Verolanuova, nel 1744 per le vie d’acqua del Po e dell’Oglio, la prima delle tele, La caduta della manna, arrotolata con la superficie dipinta rivolta all’esterno in un rullo di legno. Un viaggio che Pietro Arrigoni ripropone nella mostra sensoriale del Tiepolo Scomposto.
La seconda arrivò quattro anni dopo, sempre per le vie d’acqua, e questi due capolavori rimasero appesi alle pareti della cappella del Santissimo Sacramento fino alla fine della prima guerra mondiale quando, come molte altre opere d’arte, furono portate in salvo a Roma. Nel 1922 ritornarono a Verolanuova e furono restaurate, per la seconda volta. Ma i restauri di allora non avevano le accortezze dell’oggi, le cure, i materiali, la sensibilità dei restauratori del terzo millennio.
È grazie al meticoloso lavoro di Monica Abeni, Paola Guerra e Antonio Zaccaria che queste tele immense ora possono essere viste nel loro splendore dai visitatori
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
che salgono fino a nove metri d’altezza per osservarne tutti i particolari.
Il Tiepolo scomposto
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Un restauro che non può essere lasciato al silenzio, hanno pensato in municipio. L’assessore alla pubblica istruzione, Carlotta Bragadina, chiama Pietro Arrigoni per avere qualche idea. È la primavera del 2022 e il progetto che l’artista propone parte dalla scritta che si trova sul telaio che sorregge le tele del Tiepolo: Bergamo 1922. Quel telaio Pietro Arrigoni lo ha fatto ricostruire nelle stesse dimensioni, 10 metri di altezza per 5,50 di larghezza. Lo ha fatto collocare nella chiesa sconsacrata della Disciplina, Attorniato dalle tele di lino di ugual misura su cui scorrono i testi che raccontano il viaggio per via d’acqua, di cui forniamo un estratto: “Dopo una lunga attesa, anche il secondo dipinto realizzato da Giambattista Tiepolo per la cappella del Santissimo Sacramento di Verolanuova è terminato. Tuttavia, dalla lettera scritta da Carlo Antonio emerge che ai membri della confraternita del Sacramento “rincresce vivamente che non siavi l’incontro di consegnarlo a qualche barca, ma conviene aver pazienza”. Per giungere a Verolanuova, dunque, il secondo dipinto doveva viaggiare su una nave e percorrere le vie fluviali. Si trattava di una prassi usuale per l’epoca: le tele venivano arrotolate attorno ad un rullo di legno con la superficie dipinta rivolta verso l’esterno, poste in grandi casse e collocate su imbarcazioni commerciali. Ciò era possibile perché al momento della loro realizzazione, le opere su tela possedevano una grande elasticità; i viaggi fluviali, inoltre, erano più economici, ma soprattutto più sicuri, poiché evitavano alle merci di percorrere, su carri, strade spesso dissestate. E queste particolari attenzioni, per due capolavori come quelli di Tiepolo, erano più che necessarie”. Alla Disciplina si entra gratuitamente e si è accolti da
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
| maggio 2023
rumori di sottofondo realizzati da Alessandro Pedretti e Milena Berta. La musica che accompagna l’esperienza multisensoriale è una composizione inedita realizzata con gli strumenti utilizzati dal pittore del XVIII secolo e dai restauratori (pennelli, spatole, oli, resine, etc) registrati in Disciplina. Seguono poi gli odori che si respiravano nella bottega del Tiepolo a Venezia; il creatore d’essenze olfattive Roberto Dario ha realizzato degli estratti di cera d’api, trementina, mastice di Chios, colla di coniglio, cera d’api, olio di lino, tela e tessuti quali la canapa e il lino, collocati in contenitori di vetro in cui si possono annusare.
All’esterno della Disciplina l’artista Omar Rossetti ha realizzato un dipinto contemporaneo che richiama il Tiepolo, mentre all’interno ha collocato un paio di scarpe da ginnastica dipinte con il Tiepolo scomposto perché, ci racconta Pietro Arrigoni, “Le scarpe sono l’incontro del mondo”.
La piazza del paese invece accoglie i visitatori, finora oltre 6.000, con le immagini in bianco e nero, di grande formato, dei dettagli delle due tele del Tiepolo, sui muri delle case, propedeutiche alla mostra.
“Ho trovato abitanti che, dopo un primo momento di stupore, si sono lasciati coinvolgere, i bar, i negozi, i ristoranti sono tutti orientati a garantire la giusta visibilità. Un paese che accoglie altre persone, che si racconta nel suo essere aperto. In maggio Marino Marini coordinerà i menu dei ristoratori che proporranno i pranzi ricavati dai menu settimanali della famiglia Gambara nel Cinquecento” ci spiega un Arrigoni visibilmente emozionato.
La vecchia filanda
Questa accoglienza l’abbiamo toccata con mano appena varcata la porta della Vecchia Filanda, uno dei ristoranti di Verolanuova. Lo abbiamo scelto come fece Mario Soldati nel 1964 quando questo ristorante si chiamava
trattoria Burtulì e lo gestivano i genitori di Carla e Federico Alessandrini, gli attuali gestori. La signora Carla in sala sa come farti venire voglia di assaggiare tutto: è una persona gentile, sicura di quello che propone, certa che sarà apprezzato. Il fratello Federico, cuoco, anche lui in sala per portarti il vino che ci dice: “Preferisco comunque chiedervi della faraona ripiena, quella si che mi dà tante soddisfazioni”.
Che dire? Fino al 4 giugno la mostra sensoriale del Tiepolo Scomposto è aperta ma questo paese non si fermerà a questo evento: “Ho la percezione di un valore che ha smosso uno sguardo addormentato, come capita quando hai sempre sotto gli occhi una scena o una cosa e non ci fai più caso. Qui, invece, spero di aver messo un piccolo seme di speranza anche tra i tanti giovani che mi stanno aiutando”. Pietro Arrigoni, è così!
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Autore: Bruno Damini
Maria Grazia Soncini: un cuore rock nella Capanna di Eraclio
«In cucina amo mettere le mani, toccare, perché il mangiare lo fai anche con le mani. Un giorno, mentre stavo cucinando i germani, le mie mani erano le mani di mia mamma. È stato un momento bellissimo, una grande emozione, ho pensato: c’è continuità!»
Fin da piccola gli ascolti di Maria Grazia Soncini potevano spaziare da Nilla Pizzi, al Festival di Sanremo, al rock, alla musica classica. Da ragazza aveva un fidanzato di Jolanda di Savoia, suo compagno per tanti anni, che suonava il pianoforte, la fisarmonica e gli organi in chiesa in occasione dei matrimoni. Correvano gli anni Settanta, lui suonava anche in quelli che allora si chiamavano ‘i complessi’ e lei girava assieme a questi orchestrali. La musica si ascoltava alla radio o sul giradischi, long playing o 45 giri. Il suo primo 45 giri fu Yellow River di Christie, aveva appena fi-
nito le medie e andò a comprarlo a Mezzogoro con uno scooter preso in prestito da un’amica. Il secondo fu In the summertime dei Mango Jerry. Come tutti i ragazzi ogni pomeriggio alle quattro ascoltava Per voi giovani condotta da Renzo Arbore su Radio Due.
Con la promozione in terza media ricevette in regalo dei genitori un giradischi Philips. Al liceo, dove ha avuto un insegnante che le ha fatto amare il latino, arrivava sempre mezz’ora prima con il Grundig portatile per ascoltare Barry White, You’re the First, The Last, My Everything.
Ha amato Le Orme, la loro canzone Gioco di bimba che si trovava in tutti i jukebox:
Dondola, dondola il vento la spinge Cattura le stelle per i suoi desideri.
Un’ombra furtiva si stacca dal muro: Nel gioco di bimba si perde una donna.
Era la canzone dei primi ‘fuochi’ al liceo, quando marinava la scuola per ritrovarsi in pizzeria dove c’era il juke-box.
Nel ‘75 si è iscritta a medicina col suo compagno e andarono a vivere insieme a Ferrara. Lei aveva 19 anni, fu un piccolo scandalo a Jolanda. Venerdì, sabato e domenica però tornava alla Capanna. La cucina stava diventando interessante per lei e i suoi genitori cominciavano a lasciarle un po’ di spazio. Si inventava gli antipasti, allora non cucinavano il pesce ma proponevano i salumi che faceva il babbo e i prosciutti indimenticabili che andava a comprare a Langhirano. Preparava l’insalata russa nelle ciotoline gialle Bormioli.
Era l’ultimo mestiere che avrebbe voluto fare perché non lasciava la libertà che avevano gli altri ma col tempo si è accorta di essere stata una privilegiata perché la cucina le ha insegnato il senso del dovere, a stare lì con la testa anche se non vuoi, perché quello che devi fare lo devi fare bene.
Il suo posto in cucina se l’è conquistato piano piano, perché sua madre è stata molto dominante, fino a 87 anni. Anche negli ultimi anni non mollava la sua postazione in cucina e alla brace, e quando Maria Grazia le diceva «mamma, ti do una mano» lei rispondeva «lasa star ke ti’ at ga’ da far» (lascia stare che tu hai già da fare).
La facoltà di medicina cominciò a frequentarla saltuariamente, in casa avevano un pianoforte mezza coda e ogni sera il loro appartamento si trasformava in jazz club. Ancor oggi sente il privilegio di avere vissuto immersa nella musica. Il suo primo concerto dal vivo fu quello di Emerson, Lake & Palmer a Bologna. Con il suo compagno ascoltava di tutto, Deep Purple, Black Sabbath. Beatles o Rolling Stones? Tutti e due ma con una propensione per gli Stones perché a quei tempi i Beatles li considerava un genere melodico.
