ecoMAB
Dal paesaggio dell’abbandono alla conoscenza partecipata
ecoMAB _ pellegrinaggio ecoMuseale nell’Agro Biscegliese
Dal paesaggio dell’abbandono alla conoscenza partecipata ecoMAB _ pellegrinaggio ecoMuseale nell’Agro Biscegliese
progetto di tesi di Silvia Sinigaglia, matricola 770026 relatore Prof. Pietro Cesare Marani Politecnico di Milano Scuola del Design Cdl Magistrale Interior Design AA 2011-2012
composizione in Conduit
-4-
Robert Smithson, citato in F. Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi editore, 2006.
“We need to go where distant futures meet distant pasts.�
-5-
Introduzione
Abbandonare. Lasciare senza aiuto e protezione, lasciare in balìa di se stessi o di altri. Smettere di occuparsi di una cosa. Smettere di averne cura.
Oggetto d’esame è un paesaggio dell’abbandono, situato nell’entroterra di Bisceglie (Puglia, provincia di Barletta-Andria-Trani), un paesaggio marginale ancora ricco di stratificazioni storiche e preistoriche, che custodisce un prezioso patrimonio di segni, materiali e immateriali, testimonianza dello stesso legame costruito nei secoli tra l’uomo e l’ambiente. Lungi dalle sterili nostalgie se ne vuole conservare la memoria e ricostruire i tratti essenziali della cultura materiale, dell’organizzazione sociale e dell’esistenza delle passate generazioni. Il lavoro prevede una prima fase di studio ed analisi del territorio, volta ad individuare gli elementi che possano far parte di un museo diffuso e che meritino di essere conosciuti e valorizzati; una seconda in cui organizzare dei percorsi di visita; ed una infine progettuale, nella quale proporre interventi architettonici reversibili, puntuali, agili e leggeri. Il museo diffuso sarà volto a coinvolgere beni storici, artistici, naturali, paesaggistici e legati all’archeologia che, pur non avendo le caratteristiche peculiari per divenire o costituire parte di musei di tipo tradizionale, sono fondamentali per la definizione e la conservazione dell’identità e delle tradizioni proprie della comunità locale. Gli ecomusei infatti sono nati e tuttora nascono per volontà delle comunità locali, non al fine di richiamare turisti o visitatori, o per una mera questione di marketing territoriale, ma per la necessità che ogni comunità ha di ricercare le proprie radici e di stabilire la propria peculiarità, in un mondo che si sta sempre più avviando nella direzione della globalizzazione e dell’omologazione. Infatti il progetto ha preso forma a partire dalla domanda sul destino di questi luoghi, sul presagire un futuro di totale abbandono e di disinteresse da parte della comunità, e sull’urgenza di sviluppare per essi una nuova desiderabilità sociale. Da qui è scaturita un’altra ipotesi: può un evento o un’attività che implichi la partecipazione e la presenza della popolazione, interagire con il destino del luogo? La risposta che il progetto si propone di dare si fonda sul concetto che tutto quello di cui il luogo necessita è la presenza umana, che modifica l’ambiente e la preesistenza per renderla nuovamente vivibile; unico strumento di supporto è l’allestimento di micro architetture parassite che diventano traccia dell’inizio di una cura, di una riattivazione mirata del paesaggio, innesco di un potenziale processo di guarigione.
Indice Introduzione
5
PARTE I 1.
Origini di un concetto 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 1.7 1.8
13 Heimatmuseum e G.H.Riviere I proto ecomusei La Nouvelle Museologie e il cocetto di patrimonio Ecomuseo Hugues De Varine Personalità: P. Boylan, P. Davis, A. Jorgensen Ecomusei in Italia Casi studio _Museo diffuso di Cavallino, Lecce _Museo della Città, Brescia _Luci dell’antico, Ostia Antica _Parco naturale tosco-emiliano, Atelier dell’energia e dell’acqua _Savogno, progetto Artemide, Bergamo _Forte di Vinadio _Ecomuseo della lavorazione della canapa, Carmagnola _Museo del tessile, Chieri _Museo della miniera, Prali _Museo delle Alpi, Bard
2.
Ecomusei, modelli in evoluzione 2.1
3.
30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 41
Ecomusei in Puglia
42 47
Temi 3.1 3.2 3.3 3.4
14 17 19 22 24 27 28 30
Il territorio come oggetto Patrimonio locale diffuso Sviluppo territoriale sostenibile L’identità come partecipazione attiva
48 49 51 52
3.5
4.
La progettazione partecipata, tre esempi
53
_Marrai a Fura _Dergano Officina Creativa _Controprogetto Park Urka
55 56 57
Indagine territoriale 4.1 4.2
59 Morfologia del territorio Storia
62 64
_origini della città _ periodo greco-romano e l’Alto Medioevo _ periodo normanno-svevo e angioino _ periodo aragonese, austriaco e borbonico _Risorgimento _dall’Unità d’Italia ai giorni nostri 4.3
Società
71 _tradizioni e folklore _la vita economica
4.4
Cultura
71 76 80
_la cucina tipica _il dialetto _i musei 4.5
64 64 66 67 69 70
80 81 90
Il sistema delle conoscenze
92
_le stazioni preistoriche dal Paleolitico all’Età dei Metalli
92
Grotte di Santa Croce Grotte delle Due Crocette Grotta Navarrino Dolmen La Chianca Dolmen Albarosa Dolmen Frisari
_dall’Età del Ferro all’Età Romana Documentazione archeologica Colonna miliare
101
_gli insediamenti protourbani dal Tardoromano all’Alto Medioevo
106
Casale di Giano Tempio di Giano Chiesa S. Maria di Giano Casale di Pacciano Chiesa S. Angelo di Pacciano Casale di Cirignano Casale di Sagina Pedata dei Santi Casale di Zappino Chiesa S. Maria di Zappino
_le torri di vedetta di epoca normanno-sveva
123
torre Zappino torre Longa torre Gavetino torre Cassanelli torre Albarosa torre Scorrano torre a Stradelle torre Denza torre Consiglio torre Casanova torre Alverone torre d’Alba torre Licurgo torre Maestra e Castello
PARTE II 5.
135
Il progetto _ ecoMAB 5.1 5.2
Obiettivi e valori progettuali Come avviare il progetto
146 147
_rete dei finanziamenti Bollenti Spiriti MiBac FAI Assessorato al Mediterraneo Cultura e Turismo, Regione Puglia
149
_associazionismo
151 Proloco Zonaeffe Agiscout Biciliae
5.3
Gli strumenti
154 _l’immagine coordinata e la segnaletica di orientamento _i servizi _le tecnologie _la mappa di comunità diffusa nel bollettino d’informazione comunale
6.
7.
Il circuito 6.1 6.2 6.3 Il sistema puntuale 7.1 7.2
154 160 162 164
Itinerario delle stazioni preistoriche Itinerario degli insediamenti protourbani Itinerario delle torri di vedetta
167 169 170 171
Il parassitismo Riferimenti progettuali
173 174 176
_Krijn de Koning, Beaufort 03, Belgio _Vito Acconci & Steven Holl, Storefront for Art and Architecture, NYC _Convertible City, Padiglione Tedesco, X Biennale di Venezia _EXYZT architecture, Métavilla, Padiglione Francese, X Biennale di Venezia _R&Sie(n), Spidernethewood, Nîmes _Jan Vormann, Dispatchworks, Parigi _Natural Architecture, Padiglione Rep. Ceca e Slovacca, XII Biennale di Venezia _Numen, Net z33, Hasselt _Gambardellarchitetti, Torre dello Ziro, Pontone d’Amalfi _nArchitects, Windshape, Lacoste
176 177 178 179 182 183 184 185 186 187
7.3
Bussola, infopoint _il nuovo riscopre l’antico: la rivelazione
7.4
Focus su punto 1, itinerario 1 _il nuovo si conforma nell’antico: l’inclusione
7.5
Focus su punto 2, itinerario 2 _il nuovo riprogetta l’antico: la rigenerazione
7.6
Focus su punto 7, itinerario 3 _il nuovo si muove nell’antico: la mutazione
Conclusioni
188 188 198 198 204 204 212 212 219
1. Alessandro Magnasco, L’arresto dei briganti, 1710 -12-
1. -13-
Origini di un concetto
Ecomuseo: un concetto che lungo tutto il secolo scorso, dalle sue forme primordiali sino ai più attuali ecomusei urbani, ha visto innumerevoli applicazioni e attitudini, soprattutto nel livello di coinvolgimento della popolazione locale. L’interazione fra i vari attori è diventatata nelle applicazioni contemporanee del termine, il principio fondante alla creazione di strumenti adatti in primo luogo a conservare i beni che costituiscono il patrimonio locale, ma allo stesso tempo capaci di generare sviluppi progettuali attenti ad uno sviluppo sostenibile, fra la memoria storica e un territorio capace di coinvolgere e comunicarsi. In quest’ottica è stata svolta una fase iniziale di ricerca adatta a comprendere a fondo le origini di un concetto che si è via via dimostrato sempre più ampio e ricco di sfaccettature, definizioni ed applicazioni. Gli ecomusei non nascono come esperienze isolate; sono infatti il frutto di una rivoluzione sociale ma anche museologica in corso da tempo e che già aveva prodotto alcuni significativi risultati a partire dalla fine del XIX secolo. Processi lenti che hanno ridefinito il concetto di patrimonio: la nascente sensibilità verso la tutela delle testimonianze fino a quel momento considerate “minori”, come le architetture tradizionali, abbigliamenti tipici o tradizioni gastronomiche o enologiche, ma anche elementi immateriali come lingue e dialetti, storie, proverbi, professionalità legate a mestieri che non si praticavano più, si devono le prime esperienze e tentativi di raccontarlo attraverso nuove forme museali.
Per percepire la specificità delle radici del concetto “Ecomuseo”, converrebbe piuttosto partire alla ricerca degli obiettivi che si sono fissati i primi creatori, nelle realizzazioni che costituirono dei prototipi per l’ecomuseologia e che vennero profondamente conosciuti e studiati soprattutto da George Henry Rivière. Le strade intraprese dagli Heimatmuseum in Germania a inizio Novecento, attraverso gli Open Air Museum e la Nouvelle Museologie, hanno definito nei decenni un nuovo approccio al tema della valorizzazione conservativa, sul come e soprattutto sul cosa valorizzare: temi che si affacciano con pertinenza al mondo del design dei servizi e dei beni culturali, in grado di offrire una progettualità attenta ai metodi di interazione e alle tecniche comunicative e di diffusione dei principi di sussidiarietà e conoscenza diffusa.
1.1 -14-
Origini di un concetto
Heimatmuseum e G.H.Riviere
Quando alla fine degli anni 1920 G.H.Rivière comincia la sua carriera in qualità di assistente di Paul Rivet nel museo di etnografia di Trocadero, le sue ricerche si accompagneranno ai viaggi di studio che lo condurranno a visitare e a confrontare i musei etnografici degli USA, d’Europa e dell’URSS. Egli conoscerà bene i musei etnografici di Berlino, Hamburgo e Colonia. In una conferenza pronunciata il 23 marzo 1936 a l’E’cole du Louvre egli porta l’attenzione sulla specificità tedesca che costituivano gli Heimatmuseum, di cui valuta un numero pari a cento, fissando nella Haus der Rheineschen Heimat (la casa della patria renana) che si trova a Colonia, l’archetipo di questo genere di musei. La casa della Patria Renana nacque nel 1925 durante un’esposizione sulla Renania presentata in occasione delle celebrazioni dei mille anni della città di Colonia. Il museo intendeva essere dedicato alla cultura e alla storia dei paesi del Reno e si rivolgeva a tutti gli strati della popolazione. Per ospitarlo si scelse un’antica caserma che offriva una superficie di esposizione di 10.000 mq. Konrad Adenauer allora sindaco di Colonia si mette a capo di questo progetto e si sforza di ottenere delle sovvenzioni pubbliche e private. È solamente nel maggio 1936 che l’edificio fu ufficialmente inaugurato. I nazisti arrivati al potere nel 1933 considereranno il museo come loro creazione. Wilhelm Ewald direttore del museo e il suo collaboratore Joseph Klersch optarono per una concezione museale che comportava numerosi riferimenti al nazionalsocialismo.
Nella Casa della patria renana si trovava riunita l’etnografia e la storia presentata in cinque sezioni: l’evoluzione storica e politica, la chiesa, le città e i loro abitanti, la popolazione agricola, l’economia e i suoi lavoratori. Nel quadro della realizzazione museografica tenendo conto dell’urgenza e delle difficoltà finanziarie non fu possibile acquisire immediatamente una collezione originale: si espongono dei sostituti degli oggetti. La combinazione degli oggetti originali con delle riproduzioni e dei modelli così come l’apporto di grafici e statistiche corrisponderanno all’esigenza e alla speranza di distinguersi dai musei ‘polverosi’ del XIX sec. e di creare un’istituzione moderna suscettibile di attirare un grande pubblico. Questo modo di procedere autorizzava ugualmente a prendere delle libertà a livello di contenuti permettendo ad esempio una manipolazione degli oggetti esposti. Rivière commenta positivamente questo modo di esporre: “Uno dei principi direttori è stato di mescolare gli originali con delle riproduzioni. Lo scopo del museo non era infatti esporre delle opere d’arte ma di evocare con forza tutti gli aspetti della civilizzazione renana. Un altro principio che deriva dal precedente è stato di fare largo spazio ai grafici; è così che dei grandi pannelli illustrati esplicano l’evoluzione della milizia di Coloni, delle sue scuole delle sue amministrazioni municipali o ancora la rete e l’azione dei monasteri mentre dei modelli delle principali città renane mostrano la differente crescita urbana.”
A Colonia il principio museografico corrisponde-
-15-
va a un tentativo di distinguere la collezione in due parti: una collezione da vedere e una collezione da studiare. D’altro canto Klersch orienta l’obiettivo di un museo popolare tedesco insistendo sulle grandi linee di sviluppo della vita sociale e politica della Renania dal basso Medio Evo fino alla storia recente: “Gli heimatmuseum non devono essere un regno dei morti, un cimitero. E’ fatto per i viventi. E’ a loro che appartiene e essi si devono sentire a loro agio; infatti i viventi sono eternamente in marcia tra ieri e domani. Il museo deve aiutarli a vedere il presente nello specchio del passato, il passato nello specchio del presente, che produce il futuro. Servire il popolo ed il presente è in questo il punto cruciale per gli Heimatmuseum. in mancanza di ciò ripiomba al rango di collezione morta.”
E’ molto probabile che Rivière abbia conosciuto il testo di Klersch dopo che era stato pubblicato su Mouseion. Ed è lì che senza dubbio riprenderà più di trentacinque anni dopo che riprenderà la metafora dello specchio per definire l’ecomuseo e mettere in evidenza la maniera in cui il riconoscimento del passato serve alla costruzione del presente: “Uno specchio dove questa popolazione si guarda per riconoscersi dove essa cerca l’esplicazione del territorio al quale è attaccata unitamente a quella delle popolazioni che l’hanno preceduta nella continuità e discontinuità delle generazioni. Uno specchio che questa popolazione tende ai suoi ospiti per farsi meglio comprendere nel rispetto del suo lavoro e suoi comportamenti e della sua intimità.”
Il termine Heimatmuseum, che appare nel 1900, serviva inizialmente a qualificare i numerosi
musei regionali creati e diretti da appassionati di storia e da altri amatori che aspiravano a raccogliere in un luogo la cultura materiale della regione. Questi musei andranno via via moltiplicandosi con l’accrescimento della diffusione del concetto di identità nazionale. Infatti conosceranno una considerevole diffusione in Germania nel periodo fra le due guerre mondiali perché fu rono adottati per la necessità di coesione sociale avvertita alla fine del primo conflitto mondiale. Gli Heimatmuseum, nascono come piccole istituzioni destinate a valorizzare in un ambito locale molto ristretto la storia, un’attività lavorativa tradizionale, un’industria o il genio di un singolo personaggio e pongono al centro del museo la comunità locale. Il patrimonio e la storia locale vengono interpretati in senso olistico e viene attribuita molta importanza alla didattica, principi che caratterizzano anche gli attuali ecomusei. Nati attorno a elementi quali una costruzione dotata di un significato simbolico per la gente del posto, un personaggio che ha rivestito qualche importanza locale, un mestiere tipico. È un passo importante perché marca un progressivo distacco da una museologia concentrata sul “curioso” e l’“insolito” in favore di un maggiore interesse per il “quotidiano”, il “vissuto”, il “locale”. Tutti questi aspetti rappresentarono sicuramente novità importanti, ma furono mitigati in strumenti di propaganda politica. Largamente strumentalizzati dal regime nazista, che incoraggiò, attraverso l’attaccamento alla propria terra e
2. Ecomuseo di Uetersen, ricostruzione di una cucina storica -16-
alla propria specificità, il consolidamento e la diffusione di atteggiamenti xenofobi e ultranazionalistici. L’importanza data alla comunità locale venne interpretata in chiave nazionalistica, la didattica usata per l’indottrinamento e la dinamicità di questo tipo di musei venne contrapposta alla staticità dell’”arte degenerata”. Tuttavia questa esperienza museale conobbe una grande diffusione anche in campo internazionale (per esempio il Musée d’Arts e Traditions Populaires a Parigi inaugurato nel 1935), ed è presente tutt’ora in molti paesi. Gli Heimatmuseum conobbero inevitabilmente un periodo di crisi con la fine della guerra. Anche se ancora ne sopravvivono molti, hanno certamente perso molto dello slancio iniziale. Negli anni ‘80 si è potuto osservare una nuova ondata di Heimatmuseum in Germania: essi si diffusero in particolare nelle regioni rurali e costituirono il culmine di un nuovo concetto di musealizzazione ugualmente osservabile in Francia e negli altri paesi.
1.2 -17-
Origini di un concetto
I proto ecomusei
Open air museum I primi passi nella valorizzazione del patrimonio popolare in Europa risalgono alla fine del XIX secolo e, in molti casi, hanno come obiettivo il rafforzamento dell’identità nazionale. Questo tipo di impostazione è riscontrabile dapprima nelle esposizioni nazionali con le quali si intendeva mostrare la ricchezza patrimoniale di un paese. Significativa a riguardo fu la presentazione a Parigi durante l’esposizione internazionale del 1878 de ”l’ accampamento lappone” di Artur Hazelius come elemento significante del paese di Skansen in Svezia. Qualche anno dopo, nel 1891, venne allestito un ampio sito che ospitava la ricostruzione di complesse scene di vita e di lavoro rurale della scandinavia con utilizzo di figuranti, abitazioni di diverse epoche, vegetazione originale e animali caratteristici. Questa iniziativa, il museo è tutt’ora in attività, fu sicuramente una delle più innovative del periodo divenendo un modello tradizionale per tutti gli open-air museum scandinavi. Nei musei all’aperto, compresi i primi musei del XIX secolo, è comune la presenza di persone, rappresentanti delle diverse componenti della società, che spiegano i vari aspetti della vita quotidiana. Simili iniziative si hanno anche in Italia, nel 1894-95 a Palermo sotto la spinta di Giuseppe Pitrè e nel 1911 a Roma con la mostra di Etnografia Italiana. Si tratta però ancora di manifestazioni temporanee che soltanto più tardi daranno vita a istituzioni permanenti. All’interno di una grande varietà di contenuti
tematici e di formule organizzative la finalità comune dei vari musei all’aria aperta è, comunque, quella di riprodurre conservare e far conoscere ambienti di vita e di lavoro del passato. Molti musei all’aperto sono aree che raccolgono e ricostruiscono vecchi edifici, ricreando così villaggi o paesaggi storici. Per questo alla loro base vi è una complessa operazione di trasferimento, a cui più raramente possono affiancarsi o addirittura sostituirsi modalità alternative come la conservazione in situ o la ricostruzione ipotetica di edifici sulla base di studi storici archeologici ed etnografici. Difficilmente, comunque, queste procedure restituiscono complessi insediativi coerenti e omogenei in tutte le loro parti. Se i singoli elementi sono originali o costituiti da ricostruzioni storicamente fedeli, l’insieme che essi costituiscono non presenta alcuna autenticità. La ricostruzione spaziale, infatti, non è espressione del tessuto di relazioni funzionali che connetteva tali elementi al paesaggio di cui facevano parte. Da questo punto di vista i musei all’aria aperta, evidenziano su scala diversa alcuni limiti insiti nella logica concentratoria del museo tradizionale. Esso rimane pur sempre una collezione di edifici artificialmente accostati in uno spazio relativamente ristretto e separati dal proprio contesto originario, impossibile da ricreare nel suo insieme. Folklife Museum Introdotti negli Stati Uniti dagli emigranti scandinavi, conobbero larga diffusione intorno agli anni ’50. Sono musei di piccole dimensioni, for-
-18-
temente orientati alla valorizzazione della storia locale e al coinvolgimento democratico della comunità. Museo Atelier All’inizio degli anni ’60 in Danimarca comincia la diffusione di questo tipo di musei dove il pubblico non si limita ad assistere alle rappresentazioni, come per i musei all’aperto, ma vi partecipa, non si ferma all’osservazione degli oggetti, ma li utilizza. Industrial Heritage Nascono in Gran Bretagna e Stati Uniti negli anni ’70 come risposta ai rischi di declino industriale in eterminate aree. Sono piccoli musei di storia industriale e rurale votati alla salvaguardia anche del patrimonio recente e interessati a preservare non solo i reperti e le tecnologie, ma anche il saper fare popolare che ha consentito l’industrializzazione dell’area e ha caratterizzato la vita sociale della comunità. Sullo stesso filone potremmo introdurre i Cultural District, nati sull’esempio dei distretti industriali inglesi, ma a vocazione prettamente culturale. Rifacendosi alle teorie economiche, ridiscutendo il concetto e le caratteristiche del fenomeno della nascita dei distretti industriali, sono stati creati dei veri e propri distretti in aree periferiche e poco frequentate di alcune città inglesi con il fine di inserirle in un circuito culturale e così tentare di sottrarle dall’isolamento in cui erano sprofondate. In un certo senso anche questo tipo di esperien-
ze, seppur diverse dall’ecomuseo visto che non prevedono la tutela e cura dell’ambiente e della storia di una comunità, hanno contribuito a creare un concetto nuovo di “fare museo” che contempla uno stretto legame con il territorio, tanto da rappresentarne l’immagine (es: Hollywood e il cinema, Caltagirone e la ceramica).
1.3 -19-
Origini di un concetto
La Nouvelle Museologie e il concetto di patrimonio
I concetti di Nuova Museologia e di patrimonio vanno a braccetto e vivono, dagli anni ‘70, continue analisi e riflessioni, volte all’identificazione di nuovi modelli museali: sono innumerevoli gli enti ed i personaggi che si sono succeduti, tentando di trovare la descrizione definitiva di un movimento che, in realtà, si è sviluppato nei decenni ed è frutto delle molteplici realtà mondiali che lo compongono. Nuovi metodi di fruzione di nuove tipologie di contenuti, attraverso nuove tecniche di coinvolgimento partecipato del panorama territoriale, che allontano sempre più il vecchio concetto di museo. L’ICOM definisce la Museologia come una scienza applicata, la scienza del museo, che studia la conservazione, l’educazione e l’organizzazione di questo. La Museologia comincia a esistere quando il museo diventa lo specchio della società che lo esprime, il riflesso di volontà politiche precise e, insieme, la sintesi di una delega collettiva nei confronti del tempo. Uno dei compiti della museologia è elaborare, con un’accurata indagine storica, le linee portanti del concetto di “museo” e vederne gli effetti sugli aspetti funzionali e di conservazione. Quindi, da una parte, tenere il passo con la conoscenza del mondo esterno, continuamente relazionandola all’ambito museale; dall’altra, avere chiaro il progetto museologico, cioè l’ideale, il fine che si vuole perseguire. Russoli è il primo museologo italiano moderno, ed uno dei primi direttori di museo ad aderire alle iniziative dell’ICOM. Egli rifiuta l’idea del mu-
seo come camera del tesoro, tempio o laboratorio unicamente riservato a una ricerca specialistica, allontanando dal panorama la concezione ottocentesca del museo. Il suo pensiero progettuale introduce e induce al concetto di accordo tra i vari musei di una città, affinchè si armonizzino e funzionino insieme come una rete di produttori di cultura, per porsi in una prospettiva unitaria, o meglio, guardare dalla giusta distanza a una situazione museale nella sua complessità. La museologia tradizionale si basava sulla trasmissione di conoscenze che si riducevano a documentare la storia del museo e delle sue collezioni e ad enumerare le sue funzioni. A partire dal grande impulso che ricevette la Museologia, quando nel 1977 viene fondato, all’interno del ICOM, il Comitato di Museologia o ICOFOM, si apre un’opera di rielaborazione e ristrutturazione delle basi di questa scienza. Nasce la Nuova Museologia che vede come suo più illustre rappresentante Henrí Riviere. Si passa da una museologia che considerava l’oggetto come protagonista, ad una nuova museologia che considera l’oggetto come un documento storico e che investe infatti d’importanza la comunità di persone da cui questa parte di storia proviene, e che visitano l’esposizione. In quest’ottica risulta fondamentale il ruolo del MINOM (acronimo di Mouvement International pour la Nouvelle Muséologie) è un organismo affiliato all’ICOM e dedicato alla promozione dei temi e dei valori della “Nuova Museologia”, con un occhio particolare al campo dei musei comu-
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nitari e degli ecomusei. La missione del MINOM è quella di contribuire allo sviluppo delle capacità di interpretazione della società contemporanea, dando spazio maggiore alla partecipazione nel recupero della memoria passata, da consolidarsi nel presente, in vista di uno sviluppo futuro. Le azioni diffuse a rappresentare una nuova filosofia museale hanno quindi portato all’analisi dettagliata di un concetto chiave per la costituzione di una realtà atta allo sviluppo conservativo verso un’evoluzione sostenibile: il patrimonio culturale, insieme di beni materiali e immateriali di un luogo. Una prima riflessione è sul concetto stesso di patrimonio culturale. Una generale condivisione di linguaggio e di prospettiva su cosa si debba intendere per cultura, anche come conseguenza del gran numero di soggetti che se ne occupano e con finalità non del tutto coincidenti. Infatti la nozione stessa di cultura va al di là del patrimonio artistico e include ormai sia i beni, espressioni delle identità culturali locali, sia i servizi messi in atto per promuovere la loro conoscenza e la loro fruizione, funzioni tradizionalmente considerate come competenza dei settori “tempo libero” o “spettacolo”. Come nella tradizione anglosassone in cui il patrimonio culturale (cultural heritage) comprende da sempre le “performing arts”. In realtà il concetto di patrimonio culturale che sta emergendo in questi ultimi anni nella letteratura specializzata e nella pratica degli organismi internazionali che intervengono in questo
campo, compie un ulteriore passo. Essa va al di là del patrimonio definibile come insieme di beni storici, artistici, monumentali, demoetno- antropologici, archivistici, librari e altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà, per includere un panorama più ampio che abbraccia la valorizzazione e la miglior fruizione dei singoli beni culturali come elemento chiave di un più efficace rilancio delle risorse territoriali di un paese o di un’area. La promozione del patrimonio culturale è vista così come elemento di un progetto per la costruzione o la rivitalizzazione della rete di attività e servizi che connotano un contesto territoriale. I beni culturali vengono considerati quindi come una risorsa in grado di generare benefici ed esternalità di diversa natura, anche economici. Ma gli aspetti di novità che contribuiscono a rendere più complesso e strategico il ruolo della cultura sono molteplici. Le attività culturali costituiscono un rilevante giacimento di occupazione che va utilizzato adeguatamente. La disoccupazione può a sua volta contribuire, diffondendo un senso di precarietà e di insicurezza, a minare la coesione sociale. Questo si traduce spesso in emarginazione e le attività culturali costituiscono un fattore limitante del fenomeno, specie in ambito urbano. I flussi migratori inoltre aumentano il carattere multiculturale delle città europee. Questo tipo di società può offrire l’occasione di una felice integrazione sociale basata sulla tolleranza oppure essere una sterile sovrapposizione di culture e diventare fonte di frizioni e conflitti. Il ruolo dell’azione culturale è qui di fondamen-
3. Cultura ibrida, illustrazione fonte artsblog.it -21-
tale importanza per assicurare la basi di una serena convivenza e quindi di uno sviluppo basato sui valori fondamentali: diritti dell’Uomo, libertà, tolleranza. Il sovrapporsi di queste diverse valenze delle risorse culturali costituisce il punto di partenza per l’esame di un altro aspetto importante, ossia il legame fra patrimonio culturale e sviluppo sostenibile. La difesa dell’identità dei piccoli centri urbani e degli insediamenti situati nelle aree rurali può contribuire, non meno delle infrastrutture e dei servizi, a ridurre l’esodo verso le metropoli e le zone commerciali nei paesi industrializzati e non. In tal modo si contribuisce a preservare le risorse umane necessarie per lo sviluppo locale. Questo si basa fra l’altro anche su attività artigianali o agricole tradizionalmente considerate un ostacolo alla modernizzazione dell’economia e ora invece rivalutate come ingredienti necessari dello sviluppo sostenibile. Ma anche nei grandi centri urbani la cultura può giocare un ruolo fondamentale nel sostegno allo sviluppo, favorendo l’integrazione e riducendo le occasioni di conflitto inter etnico. La cultura utilizzata come strumento turistico capace di attrarre visitatori da fuori, portatori a loro volta della propria cultura, fra integrazione e interazione.
1.4 -22-
Origini di un concetto
Ecomuseo
Nella primavera del 1971 in un ristorante parigino si ritrovarono per un pranzo di lavoro, Georges Henri Riviere, museologo francese, Serge Antoine, consigliere per il ministero dell’ambiente costituito da pochi anni, e Huges De Varine, allora direttore dell’ICOM, per discutere di alcuni aspetti della nona conferenza generale ICOM che si sarebbe tenuta quell’anno tra Parigi, Digione e Grenoble. La discussione si concentrò sulla giornata in cui sarebbero stati ricevuti dal ministro dell’ambiente e sul fatto che sarebbe stato importante legare il concetto di museo a quello di ambiente e territorio. Si trattava di aprire una nuova strada alla museologia e legare lo sviluppo dei musei con la difesa dell’ambiente. Antoine, nelle sue vesti di consigliere del ministro, si disse reticente a legare un concetto che sapeva di passato come quello di museo, con quelli di nuovo interesse come lo sviluppo e difesa ambientale . Si resero conto allora che si doveva abbandonare la parola museo e pensarne una nuova che la contenesse, ma che ne desse un’immagine diversa. Fu così che, combinando le due parole museo e ecologia, De Varine suggerì ecomuseo. Il ministro dell’ambiente, pochi mesi dopo, pronunciò e ufficializzò il termine. Secondo lo stesso De Varine ci sono stati fattori precisi che, durante un decennio tra la metà degli anni sessanta e settanta dello scorso secolo, hanno stimolato il dibattito in campo museale portando alla nascita della corrente della nuova museologia dalla quale sono nati gli ecomusei e in cui tuttora vive il dibattito circa le sue funzioni
> La recente indipendenza acquisita dalle più vecchie colonie soprattutto nei paesi africani che ha portato ad un desiderio di riaffermazione delle identità locali per distinguersi dal potere coloniale fino a quel momento prevalente. > Il movimento per l’uguaglianza dei diritti per le minoranze afro-americane, latino americane e indiane causa, in campo culturale, un rinnovato interesse per l’eredità culturale di questi gruppi. > I movimenti rivoluzionari delle culture aborigene nell’America Latina per la conquista della libertà e della democrazia riscoprono il loro passato precoloniale attraverso ricerche in campo antropologico e archeologico per il desiderio di riaffermare la propria identità. > Il movimento studentesco in Europa, che ha stimolato l’uso della creatività e dell’immaginazione in campo culturale, propone nuovi modi espressivi per rispondere ai problemi essenziali della società. > La crescente identificazione, in quegli anni, degli istituti culturali tradizionali con luoghi dedicati al tempo libero di persone facoltose e istruite o di turisti smaniosi di visitarli. > La riscoperta dei valori sociali e culturali delle piccole comunità. La moltiplicazione dei musei openair in Svezia o Romania, i parchi regionali in Francia sono tutti esempi del bisogno di riaffermare le tradizioni locali come antidoto alla crescente standardizzazione della cultura.
Si assiste, quindi, ad una crescente consapevolezza delle comunità verso la tutela del proprio territorio inteso come la testimonianza della propria storia per riaffermare la propria identità a dispetto della cultura che cominciava a farsi “globale”. Ovviamente si tratta di un fenomeno che ha attecchito maggiormente in comunità molto “caratterizzate”, con forti tradizioni che
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nel corso del tempo le hanno distinte dalle altre tanto da sentire l’esigenza di doverle difendere. Sia in Italia sia all’estero il dibattito intorno ad una più precisa definizione di questa “forma museale” è tuttora lontana da un approdo certo e condivisibile dalla maggioranza degli addetti ai lavori. Questo dimostra la vitalità e la spontaneità del fenomeno che proprio per le volontà generatrici legato al territorio e alle comunità di appartenenza, assume, di volta in volta, caratteristiche diverse. L’idea portata avanti da De Varine era di andare ben al di là della cooperazione con gli abitanti perché questi siano realmente iniziatori e attori di un luogo: “Un ecomuseo non potrà essere imposto dall’esterno, si tratta di un’iniziativa locale.”
Non si tratta solo di animare il museo e di aprirlo ad un pubblico allargato, ma che questo pubblico si appropri, prenda l’iniziativa delle azioni e di fare dell’intero patrimonio il fondamento del museo. La dimensione partecipativa è dunque estremamente forte ed è senza dubbio questa l’idea più nuova che ha portato l’ecomuseo ma anche la più difficile da mettere in atto. A seconda che si valorizzi nella teoria ecomuseale l’affermazione di un contenuto scientifico esigente, che è più prossimo all’approccio di Rivière o l’implicazione degli attori, che è privilegiata da De Varine, si approda a soluzioni divergenti: da un lato bisogna dare la precedenza a dei contenuti coerenti dal punto di vista scientifico; dall’altro pensare all’ecomuseo come uno stru-
mento di implicazione e di trasformazione dei rapporti sociali locali, che conduce a valorizzare gli attori. Per confermare questa tesi, è riportata nelle pagine seguenti un’intervista a De Varine che riesce a dimostrare ed esemplificare i concetti espressi sin’ora, dal concetto di identità e territorio, fino alle nuove applicazioni dell’argomento.
