Dietro il primato di un piatto
Tutto quello che c’è da sapere intorno a Re Panettone
Il suino della Marca, nuovo e unico
Dietro il primato di un piatto
Tutto quello che c’è da sapere intorno a Re Panettone
Il suino della Marca, nuovo e unico
SOLO IL CUORE
DEL CHICCO DI GRANO.
Le nostre farine tradizionali, ottenute attraverso una macinazione gentile e progressiva, garantiscono prestazioni costanti e qualità superiore in ogni preparazione. Da sempre dedichiamo attenzione all’eccellenza, selezionando solo le parti migliori del chicco di grano per offrire farine che soddisfino i più elevati standard della pizzeria professionale.
le5stagioni.it
Mario Benhur Tondini
presidente Edizioni Catering srl
Imprenditore nel settore della distribuzione alimentare, gestisce con il fratello Oscar l’azienda di famiglia a Cavriana (MN), dove ha svolto anche l’incarico di sindaco.
Le competenze maturate sul piano professionale e su quello amministrativo lo hanno portato alla convinzione che il principio della condivisione sia la miglior modalità di crescita. Molte sue iniziative, anche all’interno del gruppo Cateringross (che detiene la titolarità della casa editrice), di cui è consigliere d’amministrazione, vanno in questa direzione. A questo affianca una forte sensibilità per ogni azione che dia valore al suo territorio.
benhurtondini@salaecucina.it
Marina Caccialanza
Redazione
Milanese, un passato come traduttrice, da diversi anni giornalista e redattrice per riviste del settore alimentare rivolte al mondo dell’artigianato e all’industria, in particolare nel campo della ristorazione, del dettaglio specializzato e della ricerca. Contribuisce alla realizzazione di importanti libri di comunicazione gastronomica in Italia e all’estero diretti ai professionisti e ai consumatori. Collabora con le redazioni di sala&cucina, Ecod e Trenta Editore.
Luigi Franchi
Direttore responsabile
Prima fotografo di cibo e territori, poi comunicatore, autore di numerosi libri di enogastronomia e di turismo enogastronomico. e infine giornalista di enogastronomia. Tra le sue principali pubblicazioni, scritte e/o coordinate: La prima edizione della Guida al turismo del vino in Italia, per conto del Movimento Turismo del Vino, (1997), I parchi e il turismo enogastronomico (2004), Il marketing delle Strade del Vino edizioni Agra – Rai Eri (2005), Atlante Alimentare Piacentino, con Valentina Bernardelli (2007), “cuo chi, due anime in cucina”, con Alessandra Locatelli, GL.Editore (2009), Dalle Terre Traverse al Po, GL.Editore (2010), ideatore e coautore dei Maestri del lievito madre, Edizioni Catering (2014), coautore della guida online dedicata alla ristorazione Meglio Prenotare, Edizioni Catering, Le interviste (2018) editore Mediavalue. Co-direttore di Food & Book, festival nazionale di editoria enogastronomica luigifranchi@salaecucina.it
marina.caccialanza@salaecucina.it
Giulia Zampieri
Redazione
Ricorda con esattezza il profumo del primo pane preparato all’età di sette anni.
Forse il suo primo traguardo e, soprattutto, l’inizio di una grande passione: per le cose semplici, per la genuinità, per gli alimenti che crescono e prendono forma. Dopo la Laurea in Scienze Gastronomiche, la specializzazione in comunicazione enogastronomica, e un periodo di alternanza nelle cucine, ha chiara la missione: scrivere per comunicare. Come? Utilizzando gli strumenti di oggi e la curiosità di sempre. Gionalista pubblicista, collabora anche con la guida di Identità Golose.
giuliazampieri@salaecucina.it
Simona Vitali
Redazione
Laureata in filosofia, ha lavorato nella comunicazione e organizzazione di grandi eventi a Parma. Ha ricevuto una prima inconsapevole educazione al gusto per il cibo grazie all’ indimenticato oste dell’Osteria della Stazione di Felino (PR), il nonno materno Massimino. Con gli studi umanistici è poi arrivata una seconda, consapevole, educazione al gusto per l’utilizzo delle parole secondo il loro significato. Poi sono seguiti un corso di Alta Formazione alla scuola Holden e un master in Filosofia del cibo e del vino. Della ristorazione l’affascina il pensiero e la componente umana. Della formazione di settore segue movimenti ed evoluzioni.
s.vitali@salaecucina.it
Gabriele Adani
Grafico
Modenese, appassionato di arte figurativa, fotografia e linguaggi di comunicazione visiva.
Nel 1992 inizia il suo percorso professionale presso una casa editrice. Lavora poi in uno studio grafico e fonda una piccola agenzia di comunicazione in cui ricopre il ruolo di direttore creativo per 18 anni. Viaggiatore, utilizza i frequenti viaggi a Londra e nel Sud Est asiatico per arricchire il suo bagaglio culturale e placare la sua innata curiosità per le altre culture.
Dal 2019 lavora in proprio, occupandosi di fotografia, grafica e consulenze nel campo della comunicazione.
grafica@salaecucina.it
7 LA LETTERA APERTA
Cosa è successo di veramente importante nel mondo della ristorazione nel 2024 | Luigi Franchi
9 L'EDITORIALE
I giovani e il cibo | Benhur Tondini
10 IL CONFRONTO
Antonio Gervasio | Luigi Franchi
15 I CUOCHI
I Campionati della Cucina Italiana 2025 | Rocco Cristiano Pozzulo
17 LA NEUROVENDITA
L’inizio che fa la differenza, la formula 10 – 10 - 10 | Lorenzo Dornetti
19 L'ETICA
Le moderne schiavitù coinvolgono il settore alimentare | Francesco Parrotta
21 L’OLIO AL CENTRO
Più curiosità, sempre alla ricerca di extra vergini insoliti | Luigi Caricato
23 LA DIGITAL TRANSFORMATION
Come la nuova funzione Search di ChatGPT
può migliorare la gestione di un ristorante | Claudia Ferrero
24 LA RIFLESSIONE
Come faccio a farmi scegliere dalle persone? | Giulia Zampieri
28 L'IDEA
Dietro il primato di un piatto | Simona Vitali
32 IL RISTORANTE
L’importante è trovare il giusto Equilibrio | Marina Caccialanza
34 GLI EVENTI
Tutto quello che c’è da sapere intorno a Re Panettone | Simona Vitali
39 LA FORMAZIONE
Della campagna di orientamento scolastico
lanciata dal ministro Valditara | Simona Vitali
44 LA STORIA
Zola e “Il ventre di Parigi” | Alessia Cipolla
41 DOGUSTO
Le pizze DoGusto | Guido Parri
44 LE CONTAMINAZIONI
La storia del baccalà che collega la Norvegia all’Italia | Federico Panetta
46 LA STORIA
Praktisches Kochbuch di Henriette Davidis | Alessia Cipolla
50 L'ANALISI
I dati del XXII Rapporto Ismea-Qualivita su DOP e IGP | Luigi Franchi
54 IL VINO
Cherubini | Giulia Zampieri
56 AMODO LA RETE DEI RISTORANTI ETICI
Casa Leali | Giulia Zampieri
58 IL PROGETTO
Esausto ma pieno di vita! | Luigi Franchi
64 IL PROGETTO
Il suino della Marca, nuovo e unico | Marina Caccialanza
66 IL RISTORANTE
Spunti di sala a La lampara sui colli di Monopoli | Simona Vitali
68 LA PIZZERIA
Benvenuti nella Tana del Lupo | Marina Caccialanza
70 LA PRODUZIONE
Verde come il basilico, fresco come la brezza dal mare | Marina Caccialanza
75 LA PRODUZIONE
Dal cuore della Romagna | Marina Caccialanza
75 LA PASTA
La pasta e i condimenti | Guido Parri
78 GLI EVENTI
Hospitality a Riva del Garda | Luigi Franchi
80 GLI EVENTI
Food Academy, una proposta di Tondini srl | Luigi Franchi
81 LA PRODUZIONE
Formato mini, qualità maxi: nascono i Mini Burger di Scottona di Centro Carni Company | Guido Parri
82 I LIBRI
Il venditore 5.0, o ti evolvi o ti estingui | Luigi Franchi
N° 90 dicembre 2024
EDITORE
Edizioni Catering srl Via Margotti, 8 40033 Casalecchio di Reno (BO) Tel. 051 751087 – Fax 051 751011 info@salaecucina.it - www.salaecucina.it
PRESIDENTE
Benhur Mario Tondini benhurtondini@salaecucina.it
DIRETTORE RESPONSABILE
Luigi Franchi luigifranchi@salaecucina.it
COLLABORATORI ESTERNI
Luigi Caricato, Alessia Cipolla, Lorenzo Dornetti, Ferdinando Giannone, Rocco Pozzulo, Claudia Ferrero, Elena Monteverdi, Federico Panetta, Guido Parri.
FOTOGRAFIE
Archivio sala&cucina, Depositphotos, Silvia Meda, Matteo Pezzana, Lido Vannucchi, Fabio Furlotti
* L’editore è a disposizione per eventuali crediti fotografici di cui si ignora la fonte
RIVISTA PARTNER di AMODO
PUBBLICITÀ Tel. 331 6872138 marketing@salaecucina.it www.salaecucina.it
PROGETTO GRAFICO
Gabriele Adani - www.gabrieleadani.it
STAMPA
EDIPRIMA s.r.l. – www.ediprimacataloghi.com
TIRATURA E DISTRIBUZIONE – 28.900 copie Ristoranti, trattorie e pizzerie 20.700 – Bar, pub e birrerie 4.000 – Hotel 3.100 – Grossisti e distributori f&b 1.100
Costo copia mensile: 4,00 euro abbonamento annuo 40,00 euro Per abbonarsi: info@salaecucina.it
Luigi Franchi direttore responsabile
luigifranchi@salaecucina.it
Stiamo chiudendo il 2024 e nelle prossime settimane i giornali, le riviste, i siti e i social faranno a gara per descrivere le tendenze della ristorazione per l’anno che verrà.
È un gioco che si ripete ogni anno: cosa mangeremo, come lo mangeremo, dove…
E quasi sempre nessuno riesce a vincere queste scommesse: come avviene per le guide, qualche giorno prima che escano.
A noi piace, invece, capire e ricordare quali sono stati (se ce ne sono stati) i momenti più significativi dell’anno che sta per terminare.
Il primo è la terza stella Michelin a un cuoco che può davvero scrivere l’evoluzione della ristorazione in Italia degli ultimi decenni, essendone stato uno dei principali protagonisti: Giancarlo Perbellini
Il secondo è invece legato alle condizioni atmosferiche e all’emergenza climatica: i mesi di maggio e di giugno sono stati molto difficoltosi per la ristorazione e questo deve farci riflettere perché non è un caso isolato. Le modifiche del clima (con mesi caldi che si prolungano nell’autunno) determinano anche una modifica delle abitudini alimentari delle persone.
Il terzo elemento significativo è la mancanza di personale. Un aspetto che non riguarda solo la ristorazione ma in questo settore si fa sentire in maniera diretta: meno personale vuol dire meno tavoli, meno consumazioni, minor reddito e minor guadagno. Su questo tema, nel 2024, si sono fatti convegni a decine, interviste a ristoratori, esempi (rari) di locali che non hanno questo problema ma, in generale, non si è riusciti a trovare una soluzione soddisfacente al punto che si inizia a deline-
are la prospettiva più drammatica: il futuro incerto di questa professione proprio nel momento di massimo fulgore espressivo Questo è il problema prioritario da risolvere, prima di cedere ai robot in sala che portano il piatto agli ospiti. Come e cosa fare lo sappiamo bene, grazie alla miriade di parole scritte e dette sull’argomento nel corso dell’anno.
Ora è venuto il momento di agire e noi crediamo che le priorità siano di due tipi: un’adeguata fiscalizzazione con la riduzione effettiva e duratura del costo del lavoro per il settore della ristorazione, dando più soldi in busta paga ai dipendenti e garantendo un trattamento lavorativo consono anche alla qualità della vita, per tutti, dipendenti e titolari.
La seconda, non in ordine di importanza, cambiare la percezione diffusa e dannosa degli istituti alberghieri che, repetita iuvant, sono le uniche occasioni vere di formazione delle persone che intendono svolgere questo mestiere, bellissimo e dannato.
Noi crediamo nel dare valore ai bravi dirigenti, concedere loro un’autonomia concreta legata anche ai territori in cui la scuola si trova ad operare; dare valore ai professori che considerano ancora il loro lavoro come una missione; dare valore ad una scuola, quella alberghiera, adeguando la didattica alla modernità, favorendone le iscrizioni come a una scuola che ti apre le porte del mondo e non lasciandola in balia delle mode televisive; spiegando agli chef che prendono in stage i ragazzi il significato stesso della parola stage e cioè ‘periodo di studio e adattamento per imparare la professione’.
Ne abbiamo di cose da fare nel 2025!!
Le ricerche sul cibo e sull’alimentazione sono sempre interessanti da leggere, anche perché delineano il futuro a cui andremo incontro.
La recente ricerca su I giovani e il cibo, commissionata dalla FIPE a IPSOS, ci offre uno spaccato di come la ristorazione accoglierà i nuovi clienti tra pochi anni, come ha detto Lino Stoppani, da poche settimane rieletto presidente della FIPE: “I cambiamenti richiedono alle nostre imprese la capacità di adattarsi, di apprendere nuove competenze o di reinventarsi professionalmente in un contesto dove le innovazioni tecnologiche rendono rapidamente obsolete molte competenze e dove solo l’educazione è in grado di migliorare il destino delle persone”.
Infatti la ricerca dice proprio anche questo: mangiare fuori casa è una pratica diffusa e molto apprezzata perché ritenuta un modo per uscire dalla propria routine (35%), un’occasione per incontrare amici e persone care (32%) e per gratificarsi mangiando qualcosa di diverso dal solito (32%), anche se il “portafogli” non sempre consente di fare tutto ciò che si vorrebbe (lo pensa il 51% degli intervistati).
Dati che confermano il ruolo della ristorazione come fenomeno sociale che, anche tra i giovani, fa presa. Un buon segnale che necessita però di essere sempre aperti al cambiamento, di adottare un linguaggio che dia al cibo che si offre al ristorante e all’accoglienza ancor più calore ed empatia!
Per il 40% dei giovani intervistati il cibo si lega al benessere, grazie alla freschezza degli ingredienti e alla semplicità delle preparazioni. Per il 35%, invece, cucinare è un modo per sperimentare, esprimere la propria creatività e divertirsi: 8 giovani su 10 cucinano almeno occasionalmente e la metà lo fa regolarmente. Aspetti che contrastano con altre visioni che assegnano all’Italia il palmares di nazione dove l’obesità infan-
Benhur Tondini presidente sala&cucina
benhurtondini@salaecucina.it
tile oggi è un autentico dramma: il 39% dei bambini tra i 7 e i 9 anni è in sovrappeso o obeso, una percentuale ben al di sopra della media europea del 29%. Di questi, il 17% è obeso, circostanza che colloca il nostro Paese al secondo posto tra i più alti livelli di obesità infantile in Europa.
Di chi è la colpa non è ciò che ci interessa sapere. Quello che ci deve stimolare, istituzioni in testa, è avviare una politica di educazione alimentare che deve avere un effetto pratico fin dalle mense scolastiche: non è infatti credibile che si possa considerare un mangiare buono e sano un pasto per cui l’investimento, molte volte, non supera i tre euro di spesa per un pasto completo.
E non possiamo fare affidamento solo sull’intelligenza dei ventenni di oggi, che per fortuna c’è. Dobbiamo creare, per loro, per il loro futuro, condizioni di vita dove la parola precario non sia la prima che imparano quando si affacciano al mondo del lavoro. Anche qui, non possiamo sperare che un cibo sano possa essere consumato tutti i giorni, come sarebbe giusto e doveroso, se non ci sono le condizioni economiche per farlo.
O vogliamo che restino giovani fino a cinquant’anni senza crearsi una vita indipendente dalla famiglia d’origine?
A Cerignola, nel Tavoliere delle Puglie, furono difesi i diritti dei lavoratori della terra in anni in cui i contadini non avevano nessuna possibilità di essere considerati per l’importante ruolo di difensori dei territori.
Non poteva crescere che qui la visione illuminista di Antonio Gervasio, terza generazione di una famiglia che con la terra ha sempre avuto un rapporto di amore al punto che lui stesso si definisce custode della terra.
Un percorso che risale ai primi del Novecento con i nonni caparbi contadini, la mamma Donata De Palma che ha seguito l’insegnamento dei padri con determinazione, convinta che lei dovesse vincere la sfida che si era posta; mantenere in vita l’azienda, farla crescere, garantire ai suoi figli, qualora lo volessero, un futuro in queste terre.
E i suoi figli, Antonio e Donato, hanno scelto di diventare la terza generazione, lo hanno fatto con coscienza, con amore, con rispetto per chi ha tenuto duro, anche in anni dove fare l’agricoltore significava essere tra gli ultimi.
E da qui comincia il racconto di Antonio Gervasio: “La nostra è una famiglia che parte da radici profonde nell’ambito agricolo. Il saper coltivare, essere in grado di riconoscere e gestire con competenza i tempi del lavoro agricolo ci ha permesso di andare avanti, di andare oltre come dico sempre. Queste competenze le abbiamo poi declinate, io e mio fratello, in una qualità che non si percepiva quasi più, in Italia, all’epoca in cui siamo entrati in azienda. Erano gli anni tra l’Ottanta e il Novanta del secolo scorso, anni nei quali il prodotto agricolo era imbustato nella plastica, inscatolato per essere posto in vendita in anonimi supermercati. Noi, invece, volevamo rispettare le nostre materie prime. Ci siamo posti in osservazione, in ascolto, per riflettere sul futuro. Questi approfondimenti ci hanno portato a fare una scelta che, in quell’epoca, era quasi una follia; coltivare, rispettando la terra e le stagioni, e poi surgelare. In quegli anni la surgelazione era considerata come una cosa quasi malsana, mancavano le conoscenze da parte delle persone di come il freddo sia, in realtà, il miglior processo di conservazione degli alimenti. Noi invece volevamo mantenere ferme le proprietà, i colori dei nostri ortaggi e quello era l’unico modo. L’idea chiara era anche quella di individuare un mercato preciso per i nostri prodotti: la scelta, fin dall’inizio, fu quella della ristorazione. Ci chiedevano di coltivare soprattutto quelle verdure spontanee, antiche, che diventavano sempre meno reperibili. E noi abbiamo scelto di percorrere quella strada. Difficile, perché necessitava di un lavoro immane di ricerca dal momento che non c’era quasi più memoria, non c’erano e ancora oggi non ci sono semi né libri scritti che ne consentano una lettura certa ma tutto questo affascinava tutta la nostra famiglia, mia mamma per prima!”
Andiamo con ordine: quando hai deciso di cambiare, di chiamare l’azienda Spirito Contadino e perché?
“Per questo devo ringraziare mio padre Guido che, fin da quando ero piccolo, mi stimolava portandomi con sé nei campi, nei mercati. Mi diceva sempre: andiamo, vieni con me! In quel modo posso dire che ho vissuto l’evoluzione dell’azienda agricola e ho imparato subito che ogni azione che fanno le persone è mossa dal dolore o dal piacere. Noi coltivavamo ma con il dolore che tutti i nostri sforzi finivano solo in mano ai mediatori, ai commercianti, non avevamo più un’identità.
Dare valore alla terra, che oggi è il nostro pay-off, diventava ogni giorno di più la strada per sostituire il dolore con il piacere. Una strada che ci ha permesso si guardare avanti. Da ragazzo, ancora studente, ho sviluppato i contatti con il mondo universitario, con il CNR, con le banche dati custodi dei semi e delle spezie. E ho scoperto subito una cosa: che molti professori che fanno il loro mestiere con passione sono pronti a schierarsi, a sostenerti! Mi hai chiesto come nasce il nome dell’azienda? Da una serie di considerazioni, ad esempio gli chef volevano capire chi era l’anima di un progetto come quello che stavamo sviluppando e noi volevamo far capire, da subito, che eravamo contadini. La parola anima era troppo sfruttata e quindi abbiamo optato per spirito: Spirito Contadino”.
Dimmi chi lavora con te, dove, cosa coltivate, su quanti ettari?
“Stiamo vivendo, per fortuna, una grandissima evoluzione, un salto di crescita eccezionale, frutto di anni di relazioni oneste e di metodi di coltivazione naturali. Oggi in azienda siamo in 120. Abbiamo collaboratori per ogni comparto: dalla coltivazione alla cura e riproduzione dei semi fino al prodotto finito, compreso il marketing, la formazione, la ricerca e la conservazione. Tra i metodi di lavoro amo raccontare quello dei campi specifici per la riproduzione dei semi a cui teniamo moltissimo. Abbiamo varietà di terza generazione come noi: le nostre cime di rapa hanno cent’anni di vita, il loro seme è stato consegnato alla banca del germoplasma ed è
stato identificato con il nome Cime di rapa di Spirito Contadino. In azienda coltiviamo 36 referenze: 17 verdure in crosta di farina di grano e 19 verdure naturali. In fase di sperimentazione ne abbiamo 33 e se consideri che, in Italia, sono quasi 500 le specie in fase di estinzione ti rendi conto di quanto lavoro ci sia ancora da fare. Solo con le nostre 36 specie stiamo facendo un lavoro di ricerca volto a soddisfare i bisogni della ristorazione: creare una verdura dolce, una acida, una amara, una verde, una di altro colore. Guardiamo, in pratica, a tutti gli aspetti che servono nella composizione di un piatto. Questo è il nostro stile, fin dagli inizi, quando con le verdure in crosta di farina di grano, in pezzature piccole, abbiamo dato risposta alla composizione dei vari menu. Tutto questo lo condivido con mio fratello Donato che si occupa delle coltivazioni, mentre a me tocca il compito di promuovere e commercializzare”.
L’emergenza climatica è un problema? Quanto incide sul futuro di questa attività?
“Qui occorre fare chiarezza. Il cambiamento climatico è sicuramente un problema ma occorre capire in quale stagione lo diventa davvero e, per noi, è l’inverno. Inverni dove manca il freddo creano problemi di difficile soluzione per le coltivazioni di quelle stagioni: le cime di rapa, i cavolfiori, i finocchi, i broccoli ecc.. Mentre nelle altre stagioni è sufficiente, per ora, anticipare o posticipare le coltivazioni. Noi lavoriamo su 120 ettari suddivisi in cinque grandi appezzamenti dove facciamo rotazioni
colturali per rispettare la terra, con grandi operazioni di sovescio con i nostri semi che mantengono la fertilità naturale dei terreni”.
Avete, da subito, individuato la ristorazione come mercato privilegiato; come sono stati i primi approcci con gli chef, come reagivano, cosa li ha convinti?