Maria Grazia porta con sé la colonna sonora della sua vita assieme al fatto di essere nata sopra al ristorante e di avere visto la mamma e il papà sempre intenti a cucinare, con ingredienti provenienti dal circondario, alcuni forniti dal papà cacciatore. Per quello fin da quando ha cominciato a lavorare in cucina non ha mai cercato prodotti strani, non sono mai stati nelle sue corde. Ha senso parlare di tradizione? La tradizione è un’innovazione ben riuscita, diceva Oscar Wilde. Pos
che faceva sua mamma, e la cucina di casa rimanda ai pranzi in famiglia, a un modo di vivere che fa star bene la gente, che genera ricordi nel tempo che verrà, sapori di cibo “affettuoso” che desideri rimangiare. E i loro clienti vogliono ritrovare quel clima, profumi e sapori di un pranzo della domenica. Ecco, tradizione è la voglia di fare stare bene i clienti, di farli sentire a casa. La Capanna è lì dal 1922. È stata osteria, tabacchi, alimentari e pure sala da ballo. I suoi hanno cominciato a farci da mangiare nel 1962. Nel menu a quei tempi c’erano i prodotti di valle, anguille, selvaggina, rane. La trattoria lavorava soprattutto a pranzo facendo 50-60 coperti, ed erano Eraclio e la Vanda da soli con l’aiuto di una ragazzina di 15 anni, Ritón, perché era un po’ grossa la Rita. Venivano a pranzo soprattutto operai che lavoravano in zona, la gente non usciva la sera se non nel fine settimana e arrivavano in gruppo, mai coppie da sole. Il pesce cominciò ad occupare spazi importanti in menu solo nella seconda metà degli anni ’70. Maria Grazia è nata in quella cucina, come suo fratello Pierluigi, e ha sempre visto la mamma e il papà cucinare. La sua prima pratica è stata l’apprendimento passivo. Quando la domenica mattina lei e suo fratello vedevano arrivare la Seicento dei ranari che portavano 15 o 16 kg di rane, spettava a loro pulirle. I bambini
avevano un loro ruolo in cucina: sgranavano i fagioli, i piselli, pulivano il radicchio, le cipolline. Vivere in cucina è sempre stato come avere una vita parallela. Come in un circo, vivi nel tuo tendone e convivi con la vita che c’è fuori, e sabato e domenica si lavora. La domenica pomeriggio andava al cinema in corriera e per il ritorno andavano a prenderla dei clienti a Jolanda. La Capanna è sempre stata una famiglia allargata ai clienti.
Le guide hanno sempre trattata bene questa trattoria. La stella Michelin è arrivata nel 1999: “Era una notizia inaspettata, la stella Michelin proprio a noi che assieme alla trattoria Amerigo di Alberto Bettini siamo i due locali decisamente più anomali rispetto all’idea che gli italiani hanno degli stellati”. Nonostante quel prestigioso riconoscimento la Capanna è rimasta sempre quella di prima. Pensate, due stelle nelle valli, loro e Igles Corelli.
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
Nel salutarci, chiedere a Maria Grazia quale sia la favorita fra le sue preparazioni è come domandare a un bambino se vuol più bene alla mamma o al papà. Alla fine cede: il piatto che oggi sente più vicino è un calamaro scottato nella padella di ferro e messo su un po’ di polenta bianca che da sempre rappresenta la compensazione alla fame. Ovviamente ci vuole una materia prima di grande livello e la padella in ferro porta come risultato quel dolce-amaro che quando metti in bocca un pezzo di calamaro fa pensare: caspita senti che sapore che ha! Oppure, come diceva suo padre: “Senti che amor che ’l gà”, Bastano due granelli di sale e un po’ di pepe nero profumato e un goccio di olio della Pace di Monte Canneto di Enrico Gurioli e allora è soddisfatta di quello che ha ottenuto. Piace a lei e la sua cucina è la condivisione delle cose che le piacciono.
La musica adatta per mangiare quel calamaro? Chicago, Saturday in the park, perché è un brano che esprime serenità.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
Il prodotto
Autrice: Giulia ZampieriL’affinatore di formaggi, che mestiere magnifico
La storia e l’impegno di Hansi Baumgartner e Edith di DEGUST
Il confine con l’Austria dista circa mezz’ora di auto e Bressanone è ad un passo. Siamo a Varna, all’imbocco della Val Pusteria. Nelle case e nelle attività si parla prevalentemente tedesco. Qualcuno conoscerà questa zona per l’Abbazia di Novacella, nota per i suoi vini.
Ma qui c’è anche una storia che ha a che fare con i formaggi, iniziata quasi trent’anni fa, davvero straordinaria. È quella di Hansi Baumgartner, della moglie Edith, e del loro DEGUST, un’azienda che ha fatto dell’attività di affinamento dei formaggi una vera missione. Una piccola bottega, con un grande laboratorio che, vi assicuro, vale il viaggio.
Perché conoscere il loro micromondo di tome, profumi, fermentazioni, muffe, può spostare il baricentro della conoscenza in materia casearia di chiunque.
Clicca e leggi l’articolo sul webDalla cucina… alla maestosità del carrello
Hansi Baumgartner ha iniziato come cuoco, portando su un palmo di mano, in tempi non sospetti, concetti che oggi costituiscono la narrazione gastronomica di molti ristoranti. Lavorava gli animali interi, si dilettava con le frattaglie, valorizzava i Presidi Slow Food, metteva al centro la qualità, scovando prodotti a volte geograficamente non vicini ma meritevoli.
“In quegli anni ho capito il valore dell’originalità dei prodotti” - ama partire dalla sua esperienza come cuoco
Hansi, quando si racconta.
“Ho capito la differenza tra le materie prime. Da quel momento, da quando ho imparato a capire l’unicità degli ingredienti, ho iniziato davvero a cucinare. Non era più replicazione di ricette, o la consuetudine di fare delle preparazioni sempre uguali o similari l’una all’altra. I piatti nascevano da sé, in modo naturale e spontaneo, combinando quello che mi colpiva. Dall’aglio alle farine, dagli ortaggi ai prodotti del caseificio”.
Hansi a quei tempi rimase folgorato proprio dai formaggi. Non li studiava sui libri, ma andava a scoprirli nei ristoranti, dove il carrello era avanguardia e magia.
“Pochissimi ce l’avevano ed io quando compariva il carrello, a fine cena, rimanevo affascinato. Ne ho incontrati in Francia, poi in Piemonte, al Tornavento, Da Guido. A proposito di Guido… fu un suo racconto a stupirmi. Tanti andavano per cantine per conoscere vini e produttori, lui andava per formaggi. Pazzesco!”
Hansi, all’epoca del ristorante, si è applicava molto, nella teoria e nella pratica. Appena aveva un momento libero si arrampicava per conoscere le piccole produzioni della sua zona, ma non esitava neanche a mettersi in viaggio per rintracciare altri piccoli produttori. Il suo carrello stava diventando una sorta di planisfero
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
di formaggi. I clienti ne restavano affascinati. “Per me il carrello è un atto scenico che mette in mostra prodotti belli, ma pure l’abilità di chi è in sala, la sua capacità di scegliere, porzionare, abbinare. In quei mesi ho capito che il formaggio è un prodotto incredibile, con un grande potenziale. Nella nostra zona però non c’era grande cultura, c’era mercato e molto da fare”. Da qui inizia un’altra storia.
Il sogno DEGUST
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Hansi ed Edith nel 1994 hanno iniziato con un piccolo negozio. Man mano che le relazioni, gli approfondimenti, si innescavano, anche DEGUST - questo il nome dell’attività sin dalle origini - cresceva, accogliendo formaggi da ogni dove. Oggi arrivano da circa sessanta produttori ed è stato necessario trasferirsi in una struttura più ampia. “Dicevo, mi sono completamente lasciato trasportare e ho deciso di dedicarmi solo a questo. Non è stato semplice, è la passione che guida la professione di affinatore, o affineur, come piace definirlo a me. Bisogna non essere mai sazi di scoperta e interrogarsi sempre sulle modalità migliori per prendersi cura dei formaggi”.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
Ma cosa fa, esattamente l’affinatore di formaggi? È davvero essenziale il suo ruolo?
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Prima di incontrare Hansi, non vi nascondo, ero convinta fosse un di più. Con un prodotto di partenza buono, mi dicevo, non ha bisogno di essere ulteriormente sottoposto a trattamenti. Stagionatura a parte, ma quella può esaurirsi a casa del produttore.
Dai Baumgartner si comprende ben altro. L’affinatore professionista sviluppa una sensibilità spiccata su tutte le tipologie di formaggi: dai vaccini ai caprini, dalle croste lavate agli erborinati, dai formaggi a pasta filata a quelli a grana. Conosce a menadito le muffe, i difetti, il
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
colore, la crosta, il taglio adatto. Sà con precisione qual è l’ordine di assaggio, ma vi lascia anche sperimentare saltando dall’uno all’altro, tornando indietro, perché il palato possa divertirsi. È pure un creativo: oltre a stagionare i formaggi riservando cure giornaliere, rivoltandoli e pulendoli, ha dimestichezza con fieno, frutti rossi, erbe aromatiche, fave di cacao, vinacce e persino con le botti di whisky.
“L’affineur - continua Hansi - lavora con prodotti per lo più artigianali. Sono molto diversi da quelli industriali: vanno trattati delicatamente, richiedono cura e abilità. Il prodotto artigianale, a latte crudo, evolve, si trasforma, non rimane immutato nel tempo. L’affinatore ha il compito di condurlo in un processo positivo, destinandolo a luoghi e trattamenti giusti. Noi ormai abbiamo perso il conto delle tecniche di affinamento, è un’esplorazione continua”.
Nel suo originalissimo caveau di affinamento, fatto di cunicoli, scalere in legno (tenute magistralmente), umidità controllata, luci soffuse, si rimane a bocca aperta. Lo stesso quando si arriva in bottega e ci si abbandona, letteralmente, alla degustazione. Assaggio dopo assaggio si comprende cosa significa prendersi cura, aspettare, esaltare.
Il formaggio nella ristorazione
Oggi i fratelli di Hansi - Karl, Mary e Siegi Baumgartner - continuano a occuparsi di ristorazione conducendo brillantemente il ristorante stellato Schöneck, a Falzes, a una ventina di minuti da Varna. Hansi ci racconta della solidità del loro ristorante e coglie la palla al balzo per parlare di cosa invece non trova in altri locali.
“Il formaggio è diventato un prodotto da ristorazione ma c’è moltissimo da fare sulla formazione della sala. Biso-
gna saper presentarlo, raccontandone le caratteristiche, le origini, allargando con spunti storici e suggerimenti di abbinamento. Vedo spesso che molti non sanno toccare il formaggio e nemmeno tagliarlo correttamente. C’è bisogno di studio, approfondimento, non basta acquistare un ottimo prodotto per portare un’eccellenza nel piatto”. C’è molto anche da dire sulla lavorazione in cucina. “I prodotti del caseificio, come i formaggi e il burro, non vanno maltrattati. Vedo burri montati, formaggi frullati. Con certe eccellenze bisogna lavorare pacati. Bisogna tagliarli correttamente, lasciare che si esprimano, o si rischia di perderne l’identità e sciupare il lavoro di mesi”. Anche sugli abbinamenti, ammetto, prima di conoscere Hansi avevo un pregiudizio. Ero della fazione dei puritani: pensavo che l’unico modo per apprezzare il formaggio fosse degustarlo puro, senza abbinamenti. Hansi ed Edith, invece, nella loro bottega, dimostrano il contrario: in alcuni casi gli ortaggi, le composte, i frutti, il miele, possono amplificare il piacere e portare l’assaggio su piani diversi. Poi capita, che aperte certe tome, si stupiscano pure loro di come sia venuto quel prodotto, di quanto sia delicato, equilibrato, originale. E lì c’è la priorità di farlo rivelare per ciò che è, senza null’altro. Quello dell’affinatore, ve ne renderete conto se avrete l’occasione di conoscerli, è un lavoro davvero da scoprire.