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Origini di un concetto
Hugues De Varine
Qual è secondo lei, al giorno d’oggi, il senso dei luoghi? Io generalmente parlo di territorio, cioè di uno spazio di dimensioni variabili che ha un senso per una popolazione che l’abita e lo condivide: un villaggio, una vallata, una comunità montana, un quartiere di città. Questo territorio deve avere un’unità e una identità (geografica, storica, culturale, economica), ma alla fine, è la comunità che deciderà di sceglierlo perché ha un senso per essa. Bisogna anche rendersi conto che un territorio è sempre legato ad altri territori più grandi (le province per esempio) o vicini (la vallata vicina, per esempio). Come si lega il luogo alla comunità e al suo patrimonio culturale? Il territorio è necessariamente legato alla comunità poiché è stato scelto da questa e ha un senso per essa. Il patrimonio che si trova nel territorio è quello della comunità. Bisogna osservare che il patrimonio della comunità è globale e comprende anche il patrimonio privato dei membri stessi della comunità. Le foto di famiglia o gli utensili dell’uomo che si trovano in casa vostra, e la stessa vostra casa fanno parte “moralmente” e culturalmente del patrimonio della comunità e questa (cioè l’ecomuseo che la rappresenta) deve poterli utilizzare un giorno, con il vostro accordo. È la comunità che ha prodotto storicamente il suo patrimonio, che lo utilizza, che lo trasforma, o lo arricchisce. Che cosa è un ecomuseo e cosa non è? Ci sono diverse definizioni di ecomuseo e quella relativa alla legge varata dalla regione Lombardia non è peggiore delle altre. Ma tutte le definizioni sono imperfette e talmente complicate che rimane difficile comprenderle. Per me (l’ecomuseo) è una azione portata avanti da una comunità, a partire dal suo patrimonio, per il suo sviluppo. L’ecomuseo è quindi un progetto sociale, poi ha un contenuto culturale e infine s’appoggia su delle culture popolari e sulle conoscenze scientifiche. Quello che non è: una collezione, una trappola per turisti, una struttura aristocratica, un museo delle belle arti, ecc. Un ecomuseo che sviluppa una collezione importante e ne fa il suo obbiettivo non è più un ecomuseo, poiché diventa schiavo della sua collezione. È l’ecomuseo che si occupa della comunità o il contrario? L’ecomuseo serve la comunità, appartiene alla comunità. Al contrario l’iniziativa di un ecomuseo può
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venire da una persona, da una amministrazione comunale, da una associazione, ed integrarsi solamente in seguito nella comunità. Se la comunità non si interessa al suo ecomuseo, questo o sparisce, o diviene un museo ordinario. È questa la ragione per cui un ecomuseo non può avere come obbiettivo il turismo. Il turismo diventerà un obiettivo dell’ecomuseo solo quando la popolazione (la comunità) sarà pronta a ricevere questo tipo di turismo. Quali sono le principali dinamiche socio-economiche che sorgono da un ecomuseo? Non ci sono due ecomusei simili e tutti gli ecomusei devono essere adattati alla situazione della comunità e del territorio. Questo significa che è l’ecomuseo che deciderà le sue dinamiche socio-economiche prioritarie. Potrebbe essere la formazione di attori locali alla vita civica o economica, o la capacità di cambiamento e per esempio la realizzazione di una agenda per lo sviluppo sostenibile del territorio, oppure la trasmissione di tradizioni o di valori alle giovani generazioni, o la rinascita di una attività economica, oppure la presa d’iniziativa delle donne, o una certa forma di turismo, ecc. Tutto dipende dalla diagnostica iniziale e dal processo dell’ecomuseo che scoprirà progressivamente gli obbiettivi da fissarsi. In seguito ci sarà una questione di mobilitazione delle forze locali, del patrimonio e dei modi trovati dall’esterno. Come giudicate la situazione italiana degli ecomusei, confrontandola con la Francia? In Italia ci troviamo di fronte ad un concetto di ecomuseo che sembra essere una specie di alternativa alla museologia classica. Questo concetto è riconosciuto a livello regionale e provinciale, mentre il museo è un affare che rientra piuttosto nel patrimonio nazionale. Inoltre gli ecomusei italiani rivelano due dinamiche differenti: da una parte la rivitalizzazione dei territori rurali o periurbani isolati a partire dalle loro risorse e dai loro abitanti, dall’altra la ricerca di una frequentazione turistica “dolce”, molto culturale o ecologica. In Francia, dove la centralizzazione è totale, si ha a che fare con delle iniziative isolate e non assolutamente con un movimento così ampio come in Italia. Il ministro della cultura, che è molto potente, da quarant’anni è molto ostile a qualsiasi forma di museo che non sia quella tradizionale. Èdunque impossibile paragonare le due realtà. Qual è secondo Lei il futuro degli ecomusei? È legato all’avvenire della “nuova museologia” o alla museologia sociale che corrisponde certamente ad un bisogno della nostra epoca. Ciò dice, ciascun museo avrà un avvenire particolare. Può proseguire per una, due o tre generazioni, oppure sparire semplicemente perché i suoi animatori saranno stanchi o non troveranno i modi per lavorare, o ancora perché la comunità o il territorio avranno degli altri bisogni o dei problemi urgenti ma non patrimoniali. L’ecomuseo può diventare un museo classico con una grande collezione, dei riflessi di pura conservazione e la ricerca di pubblico ester-
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no. L’ecomuseo è un processo che non ha fine in sé, ma che può essere interrotto da ragioni esterne dai suoi obbiettivi di partenza. Non so se ho risposto alle vostre domande. Ciascuna avrebbe necessità di un lungo dibattito collettivo con diversi “ecomuseologi” che operano su tale campo. Le migliori risposte saranno quelle che troverete in voi stessi, andando sul luogo, visitando gli ecomusei e soprattutto realizzando voi stessi sul vostro territorio e nella vostra comunità delle azioni di tipo ecomuseale. Non è necessario creare un museo per praticare l’ecomuseologia. Non è una professione che si apprende sui libri. Alcuni dei migliori ecomusei che conosco non portano il nome di ecomuseo. Non bisogna lasciarsi ossessionare dalla parola. Intervista di Stefano Buroni per -Terraceleste.wordress29 / 7 / 2008
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Origini di un concetto
Personalità: P. Boylan, P. Davis, A. Jorgensen
Troviamo qui presentate altre personalità che negli anni hanno implementato la definizione di ecomuseo, proponendo valutazioni e metodologie per definire un concetto complesso ed in continua evoluzione. Patrick Boylan > ha proposto una semplice checklist per marcare le differenzefra ecomusei, musei orientati all’ambiente e outward-looking e infine musei tradizionali. Per ogni criterio Boylan propone di assegnare un unteggio da 1 a 5, a seconda della minore o maggiore vicinanza alle caratteristiche della seconda colonna e di considerare l’istituzione un ecomuseo solo se la somma supera il punteggio di 20. CRITERI (MUSEO/ECOMUSEO) spazio di riferimento (l’edificio / il territorio) focus di interpretazione (la collezione / il patrimomio olistico) priorità organizzative (disciplinari / interdisciplinari) pubblico di riferimento (i visitatori / la comunità) controllo politico (il museo e i suoi organi / la collettività e i suoi organi)
Peter Davis > si è interessato alla questione di come definire le specificità di un luogo, ovvero cos’è che rende particolare un certo luogo e come si fa ad estrarre questi elementi. A tal proposito Davis riprende alcune idee del movimento inglese Common Ground che, negli anni ‘80, ha coniato il termine “local distinctiveness” per esprimere l’insieme dei fattori naturali e culturali che rendono speciale ed unico un luogo. CRITERI territorio esteso oltre i confini del museo interpretazione fragmented-site e in situ cooperazione e partenariato in luogo della proprietà dei reperti coinvolgimento della comunità locale e degli abitanti nelle attività del museo interpretazione di tipo olistico e interdisciplinare
Andreas Jorgensen > indica cinque condizioni che differenziano l’ecomuseo dai musei all’aria aperta, dai musei di storia locale e dagli heritage centre. CRITERI esistenza di un centro di documentazione pluralità di centri visita con exhibition esistenza di workshop per la partecipazione attiva dei visitatori legami con l’ambiente locale (un biotopo, tracce di civilizzazioni, un immobile) sentieri e percorsi a tema
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Origini di un concetto
Ecomusei in Italia
In Italia la valorizzazione del patrimonio territoriale e delle comunità ha seguito uno sviluppo diverso dagli altri paesi europei, tanto che non si può parlare soltanto di ecomusei, ma anche di musei demo-etnoantropologici, di cultura materiale, del territorio, ecc. Si può dire, comunque, che forme antesignane di questo tipo di musei, per ricollegarsi ai filoni precedentemente esposti, nati per esigenza di riaffermare l’identità della comunità, ci sono stati. A tal proposito si puo citare il fenomeno che vide il fiorire, negli ultimi decenni del XIX secolo, dei musei del Risorgimento e di Storia Patria affermando che la causa è da ricercarsi nell’esigenza, essenzialmente politica, di creare un’identità nazionale attraverso le figure di grandi come piccoli eroi dei borghi insieme agli oggetti, più o meno preziosi, che a volte venivano spontaneamente donati dai cittadini orgogliosi di appartenere a quel progetto.
genti o della cultura materiale, tendono a fondarsi su uno di questi aspetti. Per esempio, tutti i musei detti “del territorio” o di “cultura materiale” , tendono a mostrare e a valorizzare le attività pre-industriali tipiche di quel territorio e il limite risiede proprio nel fatto che non trattano il territorio e la comunità nella sua interezza, ma soltanto nella misura in cui sono legate a queste attività (come ad esempio il museo della miniera di Prali in Val Gremasca). Ci sono poi musei che hanno fondato la loro missione nel mostrare oggetti, un tempo di uso comune, spontaneamente raccolti e donati dalla stessa comunità. In molti casi si tratta di piccoli musei, aperti al pubblico in modo occasionale con collezioni non gestite e mal catalogate. Quello che può interessare di questi musei, più che analizzarne la realizzazione vera e propria, è il contesto in cui sono nati e le volontà localiche li hanno costituiti.
Per quanto riguarda gli ecomusei in Italia, possiamo dire che c’è più difficoltà che in altri paesi (Francia, Nord-Europa, Gran Bretagna) a trovarne molti che rispondano alle definizioni classiche però è innegabile che esista una tendenza ad ampliare l’attività e l’interesse del museo oltre i confini tradizionali. Maurizio Maggi, ricercatore preso l’IRES Piemonte, ha così classificato i musei esistenti attraverso la prevalenza di uno di questi quattro elementi : la collezione, l’attività umana, l’ambiente e la comunità.
All’interno del vasto mondo degli ecomusei, esistono, poi, musei in cui l’aspetto ambientale (paesaggistico, ecologico, geografico) ha il sopravvento a detrimento dell’aspetto sociale e quindi dello sviluppo dell’area interessata nel corso degli anni. Si tende quindi a valorizzare il paesaggio e gli aspetti ambientali, partendo dal recupero di testimonianze di archeologia industriale presenti all’interno del parco (come nell’ecomuseo della Maiella occidentale).
Molti di questi tipi di musei, che si chiamino ecomusei o musei etnografici, del territorio, delle
Infine, l’ultima categoria indicata da Maggi comprende tutte quelle realtà, proliferate in Italia negli anni ’80, in cui il fulcro del museo è la rappresentazione della vita domestica, dei compor-
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tamenti, degli stili di vita propri della comunità che ha abitato quel territorio. In questo tipo di esperienze museali, dette “musei delle genti”, il legame con il territorio è debole e marginale dettato soltanto dal fatto che quella comunità ha abitato quel territorio. Realizzati, generalmente, in un singolo sito, sono frequenti i casi di ricostruzioni di ambienti (come ad esempio il museo delle genti trentine o il museo delle genti d’abruzzo, costituito come museo delle tradizioni popolari, ha dato vita insieme a un parco naturale ad un ecomuseo). Come già sottolineato, questa situazione risponde ad un’indeterminatezza nella definizione di che cosa precisamente sia un ecomuseo e anche dal fatto che l’Italia sia generalmente restia ad accogliere le novità in campo museale, rispondendo a certe esigenze provenienti dalla società in modo non uniforme senza, quindi, un coordinamento delle istituzioni. Molte informazioni sulla situazione attuale degli ecomusei in Italia può essere trovata all’interno del sito www.ecomusei.net, una rete virtuale in grado di mappare la situazione attuale della disfunzione sul territorio. Visitando il sito appaiono alcune rilevanze: in alcuni casi il legame con il territorio è del tutto assente, (non esistono o non vengono menzionati, contatti con leassociazioni locali, iniziative a cui partecipa attivamente o che sono nate per volere della comunità locale), non esistono percorsi di visita che mostrino, per esempio la filiera produttiva di un tempo, ma esiste solo l’evidenza della testimonianza (per esempio un
ex cartiera restaurata), non c’è interdisciplinarietà nei contenuti esposti (spesso viene soltanto illustrato un edificio o una serie di oggetti), non esistono centri di visita lungo i percorsi che fungano da raccordo e da spiegazione del percorso. Insomma spesso non “degni” di meritarsi l’appellativo di ecomuseo e forse frutto del solo volere delle amministrazioni comunali. La situazione Italiana, quindi, si presenta non di facile interpretazione, ma viva e in continuo sviluppo come dimostrato dai rapporti editi a nualmente dal Laboratorio Ecomusei della Regione Piemonte, la regione più attiva in campo ecomuseale e la prima a dotarsi di una legge regionale sul regolamento e finanziamento di queste realtà.
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Origini di un concetto
Casi studio
_MUSEO DIFFUSO DI CAVALLINO, LECCE Nel Museo Diffuso di Cavallino, emerge un nuovo concetto di museo, un luogo aperto, dove si sta a contatto con la natura, in cui si partecipa attivamente alla scoperta di un’area archeologica messapica, in cui è possibile toccare le pietre, gli scavi ed è possibile accedere liberamente alle testimonianze archeologiche disseminate lungo il percorso. L’area archeologica è estesa circa dieci ettari ed è dotata di percorsi guidati che si avvalgono di leggii che costituiscono un indispensabile supporto alla fruibilità e lettura delle emergenze archeologiche visibili. Le strutture didattico-illustrative comprendono anche laboratori ed aule didattiche all’aperto. Un grande terrazzamento d’architettura moderna, apre ai visitatori una visione d’insieme dell’intera struttura e costituisce l’imponente ingresso del Parco. È quello che è stato definito come un “balcone sulla storia”, evidenziando la suggestione che esercita sul fruitore la visione dall’alto dell’intero sito archeologico. Questo grande portale d’accesso è una sorta di trait d’union tra la civiltà del terzo millennio e quella degli antichi Messapi. L’importanza dell’area archeologica di Cavallino è dovuta anche alla presenza di un Cantiere Scuola di archeologia unico in Europa. Il Parco Archeologico di Cavallino nasce, infatti, come un “cantiere scuola” per gli studenti della Facoltà di Beni Culturali e la Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Università degli Studi di Lecce, per poi aprirsi adesso anche alla fruizione per il pubblico, ferma restando la sua fondamentale valenza didattica per studenti e ricercatori.
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Origini di un concetto
Casi studio
_MUSEO DELLA CITTÀ, BRESCIA Ai piedi del Castello di Brescia, lungo il decumano massimo della città romana, sorge il complesso monumentale di San Salvatore-Santa Giulia, antico monastero di fondazione longobarda. Oltre duemila anni di storia sono sedimentati nelle strutture del complesso, insediato su un’antica Domus romana. Il monastero offe così un’occasione unica per leggere tutte le epoche storiche e artistiche che hanno contrassegnato il cammino della città di Brescia, dall’età del bronzo fino ai nostri giorni. Era pertanto nella storia di Santa Giulia essere la sede ideale del Museo della Città, sorprendente contenitore che accanto al percorso museale mette in mostra se stesso. Il progetto museografico, ad opera di Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni, è stato improntato a un grande rigore formale, con un linguaggio uniforme e costante che riprende, talvolta con manifeste citazioni, alcuni caratteri albiniani. I reperti lapidei, ad esempio, sono montati su basamenti in ferro e pietra che ne esaltano le valenze storiche artistiche senza entrare in competizione con le nobili architetture che li ospitano.
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Origini di un concetto
Casi studio
_LUCI DELL’ANTICO, OSTIA Argomento del workshop è la progettazione, nell’area archeologica di Ostia, di un evento teatrale diffuso, legato all’individuazione di singole stazioni sceniche che, nel loro insieme, agiscono come sistema complessivo di luoghi, azioni e relazioni. Relazioni tra monumenti ed eventi. Tra storia e progetto.Tra effimero e permanente. Tra il duro ed il malleabile. In altre parole si tratta, in prima battuta, di mappare il percorso (o i percorsi) dello spettacolo interpretando questo aspetto come occasione per una rilettura critica del sito. Evidenziando tracce e rievocazioni dell’antico oppure forzando l’urgenza di ottiche contemporanee di osservazione e di reinterpretazione del sito. Successivamente il progetto riguarderà le singole stazioni sceniche (palco, luci, fondali, allestimenti, schermi e dispositivi acustici) come microarchitetture o microeventi che si misurano con la natura storica e sedimentata dei singoli luoghi prescelti. Riconducendoli a sistema attraverso l’individuazione di elementi connettivi (luci, elementi segnaletici, insegne, visibilità delle singole istallazioni e loro riconoscibilità) come parte di un tutto. Lo spettacolo ipotizzato si svolge nelle ore notturne, dando risalto al tema della luce (e a quello, ovviamente, delle ombra). Le stazioni teatrali sono fisse. Il pubblico, frazionato in gruppi che si alternano temporalmente, è invece mobile. I singoli eventi teatrali sono affidati ad attori, a danzatori oppure a voci e suoni registrate, attivate da sensori o all’occorrenza.
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Origini di un concetto
Casi studio
_PARCO NATURALE TOSCO-EMILIANO, ATELIER DELL’ENERGIA E DELL’ACQUA Il Parco Nazionale dell’Appennino toscoemiliano, istituito nel maggio 2001 a protezione di un’area di 23.613 ettari, si trova nell’Appennino settentrionale, tra la Regione Emilia-Romagna e la Regione Toscana ed interessa quattro Province: Parma, Reggio Emilia, Massa Carrara e Lucca. L’Appennino, in questo tratto, è piuttosto alto e compatto, con cime comprese tra 1700 e 2000 m. In considerazione degli spazi e dei temi di progetto si ipotizza un atelier plurimo e differenziato collocato in alcune aree esterne idonee nel Parco e uno spazio interno alla Centrale, perciò la visione di un unico grande atelier dove esplorazione e sperimentazioni esterne ed interne si intrecciano e alimentano tra di loro. Questo permette ai bambini e ai ragazzi, negli spazi esterni, l’esplorazione di alcuni fenomeni della natura attraverso un’immersione ambientale e stagionale percettiva ed emotiva che rende la sperimentazione più facilmente partecipata e completa. Per un processo di apprendimento di qualità occorre che piacere e sforzo siano entrambi presenti e contemporanei: la motivazione partecipata è un elemento irrinunciabile e va perseguita il più possibile nei progetti che si fanno. L’atelier interno alla centrale accoglie metaforicamente delle lenti d’ingrandimento dei fenomeni naturali incontrati nei diversi luoghi dell’atelier diffuso, permettendo sperimentazioni più controllate e verificate degli stessi, aggiungendo altre e nuove sperimentazioni. Tutti gli spazi atelier sono progettati in relazione tra di loro, sensibili alle valenze stagionali, senza una progressione lineare ma con possibili processi ed esplorazioni combinatorie.
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Origini di un concetto
Casi studio
_SAVOGNO - PROGETTO ARTEMIDE, BERGAMO Dopo l’attestato di “Esperienza positiva” attribuito da Regione Lombardia al Comune di Piuro in tema di riqualificazione e valorizzazione paesaggistica di un antico nucleo, il “progetto Savogno” registra un altro importante riconoscimento. La Società Artemide con materiali d’avanguardia ha curato la suggestiva illuminazione, costruendo percorsi esperienziali all’interno del piccolo borgo. Quando il sole tramonta, nel paese si accende un progetto illuminotecnico capace di esprimere al meglio la bellezza delle antiche case contadine e il loro buon restauro, evitando la scomparsa di questo museo di civiltà contadina, che altrimenti andrebbe del tutto perso.
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Origini di un concetto
Casi studio
_FORTE DI VINADIO La fortificazione di Vinadio è da considerarsi fra gli esempi di architettura militare più significativi dell’intero arco alpino. I lavori di costruzione della fortezza, voluta da Re Carlo Alberto, iniziarono nel 1834, per concludersi solo nel 1847. La fortificazione che fiancheggia a ponente il paese e non fu mai teatro di importanti eventi bellici, dalla roccia del fortino al fiume Stura, ha una lunghezza in linea d’aria di circa 1200 metri. Il percorso, che si snoda su tre livelli di camminamento, si aggira sui 10 km ed è suddiviso in tre fronti: Fronte Superiore, Fronte d’Attacco e Fronte Inferiore. Oggi, grazie al contributo della Regione Piemonte, il Comune di Vinadio e l’Associazione Culturale Marcovaldo s’impegnano nella promozione e valorizzazione della fortezza con l’obiettivo di recuperare quanto è andato perduto nel corso dei lunghi anni di abbandono. La completa e moderna struttura è caratterizzata da sistemi tecnologici narrativi di recente concezione che permettono un’esposizione interattiva. Il percorso multimediale si sviluppa in tutto il fronte superiore del forte e racconta la storia delle Alpi Marittime che sono state, nel tempo, un luogo di continuo e fecondo andirivieni, punto di partenza e di arrivo di popoli, idee, arti, mestieri, merci, innovazioni. Il percorso vuole fare riflettere, con un diverso punto di vista, la dimensione strategica dei luoghi montani, da misurare non più rispetto alle opportunità di offesa e di difesa in caso di guerra, ma in termini di conservazione e valorizzazione di biodiversità ambientali e culturali.
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Origini di un concetto
Casi studio
_ECOMUSEO LAVORAZIONE DELLA CANAPA, CARMAGNOLA Il museo della corda a Carmagnola, progettato da un gruppo di ricerca del Politecnico di Torino, ha visto il recupero di una delle ultime tettoie esistenti sul territorio carmagnolese utilizzate per la lavorazione della corda. Recupero che ha trasformato questo unico luogo di lavoro in museo di se stesso e dell’attività che in esso si svolgeva, nonchè della cultura della coltivazione e della lavorazione della canapa, prodotto tipico dell’agricoltura di Carmagnola. Il museo è una testimonianza della storia del territorio, della sua vocazione agricola e della sua capacità produttiva, elementi che hanno dato vita nei secoli scorsi a un fiorente commercio anche su scala internazionale, caratterizzato dal fatto che spesso insieme alle loro corde anche i mastri cordai si trasferivano oltralpe per insegnare il mestiere della torcitura.
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Origini di un concetto
Casi studio
_MUSEO DEL TESSILE, CHIERI Il recupero dell’Imbiancheria del Vajro come sede permanente del Museo del Tessile di Chieri è il risultato delle volontà di documentare la storia chierese del tessile, già attuata attraverso la raccolta di macchinari, campionari di produzione e documenti. Il progetto trovca attuazione concreta nel 1996 quando l’amministrazione comunale ottiene i contributi del Fondo Europeo dello Sviluppo Regionale per la sistemazione dei siti industriali degradati. Il progetto definitivo si fonda su premesse precise che fanno riferimento agli studi e alle ricerche condotti nella Facoltà di Architettura, a lungo discussi fra gli amministratori e gli industriali chieresi, e all’inserimento dell’edificio recuperato nel sistema ecomuseale della Provincia di Torino.
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Origini di un concetto
Casi studio
_MUSEO DELLA MINIERA, PRALI Il progetto di ricerca sul complesso estrattivo di Prali ha riguardato la riconversione del sito a fini didattici e turistici. Il lavoro è stato condotto su tre diversi fronti: la riqualificazione edilizia e funzionale degli edifici e degli spazi esterni; lo studio di fattibilità di un percorso di visita all’interno della galleria Paola e la ricerca delle linee guida teoriche perla realizzazione dell’allestimento museale. Ne è conseguito un progetto di ecomuseo articolato e diffuso sul territorio circostante che comprende: il Museo della miniera, il viaggio in miniera, il centro studi, gli itinerari in montagna, le strutture di servizio. Il progetto complessivo, con il nome di Scopriminiera, è stato inaugurato nel 1998.
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Origini di un concetto
Casi studio
_MUSEO DELLE ALPI, BARD Il Museo delle Alpi, inaugurato nel gennaio 2006 nel Forte di Bard in Valle d’Aosta, è la prima, fondamentale tappa di un articolato e innovativo polo museale che si propone come il primo parco a tema interamente dedicato alla Alpi. Il Museo delle Alpi, insieme ai futuri musei del Forte e delle Frontiere, sono stati pensati e progettati come parti di un discorso - fisico e mentale - unitario, in cui ciascun elemento è autonomo, pur facendo parte di una sola narrazione. Musei, ma più propriamente centri d’interpretazione, diretti a illustrare e valorizzare non tanto una collezione, ma un contesto, un ambito storico o tematico, offrendo le immagini, le ricostruzioni scenografiche, i codici per una loro lettura. Cuore e dentro del progetto, il Museo delle Alpi è un viaggio nel presente delle Alpi che coglie nella contemporaneità la sintesi di una lenta e complessa evoluzione di lunga durata, in quel fragile e mutevole equilibrio di cui le Alpi sono testimoni d’eccellenza.
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Ecomusei, modelli in evoluzione Tirando le somme di una ricerca che si è mossa con un’attenzione temporale-evolutiva del panorama ecomuseale, è sato possibile rendersi conto di quanto sia difficile inquadrare un modello unitario di progettazione per il raggiungimento di risultati soddisfacenti e completamente allineati con le caratteristiche che un ecomuseo deve avere per essere definito tale. Risultano fondamentali concetti e attività come la partecipazione, la didattica, la fruizione di siti rilevanti, le attività proposte dalle associazioni, la comunicazione diffusa, la ricerca e la tutela del territorio. Ma allo stesso tempo stanno acquisendo una sempre maggiore rilevanza attività ecomuseali da intendere come tutte quelle azioni che si incentrano verso uno sviluppo sostenibile e alla creazione di nuovi comportamenti ed attitudini, riferiti al territorio: un panorama di interventi che non rientrano solo in campo ecomuseale, ma si rifanno a concetti come la qualità della vita, il concetto di identità e di patrimonio. In questi ambiti la progettualità del design può essere di fondamentale contributo, proponendo metodologie per il raggiungimento di scopi comunitari attraverso l’innovazione e le nuove proposte, di progetti pilota in grado di far partire la “macchina ecomuseale”. Modelli come la progettazione partecipata, possono essere ampliati ed evoluti, portando queste tecniche in ambiti che non si limitano ai piani di governo del territorio o ad interventi urbanistici, ma in grado sia di generare risultati utili alla comunità e al tempo stesso di diffon-
dere il progetto a fasce di popolazione sempre differenti. Il designer non si deve porre come un agente esterno, estraneo ai processi evolutivi che hanno definito l’identità stessa del territorio, ma si deve inserire, in sintonia e umiltà, all’interno dei network che già compongono l’area di interesse. Mitigare le personalità e i confronti, supportandoli con conoscenze tecniche: un territorio vivo è sicuramente un territorio che presenta all’interno una quasi infinita molteplicità di attori, con pareri e proposte he molto spesso non collimano, tralasciando le motivazioni politiche. È qui che il designer può avere l’abilità di percepire lo scenario e sviluppare una mappatura dei know how e delle risorse per una successiva pianificazione degli interventi. Quindi l’ecomuseo, nell’accezione canonica del termine, risulta ormai obsoleto e limitato ad una rappresentazione etnografica e storica: deve assolutamente avvalersi di nuove progettualità, nuove figure, nuove azioni, che sviluppino progetti attenti soprattutto al futuro. Le nuove generazioni devono ricevere il testimone dagli usuali attori locali, spesso di età avanzata, per attualizzare un concetto che rischia di fossilizzarsi in ermetismi e forzature di identità locali spesso inesistenti.
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Ecomusei, modelli in evoluzione
Ecomusei in Puglia
Il patrimonio rurale, paesaggistico, culturale e archeologico pugliese con l’approvazione della Legge regionale 15/2011 è diventato un ecomuseo regionale che genererà valore aggiunto e ricadute economiche sul territorio. Il sistema da Nord a Sud attraversa tutta la Puglia: dall’Ecomuseo di Carapelle e della Valle d’Itria, all’ecomuseo del Poggio delle Antiche Ville di Mola di Bari, per giungere al Sistema Ecomuseale del Salento in rete già da anni grazie al progetto “Sesa” dell’Università degli studi di Lecce. In Puglia, il Salento si conferma best practice con il suo sistema ecomuseale; così i musei diffusi, storico-archeologico a Cavallino, Rudiae e Ugento, il Parco dei Guerrieri di Vaste, Ecomuseo Urbano a Botrugno, del Paesaggio delle Serre Salentine a Neviano e dei Paesaggi di Pietra a Vernole assieme al Laboratorio di Architettura del paesaggio dell’Università di Lecce diretto dal professor Francesco Baratti, l’Ecomuseo di Carapelle e della Valle d’Itria, esprimono un complesso di sensibilità ed esigenze nuove: dalla consapevolezza della centralità dei processi culturali nella nuova società della conoscenza, alla volontà di affermazione dell’identità socioculturale dei diversi territori a fianco dei fermenti della globalizzazione; dalla promozione di forme di partecipazione diffusa al governo dei territori, ai temi della sostenibilità e della responsabilità sociale sino alla sperimentazione di nuovi processi gestionali. L’iniziativa nasce all’interno del progetto del Sistema Ecomuseale della Puglia ed è stato inserito dalla Regione fra i progetti pilota del nuovo
Piano Paesaggistico Territoriale Regionale quale esempio di best practice di partecipazione alla conoscenza, salvaguardia e gestione del paesaggio.
Il motivo di queste scelte La valle del Carapelle nel basso Tavoliere è stata scelta perché esistono le più importanti testimonianze archeologiche dell’intera provincia Dauna. D’altro canto l’Ecomuseo della Valle d’Itria è il più grande del mondo per estensione con i suoi 720 kmq di superficie,dato che riunisce sei comuni di tre diverse province: Locorotondo, Monopoli, Alberobello, Fasano, Cisternino e Martina Franca; tutti luoghi che accolgono tratturi, trulli, jazzi, muretti a secco, pozzi e lavatoi ma anche tradizioni e produzioni tipiche. L’Ecomuseo dei Paesaggi di Pietra di Acquarica di Lecce a Vernole, è nato invece intorno a ricerche archeologiche avviate nel 1996 dall’Università del Salento in località Pozzo Seccato. In questa zona è venuta alla luce una masseria fortificata risalente alla fine del IV secolo a.C. che conserva ancora le sue caratteristiche originali: muri a secco, pagghiare, aie, uliveti, strittule. Esistono poi iniziative come l’Ecomuseo del Paesaggio delle Serre Salentine di Neviano, che organizza passeggiate (a piedi o in bicicletta) alla scoperta di luoghi non debitamente conosciuti, collabora con le scuole locali in progetti di edu-
a ea r A
Ecomusei
Parchi e musei diffusi
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DISTRIBUZIONE ECOMUSEI IN PUGLIA
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cazione ambientale, incentiva i piccoli imprenditori agricoli, allestisce mostre tematiche storiche, artistiche, fotografiche, promuove scritti di autori locali, organizza eventi teatrali in vernacolo, recupera e ripropone vecchie tradizioni. Oppure iniziative come quelle dell’Ecomuseo della pietra leccese di Cursi che, dopo un periodo di crisi e di quasi abbandono della pietra leccese sostituita nell’edilizia da altri materiali, si impegna nella sua rinascita, sia dal punto di vista costruttivo che da quello più artistico. In quest’ottica le cave ormai dismesse si trasformano in centro studi internazionale, in laboratorio delle tecniche costruttive tradizionali, in spazio per manifestazioni teatrali. L’Ecomuseo Urbano di Botrugno è nato invece dalla curiosità della comunità verso un’idea di museo che non si limitasse soltanto ad esibire gli elementi più rappresentativi del patrimonio storico-artistico del territorio attraverso la freddezza di una teca, ma che si propone nella fattispecie come propulsore di sviluppo culturale e sociale. Così durante gli incontri settimanali, due generazioni si confrontano sugli aspetti fondanti dell’identità di Botrugno, padri e figli che raccontano aneddoti ed episodi di un’epoca trascorsa, la cui traccia è oggi visibile sui volti rugosi dei narratori e sugli occhi assetati di storie dei giovani. L’ecomuseo de “Le Antiche Ville” di Mola di Bari si propone di tutelare, valorizzare e sviluppare un’ampia area pedecollinare antico luogo di villeggiatura e di cure balsamiche, nota per l’in-
sediamento di alcune decine di splendide ville Settecentesche, Ottocentesche e del primo Novecento, rimaste miracolosamente intatte pur se bisognose di manutenzioni spesso anche radicali. L’ecomuseo si caratterizza per il programma annuale di servizi di utilità collettiva e di eventi; fra i servizi si annovera il progetto di una biblioteca rurale da ospitare in una antica villa o la istituzione di un “Albo d’Oro” in cui iscrivere tutti coloro che si distinguono per la difesa e/o ricostruzione dei muretti a secco e per il reimpianto delle colture arboree tradizionali.
In campo scendono gli enti locali La portata della legge prevede la partecipazione diretta delle comunità, delle istituzioni culturali e scolastiche e delle associazioni nei processi di valorizzazione, promozione e fruizione attiva del patrimonio culturale, sia materiale che immateriale, sociale e ambientale del territorio regionale, compresi i saperi tramandati e le tradizioni locali. Per agevolare tutto ciò, gli ecomusei promuovono laboratori di cittadinanza attiva per la costruzione delle cosiddette “mappe di comunità”, o analoghi strumenti di coinvolgimento attivo degli abitanti a cui è demandato il compito di identificare e rappresentare luoghi peculiari del paesaggio. Questo comporterà che ogni amministrazione locale che ne farà richiesta alla regione, proceda con una sorta di censimento del patrimonio locale e la definizione di regole condivise per la
4. Home page del sito del sistema ecomuseale della Puglia, ecomuseipuglia.net -45-
sua cura; il tutto per favorire e sostenere la conoscenza, tutela e valorizzazione del paesaggio conformemente ai principi della Convenzione Europea del Paesaggio sottoscritta a Firenze il 20 ottobre 2000.
Un brand per gli ecomusei Gli stessi enti hanno compiti di promozione e attivazione sul territorio in conformitĂ al Piano paesaggistico territoriale regionale (Pptr) cosĂŹ come menzionato nella Lr 20/2009 n. 20 (Norme per la pianificazione paesaggistica). Ăˆ stato anche istituito un elenco degli ecomusei di interesse regionale che viene aggiornato annualmente e promuove il marchio Rete Ecomusei della Puglia. La legge prevede infatti che la Regione riconosca ad ogni ecomuseo un brand tutelato da norme nazionali e internazionali specifiche e che veicoli la promozione dello stesso.