“I primi contatti sono stati con la ristorazione locale che, però, poteva avere le verdure fresche in ogni momento, quindi noi dovevamo dar loro qualcosa di diverso. Abbiamo ricevuto tanti no e pochi si, lo confesso, ma non abbiamo mollato. Abbiamo cercato pervicacemente il dialogo, facendo capire cosa significa surgelato, dando un prodotto pulito, senza sprechi, con verdure che avevano la particolarità di essere quasi uniche perché erano specie antiche, con un food cost stabilito a monte. Parlavamo con una ristorazione di fascia media, con le grandi sale da ricevimento che, in Puglia, sono uno status. Siamo riusciti a convincere gli chef pugliesi e, successivamente, abbiamo affrontato il mercato lombardo grazie agli stessi chef che emigravano. Poi è seguito lo sviluppo verso i distributori che oggi sono 95 in tutta Italia, suddivisi per precise aree geografiche”.
Come avviene il vostro processo di surgelazione?
“Anche qui abbiamo dovuto fare scelte per migliorare ulteriormente passando dalla surgelazione meccanica alla surgelazione criogenica dove le materie prime vengono surgelate in pochissimo tempo a meno 60° gradi, in assenza di ossigeno. È un processo ben più costoso ma anche questo deve essere tangibile per il nostro cliente che ne possa riconosce il valore”.
Nel tuo sito ho trovato due nomi che alludono a precisi progetti: cominciamo con il primo, Conterraneum…
“Conterraneum nasce da una profonda convinzione; coinvolgere tutti gli attori della filiera per raggiungere un obiettivo preciso. Soddisfare i bisogni dell’ospite di un ristorante. Lo sviluppo della filiera felice parte da noi contadini e prosegue con il supporto della ricerca e l’impegno dei distributori e dei ristoratori che divulgano la conoscenza attraverso i piatti al cliente finale. Questo circolo virtuoso di sostenibilità genera prosperità e sviluppo per ognuno, accrescendone anche il successo. Essere Conterraneum significa abbracciare un’esperienza che va oltre il semplice atto di nutrire e nutrirsi: è un invito ad abbracciare il benessere che deriva dal consumo di verdure e ortaggi coltivati con coscienza e rispetto per l’ambiente. Per fare questo tutti i protagonisti della filiera devono essere parte attiva del progetto. I ristoratori creando piatti di eccellente pregio nutrizionale ed etico. I distributori sentendosi valorizzati dall’azienda fornitrice, la nostra, perché ci avranno sempre al loro fianco per spiegare i nostri progetti, le nostre idee”.
E Biofilia cosa significa?
“In questi anni abbiamo visto tante sigle, da biologico a biodinamico per esempio, che hanno segnato cambi di passo nei metodi di coltivazione. Volevamo conoscere bene il biologico e ci siamo certificati ICEA come biologici ma non usiamo questa certificazione, perché ha degli aspetti che non rientrano nei nostri parametri. Ti faccio un esempio: il biologico ammette l’utilizzo del rame con quattro chili per ettaro, a noi ne bastano due. Abbiamo ideato Biofilia per esaltare il legame antico genetico che c’è tra l’uomo e la natura; Biofilia è l’innata tendenza dell’uomo a provare amore per la terra. Tanti lavori sono fatti manualmente, raccogliamo tutto a mano, coltiviamo senza chimica sintetica. È la capacità di rimanere sintonizzati con quella parte di noi che “sa” che siamo natura. È il legame genetico tra uomo e natura che si concretizza con il senso di fiducia, rispetto, amore nei confronti del mondo che ci ha ispirato ad essere contadini per scelta. È la nostra essenza”.
Un’ultima domanda Antonio: le vostre verdure sono state oggetto di una ricerca che ha avuto un’eco mondiale. Di cosa si tratta?
“La ricerca è stata resa possibile grazie a Luigi Giannelli, direttore dell’Ospedale Saverio De Bellis di Castellana Grotte. Ci hanno chiesto di partecipare alla ricerca fornendo le nostre verdure a 40 pazienti che soffrivano di steatosi epatica, la malattia del fegato grasso. Oltre alle verdure la ricerca si concentrava su un medicinale indicao per la cura di questa malattia. Abbiamo portato a
casa dei pazienti, per settimane gratuitamente, il cesto di verdure che loro cucinavano sotto un’attenta e rigorosa attenzione dei medici e il risultato è stato incredibile: la malattia è diminuita del 50% mangiando le nostre verdure. È stata la prima ricerca a livello mondiale per questa malattia”.
Te ne faccio ancora una: il vegetale sta crescendo nella ristorazione?
“Si, sta crescendo in maniera accelerata. Nelle pizzerie, in particolar modo, notiamo un modo di ragionare del pizzaiolo che sta guardando moltissimo alla qualità e alla varietà del topping e le verdure sono un grande aiuto in tal senso. Un’altra categoria che sta prestando molta attenzione è quella dei pub dove si cerca qualità e particolarità nelle verdure. La ristorazione, infine, ci dice che sta cambiando la composizione del piatto, con più verdure e meno carne o pesce”.
Rocco Cristiano Pozzulo Presidente nazionale FIC
Clicca e leggi l’articolo sul web
Tra tutti gli eventi organizzati annualmente dalla Federazione Italiana Cuochi e, in particolare, tra gli eventi dedicati a gare e competizioni, i Campionati della Cucina Italiana rappresentano certamente il fiore all’occhiello delle manifestazioni culinarie. Ne andiamo orgogliosi da sempre, non lo abbiamo mai nascosto, e anzi abbiamo sempre lavorato per la crescita di questo appuntamento dedicato a migliaia di professionisti e che, ad ogni nuova edizione, assume sempre più i connotati di un evento internazionale. Lo riteniamo, infatti, il nostro contributo più importante all’affermazione dello “stile gastronomico italiano” nel mondo delle gare, sempre più apprezzato anche dalle Giurie straniere, come testimoniano recentemente i grandi successi della nostra Nazionale Italiana Cuochi, in grado di conquistare podi e di primeggiare laddove, fino a qualche anno fa, il dominio era quasi esclusivo dei Paesi nordici o asiatici.
Anche l’edizione 2025 dei Campionati sarà di spessore internazionale, quando nelle giornate del 16, 17 e 18 febbraio i padiglioni della Fiera di Rimini, all’interno di Beer & Food Attraction (con cui prosegue una proficua e solida partnership) accoglieranno nuovamente le gare di centinaia di cuochi, con le numerose categorie dedicate e tanta attenzione rivolta ai professionisti della cucina in ogni campo: Cucina calda, per singoli e a squadre; Cucina fredda; Pastry; Mistery box; contest “Ragazzi speciali”; “Street food”; “Giovani allievi”; concorso “Lady Chef” e tanto altro ancora! E poi, dicevamo, altra nota importante assolutamente prestigiosa, la connotazione internazionale dell’appuntamento. Durante le tre giornate FIC, infatti, proprio nel contesto dei Campionati si svolgeranno anche due com-
petizioni di rilievo mondiale, sotto l’egida della Worldchefs, l’organizzazione mondiale dei cuochi che recentemente a Singapore ha rinnovato il suo direttivo e la sua presidenza, riconoscendo all’Italia il suo importante contributo e il suo prezioso impegno. Sul palco FIC, infatti, saranno ospitati la Selezione europea del Global Chefs Challenge, dedicato alle tre aree: Nord, Centro e Sud Europa; e l’European Grand Prix, con le categorie previste: Junior, Senior,Pastry, Vegan. Un risultato, questo, che testimonia la grande stima di cui l’Italia gode oltre i propri confini e che conferma la fiducia di Worldchefs di organizzare i propri appuntamenti all’interno dei nostri eventi.
Ne siamo sempre più convinti, allora: il tanto decantato “sistema Italia” dipende anche da questo, dal celebrare il mondo della ristorazione a cominciare dai suoi professionisti e dalla loro professionalità, dalla voglia di mettersi continuamente in gioco, di scommettersi in competizioni dove gli chef sono certi di incontrare colleghi più bravi con cui confrontarsi, da cui imparare e con cui proseguire lungo il percorso della crescita umana e culturale, oltre che tecnica.
Accanto a questo, infine, aspetto altrettanto fondamentale, la presenza delle aziende partner FIC, che con lo stesso nostro entusiasmo sono presenti ogni anno ai Campionati non come semplici spettatori, ma come grandi protagoniste di un percorso comune: con interventi sul palco, interviste, talk show di approfondimento sulle materie prime e, soprattutto, con quella passione e quell’entusiasmo che contraddistinguono le nostre alleanze, che non sono soltanto commerciali. Compagne di viaggio con cui affrontare sempre nuove sfide, a cominciare proprio da Rimini.
L’accoglienza è un momento cruciale in ogni esperienza. Nel mondo dell’ho.re.ca. il “Welcome” rappresenta il biglietto da visita che trasforma un cliente occasionale in un ospite fidelizzato. Pensiamo al cinema. Prima che il film inizi, ci sono rituali precisi. Le luci si abbassano e il telefono va silenziato. Lo spettatore è accompagnato dolcemente in una nuova dimensione. Allo stesso modo, un ristoratore o un albergatore deve creare un’esperienza coinvolgente ed accogliente fin dai primi istanti in cui l’ospite varca la soglia. I primi 120 secondi sono un momento strategico, quindi da strutturare con attenzione maniacale. L’accoglienza si gioca nei primi 120 secondi dall’arrivo dell’ospite. Molti studi hanno dimostrato quanto questi due minuti siano fondamentali per instaurare un legame emotivo e dare forma a un’esperienza memorabile.
Come rendere questo momento davvero unico? Il Neuroscienziato Paul Zac ha sintetizzato la formula dell’accoglienza in una sequenza di tre numeri: 10 – 10 - 10 I numeri rappresentano i primi 10 gesti, 10 parole e 10 azioni che determinano l’impatto iniziale con il cliente, plasmando il senso dell’accoglienza. La qualità di realizzazione di questa formula è il valore aggiunto del personale di sala.
Le prime 10 parole. Le parole iniziali devono essere pronunciate con calore. Una voce accogliente e rassicurante è il primo passo per mettere a proprio agio l’ospite. Per fare la differenza è essenziale un saluto personalizzato. “Buongiorno e benvenuto, come possiamo rendere speciale il suo pranzo/la sua cena?”. Serve a fornire indicazioni chiare. “Ecco qui, dal qr code o in cartaceo, trova il nostro menu stagionale; mi permetto di consigliarle il nostro piatto del giorno”. Presentarsi da parte del personale di sala fa la differenza. La possibilità di chiamarsi per nome sposta la relazione da funzioni ad interazione tra persone. Si crea un senso di accoglienza unica.
I primi 10 gesti. La comunicazione non è fatta solo di parole. I gesti sono altrettanto importanti per trasmettere professionalità e accoglienza. Grande importanza hanno i movimenti eleganti. Si invita l’ospite a entrare o a sedersi con gesti morbidi, come aprire un braccio per indicare il tavolo o la reception. La postura attiva è fondamentale. Occorre mantenere un aspetto energico e professionale, chi è dinamico e operativo ispira fiducia. E poi il gesto più semplice di tutti: sorridere. Un sorriso sincero è il gesto più semplice e al contempo il più efficace per mettere l’ospite a proprio agio. Una recente analisi realizzata nelle attività di relazione con il pubblico ha dimostrato che in 8 ristoranti su 10 il personale di sala non sorride quando il cliente entra.
Le prime 10 azioni. Un’esperienza memorabile è fatta di dettagli pratici che dimostrano attenzione al cliente. Offrire una cortesia cambia l’esperienza. “È festa, posso offrirvi un drink di benvenuto?”. Fornire assistenza con bagagli, oggetti personali o cappotti, consente di rendere con gesti concreti l’essere a disposizione del cliente.
La sequenza di Zac è semplice e potente. Cura le prime 10 parole, i primi 10 gesti e le prime azioni. L’integrazione armoniosa di parole, gesti e azioni crea una vera e propria “coreografia” dell’accoglienza. Come un ballerino conosce il ritmo della musica, il personale di sala deve interiorizzare queste pratiche, trasformandole in una routine naturale. La chiave per raggiungere la perfezione? Provare, rifinire e ripetere fino a che ogni movimento diventa spontaneo. Ogni ristorante, ed anche ogni reception di hotel del mondo, deve strutturare e curare in dettaglio questo 10 – 10 – 10, rendendolo unico.
Troppo spesso si pensa solo al piatto, dimenticando che ogni esperienza assume senso solo nell’accoglienza.
È sempre più frequente che le cronache giudiziarie portino alla luce il riaffermarsi, in alcuni segmenti della catena alimentare, di alcuni fenomeni che richiamano alla nostra memoria la schiavitù di un lontano passato e che sono riconducibili a quella che è ormai tristemente conosciuta come “moderna schiavitù”. Non ci stupisce più sentire parlare del fenomeno del caporalato che abbiamo conosciuto nel corso degli anni sul territorio nazionale e che evidenzia la condizione lavorativa di giovani immigrati, costretti a lavorare come braccianti agricoli in condizioni disumane. In alcuni casi, le persone coinvolte sono soggetti che non possono lasciare il lavoro a causa di minacce, violenza, coercizione, abuso di potere. Di recente, il fenomeno della schiavitù, e di conseguenza il venir meno da parte dei datori di lavoro del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, si è verificato sui motopescherecci, dove la tecnica di pressione adottata sono la confisca dei passaporti dei lavoratori e le spese di assunzione a carico di questi ultimi, oltre che naturalmente le minacce.
Se da una parte, si può accettare che il mercato imponga agli imprenditori la rigida politica dei prezzi, dall’altra non si può assolutamente concepire che il mercato imponga l’utilizzo di condotte che ledono il rispetto dei diritti umani. E come evitare che ciò accada ancora? La risposta a tale domanda non è semplice, ma un tentativo di trovare una soluzione alla schiavitù moderna potrebbe essere di responsabilizzare, da un punto di vista etico, tutti quei soggetti facenti parte della catena alimentare che fa viaggiare le materie prime fino al loro ultimo stadio (che è il consumo), e quindi anche il “consumatore finale”. È chiaro che un’azienda diventa sensibile a questi temi solo se chi la amministra decide fermamente
Francesco Parrotta Avvocato specializzato in diritto penale alimentare
di creare anticorpi che possano automaticamente individuare il rischio di avere a che fare, ad esempio, con fornitori spregiudicati. Per fare questo, gli stessi amministratori devono essere messi nelle condizioni di farlo attraverso un opportuno corpo normativo e di intervenire in modo decisivo sul problema. In definitiva, il legislatore dovrebbe rendere pubblico un albo di tutte le aziende che adottano programmi di rendicontazione aziendale mirati a evidenziare le migliori pratiche idonee a prevenire il fenomeno in questione. Molte sono le misure che possono essere adottate dalle imprese per contribuire all’eliminazione del fenomeno della schiavitù, ad esempio: ottenere una certificazione etica, partecipare e aderire a organizzazioni di condivisione dati per la verifica dei fornitori (come i suppliers ethical data exchange), mappare la catena delle forniture, valutare il rischio, identificare le parti delle operazioni aziendali e della catena in cui potrebbe verificarsi il rischio, gestire i rischi identificati, revisionare i termini contrattuali e implementare codici di condotta con i fornitori. Insomma, ciò che si deve fare di fronte a questi fenomeni di schiavitù moderna, che espongono l’imprenditore al pericolo di condotte illecite, è sempre la forte motivazione ad essere decisamente etici, capire il reale significato della parola eticità e fare tutto quanto è possibile per l’adozione da parte delle imprese alimentari di una politica mirata all’eticità. Ovviamente, sarebbe anche auspicabile la formazione di gruppi e organizzazioni nella società civile che possano comprendere il grande sforzo di tali imprese nel tentare di scoraggiare la pratica di condotte illecite, come quella legata alla schiavitù e non solo.
Luigi Caricato oleologo
Quante volte si ascolta l’invito a consumare alimenti a km 0. Io, per mia vocazione, non amo rifugiarmi in comfort zone dalle frasi rassicuranti. Anche se per molti il km 0 sembra essere la panacea in grado di placare ogni inquietudine alimentare, sono convinto che qualità e unicità degli alimenti sia la vera chiave di lettura per una scelta saggia e consapevole. Il falso mito dei km non apporta alcun contributo alla conoscenza, non apre la mente, semmai la chiude e la imprigiona. Pensando all’olio extra vergine di oliva, ritengo si debbano accogliere tutte le provenienze, senza escluderne alcuna, siano esse italiane o estere. Quanto all’Italia, resto del parere che un ristorante debba accogliere innanzitutto gli oli del proprio territorio - e guai a non averli - ma nel contempo non può certo rinunciare ad altri extra vergini, magari da alternare mese dopo mese a provenienze differente, offrendo una panoramica ampia, estendendo il campo fin dove è possibile anche ad altri paesi, perfino extra europei. Perché sperimentare fa sempre bene. Incuriosire, suscitando stupore e meraviglia ripaga l’impegno. Un esempio da cui partire? Mi sono imbattuto in queste settimane della nuova olivagione in alcuni oli prodotti in Piemonte, ed è stata una scoperta avvincente. Già conoscevo bene le produzioni piemontesi, anche attraverso la guida, saggia, di Antonino De Maria, agronomo che ha contributo alla rinascita e al rilancio della coltivazione degli olivi anche in Valle d’Aosta. In queste regioni estreme c’è sempre l’effetto sorpresa, dal punto di vista sensoriale. Si resta sbalorditi dalle potenzialità di tali territori non ancora definiti dal punto di vista degli esiti produttivi. Il bello di questa fase interlocutoria delle nuove realtà olivicole incuriosisce, anche perché può accadere di
tutto. Ripartire da areali che un tempo producevano olio, ma che per cause climatiche avverse hanno poi smesso di coltivare olivi, significa poter ricominciare da zero, riprendendo un percorso nuovo, del tutto inedito, non più riconducibile al passato. Il cosiddetto germoplasma - ovvero l’insieme degli olivigni, con le varietà di olivo coltivate secoli fa - non è più recuperabile. Se c’è qualche albero sopravvissuto, è solo una lontana traccia del passato, e proprio per questo si deve ripartire – appunto, da zero, sperimentando. Ed è proprio questa sperimentazione che porta a migliorare qualità e unicità delle nuove produzioni. Dai tanti e differenti olivigni si attende un riscontro in termini di adattabilità all’ambiente. Diventa interessante, per un cuoco, sperimentare tante differenti e specifiche peculiarità sensoriali, a crudo come in cottura. Si potrà così scoprire l’attitudine produttiva di ciascun areale, ricavandone nuove sensazioni, nuove identità. Sarebbe auspicabile accogliere tali oli anche in ristoranti al di fuori del Piemonte, sia per soddisfare la curiosità di vivere nuove esperienze, sia per farli provare ai propri ospiti, sia, nel medesimo tempo, per incentivare la coltivazione in nuovi territori e sostenere con ciò l’impegno degli olivicoltori. L’olivo ormai si coltiva ovunque, anche in Alto Adige, luogo un tempo impensabile. Tra le produzioni estreme del sud Tirolo segnalo quella di un pioniere assoluto, il vignaiolo Josephus Mayr, del maso Unterganzner: a Cardano, alle porte di Bolzano, un maestro che ha fatto tendenza. Mai fermarsi all’ovvio. Ci vuole più curiosità, sempre intenti a cercare extra vergini insoliti ed extra-ordinari.
Nel settore della ristorazione, ogni minuto è prezioso Tra l’organizzazione del menu, la gestione del personale, il controllo dei costi e gli acquisti, trovare del tempo per occuparsi di altro sembra un’impresa titanica.
La nuova funzione Search di ChatGPT, disponibile al momento solo nella versione a pagamento, si propone come un valido alleato per affrontare queste sfide. Grazie a questa funzionalità, ChatGPT può finalmente accedere a Internet in tempo reale e fornire risposte precise e aggiornate su una vasta gamma di argomenti.
Un aspetto cruciale per il successo di un ristorante è saper anticipare le preferenze dei clienti. Oggi più che mai, le persone sono attratte dalle novità: un piatto originale o una proposta di stagione possono fare la differenza tra un locale affollato e uno vuoto.
Grazie a Search, si può scoprire in pochi istanti quali sono le ultime tendenze culinarie e sfruttarle a proprio vantaggio. Se si desidera rinnovare il menu per l’inverno, ad esempio, si possono ottenere informazioni su ingredienti stagionali, piatti di tendenza e persino sui costi medi di un piatto simile in altri ristoranti. Questo consente di pianificare con maggiore consapevolezza, offrendo ai propri clienti proposte fresche e accattivanti senza intaccare la marginalità dell’attività.
Un altro elemento fondamentale nella gestione di un ristorante è la reputazione online. Le recensioni sui portali come TripAdvisor o Google rappresentano ormai il biglietto da visita di ogni attività. Con Search, è possibile monitorare in tempo reale ciò che i clienti dicono del ristorante, individuando subito eventuali criticità o opportunità. Se, ad esempio, molti clienti apprezzano un determinato piatto, il titolare potrebbe decidere di promuoverlo maggiormente. Al contrario, se emergono commenti negativi su un aspetto del servizio, si potrà
Claudia Ferrero
Digital Strategist & Evangelist
intervenire rapidamente per migliorarlo, trasformando una potenziale debolezza in un punto di forza.
Il marketing, poi, è un altro ambito in cui la funzione Search può fare la differenza. Attirare nuovi clienti e fidelizzare quelli abituali è essenziale, ma richiede idee innovative e strategie mirate. Grazie a Search, trovare spunti per promozioni stagionali è un gioco da ragazzi oltre che facilmente scoprire le strategie di comunicazione più efficaci.
Nel mondo della ristorazione, inoltre, essere sempre aggiornati sulle normative è indispensabile. Le regole in materia di sicurezza alimentare, allergeni o incentivi fiscali cambiano frequentemente, e restare al passo può richiedere molto tempo. Con la funzione Search, è possibile verificare rapidamente i requisiti da rispettare o scoprire eventuali agevolazioni a cui si ha diritto. Per esempio, cercare informazioni sui regolamenti per indicare gli allergeni nei menu o sugli incentivi disponibili per rendere il ristorante più sostenibile.
Un esempio concreto dell’utilità di Search potrebbe essere l’organizzazione di una serata speciale per San Valentino. Grazie a questa funzionalità, si può trovare ispirazione per creare un menu romantico, verificare i prezzi medi praticati da ristoranti simili nella propria zona e scoprire idee per decorare la sala. Inoltre, si possono ottenere suggerimenti su come promuovere l’evento sui social media, utilizzando frasi accattivanti e immagini che catturino l’attenzione delle coppie alla ricerca di un’esperienza unica. Tutto questo, senza dover dedicare ore alla ricerca manuale su Internet.
LA RIFLESSIONE
Autrice: Giulia Zampieri
Clicca e leggi l’articolo sul web
Come faccio a farmi scegliere dalle persone?
Sarà capitato più o meno a tutti coloro che lavorano nel settore del fuori casa di ricevere questa domanda da parte di colleghi, clienti (se vi occupate di distribuzione), interlocutori. Una domanda che oggi è sorretta in particolare da due questioni, una numerica l’altra economica.
Quella numerica: a dicembre dello scorso anno negli archivi delle Camere di Commercio italiane risultavano attive 331.888 imprese classificate come servizi di ristorazione. Tantissime. Un po’ meno rispetto all’anno precedente, ma comunque tantissime.
Essere scelti in uno scenario di offerta così ampio nasconde non poche insidie.