Il vino
SOStain
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
Lo sviluppo sostenibile della vitivinicoltura siciliana
Autrice: Giulia Zampieri
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“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
37 aziende associate, di cui 22 certificate SOStain; 32.931 ettari di superficie vitata è il totale delle 37 aziende siciliane associate; 5.131 ettari sono certificati SOStain, 20.229.000 sono le bottiglie certificate SOStain.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Sono questi i numeri, aggiornati ad aprile 2023, della Fondazione SOstain Sicilia che raggruppa le più importanti aziende vitivinicole dell’isola: per citarne alcune, Donnafugata, Tasca d’Almerita, Settesoli, Planeta, Cusumano.
Il perché una Fondazione sulla sostenibilità
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
“Perché, anche nel vino, si avverte la necessità di buone pratiche finalizzate al rispetto dell’ecosistema, per incrementare la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile contribuendo al raggiungimento di questi obiettivi. Perché è fondamentale sviluppare una cultura della sostenibilità a tutti i livelli, orientando i modelli di produzione e consumo”.
A darci queste risposte è Giuseppe Lipari che abbiamo incontrato a Vinitaly e che ci ha raccontato con entusiasmo il progetto di Fondazione SOStain Sivilia di cui è uno dei giovani consulenti tecnici.
Un progetto che è partito dal Consorzio di Tutela Vini Doc Sicilia e Assovini Sicilia e che, nel giro di pochissimo tempo, ha visto l’adesione delle principali aziende dell’isola.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
A presiedere la Fondazione è stato chiamato Alberto Tasca, Ceo di Tasca d’Almerita che racconta così la sua idea di sostenibilità: “Se dovessi spiegare cosa è per me la sostenibilità sceglierei sicuramente due parole: misurazione e condivisione”.
Ed è proprio sulla misurazione di 10 parametri che si basa l’adesione al progetto SOStain: requisiti minimi che le aziende devono rispettare per ottenere la certicazione, da parte di un ente terzo indipendente, e per potere utilizzare il marchio SOStain.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune. | maggio 2023
PlanetaI requisiti
Gestione del vigneto – Le aziende sono tenute a rispettare, nella produzione delle uve, almeno uno dei seguenti disciplinari: disciplinare del Sistema di Qualità Nazionale Produzione Integrata(SQNPI) - disciplinare regionale di produzione integrata; disciplinare di produzione biologica.
Diserbo chimico – divieto di praticare il diserbo chimico.
Biodiversità – Le aziende con superficie superiore a 15 ettari devono mantenere zone naturali per almeno il 5% della superficie aziendale.
Utilizzo di materiali ecocompatibili nel vigneto – Per la realizzazione dei nuovi vigneti vengono esclusi tutti i materiali che non siano riciclabili o biodegradabili.
Materie prime locali – Il 100% delle uve e dei vini eventualmente acquistati devono essere di provenienza regionale.
Utilizzo degli indicatori VIVA – Le aziende sono tenute a calcolare, a livello di organizzazione, gli indici proposti da VIVA, il programma di sostenibilità promosso dal Ministero dell’Ambiente e a soddisfare l’indicatore TERRITORIO.
Tecnologie energicamente efficienti – Nella vinificazione sono considerati efficienti i processi che consentono di produrre vini con un consumo energetico inferiore a 0,7 kWh/l di vino.
Peso delle bottiglie – Il peso medio delle bottiglie di vino fermo prodotte nell’arco di due anni deve essere inferiore o uguale a 550 g/0,75 litro.
Trasparenza nella comunicazione – Le aziende aderenti al programma di certificazione sono tenute a redigere un Report di sostenibilità prima del 31 marzo di ogni anno.
Assenza di residui nei vini – Annualmente devono essere effettuate analisi allo scopo di verificare l’assenza di residui di agrofarmaci nei vini.
Un modello abbastanza rigido che, però, ha incontrato la totale approvazione delle aziende e che sta già portando significativi risultati in termini anche di mercato.
Next generation, il nuovo volto dell’Isola
Infatti la presenza di Assovini a Vinitaly si è contraddistinta anche per le giovani generazioni che stanno attuando un ricambio nella gestione delle aziende, con una mentalità fortemente orientata alla sostenibilità ambientale e sociale, alla comunicazione e marketing per intercettare i giovani e i nuovi mercati, all’enoturismo per valorizzare il territorio.
Tutti hanno in comune la passione, la storia familiare ed aziendale legata al vino, la voglia di portare contributi nuovi, frutto delle loro esperienze formative. Su quindici nuovi produttori, undici sono donne.
“Le nostre aziende associate stanno affrontando con maturità e coscienza il grande tema del ricambio generazionale, momento fondamentale nella vita di un’azienda. C’è una nuova generazione che, nel rispetto dell’identità della propria storia aziendale e familiare, è pronta a contribuire con nuove idee e innovazione allo sviluppo della vitivinicoltura siciliana” ha sottolinea Laurent Bernard de la Gatinais, presidente di Assovini Sicilia.
Cantina Contessa Entellina 1920www.iosonofvg.it
Foto: Fabrice Gallina e Ulderica Da PozzoIo sono Friuli Venezia Giulia
La storia di un marchio efficace
Sostenibilità delle imprese regionali e origine delle produzioni agroalimentare; questi sono, in estrema sintesi, gli obiettivi che si propone il marchio Io sono Friuli Venezia Giulia. Un’iniziativa partita nel 2020, l’anno in cui il mondo si era fermato ma le idee buone hanno avuto tutto il tempo per essere pensate e realizzate. E questa è una di quelle idee buone di cui parliamo con Claudio Filippuzzi. Lui ama definirsi contadino ma, oltre ad essere questo, è una delle menti più brillanti che il Friuli Venezia Giulia può vantare nell’ambito della promozione territoriale.
Claudio, come e quando è nata l’idea di un marchio che comunica in modo così chiaro cosa significa essere parte attiva di un territorio?
“Occorre fare un minimo di cronistoria per capire come siamo arrivati qui. Noi nasciamo pochi anni fa come Parco Agroalimentare di San Daniele, era un’agenzia di sviluppo dei distretti agroindustriali. Nel 2015 andai dall’allora assessore e dissi che una struttura come quella, in un’area così piccola come San Daniele (sette comuni, 25.000 abitanti), non aveva senso di esistere. O lo chiudi o lo fai diventare qualcos’altro. La scelta cadde su questa seconda ipotesi, trasformando il Parco Agroalimentare in un clu-
ster con una compagine sociale che aveva la camera di Commercio e altre aziende private, ma anche questo non riusciva ad avere la forza dell’inclusività. Ritornai sul tema e nacque una Fondazione partecipata dalla Regione ma in mano ai privati; nel 2020 si diede vita alla Fondazione Agrifood & Bioeconomy, con Regione e tutti gli istituti di credito, università, scuole di formazione, enti pubblici, fondazioni, associazioni di categoria e aziende. Il compito della Fondazione era ed è quello dello sviluppo dell’agroalimentare e della bioeconomia del Friuli Venezia Giulia”.
La Fondazione Agrifood & Bioeconomy è titolare del marchio? Quando è nato?
“Esatto, il marchio risale al 2020, nel periodo in cui tutte le aziende invocavano aiuto. Il primo marchio che nacque era Io compro Friuli Venezia Giulia ma subito dopo
pensammo che le aziende in quel caso non avevano un ruolo attivo. Perciò trasformammo il marchio in Io sono Friuli Venezia Giulia. In tal modo si poteva contraddistinguere meglio le aziende. Un marchio nato per le aziende alimentari che poi è diventato un marchio collettivo depositato a livello europeo. Le aziende che oggi hanno il marchio sono: aziende produttrici, ristoranti che utilizzano il prodotto, distributori che lo commercializzano. Il marchio è declinato in due modi: marchio azienda che coinvolge le imprese citate; un altro marchio, di colore blu, dato in uso ad aziende produttrici che abbiano una percentuale di materia prima del Friuli variabile in funzione di quanto se ne produce. Per fare un esempio: il vino deve avere il 100% di uve della regione; i formaggi il 100% di latte della regione; la gubana, invece, composta da diversi ingredienti, deve avere almeno il 50% di questi derivanti dal territorio regionale”.
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
Quante aziende hanno aderito ad oggi all’iniziativa?
“Circa 400 aziende produttrici con oltre 800 prodotti marchiati e altrettante aziende utilizzatrici, tra ristoranti, trasformatori di prodotto e distributori che hanno il marchio azienda. In tutto oltre 800 aziende in totale”.
Sul piano della comunicazione e dei risultati finali qual è il livello di penetrazione sul mercato del marchio Io sono Friuli Venezia Giulia?
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
“Abbiamo fatto una prima indagine che rileva una buona conoscenza del marchio, l’apprezzamento sul progetto perché il consumatore ha capito di cosa si tratta. Per avere il marchio bisogna sottoscrivere un codice morale e di comportamento, oltre a porsi obiettivi di sostenibilità
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
economica, sociale e ambientale. Regole comunicate al mercato che sa che si tratta di aziende friulane che pagano le tasse in regione, che stanno evolvendo per migliorare la loro presenza nella società e questo è davvero molto apprezzato. Rimane ancora, evidentemente, un percorso di misurazione oggettiva dei passi avanti che fanno le aziende ma questo è il prosieguo del progetto per i prossimi anni. Le aziende sono molto contente perché si stanno rendendo conto delle ricadute positive”.
Ha un costo questo marchio?
“Per il momento no, per le aziende costo zero. La promozione è stata sostenuta interamente dalla Regione. Questo vada bene ma nel momento in cui il marchio diventa un valore importante per le aziende, è un’idea mia, credo che debbano sostenerlo anche con una quota parte sugli investimenti promozionali”.
Quanto tempo occorre a un’azienda per accedere all’utilizzo del marchio?
“L’iter è molto semplice. Per avere il marchio azienda ci vuole un mese di tempo. Abbiamo deciso che la domanda va fatta online; una volta ricevuta ci alcune verifiche fatte dal comitato tecnico costituito da funzionari pubblici che, avendo la possibilità di accedere a determinate banche dati, sono in grado di dirci se le dichiarazioni dell’azienda sono veritiere oppure no. Ogni mese si riunisce il comitato per deliberare ma, in ogni caso, facciamo poi una visita alle aziende per verificare quelli che sono le dichiarazioni relative alle problematiche relative alla sostenibilità”.
L’adesione online viene sollecitata o avviene perché il marchio è già conosciuto?