3. 5. Discussione su una mappa partecipata di comunitĂ -47-
Temi
Nelle pagine successive vengono afrontati temi che non possono essere scissi da quello ecomuseale: il concetto di welfare, di percezione del benessere, di territorio e patrimonio, il ruolo del designer per lo sviluppo locale, la progettazione partecipata. Elementi che legano l’ambito ecomuseale con il design, necessari per lo sviluppo di un progetto in grado di portare Bisceglie e il suo territorio agreste all’interno della rete ecomuseale pugliese, con un programma di attività stimolanti e partecipate.
3.1 -48-
Temi
Il territorio come oggetto
Quello che rimane, come elemento caratterizzante forte degli ecomusei è il legame con il territorio tanto da poterli definire “i musei del territorio o del patrimonio territoriale”. Il territorio musealizzato non è il semplicemente il paesaggio storico o naturale, ma l’insieme delle attività sociali, economiche che hanno caratterizzato la comunità di abitanti. È l’insieme delle tradizioni e dei valori della collettività, è il teatro delle testimonianze archeologiche e storico artistiche che lo differenziano dagli altri. Ordinando la sintesi, dunque, potremmo dire che un’organizzazione museale può dirsi ecomuseo se è nata spontaneamente attraverso o, ancora meglio, per iniziativa della comunità locale con il fine di raccontare e preservare la storia del territorio e della comunità stessa. Tutto questo almeno nelle originarie intenzioni di chi l’ha pensato per la prima volta e lo ha sperimentato. Si tratta di concetti recenti in continua evoluzione e quindi soggetti a interpretazioni non sempre corrette: anche nel nostro paese non tutti i musei che si dicono ecomusei rispondono alle medesime caratteristiche. Per essere precisi c’è anche da dire che probabilmente le intenzioni dei fondatori non erano quelle di creare un modello di museo esportabile in tutto il mondo, ma di rispondere a esigenze che spontaneamente provenivano dalla società civile mantenendo, quindi, un margine di libertà nell’interpretazione dei concetti museologici tale da portare a libere forme di espressione anche nella valorizzazione del patrimonio.
Se infatti, gli ecomusei sono musei del territorio è evidente che ognuno risponderà alle caratteristiche del proprio patrimonio-territorio e ogni comunità userà il proprio linguaggio per narrare la propria storia e questo tipo di organizzazioni: la forza perché, meglio di altre, riesce ad avvicinare la popolazione ad esperienze alle quali generalmente non partecipa e perché consente la valorizzazione di un intero territorio coniugando il patrimonio culturale con quello economico e sociale, il limite perché non avendo una storia consolidata alle spalle da cui attingere esperienze e modelli si presta a interpretazioni di chi, solitamente le amministrazioni pubbliche, la adotta come forma museale non conoscendone le caratteristiche e quindi non sfruttandone le potenzialità.
3.2 -49-
Temi
Patrimonio locale diffuso
L’idea di sviluppo locale è oggi al centro di qualunque ipotesi di crescita e competitività territoriale: la dimensione del “locale” acquista nuovo vigore perché è il “territorio” ad assumere nuova centralità nel contesto delle dinamiche produttive e sociali, individuando un’idea-forza che funga da traino per tutte le iniziative di sviluppo. Quest’azione di inevitabile gerarchizzazione di interessi parte, ovviamente, dalla capacità locale di mettere a frutto le potenzialità che il territorio stesso offre, dimostrando come una risorsa locale, o un sistema integrato di risorse, se adeguatamente fruito, possa costituire un’occasione imperdibile di crescita. Nel processo di ri-valorizzazione dei luoghi, di restituzione ai luoghi della loro valenza identitaria, di riscoperta autentica della cultura locale, il concetto di patrimonio culturale ha vissuto come un affrancamento progressivo dai valori estetici e come un altrettanto progressivo allargamento a quelli sociali, includendo aspetti immateriali o virtuali. Maggi sostiene che il processo ha conosciuto tre fasi: la prima, consistente nell’inclusione di oggetti considerati popolari nell’ambito delle collezioni della museografia colta; la seconda ha preso in considerazione il territorio fisico e le sue tradizioni linguistiche; nella terza, infine, si è giunti a considerare gli elementi immateriali come elementi di contesto fondamentali del patrimonio museale tradizionalmente inteso. Hugues de Varine distingue fra beni materiali e beni virtuali. I primi consistono in tutto ciò che esiste,
a due o tre dimensioni, sul territorio e in seno alla comunità, può essere utilizzato per la formazione sociale, per l’osservazione, la conoscenza del milieu, l’analisi, l’apprendimento, il consumo, la gestione della tecnica, l’identità, la conoscenza del passato. I beni virtuali sono «la memoria, la tradizione orale, i costumi, le particolarità linguistiche, che fanno appello all’immaginazione, alla sensibilità, che illustrano le differenze fra i diversi individui e gruppi e permettono loro di avere interazioni e cooperazioni. Strumento privilegiato per esaltare le potenzialità del territorio e proporne un modello condiviso di ipotesi raticabile di sviluppo è, appunto, l’ecomuseo: non affermazione aprioristica di dimensione “localistica” intesa come difesa a tutti i costi da parte di una comunità radicata su un territorio, quanto, piuttosto, nuovo parametro di sviluppo “locale” che esalta le peculiarità di un luogo, del suo milieu. Nello scenario contemporaneo, nel quale si fronteggiano “global” e “local”, la terza via del “glocal” apre uno spazio al riconoscimento e alla rappresentazione di quelle esperienze che non si caratterizzano per un gretto localismo autoreferenziale, ma sanno aprirsi, sicure di sé, al confronto come processo di evoluzione della comunità. Infatti, requisito costitutivo degli ecomusei è il radicamento nel territorio: non è pensabile lo sviluppo di un qualunque progetto ecomuseale se non espressione di specifiche forme di territorialità. L’ecomuseo diviene, quindi, parte fondante della progettualità e dell’iniziativa dei sistemi locali di sviluppo territoriale.
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Proprio per queste sue specificità, l’ecomuseo fa diretto riferimento al sistema complesso di risorse naturali, culturali e paesaggistiche delle singole realtà locali. Questo implica un rapporto privilegiato con le diverse forme di conoscenza, interpretazione e conservazione innovativa delle risorse stesse, in particolare con le forme istituzionali di protezione di contesti naturali di pregio (parchi ed aree protette). La grande aspettativa che si registra intorno all’offerta e alla fruizione del patrimonio locale è, d’altronde, ben evidente. Si tratta di un fenomeno che riguarda in misura sempre crescente anche le amministrazioni pubbliche e i cittadini: l’aumento del dato numerico riferito alle iniziative ecomuseali segue in Italia un percorso già sperimentato in Francia e, secondo gli studiosi, rende plausibile la previsione di un raddoppio del numero degli ecomusei o esperimenti simili nel nostro Paese in un breve periodo. Il fenomeno si inscrive nel ventaglio della concorrenza fra istituzioni culturali sul mercato del tempo libero, in pieno sviluppo. Condizione indispensabile per emergere in questo panorama è l’emissione di messaggi che siano non solo di interesse per il pubblico, ma anche facilmente distinguibili dagli altri ed interpretabili chiaramente. In uno scenario che registra molte iniziative ambientali,che fanno appello all’immaginazione, alla sensibilità, che illustrano le differenze fra i diversi individui e gruppi, l’elemento che diviene rilevante per l’ecomuseo è distinguere la propria offerta come condizione indispensabile per rendere
comprensibile il proprio messaggio e dunque efficace la propria azione. Un ecomuseo che, quindi, sviluppa il suo processo evolutivo dal territorio, inteso come patrimonio locale diffuso, e si muove verso una propria evoluzione personale, per scopi e caratteristiche, necessariamente differente da analoghe realtà: ogni ecomuseo è diverso dagli altri, e i n questa diversità sta l’identità.
3.3 -51-
Temi
Sviluppo territoriale sostenibile
Dopo aver definito concetti e temi fondamentali, come il ruolo del territorio e il patrimonio locale diffuso in cui generare nuove forme di identità, passiamo ad analizzare il ruolo del designer all’interno di processi di sviluppo locale. Se consideriamo quindi il sistema territoriale oggetto di interesse progettuale per il design, con le caratteristiche descritte in precedenza, l’azione di design assume: > carattere sociale: un processo discontinuo e negoziato, per cui l’intervento sul territorio non si configura come il risultato di una decisione imposta dall’alto bensì deriva da un processo tra parti che rappresentano interessi differenti; > natura differente del focus progettuale: le attività progettuali possono confrontarsi con la dimensione economica e tecnico-produttiva, ampliando il campo di attività alle pratiche in campo sociale, culturale, ambientale; > carattere negoziato: l’azione di design si colloca all’interno di un processo ampio che connette pubblico e privato e che coinvolge diversi livelli di competenze, e di soggetti istituzionali, economici; > valenza connettiva: l’attività progettuale può essere essa stessa lo strumento per abilitare e facilitare i processi di natura creativa e progettuale.
Queste caratteristiche possono essere descritte in attività concrete, e cioè in sistemi di servizi, prodotti e sistemi di comunicazione che hanno come focus progettuale il territorio nella sua complessità e nella sua traiettoria di cambiamento. È chiaro che il termine design porta in sé una valenza legata alla produzione di artefatti di natura industriale, che se trasportati su
un livello territoriale possono essere percepiti quali elementi di arredo urbano o comunicazione, come progetti che in un certo senso, preservando comunque una propria identità, sono complementari alla dimensione architettonica o pianificatoria. È necessario per il design accreditarsi come sistema di competenze capaci di intervenire concretamente in tali meccanismi portando un contribuito che si rende evidente da un lato rispetto alla dimensione del ‘come fare le cose’ in termini di soluzioni concrete dall’altro intervenendo sui meccanismi di scenario e di prospettive d’azione che possano favorire i processi più ampi di sviluppo locale. Se consideriamo inoltre gli strumenti progettuali a disposizione dei designers, possiamo individuare secondo le nostre premesse differenti categorie: strumenti di carattere metodologico/organizzativo e strumenti di progetto che supportano l’analisi delle risorse territoriali, il comunicare le informazioni, il facilitare il processo creativo, la visualizzazione delle soluzioni di progetto, la socializzazione delle attività all’interno di tutto il processo. Con l’obiettivo di introdurre innovazione a scala territoriale, favorendo dunque la connessione tra luoghi e persone, l’apprendimento continuo, la valorizzazione degli elementi materiali come anche il sapere locale, la cultura, le tradizioni, è necessario adottare un approccio che promuova una forma comunitaria di progetto in grado di agire contemporaneamente ed in modo integrato su livelli strategici, organizzativi e progettuali.
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Temi
L’identità come partecipazione attiva
La voglia di rendere l’ambiente cittadino più vivibile e a portata di tutti riporta l’attenzione a casi che stanno, oggi, richiamando un’attenzione planetaria, forti di carica innovativa e creativa: il Guerrilla Gadening e la Guerrilla Art. In quasti casi l’iniziativa del singolo è totalmente devoluta al bene comune, con interventi mirati alla riqualificazione di aree degradate o prive di ineteresse. Un modello propulsivo dal basso, in contrasto con i piani di riqualificazione di enti ed istituzioni spesso incapaci di dare una reale risposta a necessità territoriali problematiche. Il benessere che percepisco dal luogo dove vivo non può dipendere dal fatto che ora sotto casa posso trovare una multisala o un negozio H&M, e nemmeno uno spazio espositivo che vive dalle 8,00 alle 19,30. Interventi che possono apparire come “stupri”, non interessati ad un rapporto di continuità col territorio, ma semplicemente catalizzatori di interesse per un orario prestabilito, senza portare una reale rinascita di quelle aree. “Le identità collettive tradizionali si dissolvono, e la formazione di nuove è incerta. Anche l’identità sociale attribuita ai luoghi, quertieri e città, viene ridefinita. Gli stessi spazi urbani non appaiono più definiti per sempre, scritti nella pietra. Al contrario risultano mutevoli per natura: piuttosto che essere degli spazi, diventano progressivamente dei luoghi. E’ interessante anche il concetto inverso che dalla costruzione sociale del luogo conduce alla formazione delle identità sociali. In un’epoca di migrazioni e identità liquide, il riferimento a spazi e riferimenti comuni contribuisce al reciproco adattamento di nuove popolazioni e vecchi simboli.” Giancarlo Paba, Luoghi comuni. La città come laboratorio di progetti collettivi, 1998
La coesione sociale e la formazione delle identità sono esempi di problemi attuali e diffusi: la sparizione sociale è dietro l’angolo, l’identita “locale” è minacciata da un modello di individualità carente di processi integrativi e interattivi. Considerare la prossimità come un vincolo rafforzante è un errore: in questo caso assemblare, unire, unificare con processi urbanistici, risulta il più delle volte fallimentare. Imponendo interazioni si ha il risultato di vedere aree sovrautilizzate in alcuni momenti della giornata, menre in altri momenti paiono desolate e prive di funzione: le grandi aree commerciali, i quartieri ad alta densità abitativa. L’interazione si genera tramite altri processi, dove l’impatto dell’attivismo, spesso frutto dell’impegno dei singoli, è fondamentale ad increamentare o a generare nuove pratiche di coesione adatte ad incrementare il livello di proposte, di processi evoluti di elaborazione collettiva, che hanno come prima espressione la visibilità. L’agire collettivo crea nuove identità, nuove risorse e beni comuni, senza una preprogramazione stabilita e chiara. Nuovi network spontanei e attenti al territorio che li rappresenta: localizzare nuove identità e definirle all’interno degli spazi che si sono prestati per la loro costituzione, che ne hanno generato gli scenari di progetto. Spazi prova, laboratori dove sperimentare, attuare, concretizzare le proposte che lo stesso territorio genera, senza imposizioni dall’alto di carattere speculativo o nozionistico.
3.5 -53-
Temi
La progettazione partecipata, tre casi studio
La progettazione partecipata è lo strumento che potrebbe innescare processi collaborativi adatti allo sviluppo del progetto ecomuseale. Metodi specifici per la costituzione di un processo complesso che prevede la collaborazione di tutti gli attori locali. La progettazione partecipata affonda le sue radici nel periodo che va tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo ad opera di Patrick Geddes. Nel suo Cities in Evolution, Geddes teorizza uno strumento di risanamento e pianificazione della città e del territorio in maniera ecologica, generando matrici ove compaiono “luogo”, “gente” e “lavoro”. Inoltre sperimenterà diverse volte recuperi urbani partecipati, come, ad esempio, la trasformazione di un vecchio palazzo in residenze per studenti che si autogestivano. La partecipazione esprime una volontà generale che si prefigge di attuare principi di giustizia ed equità sociale: ovvero il convincimento che i processi progettuali scaturiti attraverso la mobilitazione delle energie individuali e collettive porti alla creazione di ambienti e spazi (quartieri, vicinati, paesaggi) che sappiano meglio esprimere la “cultura” del luogo in tutti i suoi molteplici aspetti. Queste idee sono state riprese da una ristretta cerchia di architetti e ricercatori nel corso degli anni ’60 e ’70, allorquando era molto forte e sentito l’aspetto politico e sociale sia nei processi di pianificazione che in quelli culturali in genere. È attorno al consolidarsi di queste idee, soprattutto negli ultimi decenni ed in particolare in quelle nazioni dove la democrazia ha raggiunto livelli più maturi, che sono scaturiti processi di pianificazione che
hanno cercato il protagonismo degli attori sociali inseguendo, al contempo, un livello più alto di efficacia operativa. Gli elementi che caratterizzano i processi di progettazione partecipata sono: > gli abitanti non sono più soggetti passivi sui quali “calare” un progetto sulla scorta di dati statistici che sono “asettici” e neutri nella loro “impura soggettività”, ma divengono soggetti attivi nella progettazione che attraverso una conoscenza specifica dei luoghi e dei problemi, producono un sostanziale salto qualitativo; > l’ascolto critico, il continuo scambio tra i diversi soggetti del processo progettuale delinea in modo netto i reali fabbisogni, fa emergere i bisogni taciuti, esplicita i desideri inespressi; > la partecipazione è un laboratorio creativo di comunicazione efficace (dai questionari agli ipertesti, dai plastici alle campagne fotografiche, dai video al teatro di strada, dai giornali di quartiere alle feste di vicinato e così via); > i bambini possono essere protagonisti diretti delle nuove esperienze di partecipazione; il coinvolgimento delle scuole è quindi di importanza essenziale, sia come modo per incontrare l’universo dei desideri e dei bisogni dei bambini e dei ragazzi, sia come mezzo efficace per arrivare alle famiglie.
Un ruolo fondamentale nel processo partecipativo è quello del facilitator, cioè l’esperto di progettazione urbana partecipata il cui ruolo di mediazione e sostegno alle iniziative che vedono come protagonisti i cittadini, sia bambini che adulti. Il facilitatore in tale processo non ha ipotesi progettuali prestabilite; il suo progetto è un esperimento aperto a tutte le indicazioni che
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vengono sia dagli adulti che dai bambini; egli è parte del processo e porta, anche lui, una prospettiva (ad es.: egli rende partecipi gli altri dei principi della eco-sostenibilità).
Tecniche per il raggiungimento di scopi comuni Appreciative Inquiry è una strategia per ottenere un cambiamento partendo dal meglio di “ciò che è” e cominciare a desiderare e sognare “ciò che potrebbe essere”. Nella prima fase del laboratorio vengono individuati gli elementi di qualità presenti nel territorio e riconosciuti dalla collettività come buone pratiche di riferimento (carta delle qualità). Nella seconda parte si analizzano i voleri e le idee, anche irrealizzabili, proposte dalla collettività (carta dei sogni). Nella terza parte si sviluppano le prospettive future, che tengono in considerazione le esperienze esistenti relative a successi già raggiunti e dei sogni, quindi puntano a un pieno utilizzo del potenziale esistente (carta degli obiettivi). Community Planning vengono organizzati nel fine settimana come laboratori intensivi di progettazione partecipata per creare scenari futuri. La fase di comunicazione è fondamentale: i cittadini devono sapere cosa stanno progettando tramite la formazione gruppi di lavoro su specifici problemi al fine di attivare la progettualità e la consapevolezza locali. Il team di progettazione interpreta gli indirizzi della comunità e li rende visibili. Open Space Technology è una metodologia autor-
ganizzativa per far lavorare insieme, su un tema complesso, gruppi in workshop di una giornata, convegni di tre giorni o riunioni settimanali di staff. Chiunque intende proporre un’idea o un tema per il quale prova sincero interesse, si alza in piedi e lo annunzia al gruppo e così facendo da un lato gli viene assegnato uno spazio nel quale incontrarsi con tutti coloro che siano interessati allo stesso tema, dall’altro si assume la responsabilità di organizzare la discussione e al termine scriverne un breve resoconto. L’intero evento è governato da una unica regola, chiamata “la legge dei due piedi”: se ti accorgi che non stai imparando né contribuendo alle attività, alzati e spostati in un luogo che ritieni essere più produttivo. Workshop Creazione Scenario permette di elaborare visioni e proporre idee. In questo modello tutti i partecipanti sono esperti perchè membri attivi della stessa comunità locale, capaci di imparare degli altri, cittadini e associazioni, tecnici, amministratori, imprese ed asociazioni di categoria. Si parte da un’analisi delle criticità per proporre soluzioni creative un lavoro cooperativo di proposte tra i vari attori.
Tre casi studio I casi studio presentati non sono strettamente legati ad esperienze ecomuseali, ma propongono esempi dove la creatività diffusa viene mappata e messa a sistema, oppure incentivata e appllicata.
6. Home page del portale web del mondo della progettazione partecipata, marraiafura.com -55-
_MARRAI A FURA Marrai a Fura, sostenibilità e partecipazione, è il portale web con le news dal mondo dello sviluppo sostenibile e della progettazione partecipata. Un sito web che segnala e dà visibilità a notizie e appuntamenti sull’ecologia e l’ambiente, e a buone pratiche di progettazione collaborativa, facilitazione dei gruppi e azioni dal basso, ed ampio spazio agli appuntamenti e alla formazione (convegni, corsi, master, fiere, eventi, workshop, incontri). Marrai a Fura e tutti i progetti collaterali che il gruppo di lavoro sta sviluppando (senza scopo di lucro e a budget quasi zero), sono nati spontaneamente dalla volontà di alcuni giovani, dai profili professionali differenti ma con l’interesse comune per la cittadinanza attiva e l’ecologia. Giovani professionisti, a cavallo dei 30 anni, che hanno deciso di dedicarsi attivamente ad un progetto sulla sostenibilità e la partecipazione di cui il portale marraiafura.com è il primo importante passo. Marrai a Fura non è una testata giornalistica, ma un sito in costante aggiornamento che rilascia i propri articoli con licenza Creative Commons. Tutti possono utilizzare i materiali pubblicati, in un’ottica di collaborazione e condivisione libera e gratuita del sapere.
7. Stefano Puzzo nel suo laboratorio ceramico di via Guerzoni a Milano -56-
_DERGANO OFFICINA CREATIVA L’Associazione D.O.C., Dergano Officina Creativa, forma e diffonde cultura, con particolare riferimento a tutte quelle forme d’arte che nascono e si sviluppano nelle botteghe artistiche, artigiane e della creatività in genere, e promuove la diffusione e la conoscenza del mondo del ‘fare creativo’ contemporaneo in bottega. In una città dove si producono soprattutto idee, nel quartiere di Dergano-Bovisa è presente e attivo un discreto numero di botteghe artigiane dove il ‘fare’ segue il ‘pensare’ e si realizzano a mano opere di ceramica, di restauro, di falegnameria, di pittura, di lavorazione del metallo come di fotografia, grafica e molto altro. Una schiera di creativi che trovano in questa periferia storica milanese il luogo ideale per i loro laboratori, showroom e officine creative. L’Associazione crea sinergie tra le diverse realtà presenti nel quartiere di Dergano, contribuendo allo sviluppo del territorio-quartiere e promuovendone le risorse. Attraverso le mostre, i laboratori e gli eventi proposti, non solo si intende vivere attivamente la trasformazione del quartiere, ma soprattutto si ottiene di rendere il giusto ruolo alla bottega. Spazio del ‘negotium’, e quindi del ‘non ozio’, luogo del fare, dell’accogliere e comunicare. Tessere di un quartiere dall’identità ancora presente,dalla personalità caratteristica, a raccontare una delle tante anime di una città come Milano.
8. Laboratorio Controprogetto con i ragazzi che hanno partecipato alla costruzione del parco giochi Park-urka -57-
_LABORATORIO CONTROPROGETTO Park-urka è un progetto nato dalla collaborazione tra il Laboratorio Controprogetto e l’associazione LABuat (LABoratorioUrbanoArchitetturaTaranto), promosso da Principi Attivi Giovani Idee per una Puglia Migliore e patrocinato dal Comune di Taranto. La città vecchia di Taranto, da anni interessata da piani urbanistici e di recupero, sta vivendo una momento di forte trasformazione. Soprattutto Largo San Gaetano, grazie al progetto Cantiere Maggese, laboratorio urbano con spazi dedicati alla creatività promosso e finanziato dal programma regionale Bollenti Spiriti, si è presentato come un cantiere vero e proprio in cui è stato possibile annusare il cambiamento. Attraverso un workshop di progettazione e costruzione partecipata con abitanti del quartiere, bambini, volontari ed artisti ha voluto esaltare questo cambiamento, reinventando lo spazio pubblico attraverso stratificazioni e accavallamenti, facendone un cantiere un po’ diverso e sopra le righe, un cantiere da gioco. Il piccolo parco giochi, realizzato in tempi di record in quattro giorni, si compone di una struttura principale a forma di grosso polipo con scivolo ed arrampicate, altalene, sedute ed un piccolo palchetto. La realizzazione di Park-urka è stata resa possibile grazie alla collaborazione con gli abitanti del quartiere Isola-Borgo Antico. Dopo dieci giorni dall’inizio del workshop, il parcogiochi è stato ultimato ed inaugurato alla presenza delle autorità locali che hanno apprezzato l’originalità e la creatività della realizzazione.
4. 9. Jacob Philipp Hackert, Il porto di Bisceglie, 1790 -59-
Indagine territoriale
Bisceglie [ ], Vescégghie nel dialetto biscegliese, è un comune italiano di 54.899 abitanti della provincia di Barletta-Andria-Trani, in Puglia. Sorge sulla costa del basso Adriatico a 16 m sul livello del mare e dista circa 34,5 km da Bari. Essa è distinta in una parte medievale, sul mare, e in una parte moderna. Nella zona si coltivano vite, ulivo e alberi da frutta. La specializzazione delle colture ha determinato la nascita di industrie di prima trasformazione e di preparazione degli imballaggi, e una forte espansione del commercio, compresi la lavorazione della pietra da costruzione e il turismo balneare. Dalle sue origini fino al sec. XI Bisceglie ha storia oscura. Intorno al 1000 fu conquistata da Roberto il Guiscardo; Pietro II la dotà di solide mura; gli Svevi vi costruirono il castello; gli Angoini le diedero floridezza, e così pure i Del Balzo che la ebbero in feudo. Morto l’ultimo discendente dei Del Balzo, Pirro, la città passò a Lucrezia Borgia. Papa Alessandro VI pagò una forte somma per avere Bisceglie, la quale, alla morte di Alfonso d’Aragona, marito di Lucrezia, passò al loro figlio Rodrigo e poi agli Spagnoli, che le concessero una certa autonomia e quindi seguì le vicende delle altre terre meridionali. La decadenza della città avuta inizio con il malgoverno spagnolo si fermò solo nella seconda metà del XVIII sec. e Bisceglie cominciò a risorgere.
Trani
INQUADRAMENTO TERRITORIO
Bisceglie
Molfetta
Corato
Terlizzi
Ruvo di Puglia
10. Giovanni Battista Pacichelli, Bisceglie durante il regno di Napoli, XVIII sec. -61-
4.1 -62-
Indagine territoriale
Morfologia del territorio
La morfologia del suolo sul quale il territorio biscegliese si estende è tipica, rappresentativa, della fascia costiera adriatica, cioè quasi pianeggiante, con leggero declivio verso il mare (circa 1,5%). Esso ha infatti origini geologiche arcaiche: questa zona della murgia si presenta come una vasta e continua formazione calcarea costituita da sedimenti sabbiosi. Il territorio che dalla murgia digrada verso l’Adriatico, nell’insieme appare come una successione di gradini verso la costa, superfici terrazzate formate da calcari marini e argilla. Nel Pleistocene più antico questa regione era sommersa mentre nel corso del Pleistocene medio si susseguirono alternativamente fasi di erosione e di accumulo. Le stesse generarono abbassamenti e innalzamenti del territorio costituendo così, attraverso una graduale ritiro del mare, le superfici terrazzate denominate “pianori”. Questi si affacciano su antichi solchi erosivi con ampio alveo fluviale denominati “lame” che dalla Murgia alta sfociano nel mare Adriatico, solcando il terreno a volte dolcemente e a volte marcatamente, in direzione normale alla costa. Esse rappresentavano una fonte di approvvigionamento idrico e una naturale via di comunicazione che collegava la costa alle aree interne. Due di queste costeggiano l’attuale centro storico, e si smorzano a circa 3 km dal mare; altre due, quasi equidistanti, a 3 km circa ad est ed ovest del centro, sono molto più profonde (Lama Paterno e Lama S. Croce, che assume a valle il nome di Lama di Macina) e si addentrano nel territorio notevolmente proseguendo nei territori dei comuni limitrofi interni (Corato, Ruvo,
Terlizzi). Queste ultime, un tempo probabilmente sedi di corsi d’acqua, e quindi con condizioni favorevoli alla vita, conservano numerosissime testimonianze di insediamenti umani di epoca preistorica, soprattutto la Lama di S. Croce.
ASSETTO MORFOLOGICO
4.2 -64-
Indagine territoriale
Storia
_ORIGINI DELLA CITTÀ Il litorale adriatico pugliese, grazie alla mitezza del clima e alla feracità del suolo, fu antichissima sede umana. In un’epoca lontanissima, circa 80 mila anni fa, quando gli uomini non avevano imparato ancora a levigare le pietre con i loro usi, ma si limitavano a scheggiarle (età Paleolitica), abitò le grotte del territorio biscegliese una popolazione di stirpe mediterranea, rozza, selvaggia, che si nutriva di erbe e selvaggina. Ne provano la presenza e l’attività le pietre scheggiate, che furono le prime armi e i primi utensili.
Nell’età del bronzo, periodo che va dal 3000 al 1000 a.C., occupa la regione pugliese una popolazione nordica, di razza indoeuropea, la quale soppianta del tutto i primitivi popoli indigeni. Mutano profondamente costumi, lingua e riti, e i più elaborati prodotti dell’arte umana testimoniano di una civiltà più elevata e sapiente. I dolmen, importanti sepolcri-altari di quest’età, spuntano qua e là in Puglia, dove se ne contano una ventina: alcuni notevoli vengono costruiti nel territorio biscegliese, tutti in luoghi elevati.
A 7km dal paese, lungo la via per Corato, il suolo cede ripidamente a formare un’ampia lama su cui scorre d’inverno il torrente delle Lame che provenendo da Corato si versava un tempo nel porto. Qui, nelle contrade S. Croce e Matina degli Staffi, si aprono, per un tratto di 500m, alcune grotte, tra cui quella di S. Croce, la più grande, a 120m sul livello del mare. La grotta offre un quadro completo del periodo medio del Paleolitico (musteriano) in Puglia: dimostrano l’attività umana le numerose pietre scheggiate (armi e utensili), i resti di animali di specie estinte (leone cavernicolo, orso delle caverne, buoi e cavalli primigeni), i resti di animali di specie remote (rinoceronte, iena, cervo) ed il femore umano curvo attribuibile all’uomo di Neanderthal rinvenuto nella grotta di Santa Croce e attualmente conservato nel museo archeologico nazionale di Taranto. Nelle altre grotte circostanti, invece, furono ritrovati resti di ceramica del periodo Neolitico.
_PERIODO GRECO-ROMANO E L’ALTO MEDIOEVO Successivamente occupano la parte centrale della Puglia i Peuceti, forte stirpe di origine illirica, che hanno re, costumi e leggi proprie. Dall’VIII al VI secolo a.C., a ondate successive, toccano le sponde pugliesi i Greci che, sbarcativi, battezzano le nuove terre come loro seconda patria (Magna Grecia). Coloni greci dell’Attica fondano Ruvo e ne fanno una città fiorente e un centro artistico di primo piano (450-200 a.C.). I rubestini, assimilato il gusto greco, si dedicano alla lavorazione della ceramica, arte nella quale raggiunsero risultati eccellenti. La grecità si estese per largo tratto tutt’intorno: anche la campagna molfettese e quella biscegliese furono abitate, e in particolare la costa di questi paesi costituì per Ruvo il più vicino sbocco al mare. Tombe con vasi italo-greci, monete sparse qua e là per la campagna e anfore onerarie romane raccolte nel mare di Bisceglie a poca distanza dalla costa sono un’eco di tale lontana
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civiltà. Nel III secolo, dopo la guerra di Pirro, la Puglia cadde sotto la spada di Roma. La regione, latinizzandosi, fiorì a nuova vita. I coloni romani popolarono le campagne pugliesi che furono solcate da nuove strade: fu costruito il tratto costiero che allacciava Bari a Trani e Siponto, tratto che fu forse rifatto nel I secolo dell’Impero dall’imperatore Traiano e prese il nome appunto di via Traiana. Dell’arteria resta tuttora traccia nelle numerose pietre miliari, disseminate lungo tutto il percorso: in un’aiuola del Palazzuolo è posto il miliario CXII dell’importante strada imperiale. Dopo la caduta dell’Impero romano (476 d.C.), le terre pugliesi languirono vari secoli in pieno abbandono, alla mercè degli invasori germanici. Poi vi si fermarono per qualche tempo gli Ostrogoti, arrecando nuovi danni e lutti. Poco dopo giunsero i Bizantini che durarono a malapena fino ai primi del VII secolo. Probabilmente le grotte biscegliesi furono abitate in questo tempo da monaci bizantini, i cosiddetti Basiliani. Giunti in Puglia al seguito degli eserciti bizantini, questi monaci vivevano in caverne, grotte e sotterranei dove lasciavano segni e affreschi sulle pareti delle rocce. Le tracce di affreschi rinvenuti a S. Croce e il nome stesso della grotta sembrano confermare la presenza di Basiliani nell’agro. Verso i primi del VII secolo i Longobardi riuscirono a strappare ai Bizantini Bari e la costa adriatica. Così dai primi anni del 600 e fino all’800 il territorio biscegliese rimase sotto il gastaldato longobardo di Canosa.
Abitava l’agro biscegliese gente di varia provenienza e fortuna, dedita in genere all’agricoltura e raggruppata nei casali, che vivevano ciascuno di vita autonoma, lontani dall’infida costa e dalle vie di transito. V’erano proprietari di terre, braccianti, diaconi, monaci di provenienza tranese, barese, canosina. Di questi caseggiati, detti casali, sono annoverati per importanza storica il casale di Giano, il casale di Cirignano, il casale di Pacciano, il casale di Sagina, ed il casale di Zappino. Verso il 700 il casale di Giano, antico luogo di culto pagano, divenne sede di un ricco monastero; mentre nel 789 alcune case del casale di Pacciano furono cedute al celebre monastero di Santa Sofia. In questo contesto vi era un luogo, lungo la costa, aspro e denso di vegetazione, che costituiva un buon riparo per le imbarcazioni, e che fu denominato dagli abitanti Vescègghie, dal nome delle quercie selvatiche diffuse tutt’intorno (da viscite o viscilia, voce basso latina indicante un tipo di quercia, connessa con viscum, il vischio, pianta parassita di cui tale quercia è ricca). Questo luogo fu il naturale sbocco al mare di quei contadini che lentamente si avviarono ad una modesta attività marinaresca. Sorse così un piccolo borgo marinaro, coevo alla costituzione di altri borghi di origine longobarda come Giovinazzo sulla costa Adriatica e Terlizzi, nell’entroterra. Dall’800 il territorio venne assoggettato al gastaldato longobardo di Trani, città forte e fiorente. Successivamente, per circa un trentennio (841-876 e più tardi verso il Mille), sul territorio scorazzano impunemente i Saraceni, che saccheggiano i casali biscegliesi (1009).