A maggior ragione se l’altro fattore, quello di natura economica, segnato da un potere d’acquisto che sta visibilmente calando, spinge verso un ridimensionamento della spesa destinata al ristorante vero e proprio, in favore di occasioni di consumo meno dispendiose e più agili. Al momento parliamo sul percepito, aspettiamo il Rapporto Annuale FIPE del prossimo anno per avere dati certi.
Ma tornando alla domanda iniziale: come si fa a intercettare un papabile cliente? Cosa spinge un single, una coppia, un gruppo di amici, una famiglia, a prenotare proprio in quel ristorante?
I fattori, lo sapete, sono molteplici, a cominciare dal legame affettivo con l’insegna, fino ad arrivare all’estrema curiosità che abita in alcuni clienti appassionati.
Proviamo ad affrontare il tema portando alcuni esempi… domandandoci: tra le variegate modalità di comunicazione e promozione, ce n’è una più efficace?
Andrew Lunardi. Foto: Silvia Meda
il cliente dentro al ristorante
Non andiamo a ripercorrere i cambiamenti più evidenti che interessano la comunicazione online se non per ricordare che la presenza sul web per tantissime attività, non solo ristorative, ha vissuto un prima e un dopo Covid Dal 2020 anche chi non era incline ad utilizzarli ha capito che gli strumenti digitali vale (quasi sempre) la pena averli.
La “detenzione” non è tuttalpiù sufficiente. Se l’obiettivo è, con qualunque mezzo digitale, far entrare le persone al ristorante, ossia convertire l’investimento, dietro ci dev’essere una strategia precisa.
Ce lo dimostra il Ristorante Famiglia Rana a Vallese di Oppeano (di recente assegnazione della stella Michelin) che sta adottando una linea comunicativa molto identificativa, mettendo lo chef Francesco Sodano al centro dell’iniziativa.
È lui il narratore principale e i contenuti, pubblicati principalmente sui social, si concentrano sulla cucina in senso stretto. Quindi sulle preparazioni, sulle tecniche, ma anche sull’origine e la selezione delle materie prime. Abbiamo chiesto a Francesco Sodano di motivarci questa scelta:
“I piatti che compongono i tre menu degustazione sono caratterizzati da una ricerca tecnica che spesso richiede molteplici passaggi e l’utilizzo di tecnologie innovative che ci piace raccontare e mostrare. Accanto al Ristorante Famiglia Rana abbiamo allestito un laboratorio dedicato alla sperimentazione, alle fermentazioni e alle maturazioni, ad esempio, delle carni in cera d’api. È dotato di attrezzature che ci consentono di sviluppare idee e progetti gastronomici
per i nostri piatti, e che hanno alla base una complessità tecnica e di esecuzione che desideriamo valorizzare. Tutta questa ricerca porta però come risultato piatti sempre di facile comprensione, e questo è il secondo messaggio che ci piace sottolineare nei nostri video. Vogliamo raccontare la complessità della preparazione e le sensazioni gustative del piatto, per consentire a chi sta guardando di assaggiare, come dire, virtualmente, la creatività”.
Se avete modo dateci uno sguardo: nei video si adotta un registro narrativo veloce, spigliato, dettagliato, che stuzzica sia l’appassionato sia il cliente meno esperto. Connota il ristorante dando già allo spettatore un’idea di come potrà essere l’esperienza a tavola, rimarcando, senza eccessive elucubrazioni, tutta la ricerca che vi è dietro ogni singola preparazione. La golosità rimane intatta.
Abbiamo chiesto a Francesco Sodano se non vi sia il rischio che il cliente si limiti al godimento virtuale.
“L’esperienza al ristorante va sempre vissuta, non è traducibile solo attraverso delle immagini o delle parole. Ma essere online è fondamentale per un ristorante. Tutti oggi utilizzano il web e i social media come strumenti principali per scoprire nuove esperienze culinarie. Tante persone amano leggere recensioni, guardare le immagini dei piatti, del locale, ascoltare il racconto di chi si è realmente seduto a quella tavola. È insomma un primo biglietto da visita, lo strumento più veloce per comunicare la propria identità. Ma non dimentichiamo la forza autentica del passaparola e il fatto che la capacità di lasciare un ricordo positivo e memorabile sarà sempre il fattore decisivo per costruirne una reputazione duratura”.
Vedo non vedo
Posto che oggi il web e i social sono il principale mezzo con cui un ristorante comunica al pubblico reale o potenziale, e quindi di stili e guizzi creativi se ne possano rintracciare davvero tanti (l’omologazione anche qui, però, sta attecchendo bene), abbiamo trovato particolarmente originale l’esposizione narrativa del ristorante Lemelae di Gallio, sull’Altopiano di Asiago, in provincia di Vicenza. Aperto nel Luglio scorso, è il progetto di Andrew Lunardi, giovane cuoco autoctono (e predatore naturale, lo vogliamo definire così) che sta portando una cucina decisa e profonda, erta per davvero sul territorio e sulle sue risorse.
Indovinate? È proprio su questo che si concentra la comunicazione di Lemelae, lasciando trasparire poco altro in merito al locale e alle altre informazioni che ci si aspetterebbe di trovare online quando si consulta la scheda di un ristorante.
“È un modo di comunicare che abbiamo scelto per dare una vera rappresentazione di noi e del nostro ristorante” ci conferma Andrew.
“La mia prerogativa è cucinare con la natura e con il territorio che mi circonda. Per questo abbiamo deciso di dare valore all’esterno e dare meno visibilità gli ambienti e alle dinamiche interne. Ci concentriamo sui boschi, sui dettagli naturali, sule erbe e sulle bacche, catturando immagini soprattutto fuori dal ristornate. Funziona? Posso dire che i clienti spesso si interrogano su questa scelta e si spingono, incuriositi, a volerci conoscere. Dopo aver intravisto qual è il nostro lavoro decidono di prenotare, poi ancora di approfondire andando a cono-
scere luoghi e produttori a cui ci affidiamo. È una bella gratificazione”.
In un altro articolo di questa rubrica, che indagava le aspettative che anticipano il piacere al ristorante, ci domandavamo quanto fosse rischioso per un locale concedersi troppo al pubblico prima dell’esperienza vera e propria. Andrew spiega come loro, al Lemelae, stiano percorrendo la strada del vedo non vedo, ovvero allettare chi li segue lasciando che sia l’esperienza vera e propria a parlare, come ci raccontava lo stesso Francesco Sodano nel contributo precedente.
“Sono felice di accogliere persone che sanno poco di noi. Penso sia più facile così sorprenderli, evocare in loro delle emozioni. Quando entrano trovano corrispondenza in ciò che abbiamo comunicato sia perché la cucina è strettamente ispirata al bosco e ai produttori locali, sia perché la sala accoglie elementi veri, come fiori ed erbe, e i prodotti raccolti che fermentiamo”.
Per un progetto come quello di Andrew - non collocato in un centro urbano o lungo una rotta ad alta frequentazione - non pare si possa contemplare l’assenza totale dalle cronache, sarebbe troppo rischioso. Ecco perché il passaparola viene supportato da una ragionata comunicazione.
Mentre scriviamo però ci viene in mente un altro indirizzo che ha invece adottato la strada del modico silenzio…
Il Topicco, un ristorantino agricolo situato nel sud marchigiano, su un costone che si affaccia al mare, celato tra
la vegetazione, è una di quelle insegne in cui torneresti ogni fine settimana, o forse anche più. Elena e Alessandro, la coppia che lo gestisce, hanno scelto sin da subito, dall’apertura avvenuta nel 2020, la strada della pacatezza. Sono presenti in punta di piedi sui social, non partecipano a grandi iniziative pubbliche, non postano video, non hanno nemmeno il sito web. Stanno defilati, eppure da loro passano tante persone, di ritorno o per sentito dire. Persone che spesso diventano amici o conoscenti, grazie all’atmosfera distesa e conviviale, oppure rimangono semplicemente clienti soddisfatti e affezionati.
I tavoli in bella stagione sostano nel giardino esterno, mentre nei mesi più freddi sono all’interno, nell’unica sala di una casa colonica restaurata. Elena e Alessandro comunicano praticamente solo quando si è liberato qualche posto a sedere all’ultimo minuto, con uno scatto semplice e le informazioni essenziali per consentire di prenotare. Una mossa inevitabile per un locale che ha un numero esiguo di coperti e tiene aperto solo per pochi servizi a settimana.
Le loro risorse sono principalmente le produzioni dell’azienda agricola, in primis l’olio, e i formaggi auto prodotti, da cui nasce un menu uguale per tutti i commensali (le variazioni sono solo su richiesta). Anche questo raccontano, ma con il contagocce, pubblicando solo di rado qualche foto dei loro bellissimi ortaggi e poco altro. Non sono fanatici degli eventi, delle ‘collab’, non si mostrano mai in foto, non cambiano grafiche a seconda
delle stagioni, non amano le interviste. Si rintracciano soprattutto per passaparola. Abbiamo voluto rispettare la loro volontà evitando, da quando li abbiamo conosciuti, di raccontare fino in fondo cosa offrano, le loro storie e tutte le altre sfumature che riguardano il loro bellissimo progetto. Ma custodiamo gelosamente il ricordo di una bellissima cena… e anche il loro bigliettino da visita.
Non abbiamo citato altre forme di narrazione e/o comunicazione, lasciamo a voi lo spazio. Quest’ultimo esempio però, in netto contrasto con i precedenti, ci aiuta a ribadire un concetto: non esiste un modo ideale per riempire un locale. Ciascuno deve trovare il suo. L’efficacia va tarata in base al luogo, allo stile, al proprio pensiero, alla propria offerta. Ma se dietro alle scelte comunicative, o non comunicative, non c’è autenticità… avete già la risposta.
Autrice: Simona Vitali L'IDEA
Clicca e leggi l’articolo sul web
È un piatto molto richiesto al Caffè La Crepa di Isola Dovarese (CR), dove svetta a in carta da oltre 20 anni sotto la dicitura Tortelli amari all’erba San Pietro, pianta erbacea commestibile dal profumo molto intenso, con note di menta e limone e retrogusto amaro.
La chiamano in tanti modi: erba della Madonna, erba di santa Maria, erba amara, erba della Bibbia, erba di san Pietro... Balsamita major è la denominazione attribuita dai botanici francesi che può mettere d’accordo tutti. Si tratta di un’erba originaria dell’Asia occidentale e del Caucaso, conosciuta da egizi, greci e romani, che ha seguito le peregrinazioni dell’umanità, per cui è entrata dal Mediterraneo per poi diffondersi in tutta Europa - dove è arrivata a essere presente anche in natura-, così come ha varcato l’oceano con i primi coloni americani per diffondersi negli Stati Uniti. Oggi nel nostro Paese la troviamo in Piemonte, in Romagna, nella Marche, in piccola parte in Sardegna e in modo decisamente significativo nell’alto mantovano, a Castel Goffredo (MN). Qui viene categoricamente chiamata erba amara e coltivata ritualmente negli orti di casa, quale ingrediente in-
dispensabile del tortello amaro, di cui Castel Goffredo ha la paternità da tempo immemore. E la peculiarità è che questa tradizione culinaria si racchiude nel raggio di 5 km (Castel Goffredo conta 12.000 abitanti) e non coinvolge i comuni confinanti (Medole, Casaloldo e Ceresara) che riconoscono il tortello amaro come esclusiva della comunità di Castel Goffredo. “Un giacimento gastronomico ben delineato, una tradizione intima ed esclusiva”, come sottolineano, il professor Paolo Polettini e Luciana Corresini, forti sostenitori della causa e autori de “Il gioco dell’erba amara”. Com’è accaduto quindi che un ristorante di Isola Dovarese (CR), sotto il cappello di un’altra provincia (Mantova) seppur chilometricamente non così distante (una ventina di km), proponesse questo peculiare piatto dalle radici ben precise?
L’idea di tre amiche
In un pomeriggio di 26 anni fa tre amiche, Lara, Luciana e Rossandra della Pro Loco di Castel Goffredo nel sorseggiare un tè accarezzano l’idea di organizzare una festa dedicata al tortello amaro, portando “ in piazza un rito molto familiare che proviene dall’orto, perché l’erba amara non la si può comprare, e la selezione di una ricetta tramandata da generazioni, iniziativa in cui qualcuno non ci vede nulla di nuovo: “ I tortelli amari li fanno tutti, dove sta la trovata?” - c’è chi commenta in paese....
Le tre amiche procedono imperterrite secondo i loro intenti preoccupandosi di individuare, attraverso cene fra amici, la ricetta più fedele alla tradizione.
“Trovata la quadra, la prima persona a cui abbiamo chiesto un parere - ricorda Lara Fezzardi – è stata Franco Malinverno de La Crepa di Isola Dovarese Gli abbiamo letteralmente portato in assaggio i tortelli realizzati con la ricetta selezionata. Tenevamo molto al suo giudizio, per la sua professionalità e conoscenza dei migliori prodotti in circolazione”. La risposta è arrivata come una grande spinta: “Dovete crederci, dovete andare avanti!”.
È il 15 giugno 1996 quando prende il via la prima festa del tortello amaro di Castel Goffredo, presso il parco La Fontanella, a cui segue una seria riflessione sul vino da abbinare, con tanto di tour per le cantine mantovane insieme ad alcuni sommelier. La scelta cade su un garganega vinificato in purezza, che rimane il vino di riferimento per la degustazione del tortello. Negli anni a seguire la festa viene riconfermata sempre a metà giugno (periodo in cui l’erba raggiunge il suo apice aromatico) e prende a poco a poco piede. Nel frattempo si innestano anche occasioni di promozione del tortello amaro fuori da Castel Goffredo, dalla festa del vino novello a Treviso alla Festa medioevale di Volta Mantovana fino al prestigioso Festival della Letteratura di Mantova, un momento di grande visibilità che si perpetra negli anni. Occasione che porterà la Pro Loco a incontrare il professor Paolo Polettini, docente di sociologia alla Facoltà di teologia di Mantova, membro dell’Advisory Board della Facoltà di Economia di Padova e membro del comitato organizzatore del Festival della Letteratura di Mantova, capace di un contributo che darà completamento e sistematizzazione al bagaglio di informazioni e testimonianze raccolti in materia di balsamita major e tortello amaro. E pure un ulteriore slancio, in direzione di altri utilizzi possibili della balsamita major, per cui si presta assai, come si evince nel libro scritto a quattro mani, Il gioco dell’erba amara, con Luciana Corresini, una delle tre ideatrici della Festa del tortello amaro di Castel Goffredo. La scoperta che la balsamita, che in alcuni periodi la storia ha un po’ dimenticato, è stata conservata nelle pasticche rinfrescanti di Santa Maria Novella, messe a punto da a inizio 1600 da Fra Angiolo Macussi e prodotte ancora oggi dall’Officina di Santa Maria Novella di Firenze, apre la Pro Loco ad una serie di informazioni complementari su un ulteriore utilizzo, in questo caso officinale, della balsamita, mentre lavora sulla valorizzazione di quest’erba in cucina.
Creare un’economia intorno a un tortello
Il tortello amaro è stato riconosciuto dalla Regione Lombardia come Prodotto Agroalimentare Tradizionale e nel 2016 è entrato a far parte della Comunità del cibo di Slow Food. E pure non ha mancato di farsi conoscere a manifestazioni di rilievo come Golosaria, La Biennale di Venezia ma anche da personaggi come Giovanni Rana e cuochi stellati. C’è poi stato l’approdo in tv con la Prova del cuoco, Geo&Geo...
La festa del tortello amaro di Castel Goffredo è sentita dai castellani, che fanno a gara a conferire erba amara per l’imponente preparazione di tortelli (ne occorrono 25/30 kg). Il vivaista locale Zagni si è organizzato per la produzione di piantine da trapiantare, che tra l’altro la Pro Loco porta con sé quando va a fare promozione nelle altre regioni.
È stato individuato un laboratorio artigiano, Il pastaio Agostino, in grado di produrre i tortelli della festa ma anche di assicurare il prodotto tutto l’anno, nel rispetto della ricetta tradizionale con le sue caratteristiche irrinunciabili, a patire dalla qualità della pasta, la forma tradizionale ecc…
Da anni si è creato un circuito di ristoranti che propongono questo piatto in modo continuativo. Segnali, questi, che è stata messa in piedi un’economia a partire da una Pro Loco, che ha saputo muoversi con intelligenza, sempre sostenuta dalle amministrazioni comunali che si sono succedute.
Castel Goffredo è storicamente conosciuto come città delle calze (sono oltre un centinaio le industrie che
producono calze da donna e abbigliamento intimo). Ora, per dirla con le parole del professor Paolo Polettini: “Lara, Luciana e tutti gli altri della Pro Loco hanno preso molto sul serio il tortello amaro, ne hanno fatto un baluardo contro lo strapotere delle calze da donna e dell’intimo, come prodotti immagine della loro città nel mondo”. Lo hanno fatto a tal punto, aggiungiamo noi, che oggi in quel comune svetta un secondo cartello, oltre a quello di città delle calze: Città del tortello amaro di Castel Goffredo.
Sin dall’inizio la famiglia Malinverno de La Crepa c’è stata, ha non solo incoraggiato ma anche sostenuto per prima l’impegno della Pro Loco di Castel Goffredo, ben comprendendo che c’erano tutte le condizioni per riuscire nell’intento, per la serietà di un approccio che ha fatto leva sul fare ricerca.
“Mio padre – ricorda Federico Malinverno, oggi patron de La Crepa – ci ha creduto quando la tradizione
era fuori moda, quando si stava pensando al ristorante solo come cucina francese. Già dalla prima edizione della festa ci hanno coinvolto e poi abbiamo sempre collaborato a diverse delle iniziative che sono seguite, oltre a proporre il tortello amaro sistematicamente nel nostro locale. Recentemente lo abbiamo portato, questa volta anche nella variante della pasta verde, al Salone del mobile. E in generale quest’erba ci ha ispirato e ci ispira tantissimi usi, tra polpette, frittate, primi, per via di quel tocco che cambia decisamente il piatto. Papà ci ha fatto pure il gelato alla stracciatella, con erba amara e cioccolato, ricetta pubblicata sul libro “Il gioco dell’erba amara”. Ma il piatto principe resta quel tortello amaro all’erba di San Pietro, in carta ininterrottamente da oltre un quarto di secolo, questo sì un premio, che oltrepassa le barriere dei cambi di gusto periodici...un bel mistero anche questo.
“Coltiviamo la balsamite nel nostro orto – ci racconta Franco Malinverno - e inseguendo la stagionalità, proponiamo il tortello amaro dalla primavera fino a settembre, quando subentra il tortello di zucca”.
Una sfoglia sottilissima racchiude un ripieno a base di bietole aromatizzate in padella con salvia, cipolla e aglio , arricchito di uova, Grana Padano grattugiato e noce moscata, a cui giusto un trito di erba amara fresca, sapientemente dosata (si ragiona in numero di foglie), conferisce un gusto così elegante ed equilibrato che si imprime nella memoria, innnescando il
Da sinistra Federico e Franco Malinverno. Foto: Fabio Furlotti
desiderio di ritrovarlo.
E il fatto che diversi clienti lo di richiedano con frequenza ne è la conferma.
“L’Amministrazione comunale di Castel Goffredo –racconta Franco - ci ha dato facoltà di usare la stessa denominazione di tortello amaro nonostante siamo fuori zona, proprio per il rapporto che si è instaurato fra noi nel corso degli anni”. Una bella storia, questa.
Autrice: Marina Caccialanza
“Quando qualcosa ti sembra brutto - un’idea o un piatto, qualsiasi cosa - se riesci a trovare il giusto equilibrio vedrai che ti piacerà. L’equilibrio ti folgora e tutto appare sotto la veste migliore” (Jacopo Chieppa)
A Jacopo Chieppa, chef trentatreenne che dopo soli 10 anni di attività ha conquistato la sua prima stella Michelin, piace dare un nome alle cose. “Il nome è la chiave di tutto – afferma – mi piace dare un nome, ai figli come ai locali, scegliere quello che mi sembra più adatto e pieno di significato. Il nome è importante perché identifica, esprime unicità. Quando ho aperto la mia pizzeria l’ho chiamata Kilo, semplice, intuitivo ed immediato. Equilibrio per il ristorante è stata una scelta naturale, elegante per la mia idea di gastronomico, lineare: il locale si trova sul confine tra Imperia e Dolcedo, quasi sospeso tra due realtà, il parcheggio a Imperia, l’edificio a Dolcedo, in mezzo un ponte del ‘500, in equilibrio tra due mondi. Era il nome perfetto”.
Già da queste parole si intuisce che Jacopo Chieppa non è un personaggio qualunque. L’intensità del suo modo di esprimersi, la profondità dei suoi pensieri, la sua storia rivelano una mente e una personalità oltre gli schemi. Forse è proprio questo che ci vuole per emergere, o almeno, anche questo.
Nasce in una famiglia di costruttori, madre professoressa, fratelli laureati: Jacopo studia da geometra
perché l’idea è quella di seguire le orme paterne: “Sono il più piccolo di quattro fratelli, mia madre teneva molto all’istruzione e ho dovuto impegnarmi negli studi. Poi, a 22 anni, durante un soggiorno in Australia insieme a Melania - la mia compagna di vita e di lavoro, stiamo insieme da quando avevamo 17 anni - dovendo condividere le faccende domestiche con un gruppo di amici, mi sono trovato davanti alla scelta tra lavare i piatti e cucinare per tutti. Scelsi di cucinare. Fu una fulminazione, intuii le potenzialità creative dell’azione e pensai che non mi sarebbe dispiaciuto continuare. Amo la musica, mi piace scrivere, istintivamente compresi che cucinare poteva essere un modo per esprimere la mia creatività”.
La cucina, amore a prima vista, dunque, per un giovanissimo Jacopo in cerca della sua strada nella vita Tornato in Italia si getta a capofitto nel mondo della ristorazione: “Avevo tanti progetti, ma confusi. Mi piaceva l’idea di apprendere qualcosa non dai libri ma dall’attività pratica, lavorando, imparando dai migliori. Proposi la mia collaborazione e cominciai a lavorare nelle cucine, tra cui quelle di alcuni ristoranti stellati, cercando di assorbire ogni dettaglio, ogni lezione, finché venni accettato nella cucina del tristellato Mirazur, dello chef Mauro Colagreco”. Un percorso formativo importante, sul campo, come piace a lui, così esuberante ed entusiasta. Un periodo duro e impegnativo ma Jacopo assorbe ogni lezione che la vita gli mette davanti con determinazione, con intelligenza. Dopo un po’ si trova davanti a una svolta: restare e fare carriera all’interno del Mirazur oppure tentare la sorte e inseguire un sogno.
Nasce Kilo, sul lungomare di Imperia, una pizzeria che si afferma ben presto: “Ero saturo dei ristoranti Michelin, stanco di vedere mia moglie troppo poco, volevo mettere su famiglia. Per me la famiglia è tutto, senza di essa il lavoro non ha senso”.
Poteva fermarsi lì? Lui così vulcanico e intraprendente? Assestato il ménage familiare, oggi completato dalla nascita di due splendide bimbe, arriva l’occasione tanto attesa.