“Finora non abbiamo mai sollecitato, l’azienda si avvicina perché il marchio è conosciuto. Abbiamo cercato di mettere in piedi un sistema non invasivo per le aziende. Un sistema di stampo anglosassone, ovvero tu mi dici quello che fai, io ti credo, se però non è vero ti faccio un c… Abbiamo anche creato una diversa forma di valore per le aziende: le mettiamo in contatto per scambi di informazioni e di natura commerciale”.
Come vi ponete di fronte ad altre iniziative di promozione territoriale?
“Il marchio Io sono Friuli Venezia Giulia sta diventando anche un claim voluto dalla Regione anche per altre attività, quali il turismo. Infatti la promozione del marchio è in carico a PromoturismoFVG, con cui noi concordiamo un programma. In questo modo emerge l’affidabilità complessiva di questa regione, dei suoi abitanti, delle sue aziende. E non c’è nessuna conflittualità con altre situazioni. Io sono Friuli Venezia Giulia vuole affiancare altri marchi senza sostituire nulla e nessuno”.
House Pizza e Grill, squadra coesa vince
Nel cuore del Salento, a Copertino, c’è un locale che in pochi anni ha vissuto un’evoluzione interessante grazie all’impegno e alla tenacia del suo fondatore, Francesco De Paolis, e oggi vanta una presenza sul territorio ben consolidata e in espansione. House Pizza e Grill nasce nel 2011 come pizzeria d’asporto. Francesco De Paolis ha imparato il mestiere fin da giovanissimo, ha fatto esperienza in diverse strutture e decide di mettere a frutto le sue capacità con un’attività in proprio. Può sembrare una storia come tante ma rivela il carattere e l’intraprendenza del suo protagonista che, in pochi anni, costruisce il suo successo, passo dopo passo, fino alla realtà attuale, un ristorante pizzeria con braceria in una masseria ristrutturata con diverse sale e un pergolato ben allestito e con una capienza in grado di accogliere oltre 500 persone tra interno ed esterno, uno staff di 11 persone, giovani intraprendenti come lui, e una visione ben chiara: creare un format e ampliare il cerchio d’azione; è già in progetto una nuova apertura, vicino al mare.
“Ho iniziato l’attività dalle basi – racconta De Paolis – con una piccola pizzeria d’asporto e pizze classiche, un ambiente familiare. L’idea di allargare il locale si è presentata due anni dopo con l’occasione di comprare la masseria adiacente e la conseguente apertura di una prima sala, e così via fino alla sistemazione attuale. Tre anni fa, con l’apertura dell’ultima grande sala ho deciso di
È una realtà giovane con grandi aspirazioni, un gruppo ben affiatato e determinato a consolidare il suo ruolo nella ristorazione, a valorizzare il territorio e lasciare il segno nel mondo della pizza e della cucina di qualità
introdurre la braceria e focalizzare il locale su pizza e carne alla grigia, due tipologie di cucina di tendenza in crescita, e ci siamo specializzati in questi due filoni. Offriamo una ristorazione-pizzeria di qualità, curata nelle materie prime e nell’esecuzione e, con un locale così ampio e spazioso siamo in grado di organizzare eventi di ogni genere, dalla festa di compleanno alla comunione fino al matrimonio. Il locale e il suo stile si abbinano perfettamente a riunioni conviviali e stiamo lavorando molto bene”.
L’ambiente, accogliente e spazioso, è elegante e luminoso; Francesco l’ha voluto ben allestito, informale ma curato in ogni dettaglio, con classe, perché il cliente deve sentirsi a suo agio e coccolato, deve aver voglia di tornare. Non basta una cucina all’altezza delle aspettative, ci vuole ospitalità nel significato più completo del temine.
La cucina è certamente un punto di forza, la pizza è il cuore del locale col suo impasto classico secondo lo stile leccese per una pizza bassa, leggera e soffice. “Pratichiamo la lievitazione lunga, da 48 a 72 ore – spiega
Francesco – e facciamo un mix di farine 5 Stagioni, da sempre per noi sinonimo di affidabilità perché garantiscono una resa costante e ottime performance. Componiamo un mix di farine Rossa, Blu e Semola con cui otteniamo il risultato più adatto al nostro stile: una pizza digeribile, leggera e gustosa. Facciamo anche un impasto con sesamo e grano arso, lievitato 72 ore, una specialità che offre maggiore digeribilità e fragranza, molto apprezzato. È il top”.
Una trentina di pizze in menu sono il risultato dello studio approfondito che questo team coeso - Francesco
De Paolis insieme allo chef Alessio Paglialunga e al pizzaiolo Massimo Rosafio – portano avanti, insieme, per offrire una proposta interessante, gustosa e di alta qualità perché basata su materie prime eccellenti, soprattutto del territorio salentino così ricco di specialità, su salse preparate in casa, impasti da maestro e uno stile raffinato e nostrano al tempo stesso, un felice connubio tra classicità ed estro. Come la pizza che in questa stagione sta spopolando tra i clienti: la Fuego, e solo il nome la dice lunga. “Abbiamo voluto dare un tocco di vivacità anche alla presentazione e per questa pizza, dove l’ingrediente impattante è il peperoncino della n’duja, offriamo un servizio flambé al tavolo, molto scenografico, dall’aria un po’ rétro forse ma di grande impatto visivo che anticipa quello che sarà l’impatto gustativo, un vero fuego insomma”.
Sono molti, dunque, gli “ingredienti” che, uniti, determinano il successo di House Pizza e Grill, non solo pizzeria ma ristorante strutturato secondo una visione ben precisa: intanto, materie prime di qualità, e del resto, non potrebbe essere altrimenti in una regione come la Puglia dove l’agricoltura e la gastronomia offrono il meglio; poi un ambiente accogliente; ma, soprattutto, la voglia di crescere e migliorare di tutti i componenti lo staff
con Francesco alla guida, la competenza di un team di specialisti affiatati che lavorano insieme per realizzare un progetto di ristorazione concreto.
Francesco De Paolis è determinato a dare sempre maggiore sostegno all’impegno dei suoi collaboratori perché sa che solo con l’evoluzione delle idee e la competenza si possono affrontare le sfide del mercato. Molto tempo, infatti, lo dedica alla formazione, non solo in campo culinario ma per essere sempre aggiornato sulla gestione delle risorse umane, sulle mansioni che fanno la differenza tra un pizzaiolo e un imprenditore: “Nasciamo pizzaioli – afferma – ma poi apriamo la pizzeria e ci accorgiamo che non basta: bisogna diventare imprenditori per restare sulla piazza e per questo non resta che studiare, aprire la mente, imparare sempre di più e ampliare le proprie conoscenze per supportare in maniera adeguata quello che la creatività e la passione ci ispirano”.
House Pizza & Grill
È facile dire PESTO … non è facile gustare quello “ vero” dal colore verde tenero, dal profumo delicato, dal gusto intenso ottenuto da un equilibrio di 7 ingredienti importanti:
Basilico Genovese DOP, Olio extravergine d’oliva e - nel nostro casoOlio extravergine d’Oliva DOP della Riviera Ligure, proprio perché ci teniamo che il nostro pesto parli della nostra terra!
E poi Parmigiano Reggiano DOP, Pecorino Romano DOP, aglio italiano e sale marino miscelati ed amalgamati in base a dosi e tempi ben precisi, che derivano dal rispetto della sequenza che si usava quando si inserivano gli ingredienti nel mortaio…perché … si fa presto a dire PESTO…
Autore: Guido Parri
Testo… Pretesto
Dal 23 al 28 maggio a Fidenza i giorni della lettura, anche gastronomica
Il libro e la lettura rappresentano un mezzo di approfondimento e di conoscenza, sono strumento di informazione e di apprendimento culturale, entrambi oggi indispensabili per superare le incertezze e le precarietà legate alla paura della globalizzazione, del cambiamento e del diverso.
È questo l’obiettivo principale che anima la quinta edizione di “Testo...pretesto, ogni libro è un viaggio” che si terrà dal 23 al 28 maggio a Fidenza (PR).
Protagonisti, con le scuole, le associazioni, le librerie e la biblioteca, saranno varie personalità il cui contributo si coniugherà con un’ampia partecipazione dei cittadini. Letture ad alta voce, simposio di poesia, esecuzioni musicali e altre pratiche virtuose valorizzeranno la nostra identità e svilupperanno confronto e cambiamento.
L’assessore alla cultura Maria Pia Bariggi lancia anche un appello: “fermiamoci a leggere, 10 minuti ogni giorno, qualche pagina a scelta per riscoprire il piacere, l’emozione e l’apertura al mondo che c’è in ogni opera letteraria”.
Titolo della quinta edizione sarà “La vita inquieta: l’urgenza del cambiamento”: grazie alla lettura possiamo cercare di interpretare e di affrontare la vita, piena di forti contraddizioni e di grandi incertezze. Il Festival propone, infatti, la letteratura come strumento di consapevolezza civile e politica. In particolare, la stretta connessione fra Scienza e Letteratura ci farà scoprire come sia possibile, per ciascuno di noi, rendersi artefice del cambiamento.
Il Festival si articolerà in quattro ambiti tematici:
1.Italo Calvino e la sfida al labirinto: in occasione delle celebrazioni per i 100 anni dalla nascita di Italo Calvino anche Fidenza renderà omaggio al grande scrittore. In questo ambito la Maratona letteraria, la passeggiata “Andiamo a raccogliere il latte lunare”, la conferenza di Marco Belpoliti e quella di Tommaso Ghidini “Perché la luna dica di più”, lo spettacolo “Invisibili le città” con Lella Costa, la performance “Carbonio” con Piergiorgio Gallicani
2.Fidenza racconta Fidenza. Presentazione di libri che narrano storie locali e di poesie in dialetto
3.La Letteratura intorno: lettura diffusa per le vie e le piazze della città
4.Scienza e letteratura che prevede, domenica 28 maggio, nel centro storico della città, ‘Una corriera di libri’ a cura di Tarka editore; una conversazione con Davide Cassi sul tema della scienza in cucina e la presentazione di tre volumi, nel pomeriggio, con gli autori Marino Marini, Giovanni Ballarini e Salvatore Marchese in un dialogo con Luigi Franchi, direttore di sala&cucina. Il Festival Testo…Pretesto è promosso dal Comune di Fidenza in collaborazione con: Voglia di leggere, Fidenza al Centro, Castelli del Ducato, Giunti al Punto Librerie, Mondadori Bookstore Fidenza, Libreria L’Ippogrifo, Biblioteca civica Michele Leoni, Società Dante Alighieri di Parma, Tarka Edizioni e Sala&Cucina.