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_PERIODO NORMANNO-SVEVO E ANGIOINO L’insofferenza pugliese contro il rapace dominio bizantino comincia ora a sfociare in aperte rivolte, come quella di Melo da Bari. Sbarcano frattanto sulla costa i primi Normanni, gente del nord, che si danno a sostenere l’azione dei ribelli. Nell’anno 1042, mentre Bisceglie bizantina si piega al ribelle Argiro, figlio di Melo, Roberto il Guiscardo assegna la contea di Trani al suo vassallo Pietro, uno dei dodici capitani normanni conquistatori del Regno di Napoli. Ma Trani è in mano bizantina, perciò Pietro si attesta negli altri luoghi della Contea, Barletta, Andria, Corato e Bisceglie, che egli amplia e fortifica, elevandoli a cittadine. Le genti dei casali biscegliesi si sottomettono al conte Pietro chiedendogli protezione e asilo e offrendogli in cambio fedeltà e aiuto nel mantenimento del feudo esposto a troppo pericoli. Infatti l’agro, un tempo popolato e fiorente di attività, non offre più sicurezza: i casali erano stati più volte saccheggiati e semidistrutti dai Saraceni e ora si aggiungevano anche le lotte tra Normanni e Bizantini e fra gli stessi capi normanni a rendere rischiosa la vita di campagna. Occorreva a queste genti una sede più sicura e perciò il conte Pietro comincia a fortificare il povero borgo marinaro, avviando i lavori di costruzione a difesa di alcune case che si erano addensate in prossimità del mare. Nel 1060 il nucleo più antico della città, cinto da mura, venne dotato di una imponente torre di guardia detta torre Maestra perchè, oltre al compito mi-
litare di vedetta, svolge anche il ruolo pacifico di guidare in porto le barche che si trovano in alto mare. In quest’epoca venne introdotto il culto dei Santi Mauro, Sergio e Pantaleone che divennero i nuovi protettori di Bisceglie. Nel 1063 venne istituita da Papa Alessandro II la cattedra vescovile di Bisceglie. In quel periodo furono avviati i lavori per la costruzione della cattedrale e i Normanni vanno concedendo alle loro cittadine l’autonomia amministrativa e giudiziaria per tenersele amiche. A Bisceglie il potere civile ed ecclesiastico è riunito nelle mani del vescovo che risiede nell’Episcopio che è anche sede del Comune. Nel 1071, con la caduta di Bari, i Bizantini cedono definitivamente la Puglia a Roberto il Guiscardo il quale assegna Bisceglie al conte Pietro II di Trani. Nel frattempo l’immigrazione dei rurali continuava e nel gennaio 1074 il vescovo Dumnello firma un atto amministrativo fondamentale per la vita del Comune concedendo a circa cento immigrati dei casali di Cirignano, Pacciano e Zappino la chiesa di S. Adoeno. Vari anni dopo, nell’aprile 1099, continuando l’esodo dalla campagna, il vescovo Stefano concede la chiesa di S. Matteo a oltre cento persone e l’anno seguente la chiesa di S. Nicola a una novantina di nuovi immigrati. Gli assegnatari delle tre chiese s’impegnano, per loro parte, a versare un censo al vescovo. Successivamente, nel 1167 Il vescovo Amando ordinò la traslazione delle sacre reliquie, custodite fino ad allora in un sepolcro nel casale
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di Sagina, nelle mura cittadine dove erano stati ultimati i lavori della costruenda cattedrale. Tra le attività del nascente insediamento urbano fu importante quella marinaresca in proficui commerci con la costa dalmata e albanese, e con le isole dell’Egeo e con l’isola di Cipro. Gli Svevi continuarono in paese l’opera dei Normanni: l’imperatore Federico II ordinò la costruzione di un castello contiguo alla torre Normanna detta Maestra. Inoltre, gli svevi munirono l’intero agro di torri di guardia, torri di vedetta come la torre Gavetino, la torre di Zappino e altre. Dopo che la Chiesa, minacciata nei suoi interessi dal crescente prevalere degli Svevi, si affrettò a sollecitare l’intervento dei francesi in Italia, Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, fiaccate le ultime resistenze sveve, instaurò nel sud una dinastia che era destinata a durare circa due secoli (1266-1442). Sotto gli Angioini Bisceglie entrò nel feudo dei conti di Montfort. Nel 1324 passò ad Amelio del Balzo e successivamente, nel 1326, a Roberto d’Angiò figlio del re Carlo II d’Angiò e di Filippo suo fratello. Nonostante il periodo di vivacità commerciale con i porti dell’Adriatico e non solo, la nascente città si trovò al centro di intricate e sanguinose lotte che dilaniarono la Puglia sotto Giovanna I. Nel 1360 Giacomo del Balzo divenne conte di Bisceglie. Nel periodo compreso fra il 1381 e il 1405 fu conte di Bisceglie Raimondo Orsini del Balzo. Nel settembre del 1384 il pretendente al trono Luigi I d’Angiò, fratello del re di Francia,
e Carlo di Durazzo si scontrarono con una lunga guerriglia e nella notte del 13 settembre i durazzesi varcarono le mura e saccheggiarono Bisceglie. In questa circostanza Luigi I d’Angiò venne ferito e morì dopo qualche giorno, il 20 settembre. Dal 1405 al 1414 il feudo cade sotto il diretto possesso di re Ladislao I di Napoli, morto il quale passa alla regina Giovanna II. In questo periodo la regina concede al paese alcuni privilegi, tra i quali la facoltà di armare galee nel proprio arsenale.
_PERIODO ARAGONESE, AUSTRIACO E BORBONICO Il regno di Napoli, il più vasto e popoloso di Italia, era un colosso di argilla: governato da re sempre più deboli di fronte alla prepotenza dei feudatari, complessivamente povero rispetto alle ricche signorie settentrionali, mancante di una vera borghesia e di organismi comunali attivi e vitali a causa della vasta diffusione del latifondo e del diritto feudale, economicamentesfruttato da accorti commercianti fiorentini, genovesi, veneziani, scosso all’interno da lunghe e sanguinose lotte di successione, esso inizia ora un periodo di decadenza secolare. Nell’anno 1442 la crisi politica interna al regno di Napoli consente ad Alfonso V d’Aragona di conquistare il potere, dopo aver cacciato gli angioini dal regno. Passata agli aragonesi, Bisceglie diventa feudo di Giovanni Antonio del Balzo, che non manca ad una rapida congiura contro il re facendo leva su
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Giovanni d’Angiò, duca di Calabria. Questi rinuncia alla scalata e firma la pace con Ferdinando d’Aragona il 13 ottobre 1462. Con la pace di Bisceglie furono confermati con gli stessi titoli i privilegi a tutte le città ed i castelli che Giovanni Antonio del Balzo possedeva prima della guerra, purché egli restasse fedele al sovrano. Dopo il 1485 il feudo biscegliese passa, sotto il titolo di marchesato, a Federico d’Aragona, futuro re di Napoli. In questo periodo, dopo il saccheggio di Otranto e le numerose minacce dei turchi, si rende necessario abbattere la vecchia cinta muraria normanna e sostituirla con una più moderna. Alla fine del secolo la città si presenta adeguatamente fortificata e idonea a sostenere la guerra moderna con le armi da fuoco. Negli ultimi anni del ‘400 Bisceglie sale di colpo alla notorietà delle corti, delle curie e delle cronache politiche e mondane d’Italia: il 20 maggio del 1498 in Vaticano venne data lettura delle tavole nuziali per il matrimonio fra Lucrezia Borgia, figlia del Papa Alessandro VI, e Alfonso d’Aragona, nipote di Federico re di Napoli. Alfonso d’Aragona portò in dote Bisceglie che, unita a Corato, costituì il ducato di Bisceglie e Corato. Un mese dopo ebbe luogo il matrimonio a Roma che ebbe vita breve e funesta. Dal matrimonio nacque Rodrigo d’Aragona che, dopo l’assasinio di suo padre, fu insignito dell’appellativo di duca di Bisceglie e Sermoneta e signore di Corato. Dopo la prematura morte di Rodrigo, nel 1513 Bisceglie, versando al re di Napoli 13000 ducati, si riscattò. Il re concesse la facoltà di armare ga-
lee e di difendersi con proprie milizie, già antico privilegio della cittadina. Ottenuti tali privilegi il borgo ed il suo territorio prosperarono per molti anni finché il principe Filiberto di Chalons, viceré di Napoli, non affidò il feudo al nobile spagnolo Luigi Ram. Nel 1532 i deputati locali ottennero da Carlo V il riconoscimento di Bisceglie a città demaniale. A seguito delle continue controversie tra il Comune e il Vescovo, nel 1569 vennero consegnati al Comune i capitoli municipali (ordinamenti amministrativi) che dureranno ininterrottamente fino all’ottobre del 1806. Le attività economiche erano vivaci, i commerci si svolgevano via mare e via terra con i paesi interni della Puglia, della Basilicata e con il beneventano. Si importava ferro, legno, lana e cuoio. Si esportava frutta, ortaggi, mandorle e soprattutto olio d’oliva. Due erano le fiere che si svolgevano durante l’anno: una a gennaio in occasione di Sant’Antonio abate, primo protettore di Bisceglie, l’altra a luglio alla festa dei tre Santi protettori Mauro, Sergio e Pantaleone. Verso la fine del Seicento la vita cittadina fu influenzata dalla presenza del vescovo Pompeo Sarnelli che occupò la cattedra biscegliese dal 1692 al 1724. La guerra di successione spagnola portò gli austriaci nel regno di Napoli, dal 1714 al 1738. Successivamente, con il governo dei Borboni di Spagna, che durò ininterrotamente dal 1738 al 1860 (eccetto il brevissimo periodo napoleonico), la città che contava quasi 6000 abitanti, venne assoggettata ad una pressione fiscale gravosa ed insostenibile. Positivo si rivelò l’in-
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tervento dei Borboni rispetto alla risistemazione del porto, ai traffici marittimi ed all’igiene nella città, flagellata in questo periodo dalla peste. L’economia cittadina si basava su: agricoltura, pesca e commercio dei prodotti del suolo. Quando nel 1799 le truppe napoleoniche invasero il Regno di Napoli, Bisceglie aprì le porte ai francesi inneggiando alla libertà. Dopo l’occupazione di Bisceglie da parte dei francesi, in città si sparse la voce di un imminente sbarco di navi russe e turche per contrastare l’avanzata dei soldati napoleonici; tuttavia la minaccia risultò infondata anche se in città si ammassarono truppe francesi e italiane. Dopo alcuni giorni, millequattrocento russi sbarcarono nel porto di Bisceglie e la occuparono riconsegnandola ai Borboni. Essi governarono dal 1734 al 1860, periodo in cui la Puglia languì in miseria e abbandono: soffocate la libertà e la cultura, trionfarono l’ignoranza, la tracotanza spagnolesca dei funzionari regi e il servilismo dei deboli.
_RISORGIMENTO Allo scoppio della Rivoluzione francese fremiti di libertà e giustizia sociale erano corsi per l’Europa e il nuovo ideale democratico trovò un fertile terreno soprattutto al sud, tra la nascente borghesia meridionale in cui cominciò a discutere di diritti e a combattere i privilegi. Durante il Risorgimento Bisceglie fu un vivace centro di cospirazione, contando tra i nobili e il popolo circa cinquecento affiliati alla Carbo-
neria. Durante i moti del 1820-1821 ebbe luogo nel palazzo Tupputi un’importante dieta delle Puglie, in cui fu proclamata la Costituzione e ne vennero fissati gli Statuti in dieci articoli. Nobile figura di questi anni fu Ottavio Tupputi, il maggiore patriota biscegliese. Egli per ben due volte venne condannato a morte; partecipò anche come generale alla disastrosa campagna napoleonica di Russia. Intanto, cominciavano a circolare in alcuni ambienti le idee mazziniane ed il pensiero socialista, in cui si collegavano gli ideali di indipendenza nazionale, e le aspirazioni di riscatto sociale e politico delle masse contadine. In questo quadro politico si distinse il patriota biscegliese Francesco Favuzzi, che nel 1857 aderì all’iniziativa meridionale organizzata da Carlo Pisacane, e con altri patrioti raggiunse via mare Sapri, nel golfo di Salerno, per provocare una rivoluzione popolare. Qualche anno dopo, nel 1860, il biscegliese Francesco Calò partecipò alla spedizione dei Mille arruolandosi con il grado di maggiore nell’esercito garibaldino. Nel 1860 Bisceglie, insieme ad altre città vicine, istituì una giunta di insurrezione al fine di sostenere i Garibaldini e il 21 ottobre 1860 si tenne un referendum nel locale monastero di Santa Croce: la maggioranza dei votanti si espresse a favore dell’annessione. Il primo deputato al Parlamento Italiano eletto nel collegio di Molfetta fu Ottavio Tupputi.
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_DALL’UNITÀ D’ITALIA AI GIORNI NOSTRI Il periodo pre-unitario si rivelò interessante sul piano dell’economia derivante dai traffici marittimi. I mercanti biscegliesi avevano stabilito solide relazioni commerciali con i porti della Dalmazia, dell’Egeo e del mar Nero. Sin dal 1860 si stabilì a Kerc, in Crimea, una piccola comunità di biscegliesi che vivevano di commerci transfrontalieri. Nel 1864 l’apertura del tronco ferroviario FoggiaBarletta-Bari diede grande impulso all’economia locale e il 9 novembre del 1872 fu inaugurato il Teatro Garibaldi dopo dieci anni di lavori, e ben presto il teatro divenne il centro della vita mondana biscegliese. La tradizione liberale risorgimentale si tradusse a Bisceglie in una vivace vita politica, dalla quale emerse il sindaco Giulio Frisari, capo della sinistra democratica parlamentare pugliese e della Società Operaia di Mutuo Soccorso; non mancarono in questo periodo vivaci scontri verbali e violenti scontri fisici. Allo scoppio della prima guerra mondiale numerosi giovani biscegliesi partirono per il fronte e a fine guerra furono quattrocentotrenta i caduti (con numerosi feriti e mutilati). Il 2 agosto 1916 Bisceglie conobbe da vicino la guerra, infatti alcune cannonate navali austriache causarono diversi danni materiali ma nessuna vittima. Nel 1920, a seguito delle adesioni alla politica fascista, fu aperta una sezione del fascio nel palazzo Logoluso. Nell’inverno 1940-1941, durante il conflitto italo-greco, Benito Mussolini fissò la sua residenza a Bisceglie nella Villa Angelica mentre il quartier
generale alloggiò nella Villa Ciardi. Nel 1943 i tedeschi precipitosamente si ritirarono da tutto il sud Italia e poco dopo Bisceglie fu occupata dagli anglo-americani. Il travagliato passaggio dal fascismo alla repubblica trovò in Vincenzo Calace uno dei maggiori politici antifascisti e sostenitori della democrazia. Al termine della seconda guerra mondiale si contarono circa trecento caduti biscegliesi, molti invalidi e anche alcuni dispersi. Le prime elezioni comunali del secondo dopoguerra, che registrarono il maggiore suffragio, alla Democrazia Cristiana, segnarono il successo personale del sindaco Umberto Paternostro, che guidò la città nella ripresa dalla paralisi prodotta dalla guerra. Questo periodo fu caratterizzato da una considerevole e significativa attività nel settore delle opere pubbliche. Tra gli anni cinquanta e sessanta Bisceglie conobbe una fervida attività economica, alimentata dall’agricoltura, dalla pesca, e da un fiorente commercio di prodotti ortofrutticoli in Italia e all’estero. La vita cittadina fu anche caratterizzata da una vivace attività culturale. Attualmente l’economia biscegliese si fonda soprattutto sulla piccola industria manifatturiera (in particolar modo nel settore tessile delle confezioni, dei frantoi oleari e dell’industria per la lavorazione della pietra), sul commercio e sull’agricoltura. Significative risultano le produzioni agricole delle olive per la produzione di olio di oliva, dell’uva da tavola, delle ciliege e della tipica ciliegia biscegliese.
4.3 11. Don Pancrazio Cucuzziello, maschera carnevalesca biscegliese -71-
Indagine territoriale
Società
_TRADIZIONI E FOLKLORE Nell’ambito del folklore pugliese, le tradizioni di Bisceglie costituiscono un patrimonio di consuetudini, atteggiamenti, comportamenti, rituali religiosi, canti e racconti, tipici del mondo contadino e marinaro meridionale; un patrimonio tanto più raro e prezioso in quanto facilmente deperibile, affidato com’è a scarni documenti e a testimonianze soprattutto orali. L’antica tradizione del teatro a Bisceglie, che vantava già nel regno di Napoli uno dei più grandi teatri detto la “polveriera”, trova testimonianza anche in una maschera da non dimenticare: Don Pancrazio Cucuzziello. Detto anche Il Biscegliese, questa maschera di ispirazione pugliese ebbe fortuna a Napoli, dai primi dell’800 fino alla metà del secolo, ad opera di un attore e alcuni autori napoletani. Don Pancrazio furoreggiò sulle scene del S. Carlino come protagonista delle sue commedie, in concorrenza con Pulcinella, impersonando il tipo del pugliese trapiantato nella capitale del regno, laborioso, parsimonioso e schivo nel parlare, cioè l’esatto opposto del napoletano ozioso, spendaccione e ciarliero. Di qui gli strali del popolino partenopeo che, immancabilmente, puniva sulle scene Don Pancrazio facendogli sborsare il denaro faticosamente accumulato. Oggetto di risa e scherno era anche il suo dialetto, un misto di una decina di parlate pugliesi e che suonava aspro e rozzo in confronto alla sonorità del dialetto napoletano. Guercio e zoppo, sul tipo del Pantalone veneziano, con un abito di velluto nero con maniche e berretto in rosso e calze rosse, con l’immancabile bastone, al cui pomo si
12. Processione del venerdì santo, 1940 -72-
appoggiava in buffo atteggiamento, Don Pancrazio, prototipo dell’emigrante pugliese, non è una maschera da dimenticare perchè lesiva del buon nome dei biscegliesi, come ha scritto qualcuno, piuttosto da ricordare come testimonianza del carattere della gente biscegliese in un particolare momento della sua storia. Molto sentiti dal popolo sono i rituali della settimana santa. Il ciclo delle feste pasquali si apre con la domenica delle palme, in cui al mattino, i contadini tornati dai campi con grandi fasci di rami d’ulivo, li portano in chiesa per farli benedire dal sacerdote durante la messa. Quindi portano uno di questi arboscelli in campagna, dove lo legano al ramo di un albero oppure lo piantano in terra e recitano preghiere per invocare la benedizione sul prossimo raccolto. Questi ramoscelli, divenuti sacri, sono portati anche in casa oppure donati ad amici e parenti e si conservano per tutto l’anno, per essere poi bruciati solo l’anno successivo al momento della distribuzione delle ceneri. I riti della Pasqua si svolgono secondo forme di antica tradizione, tipicamente locali. Dal pomeriggio del giovedì fino al sabato, la chiesa è in lutto. In questo periodo non vengono suonate le campane. In passato le campane erano sostituite dalla terròzzue, simile alla raganella, strumento di legno con ruota dentata che strisciando su una lamiera provoca un suono stridente. Il giovedì santo, nelle chiese gli altari vengono addobbati con fiori e luci. Il giovedì sera si fanno i sepolcri. La gente visita gli altari addobbati, considerati come il Sepolcro di Cristo. Nelle prime ore del venerdì santo, la gente raggiunge
13. Processione nell’agro biscegliese durante la Fiera Campestre di Zappino, 1950 -73-
piazza e si riversa in prossimità del Palazzuolo per assistere al tradizionale incontro, una sacra rappresentazione tra l’immagine dell’Addolorata e quella del Cristo che porta la croce. Le due statue, portate a spalla e accompagnate da marce funebri, si incontrano al Calvario. Nel tardo pomeriggio si svolgono le processioni dei misteri, statue lignee del Settecento raffiguranti i momenti della passione di Cristo, che partendo da chiese diverse confluiscono tutte in un’unica processione, intorno al palazzuolo. I cortei sono seguiti dalle Confraternite, i cui membri indossano particolari abiti di origine medioevale, e recano nella mano destra un cero acceso. L’ultimo corteo è quello del Cristo morto in la catène, venerato nella chiesa di San Matteo. La messa di Resurrezione viene celebrata nella tarda serata del sabato. La Pasqua ha un’appendice festiva nel lunedì dell’Angelo che assume la denominazione biscegliese di lunedì del Pantano, perché in passato la gente si recava a trascorrere la pasquetta nella zona del Pantano, l’ameno porticciolo naturale a 3km dal paese verso Molfetta. Questo giorno segna l’inizio delle fiere campestri e rionali, in coincidenza con l’inizio della primavera, che si svolgono fino alla Pentecoste. Sono la fiera di Zappino e quella successiva di Giano (entrambe si tengono nei rispettivi casali medioevali), seguono le fiere delle chiese di San Lorenzo, Sant’Agostino, di Santa Maria della Misericordia, della Madonna di Passavia e di Sant’Adoeno. La prima fiera campestre si svolge a Zappino, dove si venera una madonna protettrice dei
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campi dalla siccità. Nella prima domenica dopo Pasqua, il popolo si reca in pellegrinaggio al casale e, ascoltata la messa, porta in processione per i campi l’immagine della vergine. La seconda domenica dopo Pasqua ha luogo la fiera di S. Maria di Giano presso l’omonimo casale. Si crede che anticamente la chiesa del casale fosse dedicata al dio Giano, perciò aveva due navate quanto sono le faccie del dio. Oltre che protettrice dalla siccità, la madonna di Giano è creduta guaritrice dell’ernia inguinale dei bambini. È nata da questa credenza una tradizione che sopravvive tenace da secoli. Durante la messa le mamme dei bambini affidano i loro figli ad accompagnatori che, con un cero in mano, li portano, benchè piangenti, per tre volte intorno all’altare della vergine, per impetrarne la guarigione. In passato, le donne lasciavano nella chiesetta come ex voto le fasce dei figli guariti. Questa tradizione trae origine dal fatto che il bambino raffigurato in grembo alla vergine reca in mano un passero, simbolo del membro virile. Oggi questo curioso rito si svolge nella chiesa di S. Domenico, da cui dipende quella di Giano. Nei periodi di siccità invece avevano luogo nei due casali le processioni di penitenza. Due o tre giorni prima della data stabilita, un bando girava per le vie del paese invitando il popolo ad astenersi dal alvoro per accorrere a visitare i santuari campestri e accompagnare in processione fino in città le venerate immagini della madonna. Nel giorno fissato, sin dalle prime ore del mattino, una parte dei fedeli si dirigeva verso Zappino e l’altra verso Giano, recitando rosari e intonando inni sacri. Lì si recavano anche i sacerdoti che
dopo aver officiato la messa prganizzavano la processione verso la città. Al cadere delle prime piogge, si fissava il giorno del ritorno delle due immagini ai santuari con l’ennesima processione di fedeli e prelati. La festa patronale, detta dei tre santi, è un vero e proprio evento per il paese. Si svolge per tre giorni intorno alla seconda domenica di agosto nelle forme che la tradizione ha serbato intatte fino ai giorni nostri. Essa trae origine dalla festa della traslazione dei santi da Sagina, ubicato nell’agro, all’interno delle mura, nel borgo marinaro. In passato si svolgeva il 30 luglio, giorno in cui attualmente la gente si reca nella concattedrale per visitare le sacre reliquie. L’organizzazione della festa è affidata alla commissione diocesana per le feste patronali, formata da rappresentatnti di ogni ceto sociale, che qualche mese prima dei festeggiamenti va in giro presso famiglie e negozi per raccogliere offerte in denaro o in natura, come olio dai trappeti (frantoi) e grano dai paritari (mezzadri) e dai mulini. La festa inizia il sabato mattina; alle otto, l’urlo prolungato della sirena della torre maestra e lo squillo delle campane di tutte le chiese, uniti agli scoppi di una batteria aprono i festeggiamenti. Sempre il sabato mattina, gira per le vie della città u tamburre, una bassa banda costituita da alcuni suonatori di piatti, di tamburi, uno di flauto e da uno di grancassa, che suonano alcune marce. Alla stazione è un fastoso viavai di gente che va ad accogliere gli emigranti, che tornano specialmente da Milano e dall’estero, per i quali la festa
14. Cassa armonica allestita in occasione della festa dei tre santi patroni per l’esibizione del concerto bandistico -75-
è l’occasione più propizia per un ritorno al paese natio. La sera la gente affluisce al palazzuolo, centro della festa, dove sono allineati baracconi, giostre, bancarelle colme di palloncini, giocattoli, ninnoli e leccornie. Intorno al palazzuolo e lungo le vie che portano alla cattedrale, è un susseguirsi di archi di luci multicolori, che formano festoni e gruppi di fiori. Sulla facciata del Teatro Garibaldi, viene eretto un altare ornato di luminarie, drappi e fiori in cui viene inserita una immagine dei santi patroni, detta il quadro. Al centro del Palazzuolo viene disposta una cassa armonica, intorno a cui la gente ascolta la musica eseguita dalle varie bande che si susseguono. La domenica mattina la gente si riversa in cattedrale, parata a festa, nella cripta dove si trovano esposte ai fedeli le statue dei tre santi. Alla sera ha inizio la solenne processione dei tre santi. Aprono il corteo i devoti, le congreghe delle parrocchie ed il vescovo in pompa magna. Seguono le statue dei santi, rivestite in oro e argento, portate a spalla dai confratelli dell’antica congregazione. Dietro il baldacchino avanzano le autorità e le bande musicali. Al rientro della processione, verso la mezzanotte, la gente si assiepa sulla muraglia e lungo tutto il porto per assistere ai fuochi pirotecnici lanciati dal molo. La festa riprende il lunedì, quando un gruppo di fedeli seguìto dalle bande musicali accompagnano in cattedrale il quadro. La chiusura della festa viene celebrata con i fuochi pirotecnici lanciati dal bacino portuale.
15. Contadini durante la raccolta delle ciliegie, 1960 -76-
_LA VITA ECONOMICA La vita economica locale si fonda sull’agricoltura, sul commercio e sull’industria. La superficie dell’agro, di 6653 ht, comprende seminati arborati, oliveti, mandorleti e colture ortive. L’alto frazionamento della proprietà fondiaria (oltre 6000 proprietà con più di 9000 proprietari) ha reso fortemente intensiva l’agricoltura del territorio. Per arginare i forti passivi delle annate di scarso raccolto e delle spese di coltivazione, i piccoli proprietari hanno impiantato nei terreni colture diverse a reddito più elevato: così in una piccola porzione di terra vediamo il ciliegio accanto alla vite, al mandorlo, all’ulivo. La produzione agricola supera di molto la media nazionale e tra i prodotti agricoli il primo posto spetta all’uva da tavola. Agli inizi del secolo l’ulivo costituiva la maggiore ricchezza locale: l’eccellente olio tenne il primato tra gli oli pugliesi fino al 1860, quando aveva una quotazione speciale sui mercati di Marsiglia e Firenze, vendendosi da 5 a 10 franchi in più degli altri; ma dopo quell’anno venne immesso sul mercato locale l’olio cosiddetto di Corato, di più tarda maturazione, più denso e abbondante, ma meno pregiato. Indicativo di tale antico primato è il cognome Dell’Olio, oggi il più diffuso in paese, con oltre un migliaio di intestatari. Notevole è pure la produzione delle gustose ciliegie, che tocca punte altissime ogni anno, in cui oltre la metà della produzione è uscita dai magazzini biscegliesi per essere esportata in Italia ed Europa. Un primato qualitativo detengono le mandorle, stimate le migliori in provincia per gusto, grossezza e forma. Seguono in produzione sovrab-
PERCENTUALE DI SUOLO UTILIZZATO PER LE PRINCIPALI COLTURE
38%
olivo
26%
vite
14%
frutta
11%
ortaggi
legumi e cereali
altro
3% 8%
16. Operai in magazzino ortofrutticolo occupati nella lavorazione delle ciliege per l’esportazione, 1929 -78-
bondante, gli ortaggi: insalate, pomodori, cavoli, patate, verdure e frutti, come arance, limoni, gelsi, melagrane, carrube. L’agricoltura alimenta un fiorente commercio di esportazione ortofrutticola in Italia e per l’estero, che vanta tradizioni illustri. In più l’esportazione ha dato vita a varie attività complentari tra cui le fabbriche di imballaggio che hanno una capacità produttiva di 60-70 mila pezzi al giorno (i cesti e i caratteristici plateaux). Tra i commercianti si contano anche grossisti di tessuti e generi alimentari; un elevato numero di venditori ambulanti gira la Puglia per tutto l’anno. L’attività industriale è nel complesso legata all’agricoltura. La più antica è l’industria molitoria dell’olio, un tipo di industria discontinua, intensissima nel periodo stagionale, che alimenta un buon commercio di olio e sottoprodotti con i paesi del settentrione. L’industria della pesca è in vivace ripresa dopo la stroncatura di una tenace pesca di frodo, che finiva per impoverire i fondali, e dopo il modernizzamento delle attrezzature. Inoltre l’area portuale è stata negli ultimi decenni rimaneggiata per consentire l’approdo turistico di yacht e barche a vela che nel periodo estivo affollano la darsena e il lungomare, dotati di attrezzature ricettive, alberghi, ristoranti e stabilimenti balneari. Tra le industrie cittadine vanno annoverate anche piccole e medie imprese edili, fabbriche della pasta-carta e dei prodotti della carta, fabbriche per la lavorazione dei prodotti in metallo, fabbriche per la lavorazione del legno e di mobili.
17. Fiscolai all’opera nella produzione dei diaframmi filtranti utilizzati nel processo di estrazione dell’olio per pressione, 1950 -79-
Ma la maggiore del settore è l’industria marmifera, che ha visto sorgere in pochi anni grosse imprese che hanno tolto alle ditte tranesi il monopolio della lavorazione della pietra in provincia. L’artigianato invece non è mai stato molto fiorente: vanno scomparendo anche i fiscolari, lavoratori ausiliari dell’industria molitoria, che fabbricano i fiscoli, involucri a borsa per spremere l’olio dalle olive.
4.4 18. Orecchiette e strascinati, tipica pasta fresca fatta in casa -80-
Indagine territoriale
Cultura
_LA CUCINA TIPICA La cucina tradizionale biscegliese è in perfetto equilibrio tra terra e mare. Piatti tipici della cucina locale sono: ceci e cavatelli, una specie di pasta fresca senza uovo fatta in casa, formata da una massa incavata e attorcigliata; cime di rapa con strascinati, anche chiamati cappelletti (un altro tipo di pasta fresca che prende il nome dal metodo con cui la pasta è modellata, appunto trascinata su un largo piano di legno con le dita della mano. La particolare tecnica manuale consente di avere un lato liscio, quello che è stato a contatto con la tavola di legno, che viene spolverata di farina, e uno profondamente irregolare, quello che è stato a contatto con le dita, che si scollano letteralmente dalla pasta fresca durante la strascinata lasciandone la superficie rugosa e irregolare, che raccoglierà meglio il sugo); cardi (piante di carciofi lessate e cucinate in brodo con l’uovo); cime e strascinati assése (cioè seduti, pressati in modo da unirsi tra loro); patate, cozze e checozze al forno; sevéirchie de checòzze e chechezzéidde mbregatorie; ciammarechéidde cu premedòle; l’arancia rotta all’acqua; u sfricone; l’acquasale, la cialdédde. Completano queste pietanze: il pesce, servito in tutte le salse, tra cui quello servito alla griglia e u ciambotte, ma anche le braciole, l’arrosto di castrato e le gnimbredde. Tra la frutta, primeggia la ciliegia tosta, l’uva da tavola del genere baresana, regina e cardinale. Una tipica ghiottoneria locale è u calzaune, una focaccia ripiena di sponsali lessati e baccalà, olive nere, acciughe, diabuicchie (peperonci-
-81-
no) e uva passa. Un’altra varietà di calzone è preparata con pomodori, ricotta forte e cipolla. Rientra nella tradizione mangiare il calzone alla vigilia dell’Immacolata ed alla vigilia di Natale. I dolci tipici della cucina locale sono: le cartellate, dolci preparati in occasione delle feste natalizie; i pizzetti fatti con mandorle arrostite, zucchero e cacao; i marzapane; le sapienze con farina, zucchero e marmellata d’uva; le zeppole, preparate con uova, farina, un po’ di burro e fritte in forma di taralli servite in occasione della festa di San Giuseppe; la còlve, preparata il giorno dei morti con grano bollito condito con abbondante vin cotto, mandorle tritate, pezzi di noce, pezzetti di cioccolato, chicchi di melograno; ed il sospiro, il dolce tipico biscegliese più famoso.
_IL DIALETTO Il professore biscegliese Mario Cosmai, dopo aver vivisezionato con acume e rigore scientifico la parlata tipica de Vescégghie, si congedava così nel suo libro sul dialetto biscegliese: “Lingua odorosa di terra e di mare, sobria come il nostro pane, violenta come il nostro sole, rude e amara a volte, ma sempre sincera e virilmente ottimista.”
Su di esso vi è una leggenda popolare secondo cui San Nicola Pellegrino, arrivato in Puglia dalla Licia per diffondere il Vangelo, giunse a Bisceglie. Qui gli abitanti rimasero insoddisfatti e delusi del santo, tanto che lo scacciarono in malo modo. San Nicola, risentito, pregò Dio che punisse i biscegliesi storpiando la loro parlata.
Ma, andando oltre la leggenda, il dialetto biscegliese afferisce al gruppo settentrionale dei dialetti pugliesi. In esso è possibile individuare i due principali rami di derivazione: il latino popolare, e la lingua nazionale. La fonetica del dialetto è regolata da leggi rigorose e costanti, soprattutto se si tiene conto del processo di trasformazione dalla lingua più antica, come il latino popolare, alla lingua più recente, come il dialetto. A mo’ di esempio, il passaggio del suono ‘pj’ latino nella doppia dialettale, rappresenta una legge fonetica, come in ‘sapjo’ (latino) da cui deriva ‘sacce’ (dialetto). Sul piano etimologico, ci sono alcune parole che derivano dal greco, altre dal latino popolare, la maggior parte dei termini deriva dall’italiano che va conquistando sempre maggior spazio. Ma oltre ai grecismi antichi, vi sono anche i germanismi, i bizantinismi, gli spagnolismi, gli arabismi, i francesismi e tracce di lingua pre-indoeuropea. Il dialetto biscegliese vanta interessanti studi svolti in passato ed anche negli ultimi decenni. Nel 1925, l’arcidiacono, studioso di latino e greco, Francesco Cocola diede alle stampe Il vocabolario dialettale biscegliese - italiano comprendente 12778 voci. Quest’ultima opera rimane un punto di riferimento per il recupero di vocaboli che sono scomparsi o rischiano di scomparire. A Bisceglie è sempre stata ricca la produzione di testi dialettali, di poesie, stornelli satirici, e prose in vernacolo, sui periodici locali come La Riscossa, Il Palazzuolo ed Il Biscegliese.
-82-
Acque d’aguste, òugghje e mmuste. La pioggia di agosto porta olio e vino.
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Ce séimene cìcere, nan pòute cògghje fasòule. Se semini cieci, non puoi cogliere fagioli.
-84-
Chjù affunne vè la zappe, chlù ffòrte vène la chjènde. Più a fondo va la zappa, più forte viene la pianta.
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Pète sòp’a pète, s’adèrge u paraite. Pietra su pietra, s’innalza il muretto campestre.
-86-
Véirne nevìuse, iènne frettìuse. Inverno nevoso, anno fruttuoso.
-87-
Mèrze e abbréle, l’òmene zappe e lla fèmene féle. Marzo e aprile, l’omo zappa e la donna fila.
-88-
Zappe a sscennaire e ppÏute a ffebbròre. Zappa a gennaio e pota a febbraio.