“Aprire la pizzeria – racconta Jacopo – è stata la mossa che mi ha fatto capire di essere sulla strada giusta. La mia città mi ha accolto a braccia aperte e ha compreso che ero uno di loro. Il boom della pizzeria mi ha permesso anche di raggiungere una buona stabilità economica e questo mi ha consentito di fare il passo: a 29 anni ho comprato il locale che ospita Equilibrio”.
Inizia una nuova fase della vita di chef Jacopo Chieppa, quella fase che lo porta dritto alla stella Michelin, ottenuta quest’anno, e così definisce il risultato: “Un sogno divenuto realtà. Equilibrio è piccolo, accogliente, l’unica stella per la città di Imperia, una piccola mosca bianca in una regione difficile come la Liguria. I cittadini di Imperia hanno riconosciuto in me uno di loro e essere diventato un punto di riferimento per la mia città è per me motivo di orgoglio. Melania e io ci occupiamo in prima
persona di tutta la gestione e dei 14 dipendenti, abbiamo impostato un sistema imprenditoriale all’antica, lavorando duro, ma è proprio questo quello che ci piace. Credo di essere in debito con la vita che mi ha dato tanto e cerco di esserne degno”.
Fare quello che piace con entusiasmo e volontà, una filosofia di vita che non concede distrazioni, dichiara Jacopo: “La stella è un traguardo ma ora dobbiamo mantenerla. Non possiamo deludere le persone”.
Qual è il segreto della cucina di Jacopo Chieppa è difficile a dirsi; forse è proprio quel tocco creativo che stupisce appagando i sensi, è il suo modo passionale di esprimere sensazioni che si tramutano in gusto. Forse è l’inaspettato che fa capolino tra sapori e aromi. Oppure è l’equilibrio che riesce a ottenere miscelando con passione e ricerca ingredienti e stili. Nessuna carta da cui scegliere “perché con un solo piatto non si può capire un concetto di cucina che va oltre il menù”. Due percorsi degustazione definiti: Identità ed Evoluzione, dove suggerisce le infinite varianti che dalla tradizione del territorio portano ad esplorare nuove interpretazioni. Come Pesto, un simbolo del territorio che diventa un dessert: “Mi piace cucinare tutto ciò che mi stimola. Non ho un ingrediente preferito. Più che un cuoco sono una persona estroversa. Non sono legato a un piatto in particolare e amo la cucina ligure ma conta anche il mio punto di vista. Per esempio amo il pesto che è espressione tipica della mia terra ma penso anche che non si debba fermarsi agli schemi e pertanto ho concepito un ‘pesto’ che diventa un dolce, e ho creato un cremoso al basilico con olio EVO, gelato al pinolo e Parmigiano 32 mesi”.
Perché fermarsi agli schemi, concreti o mentali che siano? L’Equilibrio è in ogni cosa, basta saperlo cercare.
Clicca e leggi l’articolo sul web
Autrice: Simona Vitali
Un’abitudine acquisita, una sorta di rito, che apre le danze al Natale milanese giusto quando dicembre fa capolino. È questa l’impressione, osservando i visitatori che a fiotti si incamminano col passo deciso di chi sa bene cosa deve fare, lungo il viale del Centro Esposizioni di Novegro, in zona Linate, verso l’atteso appuntamento di Re Panettone. Un pubblico di consumatori in veste di “degustatori”, perlopiù milanesi ma non solo, impegnati nella propria personale missione: individuare il panettone e, più spesso, i panettoni preferiti per il proprio Natale fra quelli in mostra e, dopo averli assaggiati tutti, acquistarne uno, due, tre e anche più e accatastarli incrociando le maniglie a formare una pila da passeggio, portata come il sacco di Babbo Natale, o più semplicemente porli nei borsoni da spesa del supermercato.
Un’abitudine che si sta consolidando, come dicevamo, dal momento che si perpetra da ben sedici edizioni. Era il 2008 quando Stanislao Porzio, che aveva da
poco pubblicato la più completa monografia sul dolce milanese per eccellenza, ha ideato Re Panettone per celebrare il grande lievitato.
Solo ingredienti naturali
Col sopraggiungere delle prime prevedibili imitazioni, perché a copiare c’è sempre molta abilità, la manifestazione segna uno scatto, connotandosi ulteriormente: i panettoni ammessi dovranno essere solo artigianali e realizzati con ingredienti rigorosamente naturali (nel senso di come si trovano in natura o perché hanno subito solo una prima fase di lavorazione fisica, cioè meccanica e/o termodinamica come per farina, burro e zucchero), evitando additivi e semilavorati I pasticceri interessati a partecipare si impegneranno a dichiarare il loro allineamento a questa filosofia della naturalità. Tutto questo in uno scenario in cui si tratteggia una mortificazione dell’artigianalità, sempre più aggirata da un’infinita gamma di semila-
vorati, preparati industriali – spesso anche di buona qualità quindi da non demonizzare – che semplificano enormemente il lavoro del pasticcere, andando a uniformare dal nord al sud dell’Italia il prodotto che ne risulta, per cui diventa indifferente il dove lo si acquista. In questa fase prenatalizia l’esempio dell’utilizzo di “mix” per panettone (preparato industriale che ha dentro buona parte di ciò che serve per realizzare il prodotto) calza a pennello, di contro al lavoro certosino che passa dalla realizzazione di un panettone veramente artigianale, che comporta passaggi su passaggi a partire dalla gestione e cura del lievito madre da rinfresco.
Non è bello, per un consumatore, trovarsi disposto a spendere qualcosa di più e accorgersi che in quel che ha acquistato non c’è nulla di artigianale. Purtroppo infatti, nella nostra legislazione non esiste differenza fra un pasticcere che ha tutte le competenze del mestiere e un semplice assemblatore di ingredienti. Entrambi sono definiti “pasticceri artigianali” (per questo nel 2017 è nata la certificazione Re Panettone, una garanzia estesa a tutto l’anno ai lievitati che recano il bollo di certificazione, per le pasticcerie che si vogliono tutelare). Ma c’è un’altra preoccupazione, stavolta lato pasticcere, che suona come un campanello d’allarme: la strada della semplificazione porterà inevitabilmente a far svanire la sua professionalità, ovvero quel bagaglio di conoscenze professionali alla base della pasticceria.
Da qui la decisione di Porzio, nel 2022, di fondare un’associazione senza scopo di lucro, PAART, Movimento per la Pasticceria d’Arte, per promuovere la pasticceria che utilizza solo ingredienti naturali. Questo consente, da un lato, di non dimenticare la professionalità del pasticcere e dall’altro di realizzare prodotti sempre meno nocivi per la salute (i semilavorati fanno spesso uso della chimica che, in alcuni casi, può danneggiare la salute). L’associazione si impegna anche ad essere attenta verso coloro, e oggi non sono pochi, che hanno patologie e intolleranze alimentari, attraverso lo studio di ricette adeguate, in collaborazione con la cattedra UNESCO di Napoli
Nella convinzione che in simili casi la comunicazione sia più efficace quando passa attraverso il palato, PAART ha scelto di arrivare alla gente, facendo tappe per l’Italia, attraverso laboratori, dimostrazioni, degustazioni tenuti da propri pasticceri associati, sia in materia si pasticceria d’arte (fare pasticceria solo ingredienti naturali) che in materia di pasticceria salutista (dolci a basso o nullo contenuto di zuccheri fruibili anche da chi è affetto da patologie). A PAART possono
aderire professionisti di del settore ma anche semplici appassionati.
Per soddisfare le richieste di approfondimento pervenute da più parti, l’associazione ha pensato di organizzare un ciclo di quattro incontri, denominati Gli Imperdibili, con figure di rilievo assoluto nel mondo dell’alimentazione e della ricerca, calandoli dentro la cornice di Re Panettone. Una preziosissima opportunità per tutti.
Un viaggio nel cuore del panettone con il professor Carlo Gronchi
Così un tecnologo alimentare, microbiologo e cultore del lievito madre di fama quale il dottor Carlo Gronchi, ha fatto rilevare come il mondo dei lievitati piuttosto di recente si sia aperto alla pasticceria fuori dal nord Italia e questo abbia favorito una contaminazione tra nord e sud, laddove il sud ha portato in dote al comparto una bella componente fantasiosa e quel sapere che è frutto di una stratificazione di contaminazioni legate alla storia di quei territori, con l’introduzione, ad esempio, di aromi che al nord non è così facile trovare nei panettoni (come piccolissime quantità di bergamotto per dare una nota agrumata che si può sposare con altri profumi agrumati).
Alla luce di questa apertura il panettone è diventato un
prodotto di punta su tutto il territorio nazionale, che all’estero ci stanno invidiando. Siamo quindi di fronte a una congiuntura estremamente positiva per questo prodotto, la cui emergenza all’attenzione del mondo è certamente dovuta al contributo che ha dato il Maestro Achille Zoia. Nell’accompagnare il pubblico nel cuore del panettone, il dottor Gronchi non ha potuto non soffermarsi sul lievito madre, l’oggetto di studio della sua vita, sottolineandone, fra gli altri aspetti, il fatto che esercita un’azione detossificante anche nei confronti delle micotossine troppo spesso rilevabili anche nei grani e quindi presenti nelle farine, seppur in concentrazioni per fortuna, almeno in Italia, molto basse. Inoltre aumenta la digeribilità delle proteine, in particolate quelle del glutine e ne riduce il potenziale allergenico e la portata delle reazioni nelle persone intolleranti. Infine la messe di sostanze specifiche che è in grado di accumulare nelle paste esercita una importante azione antifungina e antibatterica capace di prolungare di molto la shelf-life dei prodotti. Anche la questione delle farine non è indifferente: quelle con troppo glutine o con eccessiva quantità di proteine rischiano di rendere la pasta gommosa. Pasta che deve essere scioglievole cioè sciogliersi in un tempo abbastanza breve, lasciando in bocca tutti gi aromi che ha in seno, sia quelli idrosolubili che quelli liposolubili. E neppure dev’essere bagnata o pastosa, cioè appiccicarsi ai denti o al palato anziché sciogliersi. Altra nota: in un buon panettone il dolce dev’essere ben bilanciato. Troppo zucchero perverte il gusto, altera la capacità di sentire i sapori, li maschera. Ci sono pasticceri che hanno cominciato a muoversi in questa direzione. Una sconfinata conoscenza e la capacità di rendere semplice ciò che è difficile, oltre al coraggio di prendere una posizione come l’affermare: “Cosa ne penso dei
mix? Che siano un attentato a un prodotto di prestigio di una nazione”. Questo è il dottor Carlo Gronchi.
Panettone e dieta mediterranea
secondo la dottoressa
Annamaria Colao
A chiudere il ciclo di incontri Gli Imperdibili, nel corso di Re Panettone, una figura straordinaria per spessore e carisma, la professoressa Annamaria Colao, ai vertici della lista dei Top Italian Scientists e Top Woman Scientist Italiana, Direttore della cattedra UNESCO per l’educazione alla Salute e allo Sviluppo Sostenibile, il cui obiettivo di non piccola portata è “promuovere la salute della popolazione agendo sui fattori culturali, nutrizionali e ambientali”.
“Mi si chiede- esordisce la dottoressa Colao - se possiamo mettere insieme il panettone con la dieta mediterranea, e io chiedo a voi: ‘Pensate di seguire i dettami della dieta mediterranea?’. Alzi la mano chi crede, quando fa la spesa, quando organizza la cucina, di essere in linea con i dettami della dieta mediterranea”.
Fra il pubblico solo una persona alza la mano.
“Come si può notare – prosegue – di questa dieta mediterranea se ne parla, se ne parla, ma la gran parte delle persone non segue o meglio è convinta di non seguirne i dettami. Intanto ci tengo a precisare che la dieta mediterranea, a parte il fatto di essere una dieta povera, che viene dall’agricoltura (prodotti che derivano dalla terra), ha un’altra caratteristica che è quella della socialità, ossia vuole che l’uomo sia all’interno di un contesto con altri simili perché favorisce il nucleo fondante dei clan, delle famiglie, delle città, dei villaggi. Non si mangia da soli, questa è una delle basi della dieta mediterranea, cosa che non viene mai detta perché di solito si traccia l’immagine della piramide: tutti i
giorni esercizio fisico, acqua, cerali meglio se integrali, vegetali, poi pesce ...ma non si parla anche delle altre caratteristiche. Alla luce di questo un dolce come il panettone in un periodo preciso dell’anno ci sta benissimo nella dieta mediterranea perché rappresenta la socialità, la convivialità, lo stare insieme. L’osservazione da fare però è che il panettone di oggi è piuttosto lontano da quello che era il panettone delle origini, cioè un pane arricchito, proprio perché doveva servire a festeggiare determinati periodi dell’anno. Quel panettone, perfetto nella dieta mediterranea, era molto molto meno calorico di quelli che stiamo portando avanti oggi. Questo per dire che in un qualche modo noi dobbiamo bilanciare quello che abbiamo intorno a noi con quello che ognuno di noi può permettersi di fare. Quindi, il panettone può stare nella dieta mediterranea? Sì, soprattutto se ci ricordiamo perché è nato il regime nutrizionale mediterraneo, che è molto più di una dieta (povera durante la settimana con un pranzo domenicale che contempla eventuali dolci), è uno stile di vita che va da quando ci svegliamo la mattina a quando andiamo a dormire la sera, che prevede che non utilizziamo così tanto l’automobile, che non arriviamo a parcheggiare sotto l’ufficio e prendiamo l’ascensore... anche questo è dieta mediterranea, non è solo quello che mangiamo. Così come il non fare tardi la sera, perché a una certa ora scatta la melatonina, che deve salvaguardarci dal diabete. Se stiamo ancora svegli durante la notte ci perdiamo questo vantaggio e a distanza di tempo paghiamo il prezzo. La via davanti per chi non riesce a bilanciare la propria macchina è che la macchina si rompe e a quel punto non si può tornare indietro. Fino a quel momento invece ci è dato di porre rimedio, reinstradandoci. Con l’associazione a cui Stanislao ha dato vita stiamo lavorando per cominciare a ragionare di dolci che
vadano al risparmio dello zucchero, che cerchino di dare la felicità di una conclusione di pasto dolce, senza pagare il prezzo di una golosità che ci porta ad avere una riduzione della salute. Quello che mettiamo in bocca si trasforma in noi stessi. Tutto ciò che ingeriamo diventa noi quindi se ingeriamo cose non buone, non giuste, ci trasformiamo noi stessi in qualcosa di non buono e non giusto. Non ci precludiamo nulla, quindi ben vengano anche tutti questi panettoni così buoni, però ognuno deve sapere qual è la finestra che la propria macchina gli permette di utilizzare”.
Non c’è molto da aggiungere, se non che l’incontro si è perpetrato ad oltranza mantenendo questo stesso tenore. Non pensiamo che i privilegi siano chissà cosa e si manifestino chissà dove. Privilegi sono momenti come questi, preziosi e irripetibili.
Categoria Panettone
1° Roberto Pastry & Bakery, Chiavenna (SO); 2° Pasticceria La Gioia, Taranto; 3°Pasticceria Ascolese, S. Valentino Torio (SA)
Categoria Lievitato innovativo
1° FraGrante/Cooperativa Griot, Carmiano fraz. Magliano (LE);
2° Premio, Armando Pascarella, San Felice a Cancello (CE);
3° Premio, Cappiello, S. Maria Capua Vetere (CE)
Tutti i migliori ingredienti più uno... la nostra autentica passione
Rispetto per la stagionalità delle materie prime, “dalla terra in cucina”, dalla raccolta alle preparazioni sapienti, prodotti gustosi e freschi direttamente nelle tue mani. Un’attenta selezione di funghi, carciofi, pomodori, peperoni e altre specialità conservate in innovative confezioni... questo è il segreto di Demetra perchè ogni pizza diventi straordinaria.
demetrafood.it
Autrice: Simona Vitali
Siamo in attesa di quella che il ministro Valditara ha annunciato come una “grande campagna di orientamento scolastico” per cui ha recentemente firmato un decreto che destina 136.147.500 euro per l’orientamento alle scuole secondarie di secondo grado, perché i ragazzi possano “fare scelte consapevoli funzionali alla piena realizzazione dei loro talenti e delle loro potenzialità”.
Lo invochiamo da diversi anni un orientamento scolastico strutturato, importante, che si imponga all’attenzione, con la funzione di far capire finalmente le potenzialità di scuole professionali come l’istituto alberghiero, di riferimento per tutte le professioni dell’accoglienza e della ristorazione. E non abbiamo mancato di riportare, nel corso del tempo, iniziative virtuose, frutto di grande capacità di visione che hanno preso forma per mano di dirigenti scolastici più illuminati di altri. Idee pronte all’uso, da prendere e semplicemente estendere a una platea più ampia, grazie a una maggior forza economica e di diffusione. Ma si sa che, almeno fin qui, non c’è stata troppa bravura a prendere spunto da modelli virtuosi, già sul piatto d’argento. Peccato!
Speriamo cambi la tendenza.
Riavvolgendo il nastro, il ministro ad ottobre ha comunicato di avere deciso di coinvolgere le imprese per raccogliere informazioni sui settori con le migliori prospettive occupazionali e altre specifiche di cui avrebbe messo al corrente le famiglie. Detto e fatto, giusto a fine novembre è stata inviata una lettera a tutti i genitori dei ragazzi che delle scuole secondarie che si apprestano a fare la grande scelta, per fornire loro “informazioni il più possibile complete e aggiornate” per la prosecuzione degli studi. Li si è informati della disponibilità di un consiglio orientativo, documento in cui il docente darà indicazioni sul possibile percorso scolastico, della possibilità di accedere a una guida sul panorama dell’offerta formativa e statistiche su ITS e prospettive lavorative dei diplomati (grazie al contributo con le principali Associazioni di Categoria dei diversi settori occupazionali). Ok le azioni sulla famiglia, ok il potenziamento di stru-
menti in seno alla scuola, ma la domanda è se siano previsti messaggi che arrivino al cuore dei ragazzi (che comunque devono restare parte attiva della scelta), ad esempio campagne televisive e radiofoniche istituzionali, e quindi nazionali, dedicate ai singoli indirizzi con l’intento di restituirgli dignità, mostrandone la bellezza prima che i dati. Questo per iniziare a cambiare la percezione di certi professionali...a partire dagli alberghieri. Non basta affermare che queste scuole non sono di serie B e debbano essere di serie A come le altre. Bisogna essere capaci di tirarne fuori i motivi attrattivi. E farlo in modo acchiappante, con un linguaggio che non è e non può essere il nostro, di noi adulti, per intenderci.
E qui non possiamo non ricordare lo sforzo affrontato, già anni fa, da alcuni dirigenti scolastici, Daniele Santagati dell’Istituto Datini di Prato e Paolo Aprile del Polo tecnico del Mediterraneo di Santa Cesarea, che sono riusciti a far realizzare uno spot televisivo, ognuno per il proprio istituto, e a veicolarlo sulle tv locali. E infine facciamo attenzione, che non ci siano forzature, che non ci siano imposizioni, che ci sia un modo intelligente di affiancarsi ai ragazzi nelle scelte, che non si abbia troppa fretta di spingere su un ITS che ai loro occhi è ancora lontano e informe, perché da che mondo è mondo, a insistere troppo li si perde.
Clicca e leggi l’articolo sul web
Autore: Guido Parri
Un nuovo brand si affaccia sul mercato in queste settimane: il suo nome è DoGusto, si tratta di un marchio privato commercializzato in esclusiva dalle aziende di distribuzione del gruppo Cateringross In questo brand sono racchiuse, per ora, tutte le eccellenze che servono a fare della pizza, dal nord al sud dell’Italia, un alimento sapiente, sano, gustoso e ricercato. Farine, pomodori, oli e diverse tipologie di topping, dai salumi e formaggi DOP ai carciofi italiani e alle conserve vegetali, compongono il catalogo di DoGusto che si può vedere sul sito dogusto.it
Per le farine c’è un’ampia selezione ottenuta dalla macinazione e abburattamento di grani accuratamente scelti, lavati in acqua e macinati lentamente per non deteriorarne le caratteristiche. Dal chicco, durante la molitura, viene estratto il germe di grano, stabilizzato per evitarne l’irrancidimento dovuto al contenuto di nutrienti, e reinserito nella farina madre. Questo permette di ottenere prodotti più friabili e gustosi.
Per i pomodori si passa dai datterini rossi o gialli in succo o in semidry al San Marzano DOP, un prodotto delicatissimo e di alta qualità, coltivato nelle terre di San Marzano sul Sarno, in provincia di Salerno. È una delle varietà di pomodoro più apprezzate in Italia e nel mondo. Si distingue per la polpa densa, di colore rosso intenso e per la una buccia facilmente rimovibile a maturazione completa. I Pomodori pelati interi San Marzano DoGusto corrispondono a tutte queste caratteristiche.
Per non parlare dei topping di salumi e formaggi che vedono diverse proposte legate alle denominazioni d’origine come Parmigiano Reggiano Dop e Grana Padano DOOP, Gorgonzola DOP, Taleggio DOP a latte crudo, Mozzarella di Bufala Campana DOP e mozzarella maltagliata di latte intero proveniente dalle zone vocate del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano. I salumi DoGusto sono il Prosciutto di Parma riserva rara 30 mesi DOP, il Prosciutto San Daniele DOP, un Prosciutto Iberico, la Pancetta Piacentina DOP, solo per citarne alcuni.
Passando al mondo vegetale troviamo creme di asparagi, di porcino, di radicchio unitamente a friarielli, cipolline borettane, peperoni a filetti, pomodori secchi. In pratica tutto ciò che serve a realizzare una buona pizza con prodotti esclusivi.
Autore: Federico Panetta
Baccalà mantecato in Veneto, filetti fritti in pastella a Napoli e Roma, baccalà alla ghiotta in Sicilia… Sta per arrivare il periodo natalizio, il momento dell’anno in cui il merluzzo diventa protagonista delle tavole italiane, da nord a sud. Prima di tutto la chiarezza: baccalà è il merluzzo conservato sotto sale, mentre se lo stesso pesce viene essiccato all’aria diventa stoccafisso (tranne per i Veneti, per i quali è tutto baccalà). Nonostante provenga dalle fredde acque del nord, è diventato un simbolo delle feste di casa nostra, ma come è stato possibile?