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Autore: Guido Parri www.madiaspa.it
Madia Expo, un vero successo
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
Con più di 100 fornitori presenti, 20 showcooking e altrettante masterclass di degustazione vini, oltre duemila professionisti della ristorazione venuti in visita si è svolta la decima edizione di Madia Expo, la manifestazione-evento organizzata da Madia spa, l’azienda di distribuzione friulana di Alessandro Piazza.
“Siamo tornati a realizzare il nostro principale evento dopo la battuta d’arresto del Covid e, per farlo, abbiamo scelto il prestigio di Villa Foscarini Cornaro a Gorgo al Monticano, in provincia di Treviso. – spiega Alessandro Piazza – Avvertivamo l’esigenza di tornare a fare un evento che ha sempre messo in risalto la nostra forte identità di distributori presenti su territorio. Il successo di questa edizione, grazie al lavoro dei miei collaboratori coordinati da Virna De Marco, è andato oltre ogni aspettativa e questo ci fa sperare in una rapida ripresa del mercato”.
Questa decima edizione ha consentito ad Alessandro Piazza di presentare anche le aziende che Madia spa ha acquisito in questi anni di contrazione generalizzata che sono stati affrontati dal distributore con grande ambizione di crescita.
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
“La Liquoreria Friulana, Mistervino, Tessaro formaggi sono alcune delle acquisizioni che abbiamo fatto in questi anni. – racconta il titolare di Madia spa – Si è trattato di investimenti onerosi ma necessari per dare maggior forza al nostro ruolo di distributori moderni nel food service. Siamo
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
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infatti convinti che solo offrendo un servizio completo al ristoratore diventiamo veri partner e i risultati ci stanno dando ragione”.
Lo svolgimento di Madia Expo
Nella cornice di raffinata bellezza di Villa Foscarini
Cornaro si è celebrata una full immersion di tre giorni, da domenica 26 marzo a martedì 28 marzo, durante i quali si sono potute scoprire le novità del food service italiano e internazionale, stringere contatti e confrontarsi con altri addetti ai lavori.
Quest’anno la grande novità è stata l’area dedicata al comparto #wines, con momenti di degustazione, masterclass dedicate alla scoperta dei vini e delle cantine partners dell’evento.
Una particolare attenzione è stata riservata alle farine per panificazione, pizzeria e pasticceria, grazie alla presenza di Molino Caputo e Molino Dalla Giovanna; alla carne fresca, con gli stand dei partner dove si sono potuti degustare i tagli succulenti preparati da grill master con le eccellenze provenienti da Scozia, Nuova Zelanda, Spagna, e molto altro; e ovviamente il pesce, con il consueto focus sul progetto aziendale di valoriz-
zazione e proposta dell’ittico fresco nazionale.
Importanti focus su prodotti di servizio per colazioni e per il momento del “fine pasto”: il dolce al ristorante è per un numero sempre crescente di persone un momento sacro e quindi andava valorizzato cercando di creare un’esperienza unica!
Le tre giornate sono state ricche di appuntamenti e confronti fra attori della ristorazione.
Il compito di moderare gli show-cooking delle tre giornate è andato a Luigi Franchi, autore di numerosi libri di enogastronomia e di turismo enogastronomico, giornalista di enogastronomia e infine direttore responsabile della rivista sala&cucina.
Il calendario degli #show cooking ha visto succedersi chef stellati come Pasquale Palamaro e Walter Ferretto, pizzaioli del calibro di Renato Bosco, chef ambassador come Alberto Barrile, Giovanni Spera, Alessandro Argento, oltre agli chef Alvise Ballarin e Franco Favaretto.
La manifestazione ha visto anche la partecipazione di una delegazione FIC del Friuli Venezia Giulia guidata dalla presidente regionale Marinella Ferigo.
Da sinistra: Renato Bosco, Alessandro Piazza, Virna De Marco e Luigi Franchi Lo chef Pasquale PalamaroAutore: Guido Parri
Rocco Pozzulo rieletto presidente FIC per il prossimo triennio
Si è svolta a Roma il 17 e 18 aprile l’assemblea nazionale della FIC – Federazione Italiana Cuochi; oltre 200 cuochi da ogni parte d’Italia sono convenuti al Crowne Plaza per confrontarsi sulle tematiche di attualità che interessano il settore.
Un’assemblea partecipata dove si è rivelata la forte componente identitaria di un’associazione che, negli ultimi anni, è cresciuta tanto in termini di qualità delle proposte.
Nel corso degli incontri che si sono susseguiti nei due giorni si sono evidenziate le azioni che hanno contraddistinto il lavoro dell’associazione mettendo in luce due tra le tante proposte: la certificazione del lavoro del cuoco e la necessità di sviluppare maggiormente le iniziative per ottenere la classificazione di lavoro usurante per la professione.
La certificazione del lavoro del cuoco
Un risultato ottenuto quello della certificazione della professione che offre agli ospiti di un ristorante la possibilità di andare in un locale dove il mestiere è certificato, con tutte le garanzie che questo comporta.
“Abbiamo portato avanti con forza questa richiesta, -ha dichiarato il presidente FIC Rocco Pozzulo – ora dobbiamo fare in modo che essa diventi rapidamente
realtà e che i ristoratori mettano in evidenza questa certificazione”.
Le elezioni del presidente e del nuovo consiglio
L’assemblea ha visto gli interventi istituzionali di Gian Marco Centinaio, vicepresidente del Senato, e di Francesco Lollobrigida, ministro alle Politiche Agricole e alla sovranità alimentare, che hanno ribadito l’importanza della FIC e dei suoi associati nella valorizzazione del made in Italy.
Con Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, è stato firmato un protocollo d’intesa per impedire che la carne sintetica arrivi sulle nostre tavole.
Si è passati poi all’elezione del presidente e del consiglio che ha visto, all’unanimità, la riconferma di Rocco Pozzulo alla presidenza.
Un riconoscimento al lavoro svolto in questi anni e la volontà di proseguire lungo una strada che vede la formazione come elemento fondamentale dell’attività associativa.
Insieme alla nuova presidenza è stato rinnovato anche il consiglio di FIC Promotion, con a capo Carlo Bresciani che ha ribadito con forza il ruolo delle aziende partner di FIC.
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Autore: Massimiliano Terminelli
La nona edizione di Horecoast a Salerno
Protagonisti i grandi nomi della ristorazione campana
Ha avuto un grande successo la nona edizione di HoReCoast, la fiera evento dedicata a professionisti e operatori del mondo Ho.Re.Ca., che si è svolta mercoledì 12 e giovedì 13 aprile 2023 presso la Stazione Marittima di Salerno, un vero e proprio gioiello architettonico disegnato dall’archistar Zaha Hadid.
All’evento, organizzato dal Consorzio Horecoast con a capo tre aziende campane (Lamberti Food, De Luca Attrezzature per la ristorazione e MTN Company), hanno partecipato circa 100 aziende del food service che, nei due giorni hanno potuto esporre e raccontare i propri prodotti agli operatori della ristorazione.
Nel corso della manifestazione tanti sono stati i workshop e laboratori a cui gli operatori hanno potuto partecipare, avvalendosi dell’esperienza dei vari relatori.
Le presenze, gli eventi
Il laboratorio della Pizza, coordinato da Farine 5 Stagioni, ha visto la partecipazione del maestro pizzaiolo Antonio Starita; il workshop sul breakfast si è avvalso dei consigli di Gaetano Barbuto, patron de l’Officina del Breakfast; sul food, i vari show cooking sono stati organizzati dall’Associazione Cuochi Salernitani, coordinati dal presidente Luigi Di Ruocco; le masterclass di pasticceria, con la partecipazione dei maestri pasticcieri della Federazione Italiana Pasticceria Gelateria Cioccolateria guidati dal delegato regionale, nonché campione italiano di pasticceria, Gianluca Cecere, e sull’arte
bianca a cura dell’Associazione Panificatori della Provincia di Salerno guidati da Carlo Vernieri e Nicola Guariglia.
Si è svolta anche l’undicesima edizione del Concorso nazionale Barmen in Passerella a cura dell’A.I.B.E.S. che ha visto come vincitrice Carmela Tamborra di Altamura (Ba).
I premi
Si è inaugurata, con questa edizione, l’ HoReCoast Award, premiazione di ristoranti stellati della Campania e delle Associazioni vicine all’evento, con il Don HoReCoast, manufatto di ceramica artigianale realizzato dall’artista ceramista Giuseppe Cicalese.
Tra i premiati Lorenzo Cuomo, chef del Re Maurì di Salerno, una stella Michelin; Fabio Pesticcio, chef de Il Papavero di Eboli (Sa), una stella Michelin; Lorenzo Montoro, direttore ed executive chef de Il Flauto di Pan di Villa Cimbrone di Ravello (Sa), una stella Michelin; Marco Zoppicante, chef dell’Osteria Arbustico dell’Hotel Royal di Paestum (Sa), una stella Michelin; Giovanni Vanacore, chef del Rossellinis di Palazzo Avino di Ravello (Sa), una stella Michelin; Gennaro Esposito, chef de La Torre del Saracino di Vico Equense (Na), due stelle Michelin; Salvatore Pacifico, chef e direttore de Il Faro di Capo d’Orso di Maiori (Sa), una stella Michelin; Alois Vanlangenaeker, chef de Il San Pietro di Positano, una stella Michelin; il maestro pizzaiolo Antonio Starita; il maestro pasticciere Sal De Riso, presidente di AMPI.
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Autrice: Marina Caccialanza
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
Qualità e servizio a portata di freezer
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Qualità, servizio, sicurezza e lavorabilità sono gli obiettivi che Molino Spadoni persegue nella sua mission e, oggi, propone una gamma di prodotti frutto di esperienza secolare nell’arte della molitura e nella selezione dei cereali, studiata per intercettare le esigenze dei professionisti di una ristorazione veloce, efficiente e moderna.
In questo scenario, dunque, la gamma dei panificati surgelati rappresenta una novità di valore aggiunto sia nell’aspetto di servizio sia nella qualità.
Bar, punti caldi e catering trovano in queste referenze un punto di riferimento importante per l’alto contenuto di servizio, time e cost saving: gusto, qualità e praticità per una corretta gestione della somministrazione.
Surgelati, cotti e pretagliati, anche gluten free
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Molino Spadoni presenta diverse novità nel portfolio dei panificati frozen: la linea dei PanPinsa e tre nuove Focaccine Soffici Senza Glutine. Tutte proposte dedicate all’Horeca per rispondere ai food trend contemporanei e alle nuove esigenze alimentari. Pratici e veloci da utilizzare, sono già cotti, basterà riscaldarli in piastra o in forno per 3-4 minuti e saranno pronti da farcire a piacere.