-89-
Còse quande te còupre, e ttèrre quande ne scòupre. Casa, quanto ti basta per coprirti; terreno, quanto più ne puoi comprare.
19. Museo diocesano di Bisceglie -90-
_I MUSEI Nello stesso complesso monastico, che ospita l’archivio storico di Bisceglie e la Biblioteca comunale mons. Pompeo Sarnelli, è insediato il Museo civico archeologico Francesco Saverio Majellaro ed il Museo del mare. Fondato nel 1960, il museo archeologico custodisce una raccolta di reperti paleolitici rinvenuti presso le grotte di S.Croce come selci,strumenti ossei, oltre a ceramiche neolitiche brunite e dipinte risalenti al V millennio a.C. provenienti da siti archeologici di S.Croce, Albarosa e dolmen la Chianca. Dal 1997 viene custodita l’impronta fossile di un cesto-stuoia risalente al VI millennio a.C.; si conserva anche una collezione di anfore e colli d’anfora vinarie di età romana recuperate dai fondali nei pressi del Salsello. Un altro pezzo di valore è una preziosa urna cineraria di epoca romana risalente al I sec.d.C. proveniente dalla chiesa di Santa Margherita. Il Museo civico del mare, inaugurato nel 2002, e collocato al secondo piano della stessa struttura dell’ex Monastero di Santa Croce nel centro storico di Bisceglie, raccoglie, studia e conserva i materiali che si riferiscono alla storia della marineria in genere ed in special modo a quella locale. Con l’attività di ricerca di documenti costituisce un supporto agli studiosi e agli amatori nonché all’attività scolastica nel campo dell’informazione marinara e fornisce ai gruppi, alle famiglie ed ai cittadini l’occasione per l’avvicinamento e l’approfondimento ai temi del mare e dell’ambiente marino. Sin dall’apertura è stato richiesto in affidamento alla Soprintendenza ai Beni Culturali di Bari quei reperti ritrovati nel-
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le acque di mare antistanti la città di Bisceglie dalla locale sezione subacquea della Società Nazionale di Salvamento e la stessa soprintendenza, con nota di risposta, si è impegnata ad una mostra subito dopo averli repertati. Il museo si compone di nove sezioni suddivise in tre saloni: modellismo navale, strumenti per la navigazione, ancore, pesca, ex voto, subacquea, archeologia submarina, numismatica tematica. Nell’ex palazzo episcopale, contiguo alla cattedrale di Bisceglie, è ubicato il Museo diocesano, fondato nel 1980, ed allestito nelle sale che il vescovo Pompeo Sarnelli fece realizzare come residenza propria e dei suoi successori. Gli interni presentano soffiti lignei decorati (1696), in essi è ospitata la pinacoteca con dipinti del XVI e XVII secolo. Si segnalano, in particolare, i santi protettori di Bisceglie ed una sacra famiglia con S. Giovannino di scuola veneta (sec. XVI), la inconorazione della vergine di Paolo De Matteis (1716), il mistero dell’epifania di Giuseppe Castellano (1718). La selezione, dedicata alle donne, offre una ricca panoramica dell’ornamento prezioso e dell’abbigliamento femminile tra la metà del XIX ed i primi decenni del XX secolo. In cinque sale sono esposti, divisi per epoca e per tipo di lavorazione, gioielli di gusto borghese o popolare, gioielli nuziali e sentimentali, gioielli simbolici e scaramantici. Una raccolta di abiti femminili dell’Ottocento funge da seducente cornice all’esposizione di lacci e catene da ventaglio. Da simboli di vanità, da pegni di amore profano, divenuti, mediante il dono votivo, pegni di fede, i gioielli ex voto sono testimonianze mute ma estremamente intrigan-
ti di vicende umane nelle quali il quotidiano si è illuminato di soprannaturale. Vicende che vedono spesso la donna protagonista nelle vesti di sposa, di madre, di nume tutelare della famiglia. Non mancano alcuni gioielli ex voto maschili legati soprattutto a vicende di guerra ed ex voto marinareschi. L’esposizione si articola in tre sale e nella prima è esposto il tesoro capitolare, con calici, pissidi, croci ed altri oggetti sacri in oro o argento (XV XIX sec). Di particolare interesse un evangelario miniato, in scrittura beneventana, del XII secolo. Altre due sale custodiscono dipinti ed arredi asportati dalla Cattedrale, tra il 1965 e il 1972, quando, per riportare il tempio all’originario stile romanico, vennero eliminate le testimonianze artistiche accumulate nel corso dei secoli precedenti. Nella torre normanna del castello svevo è allestito invece il museo etnografico Francesco Prelorenzo, fondato nel 1987 dal prof. Luigi Palmiotti, per convenzione del Comune. La torre normanna è stata infatti affidata dal Comune all’Archeoclub dopo aver riconosciuto l’importanza dell’associazione nella valorizzazione dei beni culturali. Possiede una raccolta etnografica distribuita su tre piani. Al primo piano si trovano attrezzature rare legate ai mestieri scomparsi. Al secondo piano abbiamo la casa d’altri tempi con arredamenti e oggettistica del 700-800. Al terzo piano abbiamo la religiosità popolare con una raccolta di ex voto per grazie ricevute.
4.5 20, 21, 22, 23. Grotte di Santa Croce, imboccatura con inghiottitoi, interno, stalattiti e concrezioni -92-
Indagine territoriale
Il sistema delle conoscenze
_LE STAZIONI PREISTORICHE DAL PALEOLITICO ALL’ETÀ DEI METALLI La Lama di S. Croce, a circa 7 km dal paese, si ramifica e diventa tortuosa, offrendo un paesaggio insolitamente ancora selvaggio e primitivo, anche nella vegetazione. Qui, si aprono, sul fianco sud della lama, per circa 500 m, numerose grotte, tra cui la grotta S. Croce, la più grande, con una bocca di 12 m circa di larghezza, 11m di altezza e 100 m di profondità. La grotta offre un quadro completo del paleolitico medio (musteriano); essa fu oggetto di studi nel ventennio successivo alla sua scoperta (1934) da parte dello studioso locale Francesco Saverio Majellaro, in collaborazione con i Professori Cardini e Cassoli dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana. Gli scavi dell’epoca misero in luce all’interno della grotta strumenti litici del Paleolitico Medio, ossa e resti di fauna di ambiente arido e caldo quali cavallo, rinoceronte, leone, iena, orso e cervo, cuspidi cocci e ceramiche dell’età del Bronzo medio e del Neolitico antico. Ma il pezzo più importante fu rinvenuto nel 1955: una porzione di femore appartenente all’uomo di Neanderthal di un individuo adulto, di circa 80.000 anni fa, unico esempio in Italia. La scoperta ebbe il riconoscimento ufficiale a Dusseldorf nel convegno scientifico internazionale del 1956, tenuto nel centenario della scoperta della calotta cranica dell’uomo di Neanderthal. Tutto il materiale, ad esclusione di questo pezzo, involato per siti più nobili, è conservato nel locale Museo Civico Archeologico. Dopo anni di oblio ed incuria, nel 1997 l’Univer-
24, 25, 26. Grotta de Le Due Crocette -93-
sità di Siena riprese gli scavi. Si rinvenne una stuoia in fibre vegetali integra, di forma quasi ovale con diametro maggiore di 60 cm risalente a 6500 anni fa. Non vi è traccia di pareti quindi si esclude che si trattasse di un cesto. L’intreccio è a spirale con base a chiocciola (tecnica diffusa ancora oggi) mentre il bordo è rifinito da un filo attorcigliato di materiale vegetale che si allunga per fare anche da manico. L’altro manico è purtroppo andato perduto nel corso di scavi clandestini. La presenza di manici le conferisce una probabile funzione di borsa floscia adatta al trasporto di derrate alimentari. Il reperto è straordinario perché è il più antico reperto ad intreccio in Italia ma anche perché reperti del genere si conservano soltanto in zone molto umide e prive di ossigeno o in zone molto aride. Nel 1998 grazie all’uso dei radar si rinvennero due nuovi piccoli ambienti ricchi di stalattiti e concrezioni ma non vi fu il ritrovamento di alcun reperto. Nello stesso anno la Grotta di S. Croce aderì all’Associazione Grotte Turistiche Italiane. Furono inoltre rinvenute all’imbocco alcune croci, attribuite ai primi cristiani, o più probabilmente a monaci bizantini. Si parlava all’inizio di numerose grotte, infatti lateralmente ve ne sono altre, in particolare due più piccole sono facilmente riconoscibili nella fitta vegetazione. Nella stessa lama poi vi è la cosiddetta grotta delle due crocette, dove furono rinvenuti frammenti litici, ceramiche neolitiche e due croci dipinte sulla roccia, testimonianza del cristianesimo altomedievale nel territorio.
27, 28, 29, 30. Grotte di Navarrino, ingresso, inghiottitoi, stalattiti e concrezioni -94-
Nella stessa lama, in vicinanza del suo sbocco al mare (una insenatura a forma di porto naturale), in contrada detta Pantano, nel 1962 sono stati scoperti i resti di un villaggio neolitico, con cocci di vasi, selci e ossidiane di provenienza garganica. Lungo tutto il suo sviluppo inoltre, si potevano osservare fino a pochi anni fa ancora numerosissime piccole grotte scavate sui fianchi, in tufo, oggi in parte distrutte o colmate per le notevoli trasformazioni di colture, o trasformate in cisterne. Infine lungo la Lama dell’Aglio fu scoperto un altro deposito di ceramica e oggetti di età neolitica nella grotta in contrada Navarrino. Una stratificazione successiva di insediamenti umani nell’agro è costituita dalla presenza di quei poderosi elementi di architettura primordiale, i dolmen, testimonianze della civiltà megalitica. Se la Puglia, insieme alla Bretagna, vanta in Europa le presenze di tali prove di civiltà, l’agro di Bisceglie ne raccoglie da solo già quattro, benché in passato fossero più numerosi: Dolmen La Chianca, Dolmen Albarosa, Dolmen Frisari, Dolmen dei Paladini. Essi sorgono a breve distanza l’uno dall’altro, al massimo 1 o 2 km in linea d’aria, lungo il percorso di Lama Santa Croce, tranne il Dolmen Frisari leggermente discosto verso est, sulla lama dell’Aglio. Si tratta di monumenti tombali, formati da grossi lastroni di pietra calcarea, con dromos d’accesso, cella rettangolare coperta e tumulo ellittico di copertura, risalenti al Bronzo Medio (XVI-XIV sec. a.C.). L’ipotesi più accreditata è che si tratti
31, 32, 33, 34. Dolmen de La Chianca -95-
di sepolture di prestigio legate a famiglie eminenti e rilevanti all’interno del gruppo. Si è calcolato che, solo per posizionare la lastra della cella di copertura di un dolmen, fosse necessario l’impiego coordinato di almeno cento persone. Notevole è l’emozione che suscitano questi monumenti, che sono il simbolo del sistema strutturale capostipite e più antico per la copertura di un ambiente, quello “trilitico”. Il dolmen La Chianca è tra i più importanti d’Europa per dimensioni e bellezza di linee, e presenta un ottimo stato di conservazione. Fu scoperto il 6 agosto 1909 da Mosso e Samarelli, che vi condussero anche i primi scavi. Successivamente Gervasio approfondì le indagini nel corso del 1910. I reperti rinvenuti furono acquisiti dal Museo Archeologico di Bari, ove sono tuttora esposti. Appartenente alla tipologia della tomba a corridoio largo, si compone di cella sepolcrale e di corridoio di accesso. La cella, alta 1.80 m, è formata da tre grandi lastroni verticali su cui poggia il lastrone di copertura che misura 2.40 x 3.80 m. Tutto il materiale litico impiegato è in calcare, che, stratificato ed estraibile in lastre, proviene dal territorio circostante. Il corridoio, lungo 7.50 m, è formato da lastroni piatti, infissi verticalmente nel terreno, di altezza notevolmente inferiore rispetto a quelli della cella. Pertanto, la lunghezza totale del dolmen è poco meno di 10 m ed ha l’ingresso rivolto ad Est. Il Gervasio, scavando anche attorno al monumento, intercettò un muro a secco largo due metri, che scendeva per 40 cm nel terreno fino alla roccia. Tale muro, che si interrompeva solo
35, 36, 37, 38. Sepoltura di tre individui adulti accompagnati da olla e vaso a collo -96-
sul lato orientale, vale a dire in corrispondenza dell’apertura, costituiva la base per l’enorme tumulo di pietre che ricopriva interamente il dolmen. Gli scavi effettuati nella cella e nel dromos hanno restituito numerosi resti ossei umani attribuibili ad una decina di individui, ed un ricco corredo funerario costituito da vasi di ceramica ad impasto, alcuni vaghi e pendagli di collana, una fusaiola e frammenti di lama di ossidiana e di selce, una falera in bronzo. Quasi al centro del dromos furono rinvenuti i resti di un focolare circolare, di una decina di centimetri di spessore e con una quindicina di stratificazioni, formato da cenere fine e ben battuta, mescolata a pezzi di carbone con ossa combuste di animali. Tale focolare era stato acceso diverse volte a scopo rituale, in occasione dei vari momenti di deposizione. In base ai dati di scavo è da ritenere che ci siano due livelli e quindi due distinti momenti di deposizione: uno più antico, relativo ai livelli inferiori, attribuibile al Protoappenninico, e l’altro ad una fase non molto avanzata dell’Appenninico. Ciò vuol dire che la tomba fu utilizzata a lungo per diverse generazioni. Nell’ambito delle sepolture dolmeniche pugliesi, gli oggetti rinvenuti costituiscono il corredo più ricco, benché la struttura sia stata depredata e sconvolta in antico: sarebbe da imputare a saccheggi, infatti, la mancanza di bronzi nella cella. In conclusione, il dolmen della Chianca costituisce un unicum, non soltanto per l’eccezionale stato di conservazione, ma anche per la consistenza numerica dei reperti, non comparabili con oggetti simili di altri dolmen del territorio.
39. Planimetria dolmen Frisari -97-
Il dolmen Frisari era fino a qualche tempo fa il meno noto. Fu oggetto di sommaria indagine da parte del Gervasio, nel 1909, all’epoca delle esplorazioni di altri due monumenti. Già allora si presentava semidistrutto a causa del tempo ma anche della mano dell’uomo. Era privo di copertura, definito da tre lastroni appena affioranti, con apertura rivolta ad Est. Esso è inserito in una sorta di basolato a lastroni più regolari, che poggiano sulla piattaforma calcarea di base. Il tumulo era a pianta ellittica, con uno sviluppo di circa 8 m di larghezza in senso Nord-Sud. All’interno del tumulo si apre una cella larga 2 m e lunga 3 m. Due grandi lastroni squadrati, riversi all’interno della galleria, ne facevano sicuramente parte in origine, ipotizzando quindi uno sviluppo per complessivi 4 m. Nel 1990, da parte della Soprintendenza Archeologica della Puglia, si è intrapreso un progetto di recupero del dolmen Frisari. In quell’occasione fu messa in luce la parte residua della struttura che in origine doveva essere inglobata in un tumulo di pietrame sciolto. Infatti lo scavo ha preso le mosse dall’area di affioramento di tre lastroni superstiti della galleria già parzialmente indagati dal Gervasio, ma ancora in buona parte lacunosi e con evidenti segni di corrosione e di lunga esposizione lungo le superfici fratturate. I lastroni, che non hanno conservato la posizione originaria, ma che per sollecitazioni diverse si presentano obliqui all’esterno, erano rincalzati alla base dove necessario da piatte lastre calcaree e da pietrame sciolto. Del tumulo, che doveva inglobare il monumento come attestato nel vicino dolmen Albarosa, resta una base per uno sviluppo di circa 8
40, 41, 42, 43, 44. Dolmen frisari prima e dopo la messa in sicurezza dell’area, tazza e ciotola residui di un corredo funerario -98-
m in senso nord-sud, ben conservata nell’area sud, in cui il pietrame sciolto è inserito in una sorta di basolato a lastroni sbozzati più regolari, poggianti sulla piattaforma calcarea di base , ad andamento piuttosto regolare come se fosse stata intenzionalmente prescelta. All’interno della galleria si sono rinvenuti inoltre lembi di un battuto argilloso di colore bruno-rossastro, su cui dovevano poggiare le deposizioni, di cui resta traccia nella parte posteriore di un cranio di individuo adulto, schiacciato alla base del lastrone del lato sud, e in altri resti come un omero e una costola presso lo stesso lato. Ai margini di un lembo di batutto individuato all’esterno dei tre lastroni, verso ovest, si erano invece conservate, residuo del corredo funerario, una tazza in impasto con ansa a nastro verticale, una ciotola carenata in ceramica nerastra entrambe di piccole dimensioni, ed un punteruolo in osso, tipologicamente inquadrabili nelle produzioni della media Età del Bronzo. L’intento di garantire all’area una conservazione duratura, considerata la sua posizione isolata in aperta campagna, anche alla luce dei risultati tutt’altro che positivi ottenuti in aree in cui non sono ancora state prese misure precauzionali adeguate, ha portato ad adottare soluzioni che possono in effetti sembrare piuttosto drastiche e limitative per una lettura integrale del monumento ma che possono ingenerare maggiori remore rispetto agli atti di vandalismo di cui, come è noto, sono oggetto da anni questi monumenti. Per questo è stata prevista la delimitazione di uno spazio ben definito intorno al monumento con l’impianto di una recinzione di tipo stabile e con accesso quindi non più libero ma controlla-
45. Planimetria dolmen Albarosa -99-
to, lungo un percorso di visita esterno e rialzato rispetto all’area archeologica. è stata realizzata anche, a protezione degli agenti atmosferici, un’ampia tettoia trasparente; alcuni pannelli a carattere didattico, con le principali informazioni sul fenomeno dei dolmen in Puglia ed in particolare sul dolmen Frisari, sono stati collocati a sinistra dell’ingresso. Il dolmen Albarosa invece fu eretto sui resti di un insediamento del Neolitico Antico, sulla sponda orientale di lama Santa Croce. Il monumento è costituito da una galleria, con orientamento est-ovest, lunga 6 m e larga 1.20 m, poggiante su una piattaforma di pietrame. Tutta la struttura è inserita in un tumulo di pietrame di medie e piccole dimensioni, misto a terra, a base subcircolare con un diametro di 19 metri circa ed un’altezza massima di 2 metri, oggi disturbato dalla presenza, nella porzione meridionale, di una costruzione a pianta circolare ricavata nello spessore del tumulo. Un rilievo del monumento, risalente al 1913, indica la presenza di un lastrone presso l’estremità orientale, a guisa di divisorio della galleria in scomparti. Purtroppo la struttura ha subito nel tempo numerosi danneggiamenti e atti vandalici, a discapito della sua conformazione originaria. Non si ha notizia delle deposizioni perchè appunto la tomba era stata già compromessa. Alcuni reperti vascolari collocano il suo utilizzo in un arco di tempo che abbraccia le fasi medie dell’Età del Bronzo. Nell’ambito di un programma più generale di tutela delle principali emergenze archeologiche di età preistorica del barese, si è cercato di dare
46, 47, 48. Dolmen di Albarosa in pessimo stato di conservazione, prima e dopo l’opera di diserbo da rovi e piante infestanti -100-
priorità agli interventi di sistemazione dei monumenti megalitici. Così nel 1986 si è intrapreso il recupero del dolmen di Albarosa, dove nonostante il pessimo stato di conservazione, il monumento è di estremo interesse per la presenza del residuo del tumulo di copertura della galleria centrale ancora conservatosi , che ha richiesto innanzitutto una massiccia opera di diserbo da rovi, cespugli di olivastro e piante infestanti di vario tipo che l’avevano completamente ricoperto, impedendone ormai la lettura. Si è potuto così impostare finalmente il rilievo della struttura che servirà da base di partenza per il progetto di restauro, indispensabile viste le non buone condizioni del tumulo di terreno e pietrame che ha perso la sua forma originaria ellittica, anche per la presenza di riutilizzazioni, come un piccolo trullo a sud, cedendo alle pressioni del peso del tumulo, sono caduti sul piano.
4.5 -101-
Indagine territoriale
Il sistema delle conoscenze
_DALL’ETÀ DEL FERRO ALL’ETÀ ROMANA Dopo le consistenti testimonianze risalenti all’età Neolitica e all’età del Bronzo, il periodo compreso tra l’inizio del I millennio a.C. e la fine dell’età romana, si presenta, per quanto riguarda il territorio di Bisceglie, pressochè sconosciuto e privo di testimonianze storiche e archeologiche. Tuttavia, in mancanza di indagini, intese a far luce sul periodo in questione, è difficile stabilire se tale assenza di rinvenimenti sia da imputare alla mancanza di scavi sistematici o ad una effettiva assenza di evidenti tracce archeologiche. Le rare e discontinue attestazioni consistono in pochi frammenti ceramici provenienti dalle raccolte di superficie, effettuate tra gli anni ‘40 e ‘80 dapprima da Majellaro e in seguito da Prelorenzo, nell’agro di Bisceglie. Da un piccolo nucleo di frammenti ceramici e vitrei, rinvenuti nei soccorpi della cattedrale, in occasione dei restauri degli anni ‘70. Infine, da un gruppo abbastanza consistente di anfore rinvenute nelle acque a largo del litorale salsello, frutto di un recupero occasionale effettuato negli anni ‘60 e ‘70. La documentazione archeologica comprende frammenti raccolti da Majellaro e Prelorenzo nell’agro, poco più di un centinaio, generalmente di dimensioni assai ridotte e molto mal conservati. Dalle grotte di S. Croce provengono alcuni frammenti compresi tra l’età del Ferro (IX-VIII secolo a.C.) e l’età Romana. Nella stessa zona, in località lama d’Aglio e soprattutto a 13 km da Bisceglie lungo la strada per Ruvo, sono stati raccolti una trentina di frammenti di età classica e qualche frammento di età romana.
I rinvenimenti di età romana, soprattutto frammenti di anfore di età Imperiale, sono relativamente più fitti e consistenti e provengono da varie località: grotta delle due crocette, casale di S. M. di Giano, casale di Pacciano, torre Casanova. Il nucleo, costituito da una decina di frammenti, rinvenuto nei soccorpi della cattedrale, rappresenta allo stato attuale delle ricerche, l’unico rincenimentoscientificamente documentato, effettuato in corrispondenza dell’attuale centro abitato. Il reperto più antico è un frammento, attribuibile ad un vaso japigio d stile geometrico (IX secolo a.C.); i reperti più recenti, invece, sono relativi a contenitori in vetro, databili complessivamente tra la seconda metà del I secolo d.C. e il IV-V secolo d.C. Il rinvenimento potrebbe legittimare l’ipotesi di una frequentazione molto antica dell’area della cattedrale: una piccola altura molto vicina al mare, che sovrasta il territorio circostante. Il rinvenimento subacqueo di località Salsello è costituito da cinquantadue frammenti di anfore di varia tipologia: il nucleo più antico è costituito dalle greco-italiche antiche, databili tra la fine del IV e gli inizi del II secolo a.C., il nucleo più recente è rappresentato rispettivamente dalle Dressel 6A, Dressel 6B, Dressel 2-4, e dalle anforette a fondo piatto, databili tra la fine del I secolo a.C. e il II d.C. I dati in nostro possesso, benchè troppo esigui per poter ipotizzare la presenza di un insediamento compreso tra la fase japigio-peuceta e quella romana, potrebbero attestare, alla luce di una riconsiderazione e contestualizzazione più ampia del territorio di Bisceglie, almeno una fre-
TIPOLOGIA DELLE ANFORE RINVENUTE A LARGO DEL LITORALE SALSELLO
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GRECO-ITALICA ANTICA fine IV - inizi III a.C. anfora vinaria, area di produzione Magna Grecia e Sicilia
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BRINDISINA secondo quarto II - I a.C. anfora olearia, area di produzione brindisino e area centrale adriatica
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LAMBOGLIA 2 seconda metà II - I a.C. anfora vinaria, area di produzione versante adriatico dell’Italia
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DRESSEL 1 seconda metà II - I a.C. anfora vinaria, area di produzione Italia centrale tirrenica
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OVOIDE età repubblicata area di diffusione Mediterraneo occidentale
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ANFORETTA A FONDO PIATTO fine I a.C. - metà III d.C. anfora vinaria, area di produzione Italia nord orientale
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DRESSEL 6A fine I a.C. - inizi II d.C. anfora per frutta e garum, area di produzione Veneto ed Emilia
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DRESSEL 2-4 ultimi decenni I a.C. anfora vinaria, area di produzione Italia centrale tirrenica
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DRESSEL 6B ultimi decenni I a.C. - I d.C. anfora olearia, area di produzione area istriana
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49. Frammenti di anfore di varia tipologia rinvenute al largo del litorale Salsello -103-
quentazione del sito da parte di genti insediate nei territori limitrofi. Infatti, non molto lontano dalle nostre coste, sorgeva il centro japigio di Ruvo, che soprattutto tra gli ultimi decenni del VII e del IV secolo a.C., analogamente a molti centri della Peucezia, raggiunse una notevole floridezza economica. Nei suoi corredi funerari si rinvengono, tra gli altri oggetti, vasi di importazione greca e magnogreca, provenienti sia dagli scali dell’Adriatico sia dal versante interno della valle del Bradano. Alla fine del III secolo a.C., benchè l’intera area peucezia sia coinvolta da una forte decadenza, dovuta alla conquista romana dell’Italia meridionale, Ruvo, così come altre città apule (Bari, Ceglie, Bitonto), sopravvisse dapprima come piccolo centro di provincia, poi come municipium, evidenziando quindi una continuità di vita che si protrarrà sino al Medioevo. Non è da escludere, pertanto, che il territorio di Bisceglie, a causa della sua posizione sul mare, possa aver rappresentato per le genti peucezie, insediate nell’immediato entroterra, un indispensabile approdo marino e di conseguenza una zona di transito e frequentazione. Studi recenti hanno rilevato che dalla fine dell’età Classica e in età Romana, nonostante la presenza di numerosi porti lungo le coste della Puglia (Egnazia, Torre a Mare, Bari) poco distanti l’uno dall’altro, il piccolo cabotaggio e l’attività pescheira utilizzavano approdi intermedi o ancoraggi, posti in corrispondenza delle aree produttive interne o di piccoli insediamenti. Il rinvenimento sottomarino di località Salsello potrebbe attestare l’esistenza di uno scalo o ancoraggio utilizzato tra l’età Repubblicana e quella medio-imperiale
Via Traiana
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LA PEUCEZIA CON I PRINCIPALI CENTRI DI INTERESSE ARCHEOLOGICO E LA RETE VIARIA ANTICA CA NO SA
50. Colonna miliare del tratto Ruvo-Bitonto della via Traiana -105-
o almeno renderebbe comunque certa una frequentazione marittima di questo tratto di costa. Difatti, l’antico e fiorente centro di Canusium (Canosa) già dall’età preromana doveva avere il suo porto marittimo proprio a Barduli (Barletta), dove facevano scalo le navi per scaricare materie prime e imbarcare ceramica canosina. Più a sud, come attesta la Tabula Peutingeriana, a partire dal II-III secolo d.C., era attivo il porto di Turenum ( Trani), un piccolo villaggio del territorio canosino. È possibile che il suo sviluppo commerciale, a scapito dello scalo barlettano, sia stato favorito dalla progressiva impraticabilità dell’Ofanto e dal miglioramento del sistema stradale con la via Traiana, di cui resta tuttora traccia nelle numerose colonne miliari, disseminate lungo tutto il percorso: in un’aiuola del Palazzuolo è posto il miliario CXII dell’importante strada imperiale. Più a sud, oltre al porto di Barium (Bari), è stata ipotizzata la presenza di un porto a Molfetta in collegamento con Rubi (Ruvo), e di uno scalo nella zona di Giovinazzo collegato a Butuntum. In conclusione, risulta pertanto evidente che, allo stato attuale delle ricerche, Bisceglie pur non potendo essere considerata sede di un insediamento japigio-peucezio e romano, tuttavia gravitava in un’area densamente frequentata e abitata tra l’età del Ferro e l’età Romana.
4.5 -106-
Indagine territoriale
Il sistema delle conoscenze
_GLI INSEDIAMENTI PROTOURBANI DAL TARDOROMANO ALL’ALTO MEDIOEVO Durante l’età imperiale l’intera Puglia ebbe un periodo di particolare prosperità; cominciavano a formarsi sul territorio, parallelamente ai centri urbani, razionalizzati dall’esempio dell’accampamento romano, delle proprietà stabili, piccoli villaggi e comunità, i cosiddetti casali, costruiti da un casamento fortificato e cinto di mura, da un cortile e, successivamente, con l’avvento del cristianesimo, da una chiesa con cimitero adiacente. Veri organismi preurbani, dovettero raggiungere sicuramente notevoli equilibri di vita comunitaria e un giusto rapporto tra numero di insediati e territorio circostante coltivabile, a giudicare dalle distanze reciproche, quasi costanti (di qualche chilometro), con cui sorsero. Anche per questo tipo di insediamenti, importantissimi per comprendere non solo la nascita del centro urbano, ma anche le origini di quel notevole fenomeno artistico (architettura e scultura) che fu il romanico pugliese, Bisceglie conserva ancora molte testimonianze. I casali di Pacciano, Giano, Zappino, Cirignano e Sagina sono ancora ricchi di notevoli fabbriche (torri, chiese, recinti). S. Andrea sorgeva laddove ora è una grossa villa settecentesca (di pari nome della contrada) edificata probabilmente intorno al nucleo antico del casale, di cui si può leggere ora solo una torre. Come questo, anche il casale S. Nicola è stato oggetto di restauro e rifunzionalizzazione a resort da parte di privati. Dei casali S. Stefano e Salandro, andati distrutti per intero, restano solo i toponimi ad individuare le contrade.
Del casale Vigiliae, che occupava la posizione dell’attuale centro storico, sul mare, si possono forse riconoscere segni in alcune torri presenti nel tessuto edilizio del borgo antico e di costruzione chiaramente anteriori ad esso. Quest’ultimo casale ebbe poi la fortuna di assorbire le genti degli altri, spopolatisi nel XI secolo e nei seguenti per via della loro scarsa sicurezza alle incursioni e saccheggi (soprattutto da parte dei Saraceni), e di dare quindi origine all’insediamento urbano. Mi soffermerò nell’analisi e confronto di questi insediamenti, (o meglio delle parti di essi ancora conservate) la cui fioritura socio-economica portò anche all’autonoma evoluzione architettonica degli organismi edilizi, ed in particolare della torre, elemento difensivo e della chiesa, elemento riflessivo. Gran parte di essi (Giano, Pacciano e Zappino) sorse lontano dalle infide strade di comunicazione storiche, a ridosso di un percorso, ancora oggi riscontrabile parallelo alla costa, a un’altitudine che va dai 50 agli 80 m sul livello del mare, che serviva da viabilità locale, unitamente a qualche percorso ortogonale alla costa, che collegava questa con l’interno e su cui pure ne sorsero altri (vedi Sagina, Cirignano). Il casale di Giano è ubicato al confine del territorio di Bisceglie con Trani, lungo la stessa strada, parallela alla costa, che porta al casale di Pacciano, a circa 3km da questo e a 4 km dal centro urbano. Del casale oggi restano una chiesa, detta S.
51, 52, 53, 54, 55, 56, 57. Casale di Giano -107-
Maria di Giano, vicina ad altre fabbriche, in cui si riconoscono alcuni elementi sicuramente del vecchio casale, e a circa 250 m ad ovest, distaccata, un’altra chiesa, più piccola, detta Tempio di Giano, straordinariamente simile a S. Angelo di Pacciano, sia come posizione planimetrica (un po’ staccata dal cuore del casale) sia soprattutto per tipologia e forme. Si tratta infatti di un ulteriore esempio di chiesetta ad aula unica con cupola centrale, su piccola nave a botte (ridotta a due arconi, prima e dopo la cupola) e con croce contratta, ovvero bozza di transetto costituito da due nicchie ricavate nelle murature laterali, coperte da arconi con uguale imposta e luce della volta sulla navata; abside semicircolare evidenziato all’esterno; coperture a piramide su base quadrata sulla aula centrale e conica sull’abside, realizzata con chiancarelle. La costruzione è in pietra ben lavorata, a filari regolari, quasi senza malta, di una perfezione che lascia sbalorditi, senza intonaci e con stilatura dei comenti (probabilmente successiva) solo all’esterno. La cupola è un perfetto emisfero, a corsi concentrici, che si raccorda con un toro e quattro pennacchi sferici agli arconi che la reggono, tutti con ghiera frontale falcata. Anche questa chiesetta, come quella di S. Angelo di Pacciano, presenta le piccole nicchie con archetti nella zona absidale, nonché cornici (questa volta tutte uguali) all’imposta degli arconi, una monofora (murata) nell’abside, due occhi sulle facciate laterali. Gli accessi sono due: quello frontale, con arco falcato e timpano monoblocco in pietra, semicircolare, e quello la-
58, 59, 60, 61, 62, 63. Tempio di Giano -108-
terale a nord, con capitelli molto più ricchi all’imposta. Interessanti, all’interno, le nicchie, sulle murature laterali, che mettevano in vista (e ne consentivano la manutenzione) i pluviali ad elementi in cotto posti all’interno delle murature stesse ed oggi fuori uso. La finestra rettangolare sul fronte principale è sicuramente recente. Manca del tutto la pavimentazione, e al centro vi è un foro che evidenzia un vuoto sottostante. Le dimensioni sono di poco più grandi, in pianta, del S. Angelo di Pacciano, ma in altezza è notevolmente più slanciata. Anche in questo caso le forme e la perfezione nella tecnica costruttiva fanno datare l’opera intorno al XII secolo. La chiesa di S. Maria di Giano, invece, conserva non molti, anche se evidenti, resti dell’originario impianto (o almeno quello precedente l’attuale). Esteriormente si presenta come una chiesa campestre settecentesca, intonacata, con aula unica coperta con volta a botte lunettata, e sulle murature laterali con pilastri addossati e collegati da archi, corrispondenti alle lunette; facciate rettangolari cieche, fronte con finestra quadrata alta e portale con timpano. Già all’esterno comunque, sul lato sud, appaiono resti di un arco falcato; all’interno poi si può osservare come la stonatura della parete di fondo delle nicchie tra i pilastri a sud ha messo in evidenza una muratura molto antica, peraltro copiosamente affrescata, alla quale, in seguito alla rovina della precedente copertura (probabilmente a tetto, a giudicare dallo spessore dei muri in funzione della luce), fu addossata la struttura interna a pilastri, archi e volta a bot-
64, 65, 66, 67, 68. Chiesa Santa Maria di Giano -109-
te lunettata. Si legge, proprio in corrispondenza del secondo pilastro ad est, l’arco interno corrispondente a quello esterno citato, ed un’altra nicchia, sullo stesso lato, più avanti, sempre coperta con arco a tutto sesto falcato; testimonianze di probabili finestra e porta laterale rispettivamente. Saggi sulle murature (stonature, ecc.) e scavi all’interno del giardino recintato circostante (che ha un livello notevolmente più alto dell’interno) potrebbero portare alla luce notizie sulla storia del manufatto. Questo uno dei monumenti, tra tutti quelli di cui si parla in questo scritto, di proprietà pubblica (Parrocchia di S. Domenico) nonché in uso. La datazione degli affreschi (fine ‘300) ed i restauri della chiesa dimostrano come il casale non sia stato abbandonato totalmente dopo l’esodo del 1099 (bolla del vescovo Stefano, che concedeva a profughi di Sagina e Giano la chiesa cittadina di S. Matteo). Gli affreschi infatti furono scoperti nel 1889, e occupano tutto il muro destro tra i primi tre pilastri addossati. Nel fondo destro della chiesa si notano indizi di pittura sotto il grosso intonaco. In un punto si riconosce uno strato anteriore d’affresco, in particolare una croce in rosso bruno. Tutti gli affreschi sono ricoperti di firme graffite, alcune del XVI secolo come ad esempio presso la figura di San Donato: “Io Antonio Ambrosio da Minerbino scripsi quando foj la peste.”