Tutto ebbe inizio nell’aprile del 1432, quando un nobile mercante veneziano di nome Pietro Querini salpò dall’isola di Creta diretto verso le Fiandre. Durante il viaggio, tuttavia, all’altezza del capo Finisterre, nel nord della Spagna, la nave fu colpita da una tempesta che la spinse alla deriva sempre più a nord. Quirini e pochi altri superstiti dell’equipaggio riuscirono a raggiungere la terraferma solo nel gennaio dell’anno successivo, approdando sull’isola deserta di Sandøy, vicino a Røst, nell’arcipelago norvegese delle Lofoten. Accolti dagli abitanti dell’isola, i naufraghi rimasero circa quattro mesi a Røst prima di fare ritorno a Venezia, portando con sé alcuni prodotti del luogo. Tra questi vi era lo stoccafisso, il merluzzo essiccato all’aria che un tempo sosteneva i Vichinghi nei loro lunghi viaggi in mare. Il ricco, nutriente e saporito merluzzo essiccato si rivelò un successo culinario immediato, trovando presto spazio in molti piatti regionali di tutto il paese. Nacque così una nuova improbabile rotta commerciale, che collegava le città-stato rinascimentali italiane con le solitarie isole Lofoten. Il primo riferimento letterario al commercio del baccalà essiccato si trova in una scena della Saga di Egil, un racconto vichingo ambientato nel IX secolo. Ogni inverno, da più di mille anni, i pescatori norvegesi accorrono in massa nelle isole Lofoten per catturare i grandi e carnosi merluzzi migratori, che giungono a milioni dal Mare di Barents per riprodursi tra i fiordi delle isole norvegesi, in particolare intorno a Røst. I pesci vengono puliti, sventrati e appesi per la coda ad asciugare per diverse settimane, solitamente da febbraio, quando inizia la stagione, fino ad aprile, seguendo il metodo tradizionale: all’aperto, in
coppia e su telai di legno a doghe visibili in tutta l’isola. Successivamente, per evitare che le piogge primaverili li rovinino, vengono portati al chiuso per completare l’essiccazione. Verso metà estate i pesci sono pronti, e da lì in poi ci si occupa del trasporto ed ella vendita. La realizzazione dello stoccafisso ha contribuito a rendere ricchi gli isolani: Røst, per esempio, ha il più alto numero pro capite di milionari in Norvegia, e questo grazie ad una posizione geografica unica. Non solo la natura porta milioni di merluzzi migratori nelle loro acque ogni inverno, ma grazie agli effetti modificatori della Corrente del Golfo, questo luogo gode anche di inverni eccezionalmente miti. Sebbene l’arcipelago si trovi al di sopra del Circolo Polare Artico, a circa 68º a nord, le temperature invernali qui raramente scendono molto sotto lo zero o salgono molto al di sopra.
Se la temperatura scendesse anche solo di qualche grado in più il congelamento dei pesci scomporrebbe le cellule della loro carne e si otterrebbe un prodotto giallastro, gommoso e sgradevole al palato. D’altro canto, se la temperatura aumentasse troppo, si otterrebbe solo una lenta putrefazione. Negli ultimi anni, a causa della crisi climatica, la possibilità che il clima delicatamente equilibrato di Røst rimanga ideale per la produzione di stoccafisso è diventata una questione aperta, così come il riscaldamento delle acque, che incide sulle rotte migratorie del merluzzo. Un cambiamento già osservato è che altri villaggi di pescatori nelle Lofoten, un tempo troppo freddi per la conservazione dello stoccafisso, ora riescono a produrlo. Questo fatto pone delle questioni importanti: di cosa vivranno gli abitanti di queste isole se le temperature dovessero aumentare ancora? È possibile che, a causa del clima, l’approvvigionamento del merluzzo in Italia debba ridursi?
Le caratteristiche peculiari dello stoccafisso sono state la ragione del suo grande successo in Italia, si tratta infatti di un prodotto leggero, altamente nutriente, può durare anni senza rovinarsi e si rigenera rapidamente immergendolo in acqua. Nel comune ligure di Badaluc-
del gennaio 1433
co si racconta che nel medioevo gli abitanti riuscirono a sopravvivere ad un assedio da parte dei mori solo grazie alle loro scorte di stoccafisso, motivo per il quale oggi in quel luogo si celebra una delle tante sagre dello stoccafisso presenti in Italia. Un’altra, forse la più celebre, è la festa del baccalà di Sandrigo, in provincia di Vicenza, che si tiene ogni settembre ed è una delle occasioni per gustare il celebre baccalà alla vicentina, talmente iconico da aver inspirato la nascita di una confraternita che dal 1987 ha lo scopo di salvaguardare e diffondere l’antica ricetta originale.
Al giorno d’oggi oltre il 70% della produzione di stoccafisso continua ad essere acquistata dall’Italia: 1.608 tonnellate solo nell’ultimo anno per un valore prodotto di 38 milioni di euro, secondo i dati del Norwegian Seafood Council. Alle isole Lofoten il legame storico con l’Italia persiste ed è palpabile: facendo una camminata per Røst ci si può imbattere in luoghi come il Querini Cafè e il Querini Park. Nel 2012, un’opera basata sul naufragio di Querini ha debuttato a Røst, ed è cosa nota che gli scambi commerciali abbiano abituato la popolazione autoctona a comprendere e parlare un po’ di italiano.
In un panorama gastronomico dove la prossimità delle materie prime è ormai un valore cardine, è curioso che un prodotto come il merluzzo, pescato e lavorato lontano, sia così radicato nella tradizione italiana. Eppure, la cucina italiana è sempre stata riconosciuta nel mondo più per le sue tecniche di lavorazione che per i suoi prodotti, per come riesce a valorizzare delle materie prime che, come in questo caso, arrivano da fuori.
Il baccalà e lo stoccafisso, con la loro storia di scambi e contaminazioni, ci ricordano che una cucina non si può limitare solamente ai chilometri zero o ai nazionalismi, perché questi offrono una visione senza dubbio rassicurante, ma semplificata rispetto alla complessità della realtà. Forse, riflettere sull’importanza dello stoccafisso per la nostra tradizione, potrebbe aiutarci a capire meglio l’essenza stessa della cucina, un esercizio che potremmo dedicare proprio al periodo delle feste.
Clicca e leggi l’articolo sul web
Autrice: Alessia Cipolla
Uno dei più famosi ricettari tedeschi dell’Ottocento che oltrepassò la notorietà europea raggiungendo gli Stati Uniti d’America e permise l’indipendenza economica della sua celebre autrice, pia e arguta single del XIX secolo.
Considerata la Mrs Beeton tedesca e altrettanto celebre, Johanna Friederika Henriette Katharina Davidis (1801 –1876) nacque a Wengern nella valle della Ruhr in Germania, decima di tredici figli di madre olandese e padre pastore luterano tedesco. Una famiglia devota e molto religiosa, valori che caratterizzarono la vita di Henriette.
Nel 1844 scrisse la sua opera più celebre, il Praktisches Kochbuch (Libro di cucina pratica), per notorietà detto successivamente “Il Davidis”, che venne pubblicato in 62 edizioni fino alla scadenza del diritto d’autore e successivamente in diverse edizioni fino a oggi. Già nel 1822 era apparso il testo Geist der Kochkunst (Lo spirito della cucina) di Karl Friedrich von Ru-
mohr, noto intellettuale del periodo romantico, ma il libro di Henriette ebbe una più vasta popolarità nelle aree di lingua tedesca d’Europa, tradotto poi in olandese, francese, inglese e danese. Al momento della sua morte, il 3 aprile 1876, la ventunesima edizione era già in stampa ed era apparsa la sesta edizione della traduzione olandese.
Frau Davidis verso la libertà
Henriette Davidis iniziò la sua carriera come governante presso la casa della sorella maggiore e in altre ricche famiglie borghesi.
Nella sua vita si fidanzò due volte ma i due uomini morirono entrambi appena prima del matrimonio. E desistette.
Dopo la morte della madre lavorò come dama di compagnia di una donna che soffriva di problemi di salute mentale in Svizzera.
Già matura, dal 1841 al 1847 divenne la direttrice di una scuola di economia domestica a Sprockhövel dove iniziò a scrivere alcune guide pratiche per l’istruzione delle sue giovani e inesperte allieve. La prima fu, proprio, il libro di cucina Praktisches Kochbuch, che acquisì nelle edizioni successive il titolo completo di Praktisches Kochbuch. Zuverlässige und selbstgeprüfte Recepte der gewöhnlichen und feineren Küche (Libro di cucina pratica, ricette affidabili e verificate della cucina casalinga e della cucina raffinata): lo stile era chiaro, semplice e conciso e il successo fu immediato. L’ultimo della serie di tali manuali fu Die Hausfrau. Praktische Anleitung zur selbständigen und sparsamen Führung des Haushaltes (La donna di casa, indicazioni
pratiche per la conduzione autonoma e parsimoniosa della gestione casalinga), sempre dedicato alle sue studentesse che si accingevano ad affrontare la vita da donne di casa. Henriette fu anche giornalista, autrice di racconti, di poesie e di alcuni particolari testi sull’igiene della casa e delle famiglie, sulla salute e l’alimentazione per l’infanzia e i malati come Diätetik für Hausfrauen. Die Gesundheits- und Krankenpflege im Hause (Dietetica per donne di casa, la cura della salute e delle malattie in casa). Vi è poi Kraftküche von Liebig’s Fleischextract für höhere und unbemittelte Verhältnisse (La cucina con l’estratto Liebig), sul celebre dado inventato dell’azienda Liebig proprio in quel periodo.
Dal 1857, i proventi delle vendite delle diverse edizioni del suo Praktisches Kochbuch consentirono a Frau Davidis di abbandonare i suoi doveri di governante e di potersi dedicare esclusivamente alla scrittura potendosi permettere, addirittura, una casa tutta sua: il successo del suo ricettario fu tale da divenire il classico regalo di matrimonio per tutte le giovani spose tedesche, fino al XX secolo.
Dal carteggio con il suo editore, appare come una eccellente donna d’affari, abile nel farsi pagare e consapevole del valore della propria opera.
Nello stesso anno, non contenta, scrisse sul tema anche un libro, un testo modernissimo rivolto alle donne nubili che potevano ambire, incredibilmente, a lavorare e all’indipendenza: Die Jungfrau. Worte des Rats zur Vorbereitung für ihren Beruf. Eine Mitgabe für Töchter bei ihrem Eintritt in’s Leben (La donna nubile. Qualche consiglio per prepararla alla carriera. Un regalo per le figlie che entrano nella vita) più conosciuto con il titolo
delle edizioni successive Der Beruf der Jungfrau. Eine Mitgabe für Töchter gebildeter Stände (La professione della donna nubile. Un regalo per le figlie delle classi colte) anch’esso di grande successo con 17 edizioni fino al 1922.
Il suo ultimo manoscritto Ricordi della mia vita e del mio lavoro è purtroppo andato perduto. Un vero peccato perché sarebbe stato interessante carpire informazioni preziose sulla straordinaria storia di una donna coraggiosa del XIX secolo.
bestseller ‘Il libro
Nell’introduzione alla terza edizione l’editore scrisse: “Il
Libro di cucina pratica di Henriette Davidis è riconosciuto in Germania come un’autorità in tutte le questioni relative all’arte culinaria. La sua popolarità e il suo valore sono dimostrati dal fatto che sono già state stampate trentacinque edizioni e la richiesta del libro continua a essere grande come al momento dalla sua prima apparizione, perché è universalmente riconosciuto come il migliore e il più pratico di tutti i libri di cucina apparsi in quel paese”.
Grazie alla sua esperienza di governante, Henrietta inserì una serie di utili consigli sull’organizzazione della casa e della cucina, basati sui quattro punti cardine della buona casalinga borghese tedesca: igiene, risparmio, consapevolezza del proprio ruolo e ordine.
Al suo interno si trovano molte preparazioni tedesche ed europee, per tutte le tasche, per la cucina di tutti i giorni come anche per occasioni speciali, provenienti dalla cucina della sua famiglia, dalla sua esperienza come governante o apprese durante i suoi viaggi. Ogni capitolo è provvisto di un’introduzione generale al tema e vi è un comodo indice alfabetico. Molte sono le ricette di pasticceria e conserve oltre a un interessante capitolo sui liquori.
Henrietta scrisse: “Sono lungi dal considerare questo libro come opera esclusivamente mia; posso solo dire che, ad eccezione di alcune ricette, tutte sono state provate da me sola, a poco a poco, migliorando e riassemblando. Ho incluso solo quelle delle quali ero convinta.” La sua autorità culinaria divenne indiscutibile.
Il Praktisches Kochbuch era pronto per uscire dai confini europei alla conquista del mondo: nel 1879 venne pubblicato in tedesco e in inglese anche negli Stati Uniti, dove conquistò da subito un grande successo, vista la grande presenza, da metà dell’Ottocento, di immigrati tedeschi, soprattutto a New York City dove si erano stabiliti a partire da quando si chiamava ancora New Amsterdam, influenzando quello che è il melting pot della cucina a stelle e strisce.
Come l’Italia, anche la Germania fu una terra di conqui-
sta per secoli con il risultato di una ricca combinazione di culture e religioni e la frammentazione in piccoli regni, feudi e città libere (almeno fino alla costituzione dell’Impero tedesco nel 1871) dove proliferarono le cucine regionali. Il merito de “Il Davidis” fu di unificarle in una unica cucina tedesca. In pieno spirito del tempo, il ricettario e le sue edizioni seguirono di pari passo la trasformazione radicale della società tedesca post-rivoluzione industriale di metà Ottocento: il Davidis rappresentò ciò che mancava in quel momento, ossia un manuale per donne moderne che iniziavano a lavorare, stavano vivendo lo sviluppo di nuove tecnologie e la scarsa presenza di servitù a disposizione, oltre a una distanza ideale e fisica dalle proprie madri con la conseguente necessità di integrare o sostituire il tradizionale trasferimento di competenze culinarie da una generazione all’altra. Dalle prime edizioni dove l’autrice si riferiva alla servitù, Henriette passò alle nuove padrone di casa borghesi: il testo rappresentò, di fatto, una guida per le nuove famiglie della classe media. Al suo interno si trovano con grande precisione i tempi di cottura, le temperature, le quantità e consigli professionali: questa nuova forma di conoscenza culinaria corrispose anche all’ascesa delle scuole di economia domestica e dei corsi di cucina per giovani donne, entrambi realtà conosciute da Henriette, aprendo, seppure con molta lentezza, le porte delle cucine professionali alle giovani cuoche.
JALABITE
Dal 1986, CGM unisce la tradizione gastronomica italiana all'esplorazione delle tecnologie alimentari del freddo. La nostra missione è la stessa di 38 anni fa: aiutare i professionisti dell'HoReCa e della GDO nella sfida di deliziare i palati più esigenti con prodotti surgelati pratici e di qualità.
Nel piatto, qualità. Nel menù, scelta.
Autore: Luigi Franchi
È stato presentato, nei giorni scorsi a Roma, il XXII Rapporto Ismea-Qualivita sul settore dei prodotti italiani DOP-IGP, alla presenza del ministro delle Politiche Agricole e Sovranità Alimentare, on. Francesco Lollobrigida.
I dati più rilevanti del Rapporto sono riassumibili in due cifre molto significative: la DOP economy supera i 20 miliardi di euro di valore alla produzione e crea occupazione per 850.000 addetti. Ma non sono solamente questi i risultati presentati dai vari relatori.
“I dati di questo Rapporto confermano che le Indicazioni Geografiche italiane rappresentano un sistema resiliente, capace di affrontare con successo le molteplici sfide che il 2024 ha posto, sia in ambito climatico che commerciale. Questo risultato è sostenuto da una base occupazionale solida e dal continuo potenziamento dei 317 Consorzi di tutela riconosciuti dal MASAF. In particolare, i dati relativi al Sud Italia in crescita da un quinquennio, evidenziano un rafforzamento del modello della Dop economy in quei territori, a testimonianza della capacità del settore di radicarsi e prosperare anche in contesti complessi. Guardando al futuro è fondamentale che il settore DOP IGP, con le istituzioni italiane ed europee, rivolga la massima attenzione alle rapide trasformazioni tecnologiche nel campo alimentare e alle dinamiche evolutive dei mercati internazionali, per assicurare al sistema un livello sempre più alto di competitività e sostenibilità” ha spiegato Mauro Rosati, direttore della Fondazione Qualivita che sovrintende allo scenario dei prodotti a denominazione geografica, sia quelli alimentari sia i vini.
E sui vini il Rapporto rileva una leggera contrazione sia come quantità (-0,7%) che come valore (-2,3%) attestandosi su 11 miliardi euro che, sommati ai 9 miliardi del comparto cibo, che cresce rispetto a dodici mesi fa del 3,5%, raggiungono l’importante cifra di 20 miliardi di valore alla produzione, pari al 19% del fatturato complessivo dell’agroalimentare italiano. Una crescita costante che, in dieci anni, è aumentata del 52%.
Le esportazioni del comparto DOP IGP confermano un valore di 11,6 miliardi € (-0,1% sul 2022) e un trend del +75% in dieci anni. La crescita nei Paesi UE (+5,3%) compensa il calo nei Paesi Extra-UE (-4,6%), dato particolarmente significativo alla luce dell’attuale dibattito sui dazi, con i Paesi terzi che assorbono oltre la metà (52%) dell’export della Dop economy italiana e gli Stati Uniti, prima destinazione in assoluto, che da soli valgono oltre un quinto (21%) delle esportazioni italiane DOP IGP. In questo scenario vanno bene, in particolare, i formaggi (+5,3%), per la prima volta sopra i 5,5 miliardi e con la produzione più alta degli ultimi cinque anni, - tra i primi dieci prodotti DOP e IGP i formaggi detengono cinque posizioni - ma buone crescite in valore anche per oli di oliva (+33%), prodotti della panetteria e pasticceria (+9%) e carni fresche (+10%). L’export raggiunge 4,67 miliardi € (+0,7% su base annua e +90% sul 2013), grazie soprattutto alla crescita nei mercati UE (+6,4%).
Numeri frutto dell’impegno di 87.212 operatori, 585mila occupati, 182 Consorzi di tutela autorizzati dal Masaf e 42 Organismi di controllo.
Al 31 ottobre 2024 si contano complessivamente 3.193 prodotti DOP IGP STG nei Paesi UE, di cui 1.564 agroalimentari e 1.629 vitivinicoli. A questi si aggiungono le 236 produzioni DOP IGP STG registrate in 19 Paesi extra comunitari – dato che include anche la denominazione transnazionale di Irlanda, Regno Unito. In Europa i prodotti agroalimentari sono ripartiti in 667 DOP, 833 IGP e 64 STG, mentre i vini si dividono in 1.185 DOP e 444 IGP. L’Italia vanta ben 856 DOP e IGP, confermandosi prima nazione al mondo per numero di certificazioni, pari a circa un terzo di tutte le denominazioni.
Questo risultato è frutto di un’attenta politica territoriale portata avanti dai consorzi e dalla Fondazione Qualivita, insieme a ISMEA.
“ISMEA è da oltre vent’anni punto di riferimento per l’analisi strutturale ed economica del sistema delle Indicazioni Geografiche, fornendo un contributo significativo alla definizione delle politiche di settore. Accanto a realtà di eccellenza come la Fondazione Qualivita e Origin Italia, l’Istituto supporta il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste in diversi ambiti: dal monitoraggio continuativo dei dati produttivi e di mercato alla valutazione dei Piani di regolazione dell’offerta per rafforzare la competitività e la governance delle filiere, sino all’assistenza tecnica nella definizione della strategia nazionale di valorizzazione e promozione della qualità agroalimentare. Un impegno che vede uniti tutti: imprese, Consorzi di tutela e Istituzioni per la crescita competitiva del sistema della DOP e IGP italiane e per un suo sviluppo in chiave sempre più sostenibile e innovativa” ha affermato, nel corso della presentazione, Sergio Marchi, direttore generale ISMEA
Nella casistica delle regioni vediamo al primo posto la Toscana con 90 DOP e IGP comprensive del vino, secondo il Veneto con 89 denominazioni e terzo il Piemonte con 84.
Se scorporiamo i prodotti alimentari dal vino il primo posto spetta all’Emilia-Romagna con 44 denominazioni, al secondo pari merito Veneto e Sicilia con 36, al terzo la Lombardia con 34.
Tra i primi cinque prodotti troviamo, al primo posto, il Grana Padano con 211.831 tonnellate prodotte nel 2023 e un risultato pari a 1.885 milioni di euro alla produzione. Seguono, nell’ordine, il Parmigiano Reggiano con 158.015 tonnellate e 1.599 milioni di euro, il Prosciutto di Parma con 74.400 tonnellate e 951 milioni di euro, la Mozzarella di Bufala Campana con 55.588 tonnellate e 528 milioni, il Pecorino Romano con 36.633 tonnellate e 494 milioni.
Per il vino, al primo posto, il Veneto con 53 vini DOP e IGP che evidenziano un valore alla produzione di 4.315 milioni di euro. Seguono il Piemonte con 60 vini a denominazione e 1.248 milioni di euro, la Toscana con 58 denominazioni e un valore di 1.164 milioni di euro. Dati che si identificano alla perfezione con i più conosciuti prodotti alimentari e vii italiani all’estero. In questo caso il made in Italy funziona davvero, come ha testimoniato Cesare Mazzetti, presidente di Fondazione Qualivita: “La pubblicazione della 22ª edizione del rapporto ISMEA-Qualivita si inserisce in un periodo caratterizzato da tensioni geopolitiche e sfide economiche e sociali senza precedenti negli ultimi 60 anni. In questo scenario, i dati emersi confermano che le Indicazioni Geografiche rappresentano ancora oggi una delle espressioni più emblematiche della tradizione e della qualità del Made in Italy, offrendo un significativo valore aggiunto all’economia del Paese. Oltre a rafforzare l’identità culturale, esse contribuiscono in modo rilevante allo sviluppo economico e alla crescita occupazionale”.
Anche Livio Proietti, presidente ISMEA, ha rafforzato
il valore della DOP economy: “Il settore delle DOP e IGP si è attestato per il secondo anno consecutivo sopra i 20 miliardi di euro, confermandosi ancora una volta vitale per l’economia dei territori, attrattivo per nuovi operatori, e trainante per l’intero settore agroalimentare. Un sistema solido, nonostante i pesanti condizionamenti del clima e il complesso scenario geopolitico di questi ultimi anni, in grado di rispondere in maniera ordinata e composta alle sfide della contemporaneità, grazie all’intraprendenza del tessuto imprenditoriale, alla capacità di governance dei consorzi di tutela e al costante impegno delle istituzioni”.
Il Veneto miete successi in questa XXII° edizione del Rapporto: è infatti la prima regione, con 4,85 miliardi di valore, e Treviso la prima tra le province, con 2.217 milioni di euro. Al secondo posto L’Emilia-Romagna con 3,87 miliardi e seconda tra le province Parma, con 1,672 milioni di euro.
Il valore al consumo delle DOP e IGP rilevato nel canale GDO è di 5,9 miliardi di euro, il 67% nel cibo e il 33% nel vino, con i formaggi che, anche qui, fanno la parte del leone con 2,51 miliardi di venduto.
Anche il turismo è un fattore importante nella DOP economy, grazie al ruolo strategico dei consorzi, ma è un fenomeno che deve strutturarsi meglio, come evidenzia Mauro Rosati: “Il nuovo regolamento europeo riconosce ai Consorzi di tutela una competenza aggiuntiva: la gestione delle attività turistiche legate alle Indicazioni Geografiche. Il turismo enogastronomico, in particolare nel settore vitivinicolo, è un motore strategico per il
settore DOP IGP e un’opportunità di rilancio. Tuttavia, questa nuova prospettiva economica richiede riflessioni e interventi mirati. L’eccessiva “musealizzazione” di alcune imprese agricole può creare un evidente squilibrio laddove privilegia l’aspetto turistico e relega in secondo piano il contesto culturale e produttivo, con il rischio di generare un “effetto Disneyland” che trasforma i territori di pregio italiani in una sorta di parco tematico. I Consorzi di tutela devono intensificare la vigilanza sulle attività di operatori terzi che utilizzano le denominazioni per scopi commerciali, rischiando talvolta di danneggiare la reputazione del marchio. Inoltre, i fenomeni di overtourism rappresentano una sfida cruciale da affrontare, soprattutto per aree fragili e peculiari ed è necessario sviluppare strategie efficaci per preservare i territori, garantendone la sostenibilità”.