La nuova linea delle schiacciatine PanPinsa è realizzata con un originale mix di farine: farina di grano tenero, farina di soia e farina di riso. L’impasto, prodotto con pasta madre, rifrescata giornalmente dagli anni
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
Dal 1921 protagonisti dell’arte molitoria italiana. Molino Spadoni è punto di riferimento per il mercato delle farine speciali e delle miscele per uso professionale e domestico con prodotti innovativi pensati per ogni utilizzo www.molinospadoni.it
’60 e biga, è caratterizzato da un’altissima idratazione - oltre il 90% di acqua sulla farina - che lo rende alveolato e soffice. Dopo una lievitazione di almeno 48 ore, l’impasto viene steso rigorosamente a mano come da tradizione e condito in superficie con olio evo. Il risultato finale è una schiacciatina pretagliata molto digeribile, dall’aspetto artigianale, con un’alveolatura interna ben sviluppata, croccante fuori e soffice dentro, con una fragranza e un gusto davvero intensi.
Le confezioni sono composte di quattro pezzi (100 gr per pezzo) in sei versioni diverse:
• PanPinsa tipo 0
• PanPinsa Integrale
• PanPinsa al Riso Nerone con il caratteristico colore violaceo
• PanPinsa Curcuma e Semi di Lino dall’impasto giallo oro
• PanPinsa ai 7 Cereali con un mix di farine e semi
• PanPinsa alla Mediterranea con pomodoro, capperi, olive e origano.
Il PanPinsa tipo 0 è disponibile anche nella versione Maxi da 200 grammi, ideale da tagliare a fette per il cestino del pane.
La seconda novità è gluten free. Alla Focaccina Soffice
Senza Glutine Ovenable, si aggiungono tre new entry, tutte già cotte e confezionate singolarmente nel pratico film “ovenable” adatto per il rinvenimento in forno senza contaminazioni. La grande innovazione di questa linea sta nella possibilità di decongelare e conservare i prodotti per 5 giorni a temperatura ambiente. Focaccina Soffice Senza Glutine con farina di Ceci, Curcuma e Semi di Lino, Focaccina Soffice Senza Glutine con Riso Nerone e Semi di Girasole e Focaccina Soffice Senza Glutine gusto Mediterraneo con pomodoro, capperi, olive nere e origano sono soluzioni appaganti, soffici, da servire farcite o come accompagnamento ai pasti, che aiutano la gestione dei clienti celiaci o intolleranti al glutine, dando loro la preziosa possibilità di scegliere tra diverse sfiziose opzioni preparate con artigianalità e competenza, anti spreco, time e cost saving, senza rinunciare al gusto.
Il cestino del pane a regola d’arte
La gamma di panificati surgelati precotti che Molino Spadoni dedica al mondo Food Service e Horeca comprende anche le nuove Chicche di Ciabatta al Riso Nerone: pane morbido, dal distintivo colore violaceo, crosta croccante e alveolatura interna pronunciata.
Leggerezza, digeribilità e fragranza, oltre che un gusto caratteristico e un profumo intenso sono le peculiarità che rendono le Chicche versatili e uniche. Panificati con ingredienti selezionati e di alta qualità, sono prodotti in grado di garantire risultati eccellenti con un importante plus: la semplificazione dei processi di chi lavora in cucina con prestazioni altamente time saving. La semplicità di cottura, infatti, si sposa con la comodità di gestione perché sono sempre a portata di mano e non deperiscono come il prodotto fresco, consentendo di ampliare l’offerta senza sprechi. Sicurezza e qualità sono garantite in quanto la surgelazione avviene subito dopo la cottura.
Le Chicche di Ciabatta al Riso Nerone si affiancano alle altre referenze in gamma:
Pane Sciocco® tipo 0 e 1 Senza Sale
Pane Brusco tipo 1 Senza Sale
Ciabattina Spaccata tipo 0 e 1, ottima da servire nel cestino del pane o da farcire
Ciabattina Spaccata ai 7 Cereali, dal gusto più rustico e, infine, la versione Stirata tipo 0, fatta lievitare per 24 ore e stirata a mano prima della cottura.
Per chi ama un pane dal gusto e dall’aspetto particolari, ci sono anche la Ciabattina Spaccata ai Ceci germogliati e Curcuma, originale e gustosa grazie all’aggiunta di ceci germogliati e alla curcuma, spezia che le conferisce il suo colore peculiare e la Ciabattina Spaccata al Riso Nerone, gustosa e fragrante, che si contraddistingue per il suo colore violaceo.
Una soluzione alternativa alle ciabattine è poi la Schiacciata all’olio cotta e pretagliata, da rinvenire sulla piastra o nel fornetto: se la si vuole farcire, basta
definita “uno dei trend gastronomici più vivaci del momento”. Le nuove Pinse Frozen sono perfette per rispondere alla domanda di questo prodotto tipico della tradizione romana, oggi apprezzato in tutta Italia. Simile alla pizza per il tipo di utilizzo e di consumo, la pinsa presenta una forma tipicamente ovale e differenze tecniche sostanziali nella preparazione.
Le Pinse Frozen Molino Spadoni sono realizzate con farina di grano tenero, farina di soia e farina di riso. L’impasto, prodotto esclusivamente con pasta madre e biga, è caratterizzato da un’altissima idratazione e da lievitazione di almeno 48 ore; artigianale anche nell’aspetto – viene steso rigorosamente a mano come da tradizione - ne risulta una pinsa molto digeribile con un’alveolatura ben sviluppata, croccante fuori e morbida dentro, con una fragranza e un gusto davvero intensi.
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
Per queste sue unicità, offre a pizzerie, bar e tavole calde, grandi possibilità di sviluppare il menù: infatti, possono essere proposte come focacce con l’aggiunta di olio e sale prima della cottura, o farcite a piacere nel top o all’interno. Sono disponibili in 3 formati diversi: la piccola 29x19, la media 39x29 (confezionata singolarmente) e la grande 55x25.
Le Pinse Frozen Molino Spadoni sono state realizzate per semplificare i processi di lavorazione e avere prestazioni time saving: essendo precotte, basta farle scongelare a temperatura ambiente e rinvenirle in forno statico secondo le indicazioni.
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
La nostra idea di olio
La gamma completa degli oli Zucchi porta sulle tavole e nelle cucine della moderna Ristorazione tutta l’esperienza acquisita in oltre 210 anni di storia.
Un impegno continuo, un meticoloso lavoro di selezione e di lavorazione delle migliori materie prime, per garantire sempre l’eccellenza di ogni singolo prodotto.
www.zucchi.com
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Autrice: Marina Caccialanza
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
Una storia di qualità superiore
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
produttore di pasta al mondo
Da circa due secoli la famiglia De Cecco, arrivata oggi alla quinta generazione, è la prima e unica famiglia di pastai che ha sempre assicurato una continuità di gestione del Mulino e Pastificio di famiglia, tramandando di padre in figlio il proprio saper fare e dedicando la massima cura a tutti i suoi prodotti.
Oggi De Cecco è il terzo produttore di pasta al mondo, presente in più di 100 Paesi ed è il primo produttore di pasta in Italia ad aver ricevuto la certificazione di prodotto (rilasciata dalla società DNV), uno standard volontario che rende visibili i vantaggi qualitativi di tipo organolettico.
De Cecco è leader in Italia per ampiezza e profondità di gamma ed è prodotta interamente in Italia, negli unici due stabilimenti abruzzesi in provincia di Chieti, Fara San Martino e Ortona.
Il Metodo De Cecco
Il caratteristico processo produttivo unico e certifica-
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
to, il Metodo De Cecco, è basato su un costante orientamento all’eccellenza e ricerca della qualità in ogni passaggio della lavorazione della pasta.
Sono impiegati solo i migliori grani duri italiani e del resto del mondo con un alto contenuto proteico, in modo da produrre una pasta con elevata percentuale di glutine che la rende tenace ed elastica.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
Il grano è macinato direttamente nel Mulino di proprietà per assicurare sempre una semola fresca garantita all’origine: non è una differenza marginale perché la semola è un ‘prodotto vivo’ che nel tempo tende ad alterarsi e perdere le proprietà originarie.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Per l’impasto, viene utilizzato solo il ‘cuore’ del chicco di grano, la parte più pregiata: durante la fase di molitura, infatti, i chicchi di grano vengono spogliati dei loro strati superficiali fino ad arrivare alla parte centrale, quella più nobile: basti pensare che, da 100 kg di grano, De Cecco ottiene circa 65 kg di semola, pur potendone ricavare fino a 80 kg.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
Quella di De Cecco è una storia secolare che prende vita alle falde della Majella. Oggi è il terzo
Il risultato è una pasta dal sapore fragrante come quello del grano, privo di altri odori che invece si possono riscontrare nel caso in cui si macinano anche le parti più esterne del chicco.
La semola è macinata con una granulometria grossa per evitare che la riduzione in granelli più piccoli comprometta la qualità del glutine.
L’impasto avviene solo con acqua fredda di montagna con una temperatura < 15°C. Questo comporta tempi molto più lunghi rispetto alla prassi, ma insieme all’utilizzo di semole grosse, garantisce le condizioni ideali per la formazione del glutine assicurando così una perfetta tenuta in cottura.
La caratteristica peculiare del Metodo De Cecco è il sistema di essiccazione lenta e a bassa temperatura, inventato dal fondatore Filippo De Cecco dal 1889 e citato anche nell’Enciclopedia Treccani, nella sezione “pasta alimentare”.
L’essiccazione è l’ultima fase del processo produttivo, ma è fondamentale per garantire le qualità costruite lungo il processo.
De Cecco utilizza la lenta essiccazione che rispetta le qualità organolettiche e le proprietà nutrizionali della materia prima, permettendo così di esaltare sapori, profumi e colore naturale di grani eccellenti, preservandola così dal cosiddetto “danno termico” caratteristico delle essiccazioni veloci ad alta temperatura.
È un processo che richiede tempi molto lunghi e notevolmente maggiori rispetto alla maggior parte dei pastifici che essiccano ad alte temperature.
Tutti i formati De Cecco hanno tempi di essiccazione certificati: 9 ore per i formati corti, da 18 a 36 ore per i formati lunghi.
Ricerca continua in risposta a nuove esigenze
Alla ricerca continua sulla qualità del prodotto, deve necessariamente far seguito una forte attenzione alle tendenze di mercato ed alle esigenze in costante evoluzione del consumatore.
Ed è per questo che De Cecco ha voluto rispondere a due importanti trend di consumo realizzando una selezione di formati che rispondono all’esigenza di nuove consistenze con I Grandi e a tipicità tradizionali con I Regionali
L’idea alla base del progetto de I Grandi, è stata quella di realizzare un’offerta di 9 formati, tra i più amati, che si contraddistinguono per uno spessore più grande che rende la pasta più gustosa alla masticazione, ideale per esaltare i sapori delle ricettazioni.