Di seguito, l’elenco degli affreschi e dei quadri conservati nella chiesa e nel Museo diocesano
69, 70, 71, 72, 73. Affreschi rinvenuti nella Chiesa Santa Maria di Giano -110-
di Bisceglie: > Dormitio Mariae: affresco, il cui tema fa parte di una coinè orientale. > S. Nicola Pellegrino: affresco, eseguito su committenza, presumibilmente nel XV secolo dai frati minori, giunti a Trani sotto la guida del siciliano fra Girolamo. S. Nicola è rappresentato alla solita maniera col viso giovanile, di forma ovale, con la capigliatura folta e la mano a palma aperta all’altezza del petto. Solo la veste, più pieghettata e vivace nel colore, supera la lunghezza solita per scendere quasi fino ai piedi. > Cristo Patiens: affresco del XV secolo, fu scoperto dietro il terzo pilastro; esso riproduce il sigillo a secco dei frati minori dell’Osservanza, ovvero Cristo con le mani incrociate, mentre risorge dal sepolcro. Nel 1975, l’affresco staccato e restaurato dal prof. R. Lorenzoni, fu collocato nell’abside della chiesa di S. Domenico. > S. Giacomo Apostolo e scene della sua vita: affresco del XV secolo, rappresenta il santo al centro con capo scoperto e mantello rosso, con cappello bruno che sorretto da sottomento pende sull’omero destro, ha in mano sinistra il vangelo e in mano destra il bastone da pellegrino. Tutti i quattro pannelli a sinistra sono una esaltazione e difesa dell’amore cristiano. > S. Paolo e S. Caterina d’Alessandria: affreschi del XV-XVI secolo, attendono restauro. > Santi Martiri di Bisceglie: affresco in deplorevole condizione, (tracce), non più visibile. > Icona Santa Maria di Giano: dipinto del XIV secolo, rappresenta la madonna che stringe a sè il pargolo Gesù, che con la mano sinistra trattiene il seno, nella mano destra sorregge un cardellino. > Mistero dell’Annunciazione e Santi: opera eseguita nei primi dell’800, la tela di dimensioni 80x115 cm, é stata restaurata ed esposta nel Museo diocesano;
74, 75, 76, 77, 78. Casale di Pacciano -111-
rappresenta la vergine in preghiera che riceve l’annuncio dell’arcangelo Gabriele. In basso si notano S. Nicola, i Santi Martiri S. Mauro Vescovo e i cavalieri con bandiera S. Sergio e S. Pantaleone, nonchè i due oblatori, in formato ridotto per imiltà, sono tutti in contemplazione e in supplica rivolti al sacro mistero. > Apostolato di S. Mauro Vescovo: lunedtta eseguita nel XVII secolo, rappresenta il santo che converte al cristianesimo i cavalieri romani Sergio e Pantaleone. L’opera è in deposito presso il Museo diocesano ed attende urgente restauro. > Condanna a morte dei tre Santi Martiri: lunetta eseguita nel XVII secolo, rappresenta il proconsole di Venosa che condanna a morte S. Mauro Vescovo e i due cavalieri romani. L’opera è in deposito presso il Museo diocesano ed attende urgente restauro.
Si deve la conservazione ed il restauro di gran parte degli affreschi e dipinti al Rev. Don Mauro Di Molfetta, che mantenne fino alla sua scomparsa, nel 1985, l’ufficio di Cappellano di S. Maria di Giano, affidatogli sin dal 1945 e che fu lìincentivo della sua fiamma per la valorizzazione del patrimonio artistico della diocesi. Del casale di Pacciano si hanno le più antiche notizie, documentate precisamente in un diploma di concessione del 789. E’ ubicato sulla via Bisceglie - Corato, a circa 4 km dal paese, e poco distante da un’altra strada trasversale, coincidente con il percorso parallelo alla costa sopra citato. Osservando la planimetrica catastale e tenendo presente la corografia generale e la pianta, appare evidente che l’attuale strada Bisceglie - Corato attraversava proprio il casale, entrando da sud attraverso la porta ancora conservata,
79, 80, 81, 82, 83, 84. Ciesa di Ognissanti in Pacciano -112-
ed uscendo probabilmente da un’altra porta va nord andata distrutta; in corrispondenza della porta sud infatti la strada risulta deviata sul lato ovest, in epoca probabilmente successiva allo spopolamento del casale, per evitare il passaggio obbligato attraverso la porta stessa con limitazione quindi per le dimensioni dei mezzi di trasporto (è larga 2.30 m tra gli stipiti ed alta altrettanto, all’imposta dell’arco). Del recinto attuale appare pertanto originale (cioè nella stessa posizione del primitivo ma probabilmente rimaneggiato) solo il tratto a sud, comprendente la porta, fino al corpo di fabbrica di sud-est, attiguo; le altre parti sono sicuramente molto recenti, realizzate al fine di restringere al minimo la parte di suolo non coltivabile, chiudendo lo spazio libero tra gli edifici ancora in piedi, almeno quelli più ravvicinati, che sono fondamentalmente tre: la chiesa detta di Ognissanti, la torre con annessa fabbrica di tipo abitativo, e un altro corpo costituito da un unico vano, probabile ricovero di animali. All’interno del recinto inoltre si può osservare un vano quasi interrato, in parte fuoriuscente dal recinto stesso, analogo, per caratteristiche, ad un vano deposito derrate. Le fabbriche più interessanti sono senza dubbio le due chiese, quindi la torre. La maggiore delle chiese, la chiesa di Ognissanti, è un importante documento di architettura preromanica. Infatti con una bolla del 1074, il vescovo Dunnello (che si dichiara il secondo vescovo della Chiesa biscegliese) concedeva a circa 100 capifamiglia immigrati dai casali di Cirignano, Pacciano e Zappino la chiesa di Sant’Adoeno, da essi stes-
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si costruita all’interno delle mura cittadine. Tale documento, seguito poi da altri analoghi del 1099, attesta il primo, o quantomeno il più considerevole, esodo di abitanti dal casale, per cui si deve supporre che la chiesa non possa essere stata costruita dopo. Le caratteristiche costruttive, poi, e le analogie con altre chiese, la fanno datare non più tardi della metà del sec. XI. L’edificio appartiene al tipo ad unica navata, voltata a botte, con cupola sferica in asse, ed a croce contratta ovvero con piccolo transetto costituito da due profonde nicchie ricavate nello spessore murario e coperte da arconi a tutto stesto, con ghiera frontale falcata (a spessore variabile), e con ampiezza e imposta uguale alla sezione trasversale della volta a botte sulla navata. Altre quattro nicchie (due per lato) si aprono, nella muratura perimetrale, nella parte precedente e seguente la zona centrale, coperte sempre con arconi a tutto sesto, ma con imposta più bassa e luce più ridotta rispetto ai primi. Sul fondo vi è un’abside semicircolare, evidenziata all’esterno. Le coperture, molto malridotte per l’assoluta incuria ed abbandono del monumento, sono comunque leggibili: erano tutte con chiancarelle sovrapposte, a tetto sulla volta a botte; a piramide, su base quadrata, sulla cupola, e conica sull’abside. Una interessante decorazione a trafori corre sotto gli spioventi della piramide centrale. L’edificio, pur essendo ora in piena campagna, non si presenta, come altre chiese rurali, tozza ed umile. Ha invece proporzioni slanciate in altezza (circa 9 m al centro della cupola, all’interno) che le danno quasi un aspetto da cattedrale,
che lascia sconcertati. L’altro elemento, caratteristico dei casali, compreso nel recinto, è la torre. Di pianta rettangolare, dimensioni contenute (3.5x4.5m circa all’esterno), attualmente vi è addossato un altro corpo di fabbrica, chiaramente posteriore, che ne utilizza anche una parete come propria chiusura di testata. Ha due livelli di utilizzo: piano terra, coperto con impalcato di legno, e primo piano, coperto con volta a botte in pietra. Un documento fotografico della torre, di circa un secolo fa, esistente presso il Catasto Terreni di Bari, tra le documentazioni (fotografie e descrizioni) dei punti trigonometrici fissati al momento della formazione del catasto (la torre in esame fu uno di tali punti), ci mostra la torre con un piano in più, notandosi chiaramente sul lato sud (quello fotografato) due feritoie verticali sovrapposte, mentre ora se ne osserva solo una (al primo piano). A riprova di ciò si può osservare, all’intradosso della volta a botte che copre il primo piano, un vano-botola che evidentemente conduceva al piano superiore. L’altezza attuale della torre dal piano di campagna circostante è circa 6.50 m. La muratura è in pietrame, appena abbozzato, molto simile a quella della chiesa già descritta, e con parti intonacate all’esterno. Il corpo di fabbrica addossato alla torre è un grosso vano, voltato a botte, diviso in due ambienti da un tramezzo non a tutt’altezza. Il primo ha un accesso dal cortile, sul fronte ovest, ed uno su quello sud, sul fronte esterno del recinto; ha inoltre una finestra alta sul lato nord, verso
85, 86, 87, 88. Torre e cortile casale di Pacciano -114-
cortile, ed un camino, oltre al boccaglio (ricavato in parte nello spessore del muro), di una cisterna d’acqua, probabilmente sottostante al vano stesso. Per questo sembra essere stato adibito a dimora umana, anche se forse non stabile, mentre l’altro ambiente, per la presenza di mangiatoie, appare essere stato utilizzato per ricovero animali. L’ulteriore corpo di fabbrica emergente nel recinto, posto nell’angolo nord-ovest, è anch’esso un unico vano voltato a botte, usato per ricovero di animali, a giudicare dai fori d’aerazione esistenti in chiave alla volta. Esiste inoltre, come già accennato, all’interno del recinto (e sporgente anche in parte all’esterno di esso, verso sud-est) un lungo vano quasi completamente interrato e con copertura a botte, che sporge di poco dal piano del cortile (circa 1m). Soltanto con saggi nelle murature e scavi nel cortile e alla base degli edifici potrebbero venire alla luce elementi più probanti circa la datazione dei vari corpi di fabbrica. Potrebbe forse anche venire alla luce un altro vano quasi interrato come quello appena descritto, laddove ora si nota, lungo il tratto di recinto nord, un’altra sporgenza dal piano del cortile, lunga e tondeggiante in sezione (per una volta sottostante?) che si eleva di circa 80 cm. Del recinto infine si distinguono, oltre la parte a sud comprendente la porta del casale (che abbiamo chiamato originaria) e che sembra analoga al tratto ad ovest, la parte a sud-est, che è più bassa, più sottile e più semplice in genere, e le due parti ad est e a nord, a sezione trapezia, basse ma larghe, che appaiono anche le più
89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96. Chiesa di San’Angelo -115-
recenti. Un altro edificio sacro, più piccolo, che abbiamo identificato con la chiesa di Sant’Angelo, si trova alquanto distante dai primi (circa 100m), fuori dal recinto, e adibita attualmente a deposito agricolo. Quest’ultimo fatto dimostra quanto detto innanzi sul recinto e come l’estensione del casale (e non solo di questo, come vedremo anche per gli altri) fosse di una certa entità e non solo quella di un gruppo di case intorno ad un cortile. Si tratta di una chiesetta ad aula unica, a croce contratta, con cupola in asse ed abside semicircolare, a pianta leggermente rettangolare, tanto che gli arconi laterali del piccolo transetto poco si differenziano dalle parti di volta a botte della navata precedente e seguente la cupola. Un edificio di sconcertante rassomiglianza con il già noto Tempio di Giano, parte dell’antico casale di Giano. L’edificio, soprattutto all’interno, mostra una perfezione notevole nella lavorazione della pietra, (a differenza di Ognissanti), posta in opera quasi senza malta. La cupola, lenticolare molto ribassata, appare ricostruita (forse per crollo dell’originaria), a giudicare anche dalla sconnessione (per probabile ricostruzione) che presenta la muratura sulle facciate esterne al di sopra di una certa quota nonché della finitura estradossale della cupola stessa, che è in coccio pesto liscio calpestabile. In tale ipotesi la cupola originaria doveva essere a tutto sesto, come ad Ognissanti ed al Tempio di Giano, con copertura piramidale a cinciarelle. All’imposta interna della cupola, sui pennacchi, è una ricca
97, 98, 99. Casale di Cirignano prima e dopo i notevoli e brutali rimaneggiamenti di un privato -116-
cornice, così come all’imposta esterna della copertura dell’abside vi è un ricco motivo a denti di sega ed all’imposta degli arconi interni corrono quattro cornici diverse tra loro. Difficile è datare questo edificio. Certo per la perfezione e finezza della lavorazione andrebbe localizzato più nel XII sec., precursore forse del Tempio di Giano (molto più slanciato in altezza e più “perfetto”) e di S. Margherita nel borgo cittadino (del 1197), che ha identica tipologia e simili dimensioni. Ma se nel 1074 il Casale si spopolava, come mai si costruivano ancora chiese nel XII sec.? E’ possibile allora anticipare questa chiesa all’XI sec. (1050-60) ed arretrare Ognissanti (intorno al 1000)? Oppure si deve dedurre che il Casale non si spopolò del tutto e definitivamente? Interrogativi tutti ancora in piedi. Il casale di Cirignano invece, è un vetusto casale, menzionato in un documento del sec. VIII, di Leone Marsicano: Wacco, signore longobardo possedeva terre, donate al Monastero di Montecassino con i casali di Cirignano, Crosta (non più esistente), Vigiliae. Nell’anno 1074, i casalini di Cirignano per maggiore sicurezza, si ritirarono in Vigiliae. E’ evidente la presenza di un’antica torre di forma quadrata, unica testimonianza del casale, nella proprietà del dr. Giosuè Gargiulo. La costruzione, a due piani, è di forma quadrata ed è localizzabile nei pressi dell’incrocio tra via Stradella e via S. Mercurio. Era affiancata da una casa padronale, dotata di un frantoio. L’habitat ha subito notevoli rimaneggiamenti. Dell’antico casale si conserva solo una rarissima fotografia
100, 101, 102, 103, 104. Casale di Sagina e tempietto di San Giovanni -117-
che evidenzia le antiche strutture. Nel casale si venerava la Madonna del Soccorso, il cui culto fu trasferito nella chiesa di S. Adoeno nel 1074. L’antico casale di Sagina era ubicato lungo una strada trasversale alla costa, divenuta poi la Bisceglie-Corato. Di esso resta oggi solo una torre, su tre livelli (piano terra, primo e secondo piano) con scala interna. Le dimensioni, i rapporti e il campanile a vela sovrastante (di epoca recente, XVIII sec. forse) la mettono in diretta relazione con la torre del casale di Zappino. L’intonaco esterno ed interno (anch’esso recente) impedisce la lettura della struttura muraria e dei vani delle porte e finestre originali (quelli esistenti sono di fattura successiva). Sagina però è più che altro luogo del sacro, in cui S. Mauro e i cavalieri romani Sergio e Pantaleone subirono il martirio. S. Sergio fu scarnificato con uncini di ferro; Pantaleone fu affisso in croce. S. Mauro vescovo, che splendeva più di essi per la predicazione e per i miracoli, ebbe troncato il capo (Anno 117, 17° dell’impero di Traiano). I tre corpi furono seppelliti in una chiesetta intitolata a S. Sergio. Nell’840 per incursione dei Saraceni, la chiesetta fu diroccata e “la memoria dei martiri si disperse sino al tempo della loro invenzione.”
Sul luogo del sacro ritrovamento, fu innalzato dalla pietà dei fedeli il tempietto di S. Giovanni. “Posti su di un carro i tre tesori, i buoi furono lasciati liberi di andare dove volessero. Dopo aver girato vari territori, alla fine, stanchi, i buoi si arrestarono in territorio di Bisceglie. Il loro decreto fu rispettato. Così noi li vediamo, oggi, sopra lo splendido portale
105, 106, 107, 108, 109. Cappella votiva de La Pedata dei Santi, altorilievo che sormonta il portale laterale della cattedrale raffigurante i tre santi -118-
della Cattedrale, in piena gloria negli abiti nei quali i tre adempirono in terra al loro mandato. Il vescovo al centro, in tiara, ed ai due lati i soldati a cavallo, armati, nell’uniforme romana.” A. Kazimiera, Segreti di Puglia, Napoli 1951.
Nell’antico casale, nel 1708 il vescovo Sarnelli fece edificare una cappella dei Santi Martiri dove furono trovate le sante reliquie, realizzata a spese di Vincenzo Lazzo, padrone del luogo. Inoltre, lungo una via interna per Sagina, si incontra una piccola cappella votiva, la cosiddetta Pedata dei Santi, eretta nel 1933 su un sasso che reca l’impronta presunta di uno zoccolo di bue. La tradizione vuole che, mentre i resti dei Santi venivano trasportati su un carro da Sagina al paese, uno dei buoi che trainavano il carro, per causa della pioggia, incespicasse in un sasso, lasciandovi impressa l’impronta dello zoccolo. L’anello che lega Giano al casale di Zappino è la chiesa (per Giano quella di S. Maria), presente a Zappino con una stratificazione del tutto analoga, ovvero con ricostruzione, in epoca successiva, di un precedente impianto preromanico, e affrescato. Il casale è posto sulla via interna per Terlizzi, a circa 5 km dall’abitato, non lontano dalla più volte citata strada parallela alla costa. Si conservano di esso la chiesa, con annessa sacrestia, una torre, analoga a quella di Pacciano, con anche qui un corpo di fabbrica addossato, ad uso abitativo, ed un recinto della corte centrale verso strada, e del giardino laterale. Non manca anche qui l’altro elemento, poco distante dalle fabbriche principali (300 m circa
110, 111, 112. Casale di Zappino -119-
verso sud, nel caso); è una seconda torre, questa volta ma non si è certi se coeva e facente parte del casale oppure successiva, insieme alle molte altre torri isolate, sparse nell’agro, di cui si dirà appresso. La chiesa di S. Maria di Zappino si presenta analoga a S. Maria di Giano, con pilastri addossati alle murature laterali, collegati da archi, e con volta a botte lunettata, questa volta con una finestra presente in ogni lunetta (alcune ora murate; le foto sono precedenti ai recenti lavori di restauro). Una prova che detta struttura (pilastri, archi, volta lunetta) sia posteriore alle murature esterne è data dai contrafforti esterni a queste, evidentemente aggiunti per assicurare la resistenza alla spinta della volta. Questo fa supporre anche (e lo spessore ne è ulteriore prova) che le murature portavano precedentemente una copertura non spingente, forse anche qui a tetto con capriate in legno. La forma e le altezze del tetto sono leggibili anche sulla facciata che appare chiaramente sopraelevata, tanto che vi è rimasto inglobato il vecchio campanile a vela, sormontato da una croce in pietra, interessante per le sue forme direi longobarde. Il portale, rivolto ad est, è neoclassico, con timpano triangolare, ed è chiaramente inserito a forza dovendo essere precedentemente quella est la testata absidale. Si nota infatti subito al di sopra del timpano un’architrave di finestra trilobata, (non è chiaro se nella posizione originaria o smontato e riusato) che doveva rappresentare l’unica bucatura di quella testata, il che è provato anche dalla presenza di una corrispondente
113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120. Casale di Zappino -120-
nicchia all’interno, coperta ad arco. L’interno di tale nicchia ed una zona limitrofa, ove è caduto l’intonaco, sono affrescate con dipinti similari a quel di Giano. La copertura è, all’estradosso, a tetto con coppi. Un’altra porta, laterale, dà nel cortile, e, accanto a questa, si nota una porta murata molto stretta e con arco superiore, praticamente uguale a quella di ingresso alla torre, che le è di fronte. Nella chiesa si ammirano in deplorevoli condizioni alcuni affreschi medievali; non sono della stessa fattura dei dipinti bizantini di Giano. Presumibilmente risalgono al XVII secolo: il Padre Eterno Pantocratore è stato scoperto in una nicchia, in alto sull’organo, che regge il figlio morto sulla croce e lo spirito santo che discende sul figlio sotto forma di colomba; a sinistra la vergine Maria che viene affidata all’evangelista Giovanni. Questi ultimi due affreschi sono ormai irrecuperabili (ci resta la sola documentazione fotografica risalente al 1972). I cvulti della vergine e di S. Giovanni Evangelista erano infatti molto antichi presso le genti di Zappino, e furono trasferiti nella chiesa di S. Adoeno nel centro storico cittadino, come si legge dal decreto di concessione della stessa del 1074. Il corpo sagrestia, addossato sul lato sud-ovest, ha un unico vano voltato a botte. La torre, a pianta quasi quadrata, ha tre livelli: il piano terra, cui si accede dal cortile con una porta, sicuramente originaria molto stretta ed allungata, con arco falcato superiore; un primo piano su impalcato in legno (oggi non più esistente ma se ne leggono benissimo gli alloggiamenti delle travi) coperto con volta a botte e con
121, 122, 123, 124, 125, 126. Chiesa Santa Maria di Zappino -121-
finestra verso il cortile, munita di architrave e timpano, e che doveva avere l’accesso dal piano terra, con botola; e un secondo piano, cui oggi si accede dall’attiguo corpo di fabbrica, a mezzo di una porta aperta a forza ed una scala (per il dislivello) ricavata nel rinfranco della volta, ma che aveva accesso anche con botola (ancora visibile) dal piano inferiore; la copertura è in legno e, a giudicare dall’irregolarità del profilo superiore delle murature esterne, le quali peraltro non si assottigliano a formare parapetto, si direbbe che non doveva essere l’ultima, e quindi la torre doveva avere un altro livello, coperto probabilmente a volta. La struttura di questo tipo di torre (uguale doveva essere quella di Pacciano) era pertanto probabilmente costituita da due vani, coperti a botte, sovrapposti, ognuno dei quali dimezzato con impalcato in legno. In cima alla torre vi è un campanile a vela di forme barocche, costruito sicuramente quando fu rifatta la copertura della chiesa, che rese inagibile il vecchio campanile a vela, già citato, esistente sulla chiesa stessa. La struttura della torre è in pietra, a vista; solo sul fronte est vi sono parti intonacate, che recano tracce di altre fabbriche addossate. Il corpo di fabbrica attualmente annesso alla torre, sul lato ovest, ne utilizza un muro per portare la volta di copertura di uno dei due vani a piano terra, adibiti forse a ricovero animali (ma in uno vi è anche un camino) ed ha inoltre un primo piano, con accesso a mezzo scala esterna, con due vani per abitazione (vi è un altro camino) coperti con travi di legno.
127, 128, 129, 130. Affreschi della Chiesa Santa Maria di Zappino in deplorevoli condizioni -122-
L’altra torre, sita a 300 m a sud del casale, sembrerebbe anch’essa abbastanza antica, a giudicare dalle dimensioni in pianta (simili a quelle di Pacciano e Zappino, databili XIII-XIV sec.), e dal tipo di muratura (pietra non lavorata perfettamente) simile anch’essa a quelle di Pacciano e Zappino. È molto ricca, sulle facciate, di finestre, nicchie ed altri elementi, tra cui un elemento sporgente, sorretto da mensole rvudimentali, che prelude quasi alle future “garitte” fortificanti delle masserie.
4.5 131, 132, 133, 134, 135. Torre Zappino -123-
Indagine territoriale
Il sistema delle conoscenze
_LE TORRI DI VEDETTA DI EPOCA NORMANNO-SVEVA Dopo i casali troviamo, come successiva stratificazione di insediamenti sparsi nell’agro, le torri di vedetta, di epoca sveva e successive. Di caratteristiche già diverse dalle precedenti, più ampie in pianta (quasi quadrate), e quindi più tozze in alzato, esse sorsero per evidenti ragioni difensive, isolate, al massimo con un piccolo spazio recintato attiguo. Nell’agro biscegliese se ne contano diverse. Oltre alla già citata torre Zappino (di forma quadrata, in ottimo stato di conservazione, eretta in epoca sveva), v’è la torre Gavetino (di fattura particolarmente solida, che ha interessanti particolari di finestre). Vicina è la torre Cassanelli, e la torre Albarosa (opera militare diruta, con portale ogivale e delimitata da chiuso), torre delle Monache nella Lama di Macina (casa-torre medievale, di forma quadrangolare, realizzata in conci levigati con annesso “chiuso”), torre Scorrano in contrada Pacciano, torre a Stradelle e torre Denza in contrada Le macchie, torre Lamadattola in contrada Le macchie (torre a due piani, di forma quadrata), torre Consiglio o Gurgo in località Gorgo (casa-torre di forma cilindrica, eretta tra l’età sveva e angioina, nell’interno si conserva un grande camino settecentesco), torre Casanova in località sant’Andrea, torre Alverone, inglobata in una villa ottocentesca, in località Pedata dei Santi, torre Licurgo al km 2.7 in via Ruvo.
136 139
136 137
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136. torre Cassanelli 137. torre Gurgo 138. torre Stradelle 139. torre Scorrano, inglobata in una masseria del XVIII secolo 140. torre Licurgo 141. torre Scorrano, stemma deI Frisari duchi di Scorrano
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142. torre Gavetino, particolare aperture fronte est 143. torre Gavetino angolo sud-est 144. torre Gavetino angolo nord-ovest 145. torre Gavetino, particolare ingresso fronte ovest 146. torre Gavetino, particolare aperture fronte sud e nord
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147. torre Denza, rimaneggiamenti sulla struttura muraria in pietra 148. torre Denza angolo nord-est 149. torre Denza angolo sud-est 150. torre Denza viale di accesso da sud
147 150 148
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149
151. torre Casanova, rifunzionalizzazione a rimessa agricola, fronte nord 152. torre Casanova viale di accesso angolo sud-est 153. torre Casanova angolo nord-est 154. torre Casanova fronte est 155. torre Casanova, particolare della porta con arco falcato
151 152
153
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156. torre Alverone inglobata in una villa ottocentesca, viale di accesso angolo sud-est 157. torre Alverone prima di ulteriori rimaneggiamenti, angolo sud-est 158. torre Alverone fronte est e sud 159. torre Alverone fronte nord 160. torre Alverone aperture fronte ovest
156 157 158
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159
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161. torre Albarosa vista dal viale di accesso che devia da contrada Albarosa 162. torre Albarosa angolo sud-ovest 163. torre Albarosa angolo sud-ovest e nord-ovest 164. torre Albarosa fronte ovest 165. torre Albarosa, particolare porta con arco falcato fronte sud
161 164 162
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166, 167, 168, 169, 170. Castello e torre Maestra -130-
Nel corso del sec. XI comincia a verificarsi uno spopolamento dei casali sparsi nella campagna, e la conseguente urbanizzazione coatta dei casalini che individuarono nell’odierno centro storico un luogo costiero, aspro e denso di vegetazione, che costituiva un buon riparo per le imbarcazioni, e che fu denominato Vescègghie, dal nome delle quercie selvatiche diffuse tutt’intorno. Questo luogo fu il naturale sbocco al mare di quei contadini che lentamente si avviarono ad una modesta attività marinaresca. Verso l’anno 1000 sbarcarono sulla costa adriatica i Normanni e nel 1042 Roberto il Guiscardo assegnò Trani ed il suo circondario, comprendente l’attuale sito di Bisceglie, al suo vassallo Pietro di Trani, che divenne conte di Trani e ne rimase possessore fino al 1060. Egli, sotto le richieste di protezione delle genti dei casali, avviò i lavori di costruzione a difesa di alcune case che si erano addensate in prossimità del mare. Nel 1060 il nucleo più antico della città, cinto da mura, venne dotato di una imponente torre di guardia detta torre Maestra. La torre Maestra (appellativo popolare che rimanda al suo ruolo di guida al porto per le barche che si trovavano in alto mare) si eleva per un’altezza di 27 metri e si articola su quattro livelli, di cui tre sono originari, mentre il piano cantinato pare essere opera successiva. La volta a botte ogivale in copertura non è di fattura normanna, in quanto legata ad una geometria canonica propria dei cantieri del primo gotico francese del XIII secolo. L’unico elemento normanno ancora visibile è il paramento murario
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basamentale esterno, fino ad un’altezza relativa al primo piano di calpestio interno, ciò che resta è di probabile derivazione sveva. Successivamente in epoca federiciana, il torrione maestro venne integrato in un sistema difensivo più complesso costituito da un recinto fortificato quadrangolare munito da quattro torri agli spigoli e circondato da un fossato. Tuttavia oggi il castello si presenta in modo diverso da quello originario, sia dal punto di vista distributivo che architettonico, soprattutto per la presenza di un forte degrado dovuto a lavori di smantellamento di costruzioni abusive negli anni 50, e ad opere di restauro portate avanti negli anni 80 dalla Soprintendenza ai Monumenti di Puglia e mai portate a termine. Della fortezza restano attualmente tre torri, due tratti di cortine del perimetro quadrilatero originario, la chiesa palatina di S.Giovanni in castro e i resti del Palatium. Studiando rilivei dell’800 si puo desumere che in origine il complesso castrense era costituito da un recinto murario quadrilatero sostenuto da cinque torri quadre, di cui quattro negli angoli ed una (la torre piccola) nella cortina muraria in direzione dell’abitato; tutte le torri erano collegate fra lovro mediante dei camminamenti sulle cortine. Accanto alla torre sud-ovest, al di fuori del recinto murario, c’era la torre Maestra. In epoca primo-angioina si suppone fosse già completato il Palatium, ovvero la parte residenziale del castello; Petrus de Baro incide il suo nome, seguito da un me fecit, sulla ghiera del portale del palazzo. Probabilmente si tratta di quel Pietro Rapocio magister di origine barese,
architetto militare di fiducia di Carlo I d’Angiò, al quale si deve la direzione dei lavori del castello di Bari. Nel 1565 il castello viene destinato ad usi civili: l’Università di Bisceglie lo utilizzò per racchiudervi gran parte dei mulini della città. Questi locali erano prospicienti il cortiletto in seguito definito cortile delle gabelle in quanto in una delle stanze attigue era situata la pesa dei gabellieri.
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5. -135-
Il progetto _ ecoMAB
L’idea progettuale nasce dall’attenzione ad episodi del tessuto paesaggistico periferici e marginali, ma densi di richiami alla storia e all’identità del territorio, muovendo dall’intenzione di integrare architettura, storia e paesaggio in un unico intervento. Si assiste al racconto di antichi paesaggi agricoli e pastorali, spesso arditi, aspri e alternati, ritmati dalle tracce che la storia dell’architettura ha disegnato sul territorio: villaggi neolitici, stazioni preistoriche, casali e masserie di epoca tardoromana, chiese rurali, diventano le soste di questo lento percorso off the road. L’uomo infatti costruisce relazioni con il territorio a partire dal camminare, che è insieme sguardo e strumento primario di conoscenza e interpretazione dello spazio. Il procedere a piedi presenta virtù terapeutiche sia fisiche sia psichiche, spirituali, e si presta tanto alla introspezione quanto al rapporto con il contesto. Camminare è un gesto di libertà che rifiuta la velocità ed i percorsi imposti dal ritmo urbano, è la scelta di tempi e pause personali ma, contemporaneamente rappresenta una apertura verso gli altri. Camminare è anche una pratica socializzante, condizione preliminare dell’abitare l’intero territorio anziché solamente gli spazi del centro urbano. La strada pedonale diventa terreno di incontro, della vita pubblica, si pone come luogo di osservazione e documentazione della realtà, di mobilitazione della popolazione, con l’obiettivo più ambizioso di diventare luogo di decisione.
Dunque, considerato il valore delle risorse di questo territorio, l’obiettivo generale riguarda una operazione di ricostruzione di quegli invisibili legami fra manufatti, reperti, storia e comunità che possa stimolare una più ampia rigenerazione di risorse non più utilizzate. Inoltre, l’intervento, che intende conferire nuovo impulso vitale a questo inedito paesaggio, testimone di varie stratificazioni storiche, interessante raccolta di tipi edilizi e tecniche costruttive, si articola, in funzione di tre concetti chiave: linee, punti e superfici.
PRINCIPI DI PROGETTO: PUNTI, LINEE, SUPERFICI
Il punto si materializza nella sosta, possibile nei luoghi di maggior interesse storico culturale.
La linea è suggerita dai filari di ulivi, dal reticolo delle vigne, dal movimento dei muretti a secco.
Le superfici si spiegano nel paesaggio, attraverso i colori, gli odori della macchia mediterranea.
Il punto si traduce in parassiti gentili, puntuali interventi architettonici che si adagiano o accostano alle preesistenze per accompagnare silenziosamente il cammino, per assecondare la sosta, per tornare a fruire uno spazio trascurato.
La linea si traduce nel circuito aperto costituito da percorsi, itinerari, sentieri nel paesaggio che mettono a sistema il patrimonio storico diffuso nell’agro.
Le superfici si traducono in spazi e tempi dedicati ad attvità collaterali che fanno convivere vita comunitaria e cultura, con riferimento al turismo sostenibile, allo slow food, ad attività espositivo didattiche, a workshop, laboratori e conoscenza esperienziale.
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Francesco Careri Walkscapes. Camminare come pratica estetica. Einaudi editore, 2006.
“Prima di innalzare il menhir, in egiziano benben, la prima pietra che emerse dal caos, l’uomo possedeva una forma simbolica con cui trasformare il paesaggio. Questa forma era il camminare, un’azione imparata con fatica nei primi mesi della vita per poi diventare un’azione non più cosciente ma naturale, automatica. È camminando che l’uomo ha cominciato a costruire il paesaggio naturale che lo circondava.”
PUNTI
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Jacob Bronowski The ascent man. 1973
“L’uomo è una creatura singolare. Possiede caratteristiche che lo rendono unico tra gli animali, non è una semplice figura del paesaggio. Bensì un agente che lo plasma. Le capacità fisiche e intellettive ne fanno l’esploratore della natura; l’animale ubiquo che ha costruito, anzichè trovarla, la sua casa in ogni continente.”