Il ministro Lollobrigida ha riassunto i lavori di presentazione con questa dichiarazione: “Il XXII Rapporto Ismea-Qualivita ci descrive una Dop economy che continua a essere un pilastro fondamentale per il nostro sistema agroalimentare. Un valore complessivo alla produzione di oltre 20 miliardi di euro e una crescita del comparto del cibo del 3,5% nel 2023, testimoniano la forza delle nostre filiere e la qualità che il made in Italy rappresenta nel mondo. Nonostante le attuali sfide geopolitiche, i nostri prodotti DOP e IGP guidano l’export, confermando il ruolo strategico dei 317 Consorzi di tutela, che coordinano il lavoro di quasi un milione di operatori. Guardiamo al futuro con ottimismo, certi del valore che il nostro agroalimentare sa generare, rafforzando il territorio e l’identità italiana”.
Autrice: Giulia Zampieri
Scrivere di Mattia Corbellini mentre si sorseggia una delle sue bolle rende tutto più semplice. Lo rappresentano davvero. È un’espressione che solitamente si usa nel mondo dell’artigianato, quella del prodotto che racconta il produttore, ma in questo caso è calzante.
Bastano pochi scambi di parole per capire che Mattia è un vignaiolo pragmatico, poco amante dei riflettori, sempre meno tollerante alle fiere, con le sue idee, la sua riservatezza, una buona dose di franchezza. Esattamente come di grande schiettezza sono i suoi vini, i vini dell’azienda Cherubini: decisi, ritmati, in continua evoluzione non appena si posano nel bicchiere.
Dal ristorante alle prime bottiglie
Mattia non nasce agricoltore. Bazzica fin da giovane nel mondo della ristorazione per assorbimento familiare. Migra a Londra, poi torna in Italia e rientra operativo nel ristorante di famiglia dove comincia a dare ascolto all’interesse per il vino. Come spesso accade a chi è in
sala, ne approfitta per assaggiare, farsi un’idea generica, poi via via più specifica, del territorio che lo circonda, la Franciacorta, e non solo. Nel 2011 si dedica a un primo appezzamento di 3000 metri, quindi mette in piedi le prime basi. Esce con le prime bottiglie e la fa assaggiare al ristorante, raccogliendo da colleghi e clienti i primi pareri. Furono incoraggianti, al punto da stimolarlo a pensare di dedicarci sempre più tempo.
“Come ho imparato? Sperimentando, come hanno fatto tanti altri che non hanno avuto un’azienda alle spalle. L’errore in agricoltura, come in vinificazione, è seguito da una perdita ma sicuramente anche da un arricchimento. Ogni volta che sbagli impari, aggiusti, trovi l’assetto nell’operazione successiva. Quindi ho imparato così a fare il vino”.
Impariamo a conoscerlo man mano che si racconta, senza filtri o timori.
“Ma sottolineo che ho imparato e sto imparando, ogni giorno assimilo qualcosa di nuovo. Credo che pensarsi arrivati sia la prima sconfitta per un produttore. Faccio
questo mestiere da più di dieci anni ma ogni volta penso di essere all’inizio” ci racconta mentre inizia a spendere parole sul suo metodo strettamente artigianale.
Nel 2013 Mattia giunge all’attuale cantina. O meglio, al vigneto, che è stata la vera scoccata che l’ha indotto a cambiare vita.
Quando ce lo si trova davanti, anche nei freddi mesi invernali, si capisce tutto: si tratta di un impianto del 1965, distante in linea d’aria appena due chilometri dal centro di Brescia. Praticamente un vigneto urbano, ma sembra di essere in un micro-mondo a parte. I filari ospitano solo Pinot Nero e Chardonnay, e sono situati in una porzioncina di terreno dietro a un convento, in una sorta di anfiteatro, baciato da un’esposizione ideale.
Sono a circa a cento metri d’altezza, rivolti verso sud, costantemente rinfrescati da una brezza fresca che scivola giù dai rilievi dietro stanti.
“Ho apprezzato da subito le condizioni ottimali di questo posto. Non è l’unica caratteristica che mi ha convinto: siamo a due passi dall’inizio della zona di Franciacorta, nella parte orientale, con un terreno dal substrato particolare, differenziato rispetto a quello che connota la zona vitivinicola più nota ed estesa della Lombardia. Qui il suolo è caratterizzato da fossili e argilla rossa. Sotto presenta una roccia viva, ricca di strati calcarei di origine marittima, che conferiscono ai vini acidità e mineralità, due fattori ideali per la mia idea di vino”.
Ed erano proprio queste le sensazioni che ricordavamo dopo gli ultimi assaggi - tutti metodi classici - di Mattia Corbellini. Ma non le uniche.
Ostinazione e libertà
Non solo il territorio e non solo il vigneto fanno il vino.
I francesi ce lo hanno insegnato con quella parola magica; un termine olistico su cui tutto il mondo ha iniziato a costruire la comunicazione, ma potevamo arrivarci dalla semplice osservazione del lavoro dell’artigiano.
Quando s’incontrano produttori come Mattia si capisce che pur impiegando le stesse risorse, le stesse uve, provenienti dal medesimo vigneto, non si avrebbe mai un prodotto uguale.
Il terroir è anche mano.
“Il mio obiettivo è portare il territorio nel bicchiere, quindi intervengo il meno possibile: non irrigo e non diserbo, impiego solo rame, zolfo e zeolite. Poi c’è tutta la parte di vinificazione e affinamento. In un’azienda come la mia occupa una fetta di tempo importante, direi totalizzante. Non mi avvalgo di aiuti esterni e cerco di fare tutto in autonomia. Quello che vedete qui è l’azienda”.
Mentre ci racconta questo metodo agli antipodi rispetto alle grandi realtà franciacortine disvela la cantina, indicando il torchio, le vasche di fermentazione, le barrique su cui tutti i vini sostano fino alla messa in bottiglia. La tecnologia all’interno è praticamente inesistente. Si effettuano, inevitabilmente, le analisi, e i parametri enologici vengono monitorati, ma c’è molto sentire, molto ascolto.
“Ho scelto di svolgere la maggior parte delle operazioni manualmente, comprese le sboccature, consapevole che un giorno molto vicino dovrò apportare dei cambiamenti. Oggi prendo in mano ciascuna bottiglia, dal primo imbottigliamento alla fine, una decina di volte. Molto tempo, molta fatica, mi direte. Però sono soddisfatto. Credo che il metodo classico sia la modalità di vinificazione in cui, per forza di cose, il produttore manifesta la sua identità, compiendo scelte precise in ogni fase, dall’inizio alla fine. Dietro c’è un investimento di tempo importante, ogni scelta o operazione sbagliata può tramutarsi in una perdita o determinare risultati inattesi, ma ci credo e mi ripaga”.
Man mano che il Subsidium - cuvèe composta da Chardonnay e Pinot nero, affinata 60 mesi - si muove nel bicchiere, esprimendosi con grande intensità, ma anche freschezza, ne abbiamo la conferma. Dietro uno spirito libero - quello di Mattia Corbellini lo è senz’altro - non può che esserci un vino vivo.
Autrice: Giulia Zampieri
Qualche anno fa Marco e Andrea Leali hanno trasformato la casa di famiglia - un rustico del 1400 - in un luogo elegante, riservato, succinto, appena fuori dal bacino (talvolta rumoroso, per via dei turisti), del lago di Garda. Non qui, non a Puegnago, dove il silenzio e la quiete vengono rispettati, e il bellissimo giardino esterno è il posto migliore per goderne appieno.
Il senso dell’accoglienza è un tema che hanno a cuore entrambi; lo si comprende sin dalla comparsa in tavola del pane sfornato da Andrea, su cui si posa una luce calda, da accompagnare a dell’ottimo olio locale. Appunto l’olio extra vergine di oliva, ma in primis l’oliva e la pianta di olivo, e poi il limone: elementi che vengono valorizzati nel menu con scelte originali ma riguardevoli, che fissano grazie ai sapori e alle spiegazioni dei concetti territoriali.
Andrea e Marco hanno una visione nitida di come deve essere la cucina del futuro:
“L’uomo ha la possibilità di filtrare il territorio in modo evolutivo attraverso la personalità, il carattere, la creatività. Deve raccontarlo con efficacia contemporanea affinché rimanga” ci aveva detto qualche tempo fa Andrea. Abbiamo sottoposto a loro alcune domande in merito all’adesione ad Amodo, la rete dei ristoranti etici, di cui fanno parte dall’inizio.
Innanzitutto abbiamo chiesto ad Andrea cosa significa fare ricerca e studiare e quanto tempo ci dedica. Si tratta di uno degli elementi imprescindibili del decalogo di Amodo, ma anche di Casa Leali.
“Far ricerca e continuare a studiare sono le basi fondamentali del mio lavoro. Selezionare fornitori, materie prime e individuare sapori nuovi per me è essenziale. La ricerca è un processo continuo, che non si limita al ristorante: mi accompagna anche nei miei viaggi, dove posso scoprire aromi e gusti che poi
decido di approfondire. Non è facile quantificare quanto tempo dedico a questa attività, poiché è parte integrante della mia vita e del mio lavoro. La ricerca non ha mai un confine definito; è una continua evoluzione.”
All’interno del variegato scenario della ristorazione, ahinoi, ci sono anche molti esempi di greenwashing. Per i fratelli Leali, invece, ad ogni scelta consegue un’azione. Per esempio parlare di territorio significa viverlo e valorizzarlo davvero.
“Il territorio è, da sempre, uno dei protagonisti del nostro ristorante. Lo valorizziamo nei nostri piatti, scegliendo materie prime a filiera corta e collaborando con coltivatori e realtà locali del Garda. Il territorio gardesano è presente in moltissimi dei nostri piatti, grazie a sapori e sentori inconfondibili, come il nostro Riso Limone. Inoltre, abbiamo attivato diverse sinergie con imprenditori e aziende locali che presto si trasformeranno in progetti concreti.”
E oltre al territorio e all’approfondimento, un’altra parola che viene spontaneo associare al loro progetto è “cura”. Abbiamo chiesto ad entrambi come ci si allena alla cura e quali sono gli elementi più critici e su cui dovrebbe lavorare un ristoratore.
“La cura è un valore che ci è stato trasmesso dai nostri genitori. Prendersi cura della casa, degli oggetti, di noi stessi e delle persone intorno a noi è ciò che abbiamo
sempre visto fare in famiglia, ed è ciò che facciamo anche noi ogni giorno con chi varca la soglia di Casa Leali. Non c’è nulla di forzato in questo. La cura, insieme all’amore per i dettagli, è alla base di un’esperienza unica, e questo è ciò che cerchiamo di offrire ai clienti. La cura in cucina, nei piatti, è fondamentale, ma non è sufficiente. Vogliamo che chi entra nel nostro ristorante si senta davvero accolto, come se fosse a casa sua. Per questo abbiamo scelto di aprire il nostro ristorante nella casa della nostra famiglia: un luogo che trasmette subito calore e attenzione, già dal momento dell’arrivo.”
Infine abbiamo chiesto ai fratelli Leali, senza troppi giri di parole, quali elementi etici legati alla ristorazione sentono più propri.
“Sicuramente quello dello zero spreco. Abbiamo costruito il nostro modello di cucina attorno a un concetto di circolarità e ricerca dell’essenza, valorizzando ogni parte degli ingredienti e riducendo al minimo gli scarti. Un altro aspetto fondamentale per noi è il rispetto dei tempi di lavoro e delle persone che collaborano con noi, così come delle persone che scelgono il nostro ristorante. Il nostro imperativo è trasmettere, attraverso ogni piatto e ogni gesto, i valori tipici di una famiglia che si prende cura degli altri”.
scopri Casa Leali su Amodo, la rete dei ristoranti etici
Via Valle, 1 25080 Puegnano del Garda (BS) Tel. 366 5296042
www.casalealiristorante.it
Clicca e leggi l’articolo sul web
Autore: Luigi Franchi www.olitalia.com
Il valore di un’azienda oggi si misura anche nell’impegno per la promozione di buone pratiche, come quelle riguardanti l’ambiente e il riciclo. La voce autorevole di un brand diventa infatti strategica per divulgare informazioni che arrivano dritte ai consumatori e utilizzatori finali. Secondo l’ultima ricerca di mercato condotta da NielsenIQ a fine giugno 2024, Olitalia si riconferma “La Marca Preferita dagli Chef italiani”, tra le marche di olio più utilizzate nelle cucine e sulle tavole degli esercizi commerciali. Olitalia è di gran lunga la prima marca che viene in mente in modo spontaneo agli operatori del settore ed è la marca con l’indice di fedeltà più elevato rispetto ai concorrenti.
E questo è solo un tassello del percorso di Olitalia, un cammino impegnativo e continuo che ha trovato il suo culmine con la presentazione del secondo Bilancio di Sostenibilità del 2023. Questo importante documento riflette l’impegno costante dell’azienda nel promuovere pratiche e iniziative volte a garantire un impatto positivo sull’ambiente, sulle comunità in cui opera e sulla società nel suo complesso. Attraverso questo approccio, Olitalia si propone di perseguire la sostenibilità in tutte le sue attività, contribuendo così a costruire un mondo migliore per le generazioni presenti e future.
Olitalia è una realtà in prima linea sul fronte delle buone pratiche
Con il progetto Esausto ma pieno di vita! l’azienda specializzata nella produzione di oli e aceti, leader nel canale food service, aggiunge un nuovo tassello al suo piano di sostenibilità intraprendendo un percorso di sensibilizzazione per il corretto smaltimento degli oli vegetali esausti. Ci spiega Andrea Marchelli, direttore marketing di Olitalia: “Raccogliere correttamente
L’iniziativa rientra nel piano di attivazione di buone pratiche per il settore Ho.Re.Ca. promosse dal progetto Amicambiente che, grazie alla collaborazione con APCI, contribuisce a moltiplicarne gli impatti positivi.
Cosa si intende per olio esausto
Innanzitutto chiariamo cosa si intende con il termine olio esausto. Rientrano nella categoria degli oli esausti
l’olio esausto per destinarlo al riciclo consente non solo di ridurre l’inquinamento, ma anche di trasformare un rifiuto in una nuova risorsa, come biodiesel, sapone, asfalto e biogas. La sostenibilità è un valore fondamentale per noi di Olitalia ed è per questo che da diversi anni, abbiamo intrapreso un percorso fatto di azioni concrete che si inserisce in un piano più ampio di attività raccolte nel nostro Report di Sostenibilità”.
tutti i grassi alimentari che si utilizzano in cucina per friggere o soffriggere e cioè l’olio extravergine di oliva o di semi, ma non solo. Sono da considerare esausti anche:
• l’olio di conservazione dei cibi in scatola (tonno, sardine, condimenti vari);
• i grassi animali (burro, strutto, lardo);
• gli oli alimentari scaduti o deteriorati
Perché differenziare l’olio esausto
Separando l’olio esausto dal resto dei rifiuti organici si evitano gravi danni a terreni, falde acquifere, mare e corsi d’acqua. In sostanza, non disperdendolo, si evita che l’olio formi una pellicola invisibile, ma estremamente resistente, che mette in pericolo la vita della flora e della fauna marina e terrestre.
Secondo il Rapporto Ambientale Conoe 2018, un solo chilogrammo di olio vegetale esausto smaltito impropriamente può inquinare una superficie di 1.000 metri quadrati (pari quasi alla superficie di una piscina olimpionica), causando costi aggiuntivi per il pretrattamento delle acque da depurare e per evitare l’intasamento dei sistemi di pompaggio.
Da questi dati si comprende come, oltre al danno ambientale, la raccolta differenziata scongiura la beffa economica! L’olio esausto versato nella rete fognaria infatti danneggia le condutture e i depuratori gravando sui costi di gestione degli impianti, costretti a dotarsi di sistemi per separare la parte oleosa da quella acquosa.
L’olio vegetale esausto non si ferma, si rigenera
Gestendo correttamente gli oli si ottengono anche diversi benefici economici: si hanno minori costi di manutenzione, si evitano sanzioni pecuniarie e si riduce l’importazione di petrolio. Se tutto l’olio esausto prodotto nelle cucine italiane venisse rigenerato, si potrebbe importare una minore quantità di petrolio e risparmiare 75 milioni di euro/anno.
Se è vero che l’olio esausto è altamente inquinante, è altrettanto vero che, se opportunamente raccolto e
trattato, può diventare anche una risorsa molto preziosa.
Arrivato alla fine del suo ciclo di vita in cucina, l’olio esausto, se riciclato correttamente, torna come una nuova risorsa utile sul mercato. Dopo averlo usato e separato dal resto dei rifiuti, viene raccolto per ricavarne vernici, inchiostri, saponi, candele ma soprattutto biodiesel. Il biocarburante così ottenuto alimenta un percorso circolare di sostenibilità, gusto e continua rigenerazione.
Ma cos’è nello specifico Il biodiesel, di cui oggi si inizia diffusamente a parlare? Il biodiesel è un biocarburante rinnovabile che riduce di circa il 40% le emissioni di CO2 rispetto al gasolio fossile. Ne esistono di diversi tipi. Quello ottenuto da scarti organici come grassi e oli vegetali esausti è il più ecologico di tutti. Infatti, diversamente da altre tipologie di biocarburante, non deriva da coltivazioni ad hoc (soia, palma, cereali o colza) e quindi non entra in competizione con l’agricoltura alimentare. Questo biocarburante è detto di seconda generazione.
“Con questa campagna Olitalia vuole veicolare ai professionisti, e non solo, un messaggio chiaro: l’olio vegetale esausto è protagonista di un circolo virtuoso! Raccogliere l’olio esausto è un gesto sostenibile che protegge l’ambiente! – afferma Andrea Marchelli – Il nostro compito è quello di sensibilizzare tutti i professionisti della ristorazione fornendo loro le chiavi di lettura di cosa vuol dire concretamente evitare la dispersione dell’olio esausto”.
La nuova salsa Bisque di crostacei Knorr, con estratto di aragosta, ti permette di preparare la tua miglior Pasta allo Scoglio, risparmiando tempo e costi.
Salsa già legata
Pronta in pochi minuti
Gusto ricco ma bilanciato
Consistenza liscia e tipico colore di crostacei
100% garanzia di gusto
Prova tutta la gamma dedicata ai piatti di pesce.
Clicca e leggi l’articolo sul web
Autrice: Marina Caccialanza www.suinodellamarca.it
Una nuova razza sta nascendo nel territorio delle Marche: un’eccellenza regionale, sostenibile e tracciabile, un animale sano per una carne sana
Il progetto nasce dalla volontà di ritrovare sapori antichi e tradizioni perdute offrendo al tempo stesso opportunità di sviluppo e sostegno al reddito alle piccole realtà contadine marchigiane, spesso stremate dalle condizioni avverse del territorio e dagli eventi climatici. Risponde altresì alle tendenze espresse dai nuovi consumatori di appagare sia la sfera del gusto sia quella immateriale dell’emotività.
Il Suino della Marca è un animale dal patrimonio genetico unico, un suino rustico, con spiccata attitudine a utilizzare il pascolo, caratterizzato da elevata prolificità e da una carne perfetta per la trasformazione nelle tipiche produzioni marchigiane. È una nuova razza in divenire, un genotipo frutto di incroci mirati: Cinta Senese, Large White italiana e Duroc italiana. Attraverso un intervento zootecnico sostenibile la selezione ha dato origine a un suino in grado di rispondere alle esigenze di mercato attuali grazie alla qualità della filiera e soprattutto alle sue carni gustose, caratterizzate da una marezzatura bilanciata e da spiccate qualità organolettiche. È un maiale marchigiano, che nasce e cresce in sintonia col territorio.
Emiliano Baldi, titolare di Baldi Food racconta così le motivazioni del progetto: “Vogliamo contribuire alla riqualificazione del territorio attraverso l’allevamento e realizzare prodotti di alta qualità da filiera controllata locale. Puntiamo a far comprendere al consumatore moderno e consapevole che l’animale è allevato in condizioni concrete e verificabili di benessere, che mangia bene,
e che il suo allevamento non impatta negativamente sul territorio perché può essere praticato in condizioni non competitive per l’essere umano. Infatti, non si deve disboscare per accoglierlo ma, anzi, il suo allevamento, semibrado, è favorevole all’ambiente che ne costituisce l’habitat naturale”.
L’idea risale al 2007 quando la Regione Marche decide di soddisfare un’esigenza pubblica: ripopolare il territorio delle aree interne, ristrette tra l’Appennino e la costa, dove aziende agricole familiari si trovano in condizioni di disagio a causa del mancato ricambio generazionale e per le difficoltà causate da terremoti e alluvioni. L’idea del progetto è quella di ritrovare una genetica – andata perduta fin dall’inizio del Novecento - idonea alle caratteristiche di un animale che possa vivere all’aperto, predisposto alla vita semibrada. “L’iniziativa pubblica sembrava destinata a scemare - racconta Baldi - e così, nel 2021 abbiamo rilevato il progetto, rimasto in stand by, insieme a Andrea Sgariboldi, allevatore lombardo da generazioni, molto esperto anche in campo manageriale”.
Un’intuizione che porta alla creazione di un marchio registrato e di un allevamento specifico in via di espansione, spiega Emiliano Baldi: “Abbiamo iniziato con un branco di 1500 animali con 150 scrofe destinati altrimenti al macello, abbiamo rilevato un sito e abbiamo iniziato a ristrutturarlo per poter creare spazi dedicati alla riproduzione e alla gestazione per poi poter avviare gli animali, dopo lo svezzamento, alla vita semibrada consona alle loro caratteristiche genetiche e morfologiche. Esiste solo questo allevamento: il suino della marca è un
ibrido ed è unico, stiamo lavorando per farlo diventare una razza una volta che il mantello, pelo rosso con una cinta bianca all’altezza del petto, sarà un tratto fissato dalla selezione”.
La filiera è controllata e la produzione punta a garantire la qualità della materia prima e un elevato standard di sicurezza. Il pascolo semibrado consente all’animale di vivere all’aria aperta e muoversi liberamente in un ambiente genuino cibandosi di quello che il terreno ha da offrire. L’alimentazione viene integrata con mangimi di qualità, ottimizzando i risultati. Il benessere dell’animale è sempre una priorità. Scopo finale, la produzione di salumi tipici marchigiani e carni di alta qualità. La genetica, il benessere e un nutrimento adeguato sono priorità indispensabili per ottenere una carne salutare e gustosa ed è con questo obiettivo
che si sta procedendo, nel rispetto dei criteri del progetto che lo sta portando allo status di razza autoctona.