È stata necessaria una lunga fase preventiva di studio e ricerca, la cui messa a punto ha coinvolto i nostri pastai più esperti.
Con la gamma de I Regionali invece, De Cecco accompa-
gna il consumatore alla scoperta dei formati tipici delle tradizioni e delle cucine regionali italiane.
14 trafile dedicate, una gamma di tipicità esaltate dal processo produttivo unico e certificato che dona alla pasta un’eccellente tenuta in cottura, preservando al meglio aromi, sapori e profumi del grano che arrivano intatti in tavola.
La continua ricerca dell’eccellenza qualitativa viene applicata tenendo conto del rispetto dell’ambiente.
De Cecco, inoltre, ha recentemente pubblicato il Documento per la Sostenibilità relativo al 2021, in linea con il Global Compact delle Nazioni Unite e con gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda ONU 2030 a cui ha aderito.
Oltre il 50% dell’energia elettrica utilizzata dalle due Unità Produttive De Cecco è da fonti rinnovabili. In particolare, il 14% è idroelettrica, autoprodotta dalle centrali di proprietà, avviate nel 1905 dal Fondatore De Cecco, passate poi agli eredi che le hanno mantenute attive, ammodernate e consegnate alla contemporaneità. Grazie a questo e a una serie di attività mirate a definire e migliorare metodiche procedurali e interventi strutturali per ridurre consumi e sprechi energetici, De Cecco ha ridotto nel 2021 dell’11% le emissioni di CO2 in atmosfera.
E non solo: anche dal punto di vista del consumo di acqua nel processo produttivo, grazie alle pratiche di efficientamento e monitoraggio messe in campo, nel 2021 lo ha ridotto del 3%.
Obiettivo strategico: carbon neutral entro il 2050 al quale contribuirà anche la quota compensazione CO2 assicurata dalla piantumazione di alberi di olivo nei terreni circostanti il sito produttivo di Fara. Al 2021, la presenza di oltre 3.300 olivi piantumati, di età compresa tra i 40 e gli oltre 100 anni, equivale a 132.000 kg di CO2.
Grande anche l’impegno di De Cecco in Italia per la filiera del grano duro italiano di alta qualità che al 2021 coinvolge 2.000 aziende agricole, oltre 23.000 ettari di terreni coltivati, 9 varietà di grani e vale oltre 57.000 tonnellate di raccolto.
Relativamente al pack, si evidenzia l’attenzione particolare all’impatto ambientale nella scelta di un solo materiale riciclabile al 100% con certificazione di sicurezza DNV e dichiarazione ambientale di prodotto EPD.
Ma la sostenibilità in De Cecco si sposa anche con la solidarietà attraverso partnership consolidate da decenni, come quella con il Banco Alimentare al quale nel 2021 sono state donate 490 tonnellate di prodotti per aiutare con dignità tantissime famiglie indigenti e, allo stesso tempo, contrastare lo spreco alimentare, evitando che cibo buono venga sciupato.
Di De Cecco ce n’è una sola.
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Autrice: Marina Caccialanza
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
La mixology secondo Polot
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
Nel 1882 nasce Giuseppe Lochis detto ‘Polot’. Agli inizi del ‘900 inizia a produrre nel suo laboratorio vini, mosti e distillati. Inizia così la storia di una famiglia e di un marchio, Polot 1882.
Passione e dedizione contraddistinguono la famiglia Lochis che, instancabilmente, lavora per migliorare i suoi prodotti dando un’impronta caratterizzante e inconfondibile a tutto ciò che in futuro verrà.
Con la seconda generazione, viene abbandonata la produzione di vini e mosti a favore dei liquori e degli sciroppi a base di zucchero, mentre evoluzione e ricerca continuano nel tempo con le generazioni successive, fino ad arrivare alla quarta, dove un ulteriore passo importante porta ad abbandonare il mondo dei prodotti alcolici, sviluppando ulteriormente gli sciroppi e introducendo i semilavorati a base frutta con un marchio che si rivelerà fondamentale per l’ascesa di General Fruit: Naturera
Le caratteristiche di caparbietà, onestà, curiosità e fiducia nel futuro, tipiche di Polot, hanno attraversato le cinque generazioni che lo separano da ciò che oggi è diventata General Fruit e da chi ne ha ereditato tutte le sue qualità.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
In omaggio alla memoria dell’infaticabile Polot nasce una nuova linea di prodotti dedicati alla mixology e alla caffetteria che porta il suo nome e che in ogni referenza racchiude il lavoro di una vita.
Recentemente, dopo circa 8 anni dalla sua nascita, General Fruit ha definito un re-branding per focalizzare l’attenzione dei distributori e dei clienti sul logo identificativo - Polot 1882 - e sul relativo pay off - The Real Italian Taste - volto a comunicare immediatamente la forte caratterizzazione italiana del logo.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
La gamma Polot 1882 si rivolge all’utente professionista del mondo mixology e caffetteria affinché possa ideare una drink list innovativa caratterizzata da alta qualità degli ingredienti utilizzati, con gusti classici alto performanti nel rispetto della tradizionalità e, al tempo stesso, orientata all’innovazione grazie all’utilizzo di erbe officinali, smoky e alga nori, oltre a una risposta attenta alle tendenze (senza zuccheri).
L’evoluzione della mixology
La mixology è l’arte di creare cocktail eccezionali attra-
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
Un brand innovativo e di altissima qualità specializzato nella produzione di prodotti per la mixology, sinonimo di eleganza e raffinatezza: Polot 1882 è diventato un punto di riferimento per i professionisti
verso l’uso di ingredienti freschi e di alta qualità, tecniche di miscelazione innovative e una buona dose di creatività. È un’esperienza sensoriale che coinvolge il gusto, l’olfatto e la vista.
Il mondo della mixology e della caffetteria è in continua evoluzione e il suo pubblico è sempre più informato, esigente e alla ricerca di gusti nuovi e distintivi. Polot 1882 con la sua gamma di prodotti estremamente versatili incontra le esigenze del barman e del ristoratore per permettergli di soddisfare i palati più esigenti nei vari momenti di consumo della giornata. Si rivolge, infatti, all’operatore professionista barman, bartender, alle scuole di formazione per barman; è un prodotto di altissima qualità per selezione degli ingredienti, versatilità, e modalità di utilizzo.
Polot 1882 è diventato un punto di riferimento per i professionisti ed è il risultato di una grande attenzione ai dettagli e di ricerca costante di nuove ricettazioni e ingredienti di ultima generazione per garantire un gusto autentico e un’esperienza senza eguali.
La scelta del nero come colore per la sua immagine, rivela eleganza e raffinatezza: richiama queste caratteristiche trasmettendo una sensazione di lusso e sofisticatezza che verrà a sua volta trasmessa all’immagine del bancone e del locale.
Il catalogo di Polot 1882 offre una gamma di prodotti estremamente versatili e pensati per soddisfare le esigenze del barman moderno, per consentirgli di creare cocktail unici e sorprendenti, dai più tradizionali ai più innovativi.
Un Polot per ogni occasione
La gamma Polot 1882 si compone di oltre 100 referenze di sciroppi caratterizzati da:
bilanciamento perfetto tra consistenza e gusto, dedicati a ricette innovative ma perfettamente equilibrate pack elegante e distintivo ideale per la miscelazione in bottiglia vetro 700ml con grafica particolarmente impattante ed elegante anche per il punto vendita (lo sleeve nero oltre a conferire eleganza al pack evita la presenza al bancone di bottiglie usate con livelli diversi di sciroppi all’interno consentendo di mantenere invariata l’immagine della bottiglia)
composizione senza glutine di tutta la gamma. Le 100 referenze sono raggruppate in sottocategorie e in particolare: classici, citrici, floreali, fruttati, officinali, speziati, dolci da tutto il mondo, cremosi, sugar free e speciali (Smoky, Alga Nori, Agave).
La linea sugar free è una linea di sciroppi che consente di creare drink analcolici senza zuccheri particolarmente indicati per un pubblico attento al proprio benessere; la linea sugar line è composta di sciroppi zucchero bianco e di canna, ideale per esaltare il gusto dei cocktail, e sciroppo d’agave Tequilana Blue Weber per un’intensa
nota aromatica direttamente dal Messico; gli sciroppi per té freddo sono dedicati oltre che alla preparazione del classico té freddo anche di rinfrescanti cocktail e long drink.
Completano la gamma in bottiglia da 700ml i succhi di limone e lime, ingredienti base di molte preparazioni alcooliche e non alcooliche, perfetti puri o miscelati; e i complementari per cocktail gusti Lime Juice Cordial e Pink Grapefruit Juice Cordial, perfetta alternativa alla spremitura del frutto fresco e per equilibrare l’acidità della ricetta finale.
Infine, sempre dedicati alla mixology e alla caffetteria, Polot 1882 Fruit’n’shake, 27 referenze di puree per cocktail in una bottiglia unica innovativa squeezable e dotata di due tappi: tappo interno salvagoccia e richiudibile, tappo esterno dosatore, perfetta per l’utilizzo in lavorazione.
La versatilità è uno dei pregi maggiormente apprezzati, così come l’apertura verso l’innovazione continua della drink list: sollecitano nel consumatore curiosità e voglia di provare gusti nuovi. Con Polot 1882 nessuno spreco grazie ai tappi dosatori che offrono facilità di utilizzo anche in lavorazione e anche con le mani bagnate; altissima la qualità ed eleganza dei pack.
Infine, da considerare l’attività di comunicazione importante sui social - instagram e facebook - con post, stories, guide e ricette realizzate da Cocktail and Coffee Specialist che aiutano il professionista lungo un percorso di approfondimento dedicato alla mixology con tante ricette realizzate con prodotti Polot 1882 e altri prodotti del mondo General Fruit
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Autrice: Marina Caccialanzasticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
Nova si rinnova: la nuova frontiera dei prodotti healthy
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
Sono molteplici i progetti intrapresi negli ultimi anni da Nova, azienda fondata nel 1980 in Veneto da un’intuizione di Paolo Scapin, specializzata nella produzione di funghi e verdure vegetali. Nova Funghi da oltre 40 anni produce specialità vegetali pronte da portare in tavola secondo un processo di produzione in grado di garantire la lavorazione delle materie prime mantenendo invariate le loro proprietà e la genuinità. Una filiera curata nel rispetto della tradizione italiana.