LINEE
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Paul Schubring La Puglia. Impressioni di viaggio. V. Vecchi editore, 1901
“Si crede generalmente che la Puglia sia un deserto monotono, un paese privo di attrattive speciali e proprie della regione italiana. Ma l’immenso piano della campagna leggermente ondulata, il mare così maestoso, il cielo così infinito e sereno costituiscono una trinità grandiosa e singolare. In tutto si riscontra il carattere orientale, e specialmente nell’intensità e nella purezza de’ colori. Plutarco racconta d’un uomo, che, avendo visto il Giove di Fidia a Olimpia, ne aveva riportato una tale impressione, da ripetere sempre: chi ha visto una volta la testa fidiaca di Giove, non può mai diventare del tutto infelice. Lo stesso si può dire della beltà unica e maestosa della campagna pugliese.”
SUPERFICI
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Cesare Brandi Pellegrino di Puglia. Bompiani editore, 2010
“La scoperta non finirà mai, perchè è un paese la Puglia, come il mattino, un mattino limpido, un mattino di sole liquido: e, il mattino, sarà sempre lo stesso, ma non viene mai a noia. E ha sempre qualcosa di nuovo, nel suo spettacolo sempiterno.”
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Cesare Brandi Pellegrino di Puglia. Bompiani editore, 2010
“In realtà il severo paesaggio della Puglia è in queste distese di mastodontici ulivi, in questi tappeti a non finire di viti basse, che si tengono ritte da sé. E non c’è minor fascino, per chi lo sa sentire, in tale elementarità di paesaggio, che nei menhir, nei dolmen, nei trulli. Se si pensa che i trulli più antichi non rimontano oltre il ‘600, sembrerà non so più se fatidico o fatale che la Puglia seguiti a esprimersi nei termini di una civiltà neolitica, fino a ritrovare spontaneamente tecniche preistoriche come quella della copertura a tolos per i trulli.”
5.1 -146-
Il progetto _ ecoMAB
Obiettivi e valori progettuali
Oggetto di studio è un paesaggio marginale, definito paesaggio dell’abbandono per il notevole patrimonio trascurato, lasciato in balia di se stesso, a causa soprattutto del disinteresse comune e della mancanza di proposte alternative. Per riattivare il territorio è necessario quindi passare dall’attenzione all’azione; azione che può materializzarsi sotto diverse forme: > promozione di forme di riqualificazione e riuso del patrimonio, compatibili con la sua tutela e finalizzate alla sua fruizione e al rinnovo della identità locale; > incentivazione all’adozione di forme di diffusione della cultura del luogo; > promozione di forme di conservazione del patrimonio integrate e connesse alla qualificazione ambientale e paesaggistica; > tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico e architettonico diffuso, delle trame storiche, degli ordinamenti colturali di tradizione e dei segni della antropizzazione nel territorio rurale.
Sulla base di queste osservazioni, la proposta è quella di un intervento mirato a realizzare una rete di percorsi lenti, protetti, integrando la viabilità esistente, con lo scopo di connettere le trame storiche e di fruire del patrimonio naturalistico. Ed è così che il concetto chiave di linea si traduce nell’idea di circuito aperto, costituito da percorsi, itinerari, sentieri nel paesaggio che mettono a sistema il patrimonio diffuso nell’agro. Il concetto di punto invece si traduce in “parassiti gentili”, puntuali interventi architettonici minimi, che si adagiano o accostano alle preesistenze, per accompagnare silenziosamente il
cammino, per assecondare la sosta, per tornare a fruire uno spazio trascurato. Ed infine il concetto di superfice si spiega in spazi dedicati ad attività collaterali che fanno convivere vita comunitaria e cultura: > turismo sostenibile, che rispetti il paesaggio dell’entroterra, evitando di alimentare la congestione delle realtà balneari; > orientamento, accoglienza e familiarizzazione con il territorio; > slow food, spazi per il ristoro serviti con prodotti alimentari coltivati in loco, conferendogli la possibilità di entrare a far parte dei presidi slow food; > attività espositive, didattiche e ricreative, che prevedono lìorganizzazione di eventi culturali rivolti ad un pubblico comprendente adulti e bambini; > workshop, laboratori e conoscenza esperienziale, legati al tema dell’artigianato locale, della progettazione partecipata e del recupero del sapere manuale, e di quelle tecniche che appartengono alle generazioni passate e ben si prestano ad essere reinterpretati e rimessi in circolo.
5.2 -147-
Il progetto _ ecoMAB
Come avviare il progetto
Il progetto per il percorso ecomuseale nell’agro biscegliese nasce con l’intenzione di puntare al futuro, studiando e preservando la memoria (conservazione innovativa), riunendo popolazione ed istituzioni in un lavoro di salvaguardia e valorizzazione del proprio patrimonio condiviso, ovvero tutti quei beni culturali materiali, immateriali e del paesaggio rappresentativi del territorio; creando e ricreando relazioni tra i cittadini e tra i cittadini e il territorio, in senso interculturale e intergenerazionale. Questi obiettivi non dovranno essere persi di vista se si vuole che il progetto possa muoversi coerentemente nella costruzione di un coretto rapporto fra globalizzazione e territorio. Per questo richiede il coinvolgimento attivo degli abitanti e delle associazioni; anzi è proprio a partire dal riconoscimento del prezioso ruolo esercitato dalle associazioni del teritorio (Cea, ProLoco, Cooperative, ecc.) per preservare e valorizzare la storia della comunità che deve nascere il progetto ecoMAB. L’ecomuseo è infatti piena espressione dei principi di sussidiarietà, sostenibilità, responsabilità e partecipazione dei soggetti pubblici e privati e della popolazione. L’ambiente fertile e propositivo, fatto da associazioni e cooperative, fa in modo che l’istituzione Comune di Bisceglie si renda promotore del progetto e partecipe di un processo volto a focalizzare l’attenzione sull’identità locale in tutte le sue forme. Tra le tante associazioni la Pro Loco puo essere identificata come il soggetto attuatore, in grado di far partire il progetto, grazie ad un know how
territoriale profondo sviluppato in oltre cinquanta anni di attività e proposte, manifestazioni ed eventi, oltre ad una ricca raccolta di materiale utile a tracciare la storia del paese. Una realtà fondamentale per la ralizzazione del progetto, costituita da persone che hanno fatto della salvaguardia e della promozione territoriale la loro missione, gettando già con il loro lavoro, le basi per un ecomuseo. Inoltre il percorso ecomuseale non sarebbe un’entità a sé stante, ma si inserirebbe nello sviluppo del sistema culturale integrato dell’intera regione, con progettualità e momenti di confronto a livello locale e con la Rete Ecomusei Puglia .
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Tuttavia il progetto, per essere riconosciuto come ecomuseo, deve rispondere ai requisiti dalla Legge Regionale n° 15 del 6/07/2011, in fattispecie all’Art.2 comma 4, di seguito riportato: La Giunta regionale, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, approva un regolamento per la definizione dei criteri e dei requisiti minimi per il riconoscimento della qualifica di ecomuseo nonché per la individuazione dei soggetti pubblici e i requisisti dei soggetti privati ai quali è consentita la gestione degli ecomusei. Tale regolamento tiene conto dei seguenti criteri: a) caratteristiche di specificità culturale, geografica e paesaggistica del territorio in cui si propone l’ecomuseo; b) partecipazione attiva della comunità locale nel progetto di predisposizione e animazione culturale dell’ecomuseo; c) presenza di un insieme diversificato di soggetti partecipanti quali associazioni, enti di ricerca pubblici e privati, fondazioni ed enti locali singoli o associati; d) allestimento di spazi adeguati ad ospitare laboratori ecomuseali come centri di interpretazione, documentazione e informazione; e) esistenza di itinerari di visita e allestimento di percorsi di fruizione e luoghi di interpretazione; f) rapporto con altri ecomusei eventualmente esistenti sul medesimo territorio o territori limitrofi.
5.2 -149-
Il progetto _ ecoMAB
Come avviare il progetto
_RETE DEI FINANZIAMENTI ecoMAB, una volta riconosciuto dalla Consulta regionale degli Ecomusei puo godere dei finanziamenti previsti dalla Legge Regionale n° 15 del 6/07/2011, come descritto nell’Art.5 comma1, di seguito riportato: Alla spesa derivante dalla gestione degli ecomusei iscritti negli elenchi di cui all’articolo 2, comma 5, ammontante per l’esercizio finanziario 2011 a euro 20.000,00, si fa fronte con i fondi di cui al capitolo di bilancio 811005 - UPB 04.03.01 “Contributi per musei di enti locali, ecomusei ed enti e/o istituzioni di interesse locale”. Per gli esercizi successivi, si fa fronte con gli stanziamenti definiti nei capitoli dei rispettivi bilanci di previsione.
Un processo ecomuseale può generare attività in grado di svluppare piccoli business (iscrizioni, sponsorizzazioni, vendita di quelli che possiamo prevedere come “prodotti del territorio” risultanti dalle attività di workshop): in quest’ottica è auspicabile la costituzione di una piccola start up, composta da giovani del territorio, che andranno ad occuparsi della gestione dell’ecomuseo. Un altro finanziamento potrebbe derivare dalla vincita del bando Principi Attivi (giovani idee per una Puglia migliore). È l’iniziativa di Bollenti Spiriti, il programma della Regione Puglia per le Politiche Giovanili, che favorisce la partecipazione dei giovani pugliesi alla vita attiva e allo sviluppo del territorio attraverso il finanziamento di progetti ideati e realizzati dai giovani stessi. L’obiettivo è duplice: > verso i giovani: dare responsabilità, occasioni di
-150-
apprendimento e di attivazione diretta; > verso la comunità regionale: dare un iniezione di energia e innovazione al sistema sociale ed economico pugliese.
Principi Attivi finanzia gruppi informali di giovani che intendono realizzare idee per la tutela e la valorizzazione del territorio, idee per lo sviluppo dell’economia della conoscenza e dell’innovazione, idee per l’inclusione sociale e la cittadinanza attiva. In caso di approvazione del progetto, i gruppi informali si impegnano a costituire un nuovo soggetto giuridico a propria scelta (associazione, cooperativa, impresa etc.). Il contributo massimo ammissibile per ciascuna proposta progettuale è di 25.000 Euro per realizzare progetti delle durata massima di 12 mesi. Nella rete dei finanziamenti si inseriscono anche il MiBAC e il FAI. Al Ministero per i Beni Culturali e Ambientali compete la gestione del patrimonio culturale e dell’ambiente al fine di assicurare l’organica tutela di interesse di estrema rilevanza sul piano interno e nazionale. Esso si occupa anche di finanziare gli enti senza scopo di lucro, legalmente riconosciuti, che svolgono attività di tutela, promozione e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, attraverso il riparto della quota del cinque per mille. Il FAI invece promuove in concreto una cultura di rispetto della natura, dell’arte, della storia e delle tradizioni d’Italia, sostenuta da cittadini privati, Istituzioni attente e aziende illuminate,
nelle sue attività di: > restauro e conservazione di luoghi prima inaccessibili al pubblico; > educazione e sensibilizzazione, dei cittadini di tutte le età, al valore fondamentale dei beni culturali e paesaggistici; > presidio del paesaggio a rischio e minacciato, raccogliendo appelli delle comunità locali, facendo segnalazioni alle Istituzioni, intervenendo direttamente laddove possibile; > organizzazione di eventi su tutto il territorio nazionale insieme a proposte turistiche e di visita di qualità.
Infine l’Assessorato al Mediterraneo, Cultura, Turismo della Regione Puglia che ha realizzato il Portale Turistico Regionale fornendo uno strumento importante di promozione e valorizzazione dell’offerta turistica del territorio. Il portale viaggiareinpuglia.it è destinato ad utenti nazionali ed esteri ed assieme all’erogazione di informazioni e servizi, rappresenta le tante eccellenze di cui è ricca la regione, non solo turistiche ma anche culturali, ambientali, agroalimentari, industriali ed artigiane, favorendo una migliore conoscenza dei fattori di successo che caratterizzano il territorio, garantendo la qualità dei suoi prodotti ed un elevato livello di offerta a vantaggio di chi voglia intraprendere un viaggio per conoscere la Puglia.
5.2 -151-
Il progetto _ ecoMAB
Come avviare il progetto
_ASSOCIAZIONISMO Bisceglie presenta molte realtà suddivise tra cooperative e associazioni, le cui aree di intervento toccano tutti gli ambiti della vita sociale, mostrando negli anni dati gratificanti rispetto alla partecipazione e ai feedback della popolazione: > sociale: area degli interventi socio-assistenziali e socio-sanitari; > civile: area della tutela e del miglioramento della qualità della vita, della protezione dei diritti della persona, della tutela e valorizzazione dell’ambiente, del soccorso in caso di pubblica emergenza e calamità; >culturale: area della tutela e valorizzazione della cultura, del patrimonio storico e artistico, delle attività di animazione ricreativa, culturale ed educativa; > sportiva: area degli interventi a favore dello sport e della attività di promozione dell’educazione fisica.
Alcune delle realtà del territorio a livello associativo più influenti nel campo della valorizzazione del patrimonio culturale sono l’associazione Pro Loco UNPLI di Bisceglie, l’associazione Giovani Scout, la sezione di Ruotalibera Biciliae ed il Centro di Educazione Ambientale Zonaeffe, che promuove azioni dirette e progetti per lo sviluppo locale e il territorio basati sulla sostenibilità ambientale, la creatività e la partecipazione dei cittadini. L’associazione Pro Loco viene istituita nel mese di gennaio del 1962 e da allora, nel corso degli anni, ha ideato ed organizzato una serie di iniziative, manifestazioni, sagre ed eventi al fine di favorire ed incrementare un’incisiva e proficua
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Italo Calvino Il Barone Rampante. Mondadori editore, 1993
“Le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone”.
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promozione turistico-culturale delle peculiarità artistiche, storiche e gastronomiche del nostro territorio. In via esemplificativa e non esaustiva rientrano nei compiti della Pro Loco biscegliese: > svolgere e promuovere ricerche atte ad approfondire la conoscenza e la tutela delle risorse del territorio e della collettività, diffondendone i risultati per una loro rispettosa fruizione; > fare opera di educazione e di formazione sui temi della storia, della geografia, delle usanze locali, delle tradizioni, dell’arte, della cultura locale, ivi compresa la collaborazione alla crescita di idonee professionalità; > organizzare manifestazioni in genere e, in particolare, convegni, incontri, fiere, escursioni atte a promuovere lo sviluppo socio culturale locale e la consapevolezza a partecipare alla vita collettiva; >sensibilizzare la collettività verso lo sviluppo e la crescita dell’attività turistica.
Da 50 anni questa associazione opera nel territorio e non solo, rivelandosi cardine fondamentale della vita sociale di Bisceglie: numerosi eventi e manifestazioni, gite fuori porta, corsi di lingue e sportivi, arte, musica, informazione ecc. hanno consolidato e sviluppato il concetto di socializzazione e partecipazione. Un operato costante ed efficace che viene portato avanti da soci attivi, entusiasti e propositivi in collaborazione con i volontari del Servizio Civile. L’associazione Giovani Scout è attiva a Bisceglie da quasi 40 anni e dopo esperienze in altri circuiti nazionali scout, ha scelto la via dell’autonomia locale adattando alle esigenze locali i
principi dello scoutismo fondati sul volontariato e sull’educazione a un civismo responsabile. L’Agiscout di Bisceglie conta circa duecento soci nelle varie fasce di età dello scautismo e fra le proprie attività aderisce anche al progetto di recupero ambientale delle grotte di S.Croce fornendo un supporto di animazione durante le attività socio-culturali, offrendo così la possibilità al grande pubblico di visitare il sito archeologico alrimenti lasciato abbandonato a se stesso. L’associazione Biciliae promuove la mobilità sostenibile e il ciclo-turismo nel territorio di Bisceglie, associata a Ruotalibera Bari e FIAB (Federazione Italiana Amici della Bicicletta): > opera per promuovere e sviluppare l’uso della bicicletta, quale mezzo di trasporto semplice, economico e non inquinante, utile alla riduzione del traffico urbano all’interno di un sistema di trasporti integrati; > sensibilizza l’opinione pubblica e le istituzioni sui temi dell’ambiente e della mobilità sostenibile, ponendosi il problema di considerare e analizzare criticamente l’uso smisurato dell’auto; > chiede agli enti territoriali l’attuazione di tutte quelle misure necessarie alla circolazione e alla sicurezza del traffico ciclistico, anche in combinazione con l’uso dei mezzi pubblici (treno e bus); > ricerca itinerari sicuri da percorrere in bicicletta.
5.3 -154-
Il progetto _ ecoMAB
Gli strumenti
_L’IMMAGINE COORDINATA E LA SEGNALETICA DI ORIENTAMENTO L’elaborazione del logotipo prende avvio dalla raccolta di suggestioni provenienti dal territorio. Ad essa segue l’individuazione del carattere tipografico a cui affidare la comunicazione testuale dell’ecomuseo: il Museo, un carattere con grazie contemporaneo, semi-slab serif, caratterizzato da forme chiare, aperte, ideale per titoli dal forte impatto visivo ma anche efficace nei testi di medie dimensioni. Il designer Jos Buivenga ha ottenuto una famiglia di font opentype così versatile aggiungendo i caratteri minuscoli e regolandone la crenatura per aumentarne la leggibilità. Verde rosso e blu, sono invece i colori scelti per distinguere i percorsi che si sovrappongono nel circuito ecomuseale. Si tratta di tre colori fondamentali che consentono veloce riconoscimento e facile comprensione, soprattutto quando si devono distinguere oggetti colorati da sfondi disomogenei. Sono anche i colori della macchia mediterranea, dei reperti archeologici e delle materie prime del territorio; i colori marroni e rossi della terra e dell’argilla, i giallini della pietra e i verdi del bronzo segnato dal tempo. E dunque il logo risulta costituito da pattern e motivi grafici disegnati a partire dalle geometrie rintracciate sui reperti e le architetture caratterizzanti il territorio. Si sviluppa su cerchi concentrici che generano rotazione e movimento rimandando all’idea di cammino come scoperta; il centro poi accoglie la sigla dell’ecomuseo, che rimane ben evidente come un occhio. Lungo le strade dell’agro sono dislocati dei tre-
spoli segnapercorso, realizzati con i legni di scarto derivanti dalla lavorazione dei plateau per l’imballaggio di frutta e ortaggi. Essi si pongono a cavallo dei muretti a secco che fiancheggiano costantemente le strade di campagna, per guidare ed orientare i visitatori lungo i diversi percorsi, per scansionare il progressivo avvicinamento ai punti di interesse, fungendo anche da sgabelli per una sosta lungo il cammino. Tutti i punti di interesse dell’ecomuseo sono segnalati dalla presenza di totem costituiti anch’essi da una struttura autoportante realizzata con listelli in legno ricavati dalle tipiche cassette per lo stoccaggio della frutta. Svolge una funzione segnaletica e informativa attraverso tre principali strumenti presentati su uno scampolo di telo comunemente adoperato per la raccolta delle olive e debitamente incorniciato nel telaio ligneo del totem: l’anello del logo colorato che evidenzia l’itinerario a cui appartiene il punto di interesse in esame, la mappa semplificata per l’orientamento e il codice qr.
173. Carattere tipografico Museo e palette colori -156-
ABCDEFGHIJLMNOPQRSTUVWXYZ abcdefghijlmnopqrstuvwxyz 1234567890.:,;(*!?-_�)
corpo 24 Museo regular 300
palette colori
logotipo
> verde rosso e blu, colori fondamentali che consentono
corpo 24 veloce riconoscimento e facile comprensione, soprattutto quando Museo regular 700 si tratta di distinguere gli oggetti
242 236 135
236 229 98
221 220 30
203 211 0
190 188 0
172 170 0
138 128 0
139 36 18
189 44 22
228 38 24
230 71 42
236 115 106
243 163 158
245 183 180
156 213 223
88 191 207
0 171 196
0 146 88
0 30 164
0 112 136
0 77 91
9 0 58 0
13 0 72 0
20 0 91 0
29 0 100 0
20 0 100 19
18 0 100 31
3 0 100 58
0 90 100 51
0 91 100 23
0 94 100 0
0 84 88 0
0 67 50 0
0 47 29 0
0 38 21 0
43 0 12 0
63 0 18 0
83 0 21 0
100 0 16 9
100 0 19 23
100 0 24 38
100 0 28 65
pantone 380 C
pantone 381 C
pantone 382 C
pantone 383 C
pantone 384 C
pantone 385 C
pantone 1815 C
pantone 1805 C
pantone 1795 C
pantone 1788 C
pantone 1785 C
pantone 1775 C
pantone 1765 C
pantone 3105 C
pantone 3115 C
pantone 3125 C
pantone 3135 C
pantone 3145 C
pantone 3155 C
pantone 3165 C
ABCDEFGHIJLMNOPQRSTUVWXYZ abcdefghijlmnopqrstuvwxyz 1234567890.:,;(*!?-_�)
pantone 379 C
colorati da sfondi disomogenei
> sono anche i colori della macchia mediterranea, dei reperti archeologici e delle materie prime del territorio; i colori marroni e rossi della terra e dell’argilla, i giallini della pietra e i verdi del bronzo segnato dal tempo.
> costituito da patter disegnati a partire d rintracciate sui repe caratterizzanti il ter
174. Logotipo -157-
ecoMAB
175. Trespolo segnapercorso, scansione ritmica, vista frontale, laterale, superiore, pianta, sezione, assonometria, rendering -158-
176. Totem segnaletico, vista frontale, laterale, superiore, pianta, sezione, assonometria, rendering -159-
5.3 -160-
Il progetto _ ecoMAB
Gli strumenti
_I SERVIZI Coprendo un territorio abbastanza ampio il progetto prevede una serie di servizi per coordinare il percorso ecomuseale, quindi sistemi di collegamento che soddisfino diverse tipologie di visitatori. L’infopoint, collocato nel cortile del castello svevo, nella città antica di Bisceglie offre i primi servizi di accoglienza, orientamento e familiarizzazione del visitatore con il territorio. Qui, oltre al personale costituito da cittadini o volontari membri di associazioni che operano sul territorio, sono installati dispositivi multimediali che permettono all’ospite di visualizzare i servizi, le mappe, gli eventi, le attività collaterali in programma e di organizzare il prorpio percorso personale. Per questo l’infopoint assume l’importante ruolo di bussola: permette di scaricare attraverso bluetooth sul proprio smartphone una guida multimediale provvista di mappe, informazioni e immagini della rete ecomuseale; progettare il proprio percorso e acquistare il biglietto, che una volta stampato funge da promemoria per le informazioni utili (orari, tappe itinerario, ecc.), e da chiave per accedere agli eventi collaterali e soprattutto usufruire dei mezzi di trasporto lento della rete ecomuseale. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, le distanze che intercorrono tra i punti di interesse presenti sul territorio sono facilmente percorribili a piedi o in bicicletta, con il vantaggio che l’agro biscegliese possiede una conformazione
compatta, omogenea e conclusa, che facilita gli spostamenti. L’infopoint diventa un punto di riferimento anche per quanto riguarda la mobilità sul territorio, invitando i visitatori ad abbandonare la propria vettura nel parcheggio prossimo al castello e proseguire nel percorso ecomuseale a piedi oppure noleggiando una bicicletta o un veicolo a tre ruote, del genere ape car, ape calessino, tradizionalmente preferito dai contadini negli spostamenti da un fondo a un altro per le sue ridotte dimensioni d’ingombro che gli permettono di muoversi nelle strade strette e spesso sterrate di campagna.
177. Inquadramento infopoint -161-
1
i
3
10
4
6
2
5
9
7
centro storico mura e bastioni aragonesi noleggio biciclette noleggio apecar parcheggio autoveicoli
1. torre nord-ovest 2. torre nord-est 3. Chiesa S. Giovanni in Castro 4. stanza dei gabellieri 5. palatium 6. torre ovest 7. torre normanna 8. torre sud-est 9. fabbricato Garofoli 10. cortile principale 11. area utilizzata per attivitĂ commerciale
11
8
5.3 -162-
Il progetto _ ecoMAB
Gli strumenti
_LE TECNOLOGIE Lungo il percorso ecomuseale il visitatore puo imbattersi in architetture abbandonate all’incuria, non accessibili al pubblico per ragioni di sicurezza o perchè sono proprietà private. Per mezzo del codice Qr sarà possibile, tramite qualsiasi telefono cellulare collegato a internet o alle guide fornite dagli infopoint, visionare immagini, testi o video di quei luoghi altrimenti non visitabili. Si tratta di un codice bidimensionale a matrice che rappresenta l’evoluzione del tradizionale barcode. I vantaggi associati al suo utilizzo sono la possibilità di condensare un grandissimo numero di informazioni e di innescare un accesso intelligente alla rete tramite l’utilizzo di tecnologie di ultima generazione. Il valore aggiunto del codice Qr sta nel fatto che permette un passaggio immediato dal mondo cartaceo al world wide web con facilità, in tempo reale e gratuitamente. Il Qr può essere definito una sorta di trait d’union tra il mondo cartaceo e quello multimediale di internet. Una porta d’accesso a contenuti aggiuntivi che per la loro natura digitale non troverebbero spazio sulla carta e che invece arrivano, via web, direttamente sullo schermo del telefonino. Se lo si inquadra con l’obiettivo del cellulare il codice Qr, che è l’abbreviazione inglese di “quick response” (risposta rapida), prende vita e racconta tutto di sé: sul display arrivano, infatti, video e pagine internet preparate ad hoc per approfondire l’argomento a cui è legato. Il codice Qr può contenere fino a 4.296 caratteri di testo: non sempre conduce, quindi, a un video
o a una pagina web, ma può fornire anche solo informazioni testuali. Il meccanismo di funzionamento è semplice: il Qr viene letto tramite la fotocamera di un telefono cellulare. Le informazioni vengono immediatamente decodificate in formato digitale di testo permettendo, tra l’altro, il salvataggio dei contenuti nel telefonino oppure il loro inoltro via e-mail, sms oppure bluetooth. Il Qr code consente anche di collegarsi a pagine Web create ad hoc e così avere accesso a informazioni aggiuntive o ad aggiornamenti, indipendentemente che si tratti di testi, video o immagini, senza vincoli legati al peso dei format. Il codice è applicato sui totem segnaletici collocati in prossimità dei siti interessati: il visitatore scattando una foto al codice verrà indirizzato a diversi contenuti a seconda del sito in esame.
178. Il Qr code sul pannello segnaletico -163-
5.3 -164-
Il progetto _ ecoMAB
Gli strumenti
_LA MAPPA DI COMUNITÀ DIFFUSA NEL BOLLETTINO DI INFORMAZIONE COMUNALE La progettazione partecipata è lo strumento che consente di innescare processi collaborativi adatti allo sviluppo del progetto ecomuseale. Metodi specifici per la costituzione di un processo complesso che prevede la collaborazione di tutti gli attori locali. A questo proposito prende avvio l’idea di inserire nel bic, il bollettino informativo comunale, distribuito gratuitamente con cadenza bimestrale, una mappa di comunità in modo da comunicare, sensibilizzare e testare la partecipazione rispetto al progetto ecomuseale proposto a tutta la popolazione. Si tratta di una mappa aperta su cui i cittadini sono invitati a scrivere, disegnare, annotare, proporre, prendendo la forma di una sorta di gioco di comunità a cui tutti possono partecipare, sfruttando solo la propria conoscenza reale del territorio, con l’obiettivo di costruire insieme un database di informazioni utili all’azione dell’ecomuseo. Dunque, l’inserto prevede l’interattività del lettore: espone in primo luogo il progetto ecomuseale, per poi definire cosa sia una mappa di comunità, ed alla mappa topografica del territorio si accompagna la richiesta esplicita di intervenire segnalando i punti più interessanti secondo i pareri personali dei singoli, identificando quindi gli elementi di rilievo sul territorio e specificando il materiale, il tempo, le conoscenze e i saperi che essi possono offrire al progetto. Viene così ri-
chiesta una partecipazione concreta, che aiuta a definire quale può essere l’apporto della popolazione al progetto: uno strumento semplice per divulgare in modo capillare il progetto e iniziare un rapporto continuativo con la popolazione. Le mappe di comunità compilate, una volta riconsegnate presso punti prestabiliti, come la biblioteca, gli sportelli del cittadino, l’infopoint, sono utilizzate per la pianificazione delle attività ecomuseali. La stessa mappa può essere poi utilizzata anche come supporto per altre e diverse azioni di trasformazione e riqualificazione di quartieri o aree urbane. Il ruolo della mappa aperta rimane quello di far condividere le analisi dei bisogni e il sistema dei valori che stanno alla base delle scelte di progetto. L’apporto di ogni abitante è semplice e diretto, e ha il compito di aumentare l’accettazione sociale dei progetti di trasformazione e di renderli più coerenti con la realtà delle pratiche umane.
-165-
Alberto Clementi citato in Un paese spaesato. Rapporto sullo stato del paesaggio italiano. Touring editore, 2001
“Si avverte l’esigenza di promuovere una politica attiva per la conservazione e per la rigenerazione dei paesaggi esistenti, suscitando nuove progettualità e mobilitando saperi, risorse e disponibilità di attori che vanno ben oltre il tradizionale mondo della tutela. Occorre creare un senso comune che venga sentito come proprio dai diversi soggetti che agiscono sul paesaggio, in primo luogo dalle società locali che con il loro consenso costituiscono un fattore decisivo per il successo delle azioni di tutela e valorizzazione. Solo a queste condizioni il paesaggio rappresenta un patrimonio identitario che non è un lascito del passato, ma un valore continuamente costruito dalla volontà di chi abita e usa il territorio.”
6. -167-
Il circuito
Nella dicitura ecoMAB _ pellegrinaggio ecoMuseale nell’Agro Biscegliese, si fa uso del concetto di pellegrinaggio estrapolandolo dalla sfera sacra e portandolo in quella laica dell’ecomuseo. La parola pellegrino viene usata in questo caso nell’accezione di viandante, indicando colui che compie un viaggio, che percorre un cammino verso un luogo sconosciuto o verso una meta precisa. La scelta di questo termine è avvenuta in virtù dell’antica tradizione delle fiere campestri che si connotavano come veri e propri pellegrinaggi della popolazione giunta dalla città ai santuari campestri per venerare il culto della madonna protettrice dei campi dalla siccità. Così il pellegrinaggio fa riferimento all’azione del camminare come pratica spaziale esplorativa, relazionale, conviviale, ludica; che oltre ad essere uno strumento di conoscenza contribuisce a promuovere la diffusione di una maggiore consapevolezza della popolazione nei confronti del proprio territorio. Per privilegiare il concetto di pellegrinaggio, piuttosto che individuare dei percorsi che si dipartono da un unico centro comune, si è scelto di indicare tre percorsi distinti su base temporale (itinerario delle stazioni preistoriche, itinerario degli insediamenti protourbani, itinerario delle torri di vedetta) che interagiscono tra loro creando scambi e connessioni, comunque mantenendo il centro urbano come punto di riferimento informativo. Così da tematizzare ancor più l’evoluzione del
rapporto tra città e agro: se in passato sono state le diverse comunità rurali ad urbanizzare la costa dando vita ad un’unica comunità all’interno del recinto fortificato della città, adesso si tenta di compiere uno spostamento nel verso opposto, riportando il cittadino lontano dal centro urbano, per riprendere coscienza della sua originaria identità e trasformandosi in un flaneur contemporaneo. Egli perlustra il territorio con il suo camminare, peregrinare; allontanandosi dai percorsi serviti dai segnali, spinto da ricordi, dal desiderio di ricercare le proprie radici, di stabilire la propria peculiarità, in una società sempre più avanzata nella direzione della globalizzazione e dell’omologazione.
#2 inquadramento territoriale, circuito ecomuseale 1950
1
2 1965
3 1960
CIRCUITO ECOMUSEALE
4 1960
5 1963
1 6
1 1 1972
2 2
1972
9 3 1960
3 2
4 1970
8 10 5
1967
4
1 6 7 2 1965
5 3 3
5
4
1963
11
4
12
1960
3
5 1965
4 13
6 5 1967
2 1
7 1965
6
8
punto di orientamento, bussola punti di prolungamento del percorso ai territori limitrofi
1960
9
LEGENDA
punti di interesse e sosta punto di orientamento, bussola itinerario delle stazioni preistoriche punti di prolungamento del percorso ai territori limitrofi itinerario degli insediamenti protourbani punti di interesse e sosta itinerario delle torri di vedetta itinerario delle stazioni preistoriche degli insediamenti protourbani punti di ospitalitĂ esterni al itinerario percorso itinerario delle torri di vedetta
10 1965
11 1967
12
punti di ospitalitĂ esterni al percorso
punti ristoro interni al percorso
1960
punti ristoro interni al percorso
servizi igienici interni al percorso servizi igienici interni al percorso
13 1960
6.1 -169-
Il circuito
Itinerario delle stazioni preistoriche
grotta Santa Croce, Paleolitico medio 1
grotte de Le Due Crocette, Paleolitico medio 2
dolmen Albarosa, Bronzo medio 3
dolmen de La Chianca, Bronzo medio 4
dolmen Frisari, Bronzo medio 5
grotta Navarrino, Paleolitico medio 6
abbandono e degrado sottoposto a vincolo dalla sovrintendenza privato - residenziale deposito agricolo presidio di associazioni attivitĂ collaterali
6.1 -170-
Il circuito
Itinerario degli insediamenti protourbani
casale, tempio e chiesa di Santa Maria di Giano, X sec. 1
casale, chiesa di Ognissanti in Pacciano e chiesa di sant’Angelo, X sec. 2
casale Cirignano, X sec. 3
casale Sagina e Pedata dei Santi, X sec. 4
casale e chiesa di Santa Maria di Zappino, X sec. 5
abbandono e degrado sottoposto a vincolo dalla sovrintendenza privato - residenziale deposito agricolo presidio di associazioni attivitĂ collaterali
6.1 -171-
Il circuito
Itinerario delle torri di vedetta
torre Casanova, XII sec.
torre Le Monache, XII sec. 9
1
torre Gurgo, XII sec.
torre Lamadattola, XII sec. 2
10
torre Zappino, XII sec.
torre Stradelle, XII sec. 3
11
torre Albarosa, XII sec.
torre Denza, XII sec. 12
4
torre Alverone, XII sec. 13
5
torre Cassanelli, XII sec. 6
torre Gavetino, XII sec. 7
torre Licurgo, XII sec. 8
torre Scorrano, XII sec.