L’eccellenza nei salumi
Una nuova linea di salumi nasce così da questa visione, da un progetto illuminato che valorizza il territorio, una zootecnia innovativa e rispettosa dell’ambiente, dell’animale e di una nutrizione sana e genuina.
La linea comprende salami e salsicce, lardo, guanciale e pancetta, ma il fiore all’occhiello è il prosciutto crudo. “All’inizio del progetto non è stato facile – racconta Emiliano Baldi – abbiamo dovuto fare diversi esperimenti specialmente sulla stagionatura. Eppure, grazie alla qualità della carne siamo riusciti a ottenere un prodotto eccezionale che dopo 24 o 30 mesi di stagionatura praticata a Norcia, a 1000 metri di altitudine sulle cime dei monti Sibillini, dove sussiste equilibrio climatico perfetto fra umidità e temperatura locale, presenta caratteristiche organolettiche molto interessanti”.
Il Prosciutto della Marca è un prodotto inserito nella nuova linea di Cateringross DoGusto, un brand che comprende circa 200 prodotti selezionati per l’eccellenza, studiato per offrire il meglio alla ristorazione.
Il Prosciutto della Marca DoGusto ha un sapore identificabile con il prodotto tipico del centro sud, ovvero sapidità intensa, consistenza importante e ben definita e un grasso straordinario. Un prosciutto equilibrato e definito nel gusto e nella masticabilità, nel rapporto tra parte grassa e magra, riconoscibile per il colore scuro e vivo dato dalla qualità delle carni e dalla lavorazione naturale, priva di conservanti, realizzata soltanto con carne di suino, sale, pepe, aglio e aromi naturali.
È un prodotto che si porta dietro la tradizione norcina del territorio, una firma che ne identifica il progetto. Inoltre, proprietà nutrizionali uniche; l’Università di Camerino sta effettuando degli studi per quantificarne le curve di accrescimento e le varianti, i valori nutrizionali che si annunciano eccellenti.
Autrice: Simona Vitali
Doveva fare solo una stagione a Rimini, come cameriere, ma è andata a finire che la sua esperienza nel settore alberghiero ristorativo si è protratta per ben 10 anni. È qui che Bartolomeo Carone ha costruito la sua professionalità, in quegli anni ’90 in cui nel mestiere di sala vigeva ancora una certa disciplina e una gerarchia dei ruoli. E ha raccolto le sue soddisfazioni, grazie alla possibilità di lavorare in locali iconici come il Caffè delle Rose, che per anni ha animato la vita culturale e artistica della città, divenendo scenario della “Dolce vita” riminese. Lo hanno frequentato Federico Fellini e Giulietta Masina ma anche nomi di cultura, musica e spettacolo. Bartolomeo conserva ancora oggi gelosamente scatti fotografici che lo ritraggono in compagnia di diversi personaggi. La
| dicembre 2024
lunga esperienza romagnola giunge ad un certo punto al capolinea, la pugliese terra natia esercita il suo richiamo.
Dopo Rimini quindi è la volta di Monopoli, città di grande bellezza che dal mare, dove si affaccia con i suoi 15 km di costa bassa frastagliata, si estende fino alla collina, con la peculiarità delle sue, oggi, 80 contrade che danno vita, tra masserie fortificate, chiese, ville, uliveti e mandorleti, alla campagna circostante. Giusto in una di queste contrade, contrada Antonelli, in zona collinare, Bartolomeo decide di rilevare un ristorante, ricavato in tre trulli avvolti dagli ulivi, che da tempo continua a cambiare gestione, e proporre, in quell’entroterra, cucina di pesce.
“Certamente una sfida su cui nessuna delle persone che avevo intorno sarebbe stata disposta a scommetterci un euro. ‘E tu andresti in campagna a fare specialità di pesce?’ mi dicevano. In realtà volevo fare una ristorazione diversa da quella che in quel periodo si proponeva in tutto il barese, da nord a sud. Che poi c’erano pochi ristoranti e la cucina era spartana. La lampara sui colli è il nome che ho voluto dare al mio ristorante, prendendo spunto dalla Lampara di Cattolica che avevo frequentato nel periodo riminese. Ho aperto nel 2003 a ottobre, per darmi il tempo di essere rodato per l’estate. Inizialmente pensavo di non saper più fare il mio lavoro: pochi i clienti, pochi i tavoli. Non sentivo la sicurezza della cucina. Pensavo al rombo, alla coda di rospo, alle alicette riminesi (in Romagna sono bravi a cucinare il pesce povero) e mi dicevo che mi serviva un professionista che avesse l’umiltà di ascoltarmi e fare una ristorazione diversa. E anche questo è accaduto. La mia scelta è stata netta: fare pesce a 360° abbinandolo a prodotti della terra”.
Oggi Bartolomeo continua a presidiare la sala in prima linea, dando l’esempio ai suoi collaboratori. E questo, a noi che un occhio privilegiato per la sala l’abbiamo sempre, è ciò che di lui più ci piace.
Ancora oggi il suo approccio con le persone è particolarmente cordiale, aperto, come è nello stile romagnolo che ha fatto suo, e cerca in chi sceglie perché lavori con lui le stesse caratteristiche: che abbia propensione al sorriso e ci sappia fare con il cliente.
“Mi raccomando molto con il mio staff di sala - ci confida - di prestare attenzione al cliente finché resta seduto in sala, anche dopo che ha terminato la cena.
Può sempre avere bisogno di un’ulteriore bottiglia di acqua, di un caffè, un digestivo.... Bisogna che ci dedichiamo con la stessa cura di quando arriva”.
21 anni di attività non sono pochi, si arriva a diventare parte delle famiglie dei clienti più affezionati, che non perdono occasione per festeggiare ogni ricorrenza, piccola o grande che sia solo e soltanto in quel ristorante, che diventa testimone dello scorrere delle loro storie.
Autrice: Marina Caccialanza
e leggi l’articolo sul web
Se ci cadete, nella Tana del Lupo, niente paura, cadete bene perché qui pizze generose e buon cibo vanno a braccetto con ospitalità e convivio
Giuseppe De Carlo la sa lunga, il mestiere di ristoratore non ha segreti per lui che di esperienza ne ha accumulata tanta, ed è questo il segreto del successo de La Tana del Lupo a Lequile, in provincia di Lecce.
“Nasco pizzaiolo – racconta Giuseppe – nel lontano 1987, a Lecce dove ho praticato il mestiere per alcuni anni. Poi, nel ’93, la situazione era diventata difficile in quella città per vari motivi e decisi di trasferirmi al nord. Vittorio Veneto mi accolse, poi Belluno, Corvara. Quasi vent’anni durante i quali ho completato la mia formazione ed esperienza in diversi locali: dalla pizzeria alla cucina, fino alla sala. Un’esperienza che mi ha permesso di conoscere ogni aspetto della professione e oggi è preziosa per me e mi ha dato la capacità di rilevare La Tana del Lupo 12 anni fa e gestirla correttamente per farla salire nella considerazione dei clienti”. Lequile è un paesino, si trova a pochi chilometri da Lecce, nell’entroterra. È lontano dal circuito
delle passeggiate lungomare ma Giuseppe De Carlo ha voluto portarvi un po’ di atmosfera marina, siamo nel Salento dopo tutto, e la sua cucina è soprattutto di pesce.
“Abbiamo vinto una sfida – afferma De Carlo – non esisteva un ristorante di pesce in paese, alla Tana del Lupo abbiamo portato qualcosa in più. Facciamo cucina tradizionale pugliese, ciceri e tria, grigliate di cavallo, ma anche cozze e vongole, abbiamo aggiunto astice e seppie e tutto il pescato che possiamo. Una novità per la gente del posto che ha imparato ad apprezzare il menu e che ci distingue dall’offerta convenzionale della zona”.
La pizza, specialità della casa
E poi la pizza, specialità della casa. Qui la formazione di pizzaiolo di Giuseppe De Carlo fa la differenza. La sua esperienza nella produzione degli impasti è preziosa, come spiega: “Facciamo un impasto con il 20% di farina da grani antichi e l’80% di farina di tipo 1 di 5 Stagioni. Una miscela che ho creato personalmente e che mi assicura un risultato perfetto.
La qualità degli ingredienti, specialmente della farina utilizzata, è fondamentale per la riuscita dell’impasto. Lo lasciamo maturare per almeno 3 giorni fino a 5/6 giorni quando raggiunge la stabilità ottimale. Questa lavorazione permette di ottenere una pizza leggera e digeribile che viene poi condita in diversi modi ma sempre secondo tradizione. Non mi piace azzardare, i giochi di fantasia non sono per me, portano solo apparenza, a me piace la concretezza e la qualità è il mio obiettivo”.
Caciocavallo, pomodori secchi, mortadella e burrata; solo mozzarella fiordilatte: i clienti sentono da differenza e apprezzano. “Non è scontato, costa un po’ di più utilizzare ingredienti di alta qualità, ma sono convinto che non convenga puntare sul risparmio perché
la differenza si sente e se il cliente assaggia qualcosa di veramente buono, non torna indietro”.
È la saggezza che deriva dall’esperienza e dalla volontà di mantenere alta la reputazione del locale.
La buona cucina da un lato e l’ospitalità dall’altro: obiettivo raggiunto. È l’occhio attento del padrone che sa valutare e intervenire, è la professionalità e la serietà di chi questo mestiere ce l’ha nel cuore e nella testa. Gli anni trascorsi tra Veneto e Trentino hanno insegnato molto a Giuseppe De Carlo: “La mia presenza in sala è un valore aggiunto perché saper accogliere il cliente con calore e saperne soddisfare le aspettative è ingrediente fondamentale: il saluto, il sorriso, la cordialità sono parte del menù. Ho avuto dei buoni maestri che mi hanno fatto comprendere come il lavoro in sala sia importante quando quello ai fornelli. Perché l’accoglienza è segno di distinzione e la cordialità crea il giusto rapporto col cliente che si sente gratificato. Abbiamo 150 coperti che possono arrivare a 180 in estate, gestire accuratamente la relazione con l’ospite è importante quanto realizzare il piatto perfetto”. Giuseppe è in sala, ne è responsabile, sa come accogliere i suoi ospiti. Se il Lupo è lui, vale la pena di entrare nella sua Tana a Lequile alle porte di lecce, lungo la via che porta a Gallipoli, nel soleggiato Salento, e tornarci. Qui si sta bene.
Via Solano Li Belli, 15 73010 Lequile (Le)
Tel. 327 009 2173
Clicca e leggi l’articolo sul web
Autrice: Marina Caccialanza
Dalla tradizione ligure sulla tavola di tutta Italia, il pesto è identità di un territorio, simbolo di freschezza e testimonianza di una filiera sostenibile e di qualità
La storia de Il Pesto di Pra’ viene da lontano, dal 1827, quando inizia la coltivazione di basilico sulle terrazze dell’azienda agricola Serre sul Mare tra le colline che circondano Genova, in pendenza, elevate sul mare. È una coltivazione eroica, come tutta l’agricoltura della regione che deve fare i conti con un territorio difficile, impervio e ostico.
Azienda famigliare, una ventina di anni fa, la conduzione passa alla nuova generazione. Stefano Bruzzone e Alessandro Ferrari rilevano l’azienda dai loro padri e decidono di rinnovarne l’assetto ristrutturando le serre, modernizzando la coltivazione e dando una nuova impronta all’attività. “Abbiamo il basilico – pensano – perché non utilizzarlo per produrre quello che è il prodotto simbolo della Liguria, il pesto fresco?”
È così che prende avvio il nuovo progetto. Il basilico coltivato sulle colline intorno a Genova gode di condizioni microclimatiche ideali, l’esperienza contadina gli conferisce caratteristiche organolettiche uniche e nel 2003 alla produzione agricola si affianca quella di produzione artigianale di pesto genovese: filiera corta, anzi cortissima, sapere antico che si traduce in produttività moderna e si manifesta negli standard qualitativi eccellenti frutto di passione, visione e sostenibilità applicate a spirito imprenditoriale.
Insieme per il futuro
Due sono gli elementi che costituiscono la base del progetto di rinnovamento di Stefano e Alessandro: la tradizione e il territorio.
A Pra’, un piccolo borgo marinaro alle porte di Genova, esiste una condizione naturale che favorisce la coltivazione del basilico. Il mare ne è artefice insieme ai monti alle sue spalle; questa combinazione genera condizioni climatiche ideali con la brezza che giunge dal mare e si incontra con la terra e l’acqua surgiva che ne scaturisce. Il risultato è un microclima unico che insieme al secondo elemento – il fattore umano – dà vita alla tradizione e alla sua espressione.
Ma poiché senza innovazione non si può progredire, la trasformazione delle serre in impianti altamente tecnologici è fondamentale per la riuscita del progetto.
Il basilico è una pianta eccezionale ma ha bisogno di molta acqua, di luce e temperature miti. È per questi motivi che la coltivazione, nei primi del Novecento, si concentra nelle serre, all’epoca realizzate in legno e vetro, riscaldate con caldaie a legna e carbone, poi trasformate negli anni settanta in strutture metalliche con ampie finestre trasparenti, per catturare la luce.
Oggi, le nuove serre di Serre sul Mare sono impianti moderni dove il consumo di acqua è limitato grazie a impianti di irrigazione che ne ottimizzano il risparmio e impianti fotovoltaici e di cogenerazione che le riscaldano con la massima efficienza energetica.
Il basilico è un vegetale dalle molte virtù: è buono e sano e, grazie alle buone pratiche dell’azienda, anche ecologico. Le pratiche agricole moderne consentono di applicare la massima attenzione alle fasi della coltura favorendo la qualità e la salubrità del prodotto. È una visione di agricoltura lungimirante che unisce all’esperienza antica un metodo di coltivazione sano e sostenibile per il raggiungimento di standard qualitativi altissimi.
Dal seme al vasetto
Il Pesto di Pra’, oggi, è un marchio riconosciuto, l’azienda si è fatta strada sul mercato e, a livello nazionale, il prodotto ha conquistato i consumatori che vi ritrovano quella delicatezza, cura e gusto raffinato che contraddistinguono il pesto genovese tradizionale. Un prodotto senza segreti, per un consumatore di nicchia alla ricerca del meglio. Un prodotto fatto come si deve, secondo antica ricetta, in base a canoni ben delineati che puntano a conservarne la tipicità nel rispetto delle nuove tendenze alimentari. Un percorso di produzione breve che si traduce in: coltivazione del basilico preparazione del pesto secondo tradizione utilizzo di ingredienti di alta qualità lavorati a freddo confezionamento in packaging di plastica termosaldata con azoto o in vetro conservabilità da 45 giorni in vetro a 65 giorni nella plastica prodotto finito fresco, senza conservanti, premiato a livello internazionale.
Sette ingredienti costituiscono la ricetta tradizionale, quelli che ne contraddistinguono la tipicità: basilico genovese dop, olio extravergine di oliva, , Parmigiano Reggiano e Grana Padano dop, aglio italiano, pinoli italiani, Pecorino Romano dop, sale marino.
Il Pesto Genovese alla base, ma le moderne esigenze del mercato suggeriscono alternative da non sottovalutare. Il Pesto di Pra’, distribuito nel retail, è oggi disponibile anche nel canale horeca che sempre più richiede e si orienta verso prodotti che assicurano alta qualità e servizio. Non più soltanto per condire la pasta, metodo tradizionale del consumo di pesto, ma salsa di accompagnamento per tartine e condimento per la pizza, accanto al pesce per abbinamenti insoliti. Secondo lo stesso principio – accontentare ed essere di supporto al consumatore e all’operatore professionale – il Pesto di Pra’ viene realizzato anche nella versione senza aglio, sempre più richiesta specialmente nel nord Italia e soprattutto nel canale horeca perché versatile per soddisfare le esigenze e i gusti di ogni clientela.
Non solo pesto, però, perché la tradizione ligure offre alternative interessanti, come la salsa di noci, ricetta tipica della regione e condimento che si applica a differenti proposte culinarie. Come il pesto, anch’essa è una salsa preparata a freddo e ne condivide alcuni ingredienti: l’aglio, il formaggio e l’olio.
L’interpretazione della salsa di noci che Il Pesto di Pra’ propone rispetta la ricetta tradizionale – ovvero l’accompagnamento con la pasta ripiena di magro - ma anche l’utilizzo con le carni bianche, la zucca e i funghi. Ultima novità dell’azienda, prodotto innovativo e versatile, è il pesto rosso, realizzato con pomodori secchi, mandorle e basilico, che offre ottime possibilità di abbinamento soprattutto con pasta fresca, carni rosse o hamburger.
Specialità perfette per una cucina gustosa, soluzioni ideali per l’efficienza in cucina, qualità indiscussa secondo tradizione ottenuta con metodi moderni e orientati a sostenibilità e rispetto per l’ambiente; il piacere della tavola che guarda al futuro.
Clicca e leggi l’articolo sul web
Autrice: Marina Caccialanza
Dalla ricerca e dalla competenza sulle farine e dalla passione per la propria terra nasce la volontà di Molino Spadoni di valorizzare i prodotti antichi della Romagna: il risultato è Officine Gastronomiche
La storia di Officine Gastronomiche è la storia di Molino Spadoni, storico molino a Coccolia (RA) che, dal 1921, con tre generazioni di famiglia, prima con Livio Spadoni, poi Libero e oggi Leonardo, è diventato punto di riferimento nel mondo delle farine. Un’impresa dal cuore antico ma all’avanguardia, che pone un’attenzione particolare alle esigenze contemporanee, al gusto e alla passione dei consumatori per le cose genuine.
Ed è così che, dallo spirito imprenditoriale di Leonardo Spadoni nascono differenti brand che, oltre alle farine per cui l’azienda è nota in Italia e all’estero, puntano a
valorizzare specialità del territorio romagnolo. Uno di questi è Officine Gastronomiche.
Due sono le categorie che si identificano con questo brand:
la gamma di salumi e carni fresche di altissima qualità ottenuti dai pregiati suini di Mora Romagnola, un’antica razza suina autoctona, allevata allo stato semibrado nell’allevamento a Zattaglia di Brisighella (RA) in oltre 90 ettari di terreno, e la gamma di formaggi di Brisighella, tipici del territorio, freschi, stagionati e a latte crudo, per cui si utilizzano tre tipologie di latte, latte di mucca 100% romagnolo e lat-
te di pecora e di capra, 100% italiani provenienti dall’Appennino tosco-romagnolo.
Mi chiamo Mora Romagnola e mi muovo in libertà È un grande progetto di recupero quello che Officine Gastronomiche Spadoni sta realizzando con la Mora Romagnola, una delle cinque razze autoctone antiche che ancora sopravvivono in Italia. La sua presenza sul territorio risale addirittura all’epoca longobarda.
Un progetto fortemente voluto da Leonardo Spadoni, per salvarla dall’estinzione e salvaguardarne le caratteristiche, perché la Mora Romagnola è un suino speciale, che vive allo stato brado, una razza robusta, con carni saporite adatte al consumo fresco e per la produzione di salumi.
Una razza resistente, grazie probabilmente all’importante sviluppo delle sue masse muscolari, alla sua speciale attitudine al pascolo.
Merito di Leonardo Spadoni e di un gruppo di allevatori è stato creare una rete di allevamento, preservando le sue carni prelibate che stavano per andare perdute quando negli anni ’90 la Mora Romagnola rischiava l’estinzione. Dal 2001, infatti, con l’avvio di iniziative mirate a proteggere la razza, ne inizia l’allevamento nello stabilimento di Zattaglia, fortemente voluto dalla famiglia Spadoni, un esempio di questo
sforzo e impegno di salvaguardia. Oggi cresce allo stato semibrado, in oltre 90 ettari fra colline, pascoli e boschi.
La condizione di movimento e benessere naturale in cui la Mora Romagnola vive sui territori vocati le consente una durata di vita doppia rispetto al suino bianco, fino a 18 mesi. Conseguenza di questo benessere è una carne più saporita, che quindi necessita di meno sale per la conservazione.
Nella sapiente lavorazione artigianale, infatti, rispettosa della tradizione, si impiega il pregiato sale di Cervia, eccellenza unica e peculiare per la sua dolcezza e le doti organolettiche. Il risultato sono salumi di Mora Romagnola in grado di apportare fino al 35% in più di proteine rispetto a un salume di suino convenzionale. Inoltre, la lunga stagionatura che li contraddistingue – i Prosciutti per esempio stagionano minimo 24 mesi – attribuisce alle carni dei parametri di salubrità superiori, le rende gustose, sane e digeribili grazie alla maggioranza di grassi insaturi, ben il 64%, più scure per la maggiore presenza di ferro.
La lavorazione a filiera corta è un ulteriore valore perché i prodotti vengono realizzati in un arco territoriale di soli sette km tra allevamento e stabilimento di produzione.
o stagionato, un prodotto per ogni
Dalla Mora Romagnola allevata da Officine Gastronomiche Spadoni nei suoi terreni si ottengono due linee di prodotto: i salumi e le carni fresche.
La linea dei salumi di Mora Romagnola comprende numerose specialità dai salami, tra cui il Moro, il Gentile, il Nostrano e le Morettine alla Salsiccia Passita, il lardo Stagionato, la Pancetta, il Guanciale, la Coppa e il prestigioso Prosciutto di Mora Romagnola.
Le carni fresche provengono da animali che crescono in condizioni ottimali e diventano naturalmente morbide e digeribili, sono ricche di ferro e proteine. Sono proposte in diversi tagli dalla lonza alle costine, dalla pancetta alla coppa, braciola o lombo e anche in formato salsiccia e hamburger.
Con queste carni prelibate, infine, Officine Gastronomiche propone due prodotti ricettati di alta qualità e dal gusto unico: il ragù bianco e il ragù rosso in pratiche confezioni stoccabili da utilizzare come condimento per piatti della tradizione o gourmet.
Il caseificio di Officine Gastronomiche Spadoni si trova a Brisighella, uno dei borghi più caratteristici dell’Appennino tra Firenze e Ravenna, un luogo affascinante e antico. È in questa cornice straordinaria che Molino Spadoni ha deciso di creare il suo caseificio per produrre formaggi tradizionali, freschi o stagionati.
L’obiettivo è ancora una volta quello di preservare e valorizzare i prodotti tipici del territorio romagnolo. Perché i romagnoli hanno un formaggio speciale nel cuore, lo Squacquerone, ed è proprio da lì che Molino Spadoni è partito per realizzare la sua linea di formaggi di eccellenza.
A Fognano di Brisighella, in uno stabilimento di alta tecnologia, l’azienda produce, con la passione di una volta
che contraddistingue ogni sua azione, formaggi della tradizione che nascono dalla selezione delle migliori materie prime. Solo latte fresco italiano di Alta Qualità, prodotto in stalle selezionate dove viene applicata particolare attenzione al benessere dell’animale. I prodotti vengono lavorati in modo tradizionale con metodi e tecnologie moderne per garantirne l’eccellenza.
Cremosità, ricercatezza e gusto sono i parametri fondamentali per la produzione di Formaggi di Brisighella. Prodotti che rappresentano il meglio della qualità e dell’eccellenza del territorio romagnolo.