Innovare infatti è, per Nova, sinonimo di una continua ricerca di soluzioni volte al miglioramento e alla garanzia del consumatore attraverso la fornitura di un prodotto genuino, ready-to-use, che rispetti la qualità della tradizione culinaria italiana. Questo si è tradotto nel portare avanti scelte coraggiose in grado di utilizzare i prodotti in modo semplice, ma anche di riconoscersi in prodotti dall’eccellente qualità e dal significativo valore aggiunto.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Questi caratteri distintivi si traducono in un elemento distintivo verso quel mercato di riferimento che ha subito fin ora poche innovazioni nel tempo.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
I prodotti Nova si identificano con un gusto sempre ricco e unico, che attinge alla tradizione con ricette in cui la semplicità è un tutt’uno con la genuinità della materia prima. Per questo, gran parte dei prodotti vengono lavorati con sole materie prime fresche, sovente di sola filiera italiana, e in alcuni casi anche a Km0.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.
Un esempio illuminante sono le creme vegetali, prive di conservanti, e prive di acidificanti, senza l’aggiunta di derivati dal latte e ingredienti di origine animale, pertanto naturalmente vegane. Recentemente è stato lanciato nel mercato un pesto al basilico vegano in cui il formaggio e i pinoli, noti allergeni, sono stati sostituiti con una crema di ceci. Per rimanere nella sfera dei legumi, fonte di proteine di origine vegetale, sono state realizzate delle
Gusto sempre ricco e unico, ricette della tradizione, genuinità della materia. Queste le peculiarità dei prodotti Nova Funghi, con particolare attenzione alla salubrità e sostenibilità delle proposte: una rivoluzione in un comparto fortemente legato alla tradizione www.novafunghi.it
creme spalmabili di legumi, perfette per diete vegetariane, vegane o dedicate a un target attento alla salubrità dei cibi.
Questo percorso risponde indubbiamente alla necessità da parte di Nova di fornire un prodotto garantito dalla massima qualità intercettando i trend di un consumatore sempre più attento ed esigente, con prodotti pronti e di facile impiego in particolare per il professionista, nel rispetto delle ricette di un tempo: ricette semplici, buone e sane.
Seguendo l’evoluzione dei costumi, infatti, Nova ha recepito con attenzione la necessità di dirigersi verso prodotti con caratteristiche sostenibili e salutari; per questo l’azienda ha investito sulla ricerca e sullo studio di nuovi prodotti che contengono meno olio, se non la totale assenza, e un sempre minor utilizzo di conservanti e glutammato. L’ultimo lancio nel mercato, Si Con Gusto –Senza Olio, ne è un esempio concreto: Nova ha sviluppato un prodotto allo 0% d’olio e il 99% di grassi in meno, dove la parola d’ordine è leggerezza. Una rivoluzione in un comparto fortemente legato alla tradizione.
Si con gusto – Senza olio
L’ultima novità è una gamma di prodotti tra funghi Champignons trifolati, carciofi a spicchi e un mix di verdure in busta da 1700 grammi, con il marchio dedicato SI CON GUSTO – Senza Olio. Un prodotto che coniuga la bontà dei grandi classici trifolati e non, verso un concetto più healthy, grazie al 99% di grassi in meno, rispetto al più tradizionale prodotto in olio. Il tutto senza stravolgere la classica ricetta ma garantendo gusto e qualità. Nova non ha solo investito nella ricerca e nell’innovazione di prodotto, ma anche il packaging è stato totalmente rivisto, unificando colori e grafiche, inserendo poche e chiare informazioni, incentivando l’appetizer con foto di prodotti dal vivo, oppure con accattivanti grafiche dai colori pastello. Le novità hanno incluso oltre alle grafiche, anche gli imballaggi, con una nuova serie di vasi in vetro - dalle diverse misure - e capsu-
le stilizzate che richiamano il logo Nova, a sigillo del prodotto.
L’azienda sta perseguendo percorsi strategici di innovazione, di prodotto e industriali, che mirano a mantenere nel tempo l’identità nel gusto delle ricette tradizionale, ma con i caratteri tipici dei nostri tempi e il facile utilizzo nelle ricette di tutti i giorni.
Tra le novità recentemente introdotte: una etichetta di facile lettura, pochi colori, immagini dal vivo del prodotto, claim ben visibili con lo scopo di esser più vicini al consumatore e differenziarsi nello scaffale una gamma di prodotti che spaziano dai tradizionali funghi trifolati (come champignons, porcini, etc.), alle verdure in agrodolce, in olio, al naturale, alle creme vegetali, in formati che vanno dalla tradizionale latta, al vaso in vetro alla recente vaschetta, così da poter intercettare tutte le abitudini di consumo una comunicazione più completa nella quale l’azienda ha investito allo scopo di avvicinarsi al consumatore, sia tramite i canali tradizionali in giornali di settore e non, oltre alla presenza nei canali social: lo sviluppo interesserà in futuro anche i canali di mass-media più importanti con un messaggio comunicativo finalizzato alla crescita della brand identity che sta assumendo sempre più la caratteristica dello storytelling per raccontare bene cosa fa e come lo fa.
“Nova si rinnova” è, dunque, il nuovo slogan dell’azienda che nel 2018 ha avviato un percorso di revisione e ammodernamento finalizzato a consolidare la sua posizione nel comparto grocery e dei sottoli.
Altri importanti investimenti riguardano le migliorie dei processi produttivi che guardano a progetti di sostenibilità: come la realizzazione di un impianto fotovoltaico tale da permettere un’autonomia superiore al 75% del fabbisogno interno; oppure impianti e tecnologie mirate alla riduzione degli sprechi di acqua ed energia. Infine l’impiego di nuova strumentazione di ultima generazione finalizzata al controllo qualitativo delle materie prime e sulle lavorazioni.
I libri Autore: Luigi Franchi
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Un libro che racchiude le migliori firme di scrittori e saggisti specializzati in storia della gastronomia e di quella lunga falda che lega tutta l’Italia: l’Appennino, i suoi minuscoli borghi, le leggende, le religioni, le tradizioni gastronomiche.
Dalle Langhe all’Aspromonte è un susseguirsi di racconti e suggestioni che, mentre si legge, rendono vive le immagini di questa parte del Paese, i profili delle montagne che, in molti casi, si affacciano sul mare creando condizioni di vita e abitudini alimentari che risalgono a mille e forse più anni addietro.
Il racconto di Vito Teti, per esempio, narra della popolazione arbëreshë, una comunità albanese sorta in massima parte tra il XV e il XVIII secolo e distribuita nelle aree interne appenniniche tra l’Abruzzo e la Calabria, con qualche sprazzo in Sicilia.
sticcere e cuoco, Riccardo lavorava in un’agenzia di comuni-cazione ma da tempo ha sviluppato un grande interesse per i panificati.
Buon Appennino, la cultura del cibo nell’Italia interna
È probabilmente da qui che traggono origine le condizioni alimentari che hanno dato vita, nei tempi più recenti, alla Dieta Mediterranea e cioè l’uso di materie prime come l’olio d’oliva, il pane di frumento, il vino. Ma questo è solo uno dei brevi interessantissimi saggi contenuti in questo libro voluto dalla Fondazione Appennino per i tipi di Rubbettino.
Malvasia, un diario mediterraneo
Paolo Tegoni
Terrae editore
Pagg. 240
Euro 30,00
www.terrae.info
AA.VV.
Rubbettino editore
pagg. 162
Buon Appennino, la cultura del cibo nell’Italia interna Malvasia, un diario mediterraneo
Euro 16,00
www.rubbettino.it
“Il nostro pareva un sogno utopico. Invece, dicendoci ORA o mai più, ce l’abbiamo fatta” ci confessa Carlo. “Abbiamo aperto un forno che dietro ha un pensiero molto diverso di In Umbria, come nella maggior parte delle regioni italiane, negli ultimi decenni ha avuto la meglio il pane a lievitazione breve, ottenuto da lievito di birra. Siamo andati in un’altra direzione ripescando come altri nostri colleghi il modo antico di fare il pane, puntando però sulle conoscenze attuali. Vogliamo un pane ricco, che duri nel tempo. Facciamo lunghe lievitazioni, partiamo dal lievito madre e miriamo a sostenere una filiera corta, cortissima. Perché il rapporto intimo con il produttore crea identità e fa bene al territorio”.
Entrambi non nascondono le difficoltà iniziali, le prime settimane dopo l’apertura sono state toste.
“Scardinare un’abitudine non è semplice. Il pane per molti è routine. Piano piano siamo entrati nel cuore delle persone e, anche se qui non trovavano il riferimento, ossia il pane a cui erano abituati, ora hanno cambiato il loro modo di scegliere e consumare. Acquistano meno e gestiscono meglio il prodotto”.
Osservandone la bella copertina viene alla mente il Breviario mediterraneo di Predrag Marvejeviç, uno dei libri più belli che si possano leggere nel corso della vita.
E in effetti Paolo Tegoni, l’autore di Malvasia, un diario mediterraneo mi ha confessato che quella lettura è stata una fonte di ispirazione molto importante.
Anche la ristorazione, come abbiamo evinto dalle storie precedenti, può fare molto rivolgendosi a questi forni e insegnando al cliente perché quel pane ha un costo, per esempio. Riccardo e Carlo ci raccontano una particolarità proprio del rapporto con la ristorazione.
Ha viaggiato molto l’autore, partendo dalla Grecia e tornando al punto di partenza, in quella Monemvasia da dove questo vitigno trae l’origine più nota ma non l’unica. le foto a corredo del libro sono di Francesco Zoppi e sono bellissime, anche loro un racconto nei racconti di questo volume indagatore.
Un vitigno, la Malvasia, che in Italia è arrivato grazie alle navi veneziane, quelle stesse che hanno favorito i più grandi commerci e la grandezza della città lagunare. E Venezia ricorda la Malvasia nei nomi ricorrenti delle sue calli, dei campielli, dei ponti.
“Lavoriamo con diversi ristoranti anche con prodotti su misura, come con Luce, con cui abbiamo sviluppato una versione speciale del nostro pane, sfornata una volta a settimana, che ha sapori, odori e consistenze ragionate insieme”.
Poi si è sparsa, nelle sue diverse interpretazioni, in diverse regioni italiane, l’Emilia, la Toscana, la Sicilia, la Sardegna di cui Paolo Tegoni traccia la storia dei territori e delle persone che si dedicano alla sua coltivazione fino al bicchiere che, come disse un poeta, rappresenta l’universo intero.
L’autore non si accontenta però della storia, degli assaggi; nei risvolti del libro, su un magnifico fondo blu mediterraneo, riporta lo spartito e il testo di una canzone che Jacques Offenbach dedica alla Malvasia.
Bisogna fondare la cultura del buon pane, affermare le filiere sane, non cadere nella trappola della comodità. Chi ha detto la sua in questo articolo sta lavorando nella giusta direzione ma anche noi, nel nostro, abbiamo il dovere di pensare un po’ di più al pane. E rendere gli utili concetti espressi qui sopra in un pane comune.