Una gamma che comprende vere e proprie delizie casearie, suddivisa in tre settori: Formaggi a latte di mucca – il Cacio del Borgo, declinato in 4 varianti di aroma; lo Squacquerone DOP, immancabile specialità del territorio ottenuto da animali allevati con foraggio della Pianura Padana che conferisce al latte una delicata nota erbacea. Lo Squacquerone prende il suo nome dal dialettale “squacqueron” ovvero lasciarsi andare, in riferimento alla sua consistenza così molle dovuta alla breve maturazione. E poi la Ricotta, lo Stracchino, la Casatella, il Raviggiolo e due specialità a latte crudo: la Montanara, a media stagionatura caratterizzato da una leggera crosta in superficie, ideale per taglieri o da accompagnamento; e lo Stanco di Brisighella, a pasta tenera, con crosta fiorita edibile, morbido, dal sapore dolce e delicato.
Formaggi a latte di pecora – dalla Caciotta al Pecorino, anche a latte crudo, perfetti in un tagliere, in accompagnamento all’aperitivo o come ingredienti per la preparazione di primi e secondi piatti.
Formaggi a latte di capra – tre specialità, Caprino in due varianti e Ricotta, altamente digeribili, ideali per chi ama sperimentare perché perfetti in abbinamento ai salumi, ai vini bianchi o come ingrediente per primi piatti.
Autore: Guido Parri
Il mercato globale della pasta è stato valutato a 68,35 miliardi di USD nel 2023 e si prevede che crescerà da71,42 miliardi di USD nel 2024 a 100,24 miliardi di USD entro il 2032, con un tasso di crescita annuale composto del 5,47% durante il periodo di previsione 20242032.
Nel 2023, l’Italia si distingue nettamente per il consumo pro capite di pasta con 23 kg, quasi il doppio rispetto al secondo paese, la Tunisia, con 17 kg. Seguono il Venezuela con 15 kg e la Grecia con 12,2 kg. Il nostro Paese si conferma il maggior produttore mondiale di pasta con 3.670 mila tonnellate, distanziando nettamente gli altri paesi. Gli Stati Uniti e la Turchia seguono con una produzione simile, rispettivamente 2.000 e 1.987 mila tonnellate.
Di fronte a questi dati, inseriti in una ricerca sul mercato della pasta elaborata da Businesscoot, non resta che prendere atto del fatto che la pasta – secca, ripiena, fre-
sca o surgelata – resta il piatto simbolo del nostro Paese, sia nei consumi casalinghi sia nei menu dei ristoranti. Ma non solo: nel 2023, l’Italia ha dominato il mercato europeo delle esportazioni di pasta, con un valore di 4.435 milioni di dollari, superando di gran lunga la Turchia, seconda classificata con 907 milioni.
In questo contesto è utile ricordare che in Italia l’industria alimentare, in particolare quella legata alla pasta, vanta un primato indiscutibile: quello di avere – sia come industria sia come artigianato – i migliori trasformatori di materie prime. Infatti il grano con cui realizziamo tutta la pasta in Italia non proviene, se non in minima parte rispetto al fabbisogno, dai campi italiani. Certo, oggi c’è una tendenza all’utilizzo dei grani antichi ma quanti di questi sono veramente tracciati e quanti non hanno
subito, anche se in modo naturale, delle trasformazioni. Basti pensare alla storia del grano antico più famoso, quello denominato Senatore Cappelli.
Un grano selezionato nel 1915 dal genetista Nazareno Strampelli da una varietà tunisina - Jenah Rhetifah –per la sua adattabilità. Fu dedicato e da lì prese il nome al senatore Raffaele Cappelli, perché aveva avviato le trasformazioni agrarie in Puglia. Era un grano che, seppur molto alto, era infatti molto più produttivo dei grani duri utilizzati in precedenza e portò le rese dalle 0,9 tonnellate per ettaro del 1920 a 1,2 della fine degli anni ‘30. Inoltre è un grano che presenta caratteristiche di elevata digeribilità ed è raro che scuocia in pentola. Oggi la pasta realizzata con grano Senatore Cappelli è considerata troppo costosa e questa cosa è assurda, soprattutto se questa affermazione viene dai ristoratori e dagli chef. Se pensiamo che, al massimo, arriva a costare cinque euro al chilo e che, con un chilo di pasta, si ricavano 12 porzioni vendute minimo a 10 euro a porzione.
Parlando, invece, semplicemente di grano italiano, la tendenza dei ristoratori si muove verso questa tipologia ed è un dato reale la crescita della domanda verso questo segmento di mercato: i consumi di pasta in Italia si sono orientati al prodotto derivante da 100% da grano
italiano, registrando un aumento del 29%, triplice rispetto all’andamento della domanda di pasta proveniente da materie prime non completamente italiane. A riprova di questo si sta vedendo un fiorire di etichette che riportano l’indicazione di grano italiano come componente della pasta.
Gli esempi sono innumerevoli e citarli tutti diventerebbe un elenco infinito ma questo è un buon segno di una filiera sempre più controllata e di stabilimenti per la lavorazione sottoposti a regole ferree di rigore e pulizia.
Il rapporto Businesscoot evidenzia come, negli ultimi anni, il mercato della pasta abbia vissuto un’evoluzione significativa, determinata da diversi fattori: nuove abitudini alimentari, preoccupazioni ambientali e innovazioni tecnologiche. Le preferenze delle persone stanno cambiando, con una crescente richiesta di prodotti più sani, sostenibili e convenienti. Questo ha portato alla nascita di nuovi trend che stanno plasmando la domanda di pasta a livello globale. Di seguito, esploriamo in dettaglio questi nuovi trend e le loro implicazioni per il mercato. 1.
Pasta a base di ingredienti alternativi:
La crescente consapevolezza sulle intolleranze alimentari e sulle diete speciali ha portato a una maggiore domanda di pasta realizzata con ingredienti alternativi:
Pasta senza glutine: realizzata con farina di riso, mais, quinoa, e grano saraceno. È particolarmente popolare tra le persone celiache o con sensibilità al glutine.
Pasta a base di legumi: prevede l’utilizzo di lenticchie, ceci, piselli e fagioli per aumentare il contenuto proteico e la fibra, rispondendo alle esigenze di diete ad alto contenuto proteico e basso indice glicemico.
Pasta di Verdure: è integrata con verdure come spinaci, barbabietole e carote, ideale per coloro che cercano di aumentare l’assunzione di verdure nella loro dieta.
2
Pasta artigianale e di alta qualità: c’è un ritorno verso prodotti più tradizionali e artigianali.
Pasta artigianale: realizzata con metodi tradizionali, spesso da piccole imprese locali che utilizzano grani antichi come farro o il kamut.
Pasta di semola di grano duro: con un’attenzione particolare alla qualità del grano e al processo di essiccazione lenta a bassa temperatura, che conserva meglio le proprietà organolettiche del prodotto. 3.
Sostenibilità e tracciabilità: sono fattori chiave per i consumatori:
Agricoltura Sostenibile: comincia a essere evidente una preferenza per la pasta prodotta con grani coltivati attraverso pratiche agricole sostenibili.
Tracciabilità: sistemi che permettono ai consumatori di tracciare l’origine degli ingredienti, garantendo trasparenza e qualità.
Sono davvero tanti i fattori che stanno cambiando il mondo della pasta a cui i ristoratori e gli chef devono prestare attenzione, se non altro perché i gusti e, soprattutto, i bisogni dei loro clienti si stanno modificando.
In un momento storico come quello in cui ci troviamo ove più che mai monitoraggio dei costi, standardizzazione del prodotto e scarsa manodopera diventano fattori fondamentali, potersi affidare a semilavorati di qualità realizzati da aziende specializzate nel settore (come Ali Big che opera ormai da 40 anni) diventa assolutamente un grosso plus.
Da un lato riesce a garantire un prodotto sempre costante nel tempo, di qualità, che possa snellire e velocizzare l’operatività in cucina ma che dall’altro lato lasci comunque libero il professionista di personalizzare le proprie ricette.
A questo proposito abbiamo chiesto proprio all’azienda Ali Big di fornirci qualche informazione sui loro prodotti di punta per condire ogni tipo di pasta.
“La crema tartufata è una crema a base di champignon arricchita dalla presenza del tartufo nero estivo. Sapore chiaro, intenso e distintivo di tartufo che determina un prodotto perfetto nel per condire delle salse a base di funghi, piuttosto che dei ragù di carne, con cui mantecare della pasta. In modo più creativo, questa crema può essere utilizzata all’interno del proprio impasto, permettendo così di trafilare della pasta fresca già personalizzata prima ancora che venga cotta. – ci spiegano dall’azienda - La crema di peperoni si caratterizza per la sua consistenza vellutata ed avvolgente. È un prodotto che abbiamo identificato come “cremosa”, per differenziarla rispetto a quanto avevamo già in gamma, in quanto non ha presenza di pezzi di verdura al suo interno. Per questo motivo ben si presta ad esempio per condire una pasta rendendola così ben mantecata e più piacevole al gusto. Il pesto rosso è una delle altre novità di quest’anno. È un condimento saporito a base di pomodori secchi, capperi e basilico che definiamo pesto in quanto la sua texture è leggermente meno omogenea rispetto ai due prodotti precedenti. Si presta chiaramente molto bene per essere abbinato a dei primi piatti, oppure affiancato a ragù di mare e pesce. Anche in questo caso può essere inserito all’interno dei propri impasti, in modo da poter personalizzare la propria pasta fresca, gnocchi piuttosto che utilizzato per dei ripieni. Il pesto di pistacchio è ormai uno dei prodotti di tendenza nella ristorazione attuale. Anche in questo caso definito pesto per la stessa ragione di cui sopra. Può essere abbinato a svariate preparazioni, dai risotti alla pasta, sia con carne, pesce che formaggio. È possibile utilizzarlo come ingrediente per caratterizzare il ripieno di una pasta fresca o come ultimo tocco di gusto e decorazione per le proprie preparazioni”.
Clicca e leggi l’articolo sul web
Autore: Guido Parri
I professionisti di ospitalità e ristorazione si incontrano a Riva del Garda per la 49a Hospitality, hub di tendenze, innovazioni, networking e formazione
Dal 3 al 6 febbraio 2025, al quartiere fieristico di Riva del Garda, va in scena Hospitality – Il Salone dell’Accoglienza, la fiera internazionale leader in Italia nel settore Ho.Re.Ca.. Con oltre 800 aziende che abbracciano tutti i segmenti del comparto, il format espositivo è suddiviso nelle quattro aree tematiche (Beverage, Contract & Wellness, Food & Equipment e Renovation & Tech) a cui si aggiungono le tre aree speciali dedicate alla birra artigianale, all’arte della miscelazione e all’enoturismo che animeranno il padiglione B4 fino a mercoledì 5 febbraio.
“Il ruolo di Hospitality è quello di supportare gli operatori nel fare impresa ma l’importanza della manifestazione è riconosciuta anche per il grande valore economico, sociale e culturale che genera sul territorio - commenta Alessandra Albarelli, Direttrice Generale di Riva del Garda Fierecongressi. - L’evento si distingue per la quantità e varietà dei contenuti e per la qualità della proposta espositiva, perché l’obiettivo è quello di offrire una panoramica completa sul settore, intercettando e anticipando le tendenze del mercato con idee concrete e utili per il business degli operatori professionali che visitano la fiera. Ogni anno ne accogliamo circa 20.000, il pubblico ideale per le aziende espositrici che presentano prodotti e servizi in un periodo strategico, poco prima dell’inizio della stagione estiva.”
Sostenibilità, inclusione e accessibilità restano tematiche centrali che ispirano sia le attività formative che quelle esperienziali.: Grazie alla rinnovata collaborazione con Village for All – V4A, il primo
network italiano di ospitalità accessibile, e Lombardini22, gruppo leader nello scenario italiano dell’architettura e dell’ingegneria, quest’anno lo spazio DI OGNUNO indagherà la sala colazione offrendo suggerimenti su come andare incontro alle necessità di tutti, o meglio di ognuno La Sala Colazione Inclusiva mostrerà soluzioni pratiche per progettare un ambiente capace di superare le barriere architettoniche, favorire l’inclusione sensoriale e rispondere alle diverse esigenze alimentari, tenendo conto di intolleranze, allergie e scelte etiche e personali.
Tra le numerose iniziative esperienziali per coinvolgere maggiormente i visitatori, The Spirits Escape, la grande novità dell’area RPM-Riva Pianeta Mixology per un’esperienza immersiva e multisensoriale che vedrà barman e professionisti di ristorazione e hôtellerie cimentarsi nella sperimentazione di cocktail innovativi guidati da esperti mixologist... reali e virtuali.
Per dare forma e carattere agli spazi e renderli accoglienti, all’interno del padiglione B2, sarà ospitata la Mostra “Esperienze e sensibilità con il linguaggio Materico”: un progetto di design a cura di ADI-VTAA con focus sulla ristorazione in ambiente outdoor. Attraverso materiali, oggetti e complementi sarà possibile trasferire al visitatore l’idea di un interior design di ristorazione en plein air e di una mise en place dedicata a uno specifico luogo e momento, oltre che al cibo, protagonista della tavola e delle emozioni che rimarranno nella memoria dell’ospite.
Ricco come sempre il programma formativo di Hospitality Academy e con gli incontri di aggiornamento professionale con il contributo di esperti, opinion leader e associazioni di categoria che si alterneranno sul main stage e sui palchi delle 8 arene tematiche. Nella Restaurant Arena, sono in calendario una serie di appuntamenti tecnico-professionali con focus su IA, tecnologia,
management, gestione delle risorse e budget a cura di RistoBusiness, società di consulenza specializzata in alta formazione nella ristorazione.
Non mancheranno i concorsi come l’Horeca Social Stars, per celebrare l’eccellenza digitale nel settore Horeca premiando i locali più attivi sui social media, e il Best Wine Hospitality Manager, un riconoscimento per i migliori professionisti dell’enoturismo.
A Riva del Garda, farà tappa anche il contest “Mistery Box 2025”, uno scontro con ingredienti a sorpresa della tradizione italiana fra team, composti da un professionista senior e uno junior, impegnati a promuovere i valori della cucina italiana e che vedrà la squadra vincente in gara alla finale Nazionale di Rimini 2025. La Food Arena sarà anche palcoscenico sul quale l’Unione Regionale Cuochi Trentino-Alto Adige, in collaborazione con la FIC-Federazione Italiana Cuochi, premierà la migliore Lady Chef 2025, oltre che per le iniziative formative di NIC in School riservate agli studenti degli Istituti Alberghieri che, per la prima volta in una fiera, si sfideranno anche in un Cooking Quiz
Il commitment di Hospitality per un’ospitalità accessibile e inclusiva è dimostrato anche da iniziative come “Pranzo a 4 mani e 2 occhi”, proposta dall’Unione Regionale Cuochi Trentino-Alto Adige in collaborazione con l’Associazione ABILNOVA che vedrà alcuni associati con diverse forme di disabilità - ciechi, ipovedenti o con difficoltà uditive - servire ai tavoli.
Grazie all’app dedicata alla manifestazione (Hospitality Digital Space), è possibile organizzare la propria visita in fiera, pianificando appuntamenti con le aziende espositrici, consultare la mappa interattiva, il catalogo espositori e prodotti e il programma eventi in continuo aggiornamento.
Online su www.hospitalityriva.it le informazioni per esporre e visitare la fiera
Clicca e leggi l’articolo sul web
Autore: Guido Parri
È stata decisamente interessante la Food Academy dedicata al mondo pizza che la Tondini srl, azienda di distribuzione aderente a Cateringross, ha organizzato per i propri clienti pizzaioli presso la Farinoteca del Molino Perteghella a Solarolo, in provincia di Mantova.
“Un luogo pensato per la formazione. – ha affermato Roberto Pegorari, direttore commerciale del Molino – Lo abbiamo voluto proprio per ospitare incontri di questa levatura dove non sono solamente gli aspetti commerciali che ci interessano, bensì il confronto; tra le aziende e, in questo caso, abbiamo coinvolto Demetra e Wiberg oltre al nuovo brand DoGusto di Cateringross, e tra i protagonisti del mondo pizza che stanno alzando sempre di più la loro attenzione verso prodotti originali e di provata qualità”.
Dopo una rigorosa visita al molino, specializzato in farine di grano tenero per le pizzerie dove i pizzaioli hanno toccato con mano la complessità di ottenere una farina adatta alle loro creazioni il gruppo è stato accolto in Farinoteca da Benhur Tondini che ha ringraziato i propri clienti per aver dedicato una giornata alla formazione, da Paolo Bulfone di Demetra e da Federico Libero di Wiberg.
Formazione che si è concentrata sulla degustazione e preparazione di sei pizze con le farine Perteghella e i topping di Demetra, le spezie di Wiberg e i salumi e la
mozzarella di DoGusto.
Le presentazioni dei prodotti sono state fatte con il racconto delle loro caratteristiche ma anche con richiami storici e territoriali di quelle materie prime.
È stato spiegato dettagliatamente perché il Molino Perteghella ha scelto la strada di lavorare solo i grani teneri per le proprie farine legandolo alle tradizioni del territorio mantovano dove la pasta fresca la fa da padrona.
Demetra ha evidenziato le differenze delle sue preparazioni – funghi, friarelli, crema di zafferano – esaltando le caratteristiche sia del prodotto, senza scarto e con molta materia prima, sia del nuovo packaging che sostituisce, in alcuni casi, la sac à poche.
Così come Wiberg ha evidenziato come la sua presenza sui marcati intrnazionali delle spezie abbia contribuito a migliorare la qualità e la cura del prodotto oltre alle condizioni di vita delle popolazioni.
Poi è stata la volta dei prodotti DoGusto, il nuovo brand trattato in esclusiva dai soci di Cateringross; coppa piacentina DOP, pancetta piacentina DOP, guanciale amatriciano, mozzarella maltagliata sono stati oggetto di forte apprezzamento da parte dei pizzaioli presenti che hanno riscontrato in tutte queste materie prime, oltre alla qualità percepita, un’originalità di proposta che offre una precisa identità alle loro pizzerie.
Autore: Guido Parri
Mini Burger di pregiata carne di Scottona senza glutine e senza lattosio, versatili, gustosi e soprattutto ready to cook: è questa l’ultima novità di Centro Carni Company, l’azienda di Tombolo (PD) con più di 40 anni di esperienza nel settore della lavorazione della carne bovina conosciuta in tutta Italia, e non solo.
I mini burger: la soluzione ideale per le ricette finger food
Il prodotto, che andrà ad ampliare la già ampia gamma di proposte firmate Centro Carni Company per i canali Ho.Re.Ca e Food Service, nasce dal desiderio di lanciare sul mercato un prodotto veloce da preparare e ideale per le ricette finger food.
Con il sapore di sempre, ma un formato del tutto nuovo (ogni pezzo pesa circa 40 g), i Mini Burger sono perfetti per preparare i tipici piatti gourmet di piccole dimensioni presenti ai buffet delle feste o ai banchetti allestiti in occasioni di eventi lavorativi.
I Mini Burger si abbinano a numerosi ingredienti. Centro Carni Company suggerisce di utilizzarli per preparare dei piccoli panini, perfetti da consumare in contesti diversi, abbinati agli ingredienti più classici o ad ingredienti più gourmand, ricercati e saporiti.
In conclusione, si può dire che è dall’amore, tramandato di generazione in generazione, così come dalla
continua volontà di innovarsi e adattarsi alle nuove esigenze dei consumatori, che prendono forma i Mini Burger di Scottona, un’esplosione di gusto e qualità Made in Italy, ma in formato pocket, dell’azienda padovana.
Clicca e leggi l’articolo sul web
Autore: Luigi Franchi
Il venditore 5.0, o ti evolvi o ti estingui
Già la prefazione di Eugenio Signoroni dà un certo spessore a questo saggio scritto a quattro mani da Paolo Sampò e Tatiana Porta, sposati nella vita privata, concorrenti in quella professionale. Signoroni è un attento conoscitore delle dinamiche della ristorazione avendola vissuta da dentro come curatore della guida delle Osterie d’Italia per oltre un decennio e leggendo la sua prefazione si capisce subito che il volume ci riserverà molte belle sorprese.
Gli autori partono da lontano per definire la figura del venditore e lo citano agli albori quando era un mercante, cioè una figura che subentra nei ruoli sociali come colui che sapeva cogliere le opportunità. Se ci pensiamo bene è ancora così, un bravo venditore è sempre in cerca, sempre alla ricerca di nuove opportunità per soddisfare i propri interessi.
Oggi però, purtroppo, avviene il contrario rispetto ad allora: poca intraprendenza nelle persone, sviluppo delle tecnologie che offrono modi alternativi di acquisto, ma non è tutto finito.
Il venditore 5.0, o ti evolvi o ti estingui
Paolo Sampò e Tatiana Porta
Bookness editore
Pagine 203
Euro 20,00 www.bookness.it
Innanzitutto il venditore deve imparare a cogliere i vantaggi dalla tecnologia come, ad esempio, la gestione del tempo e dei cataloghi di prodotti. Nel volume gli autori indicano una strada moderna e originale per diventare un bravissimo venditore quando scrivono: “quando contatti un cliente il tuo scopo non deve essere quello di vendergli subito qualcosa, ma di accompagnarlo fino al momento in cui prenderà la decisione di comprare da te, in autonomia. Tu dovrai solo nutrirlo: puoi chiamarlo per aggiornarlo sulle novità, fornirgli informazioni utili al suo lavoro, con lo scopo di farlo crescere e diventare consapevole di ciò che puoi dargli. In questo modo darai valore al vostro rapporto e ti guadagnerai la sua fiducia”.
Questo passaggio, da solo, può valere l’intero volume ma non è così perché in queste pagine ci sono molte riflessioni e consigli per chiunque voglia fare questa professione e anche per chi è titolare di un’azienda che necessita di venditori bravi.
“Dobbiamo metterci in ascolto del mercato e del cliente”. Questo è tanto più vero quando si è venditori nel settore horeca. Un comparto dove le persone, molte volte, non hanno più vita sociale e se dedichi a loro, ristoratori e chef, la tua attenzione, quella vera, ti saranno per sempre riconoscenti.
Nel volume si arriva a parlare del titolo – Il venditore 5.0 – e si suggerisce, per prima cosa, di applicare su sé stessi la filosofia Kaizen che si concentra sull’evoluzione, non sulla rivoluzione. Cambiare un poco ogni giorno, effettuare piccoli ma continui miglioramenti. Uno stile che è decisamente in controtendenza in un mondo che corre forsennatamente ma che si schianterà prima o poi.
“Se impari tale approccio – scrivono gli autori – smetterai di procrastinare, perché i compiti che ti attendono non saranno più così onerosi o troppo difficili come immaginavi”.
Ci sono decine di suggerimenti e consigli in questo volume e non vogliamo certo svelarveli tutti, ma di sicuro possiamo suggerirvi di leggerlo. Vale il viaggio, come dicono le migliori guide!
Un sincero grazie a tutti voi per aver reso questo anno così speciale! Vi auguriamo un 2025 pieno di buon cibo e ottimo vino, soddisfazioni e successi per voi e per le vostre attività!
Buon anno a tutti voi dal Team Madia!