7. -173-
Il sistema puntuale
Nei luoghi di maggior interesse storico culturale toccati dal percorso ecomuseale si interviene con organismi architettonici interstiziali, parassiti gentili, che si adagiano, si accostano alle preesistenze per accompagnare silenziosamente il cammino, per assecondare la sosta, o più semplicemente per permettere al visitatore di tornare a fruire uno spazio trascurato. Percorrendo il circuito ecomuseale si entra in contatto con architetture mutilate dal tempo e dall’incuria, così nuovi corpi architettonici leggeri e agili vi si attaccano come protesi, connotandosi come attrezzature di supporto che consentono alla preesistenza di tornare a svolgere la sua funzione originaria oppure ad acquistare un nuovo significato in relazione alle esigenze contemporanee. Dunque questi organismi parassitari non si occupano di creare nuovi luoghi e segni nel paesaggio, bensì offrono una rilettura della preesistenza. Si tratta di riscrivere e rendere leggibile un paesaggio a portata di mano ma ancora poco maneggevole, attraverso interventi puntuali, lievi, a piccola (e anche piccolissima) scala, che hanno la forma dell’installazione, dimensioni più vicine a quelle del corpo, che possono essere persino autoprodotti. Un approccio consapevole e realistico dettato sopratutto da budget sempre più asciutti, dalla necessaria rivalutazione del lavoro manuale e artigiano, e dal diffondersi di un rapporto più cosciente con un pianeta ammaccato e maltrat-
tato. Nuovi segni nel paesaggio che diventano punto di riferimento provvisorio tra l’arcaico e la contemporaneità.
7.1 179. Ponte Vecchio, Firenze -174-
Il sistema puntuale
Il parassitismo
Ho inteso il parassitismo come un ripensamento del valore del territorio e della necessità che esso guarisca attraverso l’immissione di strutture nuove in architetture preesistenti. Queste ultime, così facendo, possono ritornare ad assolvere la loro funzione originaria (di cui erano state private dal tempo, dall’incuria e dall’abbandono) oppure possono diventare altro, acquistando un nuovo significato, coerente con il precedente e con la vita che si muove attorno ad esso, nonché con le nuove esigenze che affiorano. L’architettura parassita aggiunge, si attacca, nasce e cresce come un bocciolo su una pianta morta; è distinta dall’opera iniziale, la sfrutta, la traduce in uno stato di necessità. Offre la possibilità di far rivivere uno spirito, una storia, vestita di nuovi colori, forme e spazi. Con l’intervento parassita cambia il concetto di decadenza in senso totalitario; si percepisce la fine come un atto circoscritto, che sfiorisce ma non sradica, che non spazza via cultura e tradizione. Il nuovo corpo si inserisce, alimentandosi da esso, ma generando nuovi rapporti, nuove interazioni, nuove complessità. Oggetto della ricerca, quindi, sono state quelle costruzioni e quei progetti, definiti appunto parassitari, che si relazionano a preesistenze, con le quali istituiscono un legame spaziale e/o strutturale ma non necessariamente funzionale e che evitano mediazioni identitarie.
-175-
Giampiero Bosoni Parasitic architecture. Modi e luoghi di un nuovo bricolage genetico del metabolismo urbano. Lotus n°133, 2008
“Si può partire dal caso più letterale in cui un organismo (al quale si possono riconoscere dei primordiali caratteri architettonici) entra in contatto, si innesta all’esterno o all’interno di un preesistente corpo architettonico e, sottraendo energia a quest’ultimo, si mantiene in vita, funzionando con una relazione passiva e/o autonoma rispetto all’organismo ospitante.”
7.2 -176-
Il sistema puntuale
Riferimenti progettuali
_KRIJN DE KONING, BEAUFORT 03, BELGIO L’olandese Krijn De Koning crea per la Biennale di Beaufort l’installazione dal nome “the museum of gravity”, presso le rovine di un abbazia belga. Il suo lavoro si mantiene al confine tra arte e architettura, infatti consiste principalmente in interventi architettonici installati all’interno o all’esterno di edifici preesistenti. In questo caso il nuovo corpo parassita è composto da pareti colorate che si muovono tra le antiche mura dell’abbazia, intersecandosi ripetutamente e costruendo una successione di piccole stanze. L’intervento crea il proprio spazio mentre modifica quello esistente, contrastando con i muri regolari dai colori vividi, i resti grezzi e sbiaditi delle rovine.
7.2 -177-
Il sistema puntuale
Riferimenti progettuali
_VITO ACCONCI & STEVEN HOLL, STOREFRONT FOR ART AND ARCHITECTURE, NYC L’organizzazione no profit Storefront for Art and Architecture commissiona all’archistar Steven Holl e all’artista Vito Acconci la ristrutturazione della facciata dell’edificio dove è sita la galleria. I due realizzano un originale progetto architettonico che rende l’edificio dinamico e crea differenti possibilità: ponendo sulla facciata esistente una serie di dodici pannelli verticali e orizzontali, la galleria si apre e prosegue sul marciapiede in diversi modi. Il risultato finale è una reale continuità tra lo spazio interno ed esterno. Una galleria aperta alla strada e ai passanti. Utilizzando un materiale ibrido di fibre riciclate, Holl e Acconci hanno creato una sorta di puzzle. Ecco come la galleria cambia faccia: quando i pannelli sono aperti, in uno dei vari modi possibili, lo spazio interno della galleria si espande fuori come se continuasse sul marciapiede e quindi la mostra del momento coinvolge inevitabilmente i passanti e si lascia intravedere anche dall’altra parte della strada. Invece, quando i pannelli sono chiusi, si vede solo il muro ed apparentemente è come se non ci fosse alcun ingresso perché in realtà l’entrata è l’intera parete. Il progetto invita il passante anche più distratto e lo avvicina all’arte e all’architettura, rompendo le barriere convenzionali dell’esclusività e immaginando nuove possibilità creative: effetti di linee e colori che insieme alle opere esposte decorano e rinnovano di continuo lo spazio urbano circostante, che cambia quindi di mostra in mostra.
7.2 -178-
Il sistema puntuale
Riferimenti progettuali
_CONVERTIBLE CITY, PADIGLIONE TEDESCO, X BIENNALE DI VENEZIA Nel 2006, il contributo tedesco Convertible City alla biennale di Venezia ha mostrato l’intensità con la quale lo sfruttamento dello spazio urbano viene messo in discussione; come cambi l’interpretazione di ciò che già esiste; e come sia possibile ampliare o completare gli spazi con degli impianti, per poi adeguare il tutto alle nuove esigenze. Convertible city presenta progetti incentrati sul riutilizzo dell’esistente come risposta alle nuove norme che limitano le costruzioni ex-novo. Il padiglione tedesco della X Biennale di architettura di Venezia indaga le trasformazioni urbane per micro addizioni e sovrapposizioni. Gli slogan proposti dalla provocazione tedesca si concentrano su termini come appropriazione, continuità e riconversione, alternativa allo sprawl, risparmio del suolo e ricerca di nuove forme dell’abitare.
7.2 -179-
Il sistema puntuale
Riferimenti progettuali
_EXYZT ARCHITECTURE, MÉTAVILLA, PADIGLIONE FRANCESE, X BIENNALE DI VENEZIA Metavilla non è nè un palco per una performance nè un sistema di allestimento, ma è innanzitutto uno spazio progettato per essere utilizzato: un’ installazione temporanea, auto-costruita e abitata dallo stesso gruppo di progettisti. è l’occupazione di un palazzo, che permette al pubblico di sperimentare realmente il progetto architettonico esposto,e soprattutto valutare la funzionalità e la praticità dell’idea presentata che non è solo una teoria utopica. I visitatori sono invitati a rimanere lì a riposare, consumare pasti, leggere, lavorare e confrontarsi. Ocuppare il padiglione francese ed accogliere i visitatori stranieri in questo modo inusuale significa che sta avendo luogo un atto architettonico. Un team di venti architetti e dieci collaboratori hanno costruito un vero e proprio canitiere che comprende camerate dormitorio con i letti per i partecipanti, un bar, una cucina che serve i migliori menù, molte aree relax con lettini prendisole e una piattaforma panoramica con amache, e ciliegia sulla torta, una sauna sul tetto con una piccola piscina per rinfrescarsi. Così il padiglione francese diventa un luogo di incontro e di scambio, dove l’architettura è esperienza fisica, dove il visitatore diventa attore e partecipante attivo; un luogo che diventa anche un laboratorio per la sperimentazione dello spazio disponibile. Métavilla ha sicuramente cambiato l’aspetto rigoroso del padiglione francese ai giardini della biennale e con esso l’idea di esporre l’architettura.
-180-
Paolo Giardiello Smallness. Abitare al minimo. Rizzoli editore, 2009
“In architettura una superfetazione è un’aggiunta superflua, ma della stessa natura dell’oggetto madre mentre un parassita è un’aggiunta discontinua, incoerente e di natura diversa, parzialmente o totalmente dipendente dalla costruzione sulla o con la quale si lega. Si tratta di un approccio metodologico che parte dal concetto di interventi minimi, ridotti, controllabili e sostenibili economicamente, capaci di sovrapporsi all’esistente e di suggerire nuove potenzialità prima non previste dalla realtà costruita. L’idea quindi del costruito sul costruito, del costruito nel costruito, di qualcosa di autonomo e identificabile nella sua natura materica e formale rispetto all’esistente, vuole suggerire la possibilità di non operare rispetto a tessuti e manufatti fortemente degradati attraverso una loro totale trasformazione o addirittura eliminazione, bensì di aggredire il caos con nuove entità indipendenti e autonome, che si innestano sulla realtà in atto e che restituiscono a questa nuove possibilità d’uso e di fruizione, di comprensione e di lettura. Interventi non necessariamente confrontabili con la scala
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del preesistente, a volte aggiunte minime, oggetti a scala umana più che proporzionati alle dimensioni dello spazio urbano, in grado però di modificare sostanzialmente le ragioni stesse del luogo. Anche la percezione, la contemplazione e il valore estetico dei luoghi può risultare alterato dal valore aggiunto di piccoli interventi parassitari, come il clavel de l’aire, un piccolo garofano che vive a scapito di altre piante, capace di adornare con i suoi colori intensi piante e alberi che altrimenti risulterebbero senza fioritura. Il principio di qualcosa di nuovo ed estraneo palesemente aggiunto sul preesistente è un principio che suggerisce una modificazione concepita in modo che le diverse fasi della stratificazione siano tutte leggibili e soprattutto che l’integrità dell’originale possa in ogni momento essere recuperata e che inoltre, sia in grado di alterare il metabolismo dell’edificio storico risolvendo tutte le discrasie che avevano portato all’obsolescenza del manufatto. Questa modalità del fare non ha dimensione o scala, è applicabile al singolo edificio, come allo spaizo urbano, come a porzioni di territorio.”
7.2 -182-
Il sistema puntuale
Riferimenti progettuali
_R&SIE(N), SPIDERNETHEWOOD, NÎMES Occultare alla vista, mimetizzare nella natura è stato il principio fondante del progetto Il nome Spidernethewood attribuito alla casa per vacanze progettata da R&Sien richiama luoghi abitati e percorsi intricati. Si tratta di un parallelepipedo in calcestruzzo armato di 450 mq distribuiti su due livelli. Reti all’esterno e teli di plastica all’interno rivestono le pareti cementizie di questa singolare costruzione che, a distanza di cinque anni dalla messa in opera, ha raggiunto il perfetto equilibrio tra artificiale e naturale, elemento quest’ultimo che le è stato fatto crescere attorno facendola diventare un tutt’uno con l’ambiente circostante. Una rete di ragno crea una radura nella foresta; cosicchè nello scenario di progetto rientrano: la sovradensità della piantagione forestale esistente; l’impacchettamento degli alberi con la rete per ricavare un labirinto tra i rami; il collegamento dell’abitazione al labirinto di reti attraverso una grande porta scorrevole in vetro in modo che il confine dentro/fuori diventa sfocato per una sensazione di porosità e di rinfrescante ventosità; la vita è dietro l’estensione interna del labirinto.
7.2 -183-
Il sistema puntuale
Riferimenti progettuali
_JAN VORMANN, DISPATCHWORKS, BOCCHIGNANO
Jan Vormann passeggiando per le stradine di Bocchignano in occasione del festival d’arte contemporanea “20Eventi” nel 2007, ha avuto l’idea di riempire crepe e vuoti murari di vecchi palazzi e monumenti con coloratissimi mattoncini Lego. Un’idea concettuale tanto semplice quanto geniale che quasi involontariamente ha dato origine ad una nuova forma di street art coniata con il nome di Dispatchwork, una specie di restauro-patchwork fatto di rattoppi creativi. Il primo passo del dispatchwork sta nella ricerca. E’ necessario trovare una crepa, una fessura, una falla muraria, studiare questo vuoto e, armati di pazienta e tanti mattoncini Lego, riempirlo con minuzia incastrando bene, come in un tetris ogni pezzettino di plastica, creando una superficie complanare con l’opera architettonica scelta. E’ un metodo di precisione che non prevede l’utilizzo di colle per cui le installazioni, che sono in genere temporanee, non provocano alcun danneggiamento del supporto. L’ispirazione di Vormann potrebbe essere nata da una riflessione fatta sull’estrema eterogeneità delle pareti dei nostri centri storici che spesso nel recupero e nelle stratificazione del tempo accumulano tanti materiali costruttivi diversi. Ed effettivamente anche i mattoncini Lego nella loro semplicità sono un materiale costruttivo.
7.2 -184-
Il sistema puntuale
Riferimenti progettuali
_NATURAL ARCHITECTURE, PADIGLIONE REP. CECA E SLOVACCA, XII BIENNALE DI VENEZIA Tutto di legno, il padiglione della Repubblica Ceca racconta una storia molto personale. Quella di Martin Rajnis che, dopo trent’anni di carriera e dopo avere viaggiato nel cosiddetto terzo e quarto mondo, ha deciso di chiudere il suo Studio D.A. (autore tra l’altro di grandi progetti espositivi multimediali, come il padiglione dei trasporti per l’Expo del 1986) per intraprendere la via della sostenibilità. Modelli in legno mostrano una serie di lavori realizzati, in nome di una progettazione umana e in accordo con la natura. Natural Architecture infatti focalizza l’attenzione sulle radici e la base di tutta l’architettura, sulle costruzioni di legno, non storiche ma contemporanee e naturali per il paesaggio, per la natura e per l’essere umano. Così il padiglione della Repubblica Ceca e della Repubblica Slovacca propone un particolare allestimento tutto in legno, per farci riflettere sulla progettazione compatibile con la natura, senza sprechi e decisamente low-tech. La struttura infatti non presenta fondamenta nel terreno, le tavole di legno sono semplicemente poggiate su una base di ghiaia, spianata su una quantità di strati necessari a livellare la pendenza del terreno; è in legno la scala che porta alla terrazza e tutte le pareti, costruite in modo da creare diaframmi di luce e aria.
7.2 -185-
Il sistema puntuale
Riferimenti progettuali
_NUMEN, NET Z33, HASSELT Strati di reti flessibili sospese nell’aria creano un paesaggio fluttuante, aperto ai visitatori, liberi di entrare ed esplorare. Il risultato è una scultura di optical art, un’ amaca collettiva, per testare l’instabilità. I Numen, gruppo di progettisti croati e austriaci, non fanno altro che sospendere grandi reti tra gli edifici, o all’interno di essi, tra le pareti e il soffitto, costruendo un paesaggio mutevole e distorto come le persone che si muovono all’interno del suo spazio. Tuttavia non si tratta solo di un’architettura effimera, di un’installazione su cui arrampicarsi, ma anche di un porgetto metaforico: è sia un divertente parco giochi sia un buon modo di parlare della società. Il progetto si è evoluto dall’interesse verso i paesaggi artificiali trasparenti costruiti nello spazio pubblico, per arrivare all’obiettivo finale di coprire da muro a muro i cortili, disponendo uno strato per piano, permettendo agli abitanti di uscire dalle finestre. Non solo per far porvare loro la sensazione di volare ma soprattutto per reinventare il concetto di cortile come luogo comune delle persone che vi abitano. Lo scopo è la creazione di una rete per l’integrazione del quartiere e del vicinato, sempre più alienato e distante negli ultimi anni; una sorta di balcone pubblico per una futura comunità.
7.2 -186-
Il sistema puntuale
Riferimenti progettuali
_GAMBARDELLARCHITETTI, TORRE DELLO ZIRO, PONTONE D’AMALFI
Un edificio storico restaurato attraverso un solo grande elemento costituito da una scala di acciaio che lo attraversa trasformandolo in belvedere, segnale luminoso, parete per arrampicatori. La torre dello Ziro è un rudere e come tutti i reperti storici vincolati dalla Soprintendenza è intoccabile e, nello stesso tempo, si trova in una collocazione tale che non è facile impiantare un cantiere per eseguire i lavori. La scelta di Gambardella è realizzare una intelaiatura metallica che contiene la scala e che culmina con un parapetto che esce dalla torre e dal quale è visibile l’incantevole panorama circostante. Un pavimento in tronchi di castagno trattati con caolino bianco, in omaggio all’artista Beuys, circonda la scala al piano intermedio. All’interno delle inferriate passano gli impianti e su queste sono agganciate le luci. L’intera struttura metallica è realizzata fuori opera e trasportata con un elicottero che la appoggia all’interno senza quasi toccare il rudere.
7.2 -187-
Il sistema puntuale
Riferimenti progettuali
_nARCHITECTS, WINDSHAPE, LACOSTE Stagliato sullo sfondo suggestivo creato dal Castello del Marchese de Sade, Windshape, progettato dallo studio newyorkese nArchitects, mostra tutta la propria effimera architettura.Windshape è infatti una sfumatura più che un segno architettonico. Una sfumatura che va oltre il significato della forma e che a seconda della forza del vento si espandeva o si restringeva, oscillava o rimaneva rigida, suonando o stridendo. Windshape è nel contempo anche un’architettura che cerca di entrare a far parte del paesaggio provenzale, anch’esso mutevole, segnato dai duri confini in pietra dei castelli e dei muri a secco e dalle leggere curve delle colline, colorate dalle vigne e dai campi di lavanda. Lo spazio creato da Windshape doveva contenere plurime manifestazioni e servire di volta in volta per rappresentazioni teatrali, concerti, mostre conferenze. Per riuscire in tutto questo gli architetti di nArchitects, hanno così pensato di realizzare due padiglioni, open-air, alti otto metri, utilizzando 50km di filo in polipropilene. Il filo come una ragnatela è stato teso attorno ad una struttura primaria composta da tripodi di tubi in plastica flessibile preassemblati e collegati da collari di alluminio, ed è stato posto secondo tessiture diverse in maniera da disegnare superfici più dense e superfici più rarefatte, cosi da stabilizzare e irrigidire la struttura permettendo nel contempo le deformazioni conseguenti al soffiare del vento. Materiali deboli e flessibili concorrono quindi nel creare una struttura forte ma contemporaneamente elastica, disegnando spazi che però non definiscono in maniera univoca un dentro ed un fuori.
7.3 -188-
Il sistema puntuale
Bussola, infopoint
_IL NUOVO RISCOPRE L’ANTICO: LA RIVELAZIONE La rivelazione è il tema concettuale sotteso all’intervento progettuale per l’allestimento della bussola infopoint nel castello normanno svevo. La rivelazione, intesa nell’accezione di scoperta, svelamento, è esperita ogni qual volta nell’intervenire in un sito storico, si scoprono elementi e parti architettoniche che prima non si conoscevano e che, una volta comprese, entrano nell’elaborazione del progetto, arricchendolo, dandogli nuovi valori e significati, facendo comprendere meglio l’architettura originaria, la sua storia, la sua evoluzione: ché ogni edificio è uno scrigno di vite lì vissute, di storie che il tempo può aver fatto dimenticare, per le trasformazioni, gli adattamenti allo svolgersi di quelle vite, e che con il nuovo progetto riappaiono e rivivono. Così l’intervento progettuale si traduce in una sorta di stanza all’aperto, una scatola costruita per piani lignei interposti, che si abbarbica su un basamento (prima inutilizzato) che sovrasta una vecchia cisterna. Poi, parapetti e corrimano diventano le linee guida che accompagnano il visitatore alla scoperta delle torri e dei camminamenti del castello. Provando che l’intervento comprende sia gli spazi interni che gli esterni e che tra essi puo esserci autonomia o condizionamento.
180. Pianta piano quota +1.50m 0
5m
-189-
181. Pianta piano quota +6.50m -190-
182. Pianta piano quota +10m 0
5m
-191-
183. Prospetto ovest -192-
184. Sezione A-A' e render di progetto esterno, ingresso infopoint 0
5m
-193-
185. Sezione B-B' -194-
186. Prospetto interno ovest e render di progetto interno corte castello 0
5m
-195-
187. Stralcio sezione A-A' -196-
-197-
Christian Norberg Schulz Genius loci. Paesaggio ambiente architettura. Mondadori Electa editore, 1979
“L’architettura deve rispettare il luogo, integrarsi con esso, ascoltare cioè il suo genius loci.”
7.3 -198-
Il sistema puntuale
Focus su punto 1, itinerario 1
_IL NUOVO SI CONFORMA NELL’ANTICO: L’INCLUSIONE Tema concettuale alla base dell’intervento progettuale nel complesso carsico delle grotte di Santa Croce è l’inclusione. L’inclusione si sperimenta quando il sito esistente, con i suoi confini, i suoi perimetri e gli ambienti di cui è composto, accoglie al suo interno le parti, gli elementi del nuovo intervento. Essi, anche se sono dotati di una loro autonomia, restituiscono un nuovo aspetto a quegli spazi interni naturali, dando loro nuovi caratteri. In questo modo la precedente connotazione spaziale non scompare del tutto, non viene in alcun modo occultata, ma permane e si rende manifesta ancora più nella sua presenza di involucro. Così l’intervento progettuale si traduce in una passerella che viene fuori dall’imboccatura della grotta come una lingua, rendendo riconoscibile la presenza del complesso carsico rispetto al folto della macchia mediterranea in cui è immerso. Accostata alla passerella anche la parete su cui sono rappresentati i resti e i frammenti ceramici incisi (riferibili all’Età dei metalli) rinvenuti sul sito, assume un ruolo segnaletico; avvicinano, attirano l’attenzione del visitatore, e lo accompagnano nel percorso interno alla grotta.
188. Stralcio planimetrico dell’area di intervento e pianta piano quota +1m 0
50m
-199-
189. Prospetto nord, sezione A-A', sezione B-B' e sezione C-C’ -200-
0
5m
190. Stralcio sezione A-A' -201-
191. Render di progetto, esterno grotta -202-
192. Render di progetto, interno grotta -203-
7.3 -204-
Il sistema puntuale
Focus su punto 2, itinerario 2
_IL NUOVO RIPROGETTA L’ANTICO: LA RIGENERAZIONE Tema concettuale sotteso all’intervento progettuale nel sito medievale del casale di Pacciano è quello della rigenerazione. Quest’ultima si sperimenta quando la conservazione dell’antico convive con la riprogettazione in siti che presentano, per effetto di malandate trasformazioni o adattamenti, insieme a parti di pregio conservate, parti totalmente cancellate e spersonalizzate, che devono essere reinterpretate per tornare in relazione con quelle antiche superstiti. Per riprendere, riassumere, lo stesso livello qualitativo, per far rinascere, rigenerare l’edificio. Le nuove parti non instaurano perciò nessun rapporto conflittuale con la preesistenza a cui si appoggiano, se non un rapporto fisico, ognuno dei due è presente, uno non elude l’altro. Così l’intervento progettuale si traduce nell’allestimento di un’area (quella che era l’abitazione del massaro) dedicata al ristoro e alla vendita di prodotti alimentari autoctoni o di articoli realizzati nel corso delle attività laboratoriali; uno spazio didattico e ricreativo, in cui poter dare avvio alle attività di conoscenza esperienziale rivolte ad adulti e bambini, che trova posto nel locale una volta adibito a ricovero per gli animali; una scala esterna che permette di raggiungere la torre di avvistamento; una pavimentazione che rende fruibile l’interno della chiesa di Ognissanti, esempio eccellente di architettura protoromantica pugliese.
193. Pianta piano quota +1.50m 0
5m
-205-
194. Sezione A-A' e sezione B-B' -206-
195. Prospetto ovest, sezione C-C' e render di progetto, esterno lato nord 0
5m
-207-
196. Prospetto nord e prospetto sud -208-
197. Prospetto nord, prospetto sud e render di progetto, esterno lato sud 0
5m
-209-
198. Stralcio prospetto sud -210-
199. Render di progetto, esterno lato sud -211-
7.3 -212-
Il sistema puntuale
Focus su punto 7, itinerario 3
_IL NUOVO SI MUOVE NELL’ANTICO: LA MUTAZIONE Tema concettuale dell’intervento progettuale nella torre di vedetta di Gavetino è la mutazione. Essa si sperimenta nel momento in cui ad un’architettura mutilata dal tempo e dall’incuria, e di conseguenza costretta alla stasi, vengono immessi elementi di protesi che riabilitano il sito a svolgere la sua funzione originaria. In questo caso, l’installazione di una scala a chiocciola riporta nello spazio antico e immobile, una dimensione dinamica; essa genera movimento e consente una fruizione attiva del sito. La torre, opera militare normanno sveva, ritorna ad essere fruita come punto di vista panoramico sul territorio. Tuttavia, la torre non è solo un punto da cui osservare il paesaggio, ma è anche il suo rovescio, ovvero un punto del paesaggio verso cui guardare. La torre di Gavetino, oggetto di intervento progettuale, è inserita in un sistema di altre torri di avvistamento costruite secoli addietro sul territorio in modo che creassero tra loro una rete, guardandosi l’un l’altra. Così il progetto interviene installando una leggera copertura a coronamento della torre, che non solo si preoccuperà di offrire al visitatore il sollievo dell’ombra ma si identificherà anche come landmark del paesaggio. In questo modo l’intervento progettuale dimostra che l’allestimento perchè effimero non è meno importante del suo contenitore e che il carattere primo dell’intervento è la leggerezza, ma anche le componenti tecniche come l’assemblaggio, la modularità e l’aspetto costruttivo.
200. Vista superiore, pianta piano quota +1m, +6m, +11m, prospetto ovest, sud, est, nord, sezione A-A' e sezione B-B' 0
5m
-213-
201. Stralcio sezione B-B' -214-
202. Render di progetto, angolo nord est ed angolo nord ovest -215-
203. Render di progetto esterno lato nord -216-
204. Render di progetto esterno lato est -217-
-219-
Kevin Lynch L’ immagine della città. Marsilio editore, 2006
“Non vi è alcun risultato finale, solo una continua successione di fasi.”
Bibliografia
PARTE I
AA. VV., Ecomuseo e paesaggi. Esperienze, progetti e ricerche per la cultura materiale, Milano, Lybra, 2004. L. Basso Peressut, I luoghi del museo, Roma, Editori Riuniti, 1985. L. Basso Peressut, M. Di Puolo, M. Mastropietro, V. Minucciani, M. C. Ruggieri Tricoli, 73 Musei d’arte, archeologici, etnografici, naturalistici, scientifici e tecnologici, religiosi, tematici, aziendali, ecomusei, Milano, Lybra, 2004. P. Belli D’Elia, La Puglia romanica, Milano, Jaca Book, 1987 M. Berucci, Il tipo di chiese a cupola affiancate da volte a mezza botte, in Atti del IX Congresso di Storia dell’architettura, 1955, D. Borri, Contributi allo studio del paesaggio urbano e rurale in età moderna: le masserie in Puglia, SPPUT, Università di Bari, 1983 C. Brandi, Pellegrino di Puglia, Milano, Bompiani, 2010 C.A.S.T. Bari, Indagine archeologica Chiesa di Ognissanti. Bisceglie, scavi, 1991 A. Calderozzi, Architettura rurale nel territorio pugliese, Brindisi, Schena, 1984 A. Castellano, La casa rurale in Italia, Milano, Electa, 1986 M. Cosmai, Bisceglie nella storia e nell’arte, Bari, Levante, 1968 M. Cosmai, Leggende e tradizioni biscegliesi, Bari, Levante, 1980 M. Costanzo, Museo fuori dal museo. Nuovi luoghi e nuovi spazi per l’arte contemporanea, Milano, Franco Angeli, 2007. R. De Vita, Castelli torri ed opere fortificate di Puglia, Bari, Adda, 1974 S. Dell’Orso, Musei e territorio. Una scommessa italiana, Milano, Electa, 2009 R. Gambino, Conservare, innovare: paesaggio, ambiente, territorio, Torino, Utet, 1997. C. Grasseni, Ecomuseologie. Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Rimini, Guaraldi, 2010 G. La Notte, Bisceglie. Insediamenti culturali, Bari, Adda, 1991 La nuova museologia 17, dir. G. Pinna, Milano, 2008 La nuova museologia 19, dir. G. Pinna, Milano, 2008 La nuova musicologia 20, dir. G. Pinna, Milano, 2008 M. Maggi, V. Falletti, Gli ecomusei. Che cosa sono, che cosa possono diventare, Torino, Allemandi, 2001. A. Magnaghi, Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000 M. T. Maiullari Pontois, Ecomuseo a rete, rete di ecomusei, Torino, 1999. P. Marani, R. Pavoni, Musei. Trasformazioni di un’istituzione dall’età moderna al contemporaneo, Venezia, Marsilio Editori, 2006. V. Minucciani, Il Museo fuori dal museo. Il territorio e la comunicazione museale, Milano, Lybra, 2005.
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PARTE II
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Indice delle figure
PARTE I
12
1. Alessandro Magnasco, L’arresto dei briganti, 1710
16
2. Ecomuseo di Uetersen, ricostruzione di una cucina storica
21
3. Cultura ibrida, illustrazione fonte artsblog.it
45
4. Home page del sito del sistema ecomuseale della Puglia, ecomuseipuglia.net
47
5. Discussione su una mappa partecipata di comunità
55
6. Home page del portale web del mondo della progettazione partecipata, marraiafura.com
56
7. Stefano Puzzo nel suo laboratorio ceramico di via Guerzoni a Milano
57
8. Laboratorio Controprogetto con i ragazzi che hanno partecipato alla costruzione del parco giochi Park-urka
59
9. Jacob Philipp Hackert, Il porto di Bisceglie, 1790
61
10. Giovanni Battista Pacichelli, Bisceglie durante il regno di Napoli, XVIII sec.
71
11. Don Pancrazio Cucuzziello, maschera carnevalesca biscegliese
72
12. Processione del venerdì santo, 1940
73
13. Processione nell’agro biscegliese durante la Fiera Campestre di Zappino, 1950
75
14 . Cassa armonica allestita in occasione della festa dei tre santi patroni per l’esibizione del concerto bandistico
76
15.Contadini durante la raccolta delle ciliegie, 1960
78
16. Operai in magazzino ortofrutticolo occupati nella lavorazione delle ciliege per l’esportazione, 1929
79
17. Fiscolai all’opera, 1950
80
18. Orecchiette e strascinati, tipica pasta fresca fatta in casa
90
19. Museo diocesano di Bisceglie
92
20, 21, 22, 23. Grotte di Santa Croce, imboccatura con inghiottitoi, interno, stalattiti e concrezioni
93
24, 25, 26. Grotta de Le Due Crocette
94
27, 28, 29, 30. Grotte di Navarrino, ingresso, inghiottitoi, stalattiti e concrezioni
95
31, 32, 33, 34. Dolmen de La Chianca
96
35, 36, 37, 38. Sepoltura di tre individui adulti accompagnati da olla e vaso a collo
97
39. Planimetria dolmen Frisari
98
40, 41, 42, 43, 44. Dolmen frisari prima e dopo la messa in sicurezza dell’area
99
45. Planimetria dolmen Albarosa
Indice delle figure
PARTE I
100
46, 47, 48. Dolmen di Albarosa in pessimo stato di conservazione
103
49. Frammenti di anfore di varia tipologia rinvenute al largo del litorale Salsello
105
50. Colonna miliare del tratto Ruvo-Bitonto della via Traiana
107
51, 52, 53, 54, 55, 56, 57. Casale di Giano
108
58, 59, 60, 61, 62, 63. Tempio di Giano
109
64, 65, 66, 67, 68. Chiesa Santa Maria di Giano
110
69, 70, 71, 72, 73. Affreschi rinvenuti nella Chiesa Santa Maria di Giano
111
74, 75, 76, 77, 78. Casale di Pacciano
112
79, 80, 81, 82, 83, 84. Ciesa di Ognissanti in Pacciano
114
85, 86, 87, 88. Torre e cortile casale di Pacciano
115
89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96. Chiesa di San’Angelo
116
97, 98, 99. Casale di Cirignano prima e dopo i notevoli e brutali rimaneggiamenti di un privato
117
100, 101, 102, 103, 104. Casale di Sagina e tempietto di San Giovanni
118
105, 106, 107, 108, 109. Cappella votiva de La Pedata dei Santi, altorilievo che raffigurante i tre santi
119
110, 111, 112. Casale di Zappino
120
113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120. Casale di Zappino
121
121, 122, 123, 124, 125, 126. Chiesa Santa Maria di Zappino
122
127, 128, 129, 130. Affreschi della Chiesa Santa Maria di Zappino in deplorevoli condizioni
123
131, 132, 133, 134, 135. Torre Zappino
124
136. torre Cassanelli 137. torre Gurgo 138. torre Stradelle 139. torre Scorrano, inglobata in una masseria del XVIII secolo 140. torre Licurgo 141. torre Scorrano, stemma deI Frisari duchi di Scorrano
125
142. torre Gavetino, particolare aperture fronte est 143. torre Gavetino angolo sud-est
Indice delle figure
PARTE I
125
144. torre Gavetino angolo nord-ovest 145. torre Gavetino, particolare ingresso fronte ovest 146. torre Gavetino, particolare aperture fronte sud e nord
126
147. torre Denza, rimaneggiamenti sulla struttura muraria in pietra 148. torre Denza angolo nord-est 149. torre Denza angolo sud-est 150. torre Denza viale di accesso da sud
127
151. torre Casanova, rifunzionalizzazione a rimessa agricola, fronte nord 152. torre Casanova viale di accesso angolo sud-est 153. torre Casanova angolo nord-est 154. torre Casanova fronte est 155. torre Casanova, particolare della porta con arco falcato
128
156. torre Alverone inglobata in una villa ottocentesca, viale di accesso angolo sud-est 157. torre Alverone prima di ulteriori rimaneggiamenti, angolo sud-est 158. torre Alverone fronte est e sud 159. torre Alverone fronte nord
129
160. torre Alverone aperture fronte ovest 161. torre Albarosa vista dal viale di accesso che devia da contrada Albarosa 162. torre Albarosa angolo sud-ovest 163. torre Albarosa angolo sud-ovest e nord-ovest 164. torre Albarosa fronte ovest 165. torre Albarosa, particolare porta con arco falcato fronte sud
130
166, 167, 168, 169, 170. Castello e torre Maestra
Indice delle figure
PARTE II
155
172. Elaborazione di motivi grafici rilevati da una raccolta di suggestioni provenienti dal territorio
156
173. Carattere tipografico Museo e palette colori
157
174. Logotipo
158
175. Trespolo segnapercorso, scansione ritmica, vista frontale, laterale, superiore, pianta, sezione, rendering
159
176. Totem segnaletico, vista frontale, laterale, superiore, pianta, sezione, assonometria, rendering
161
177. Inquadramento infopoint
163
178. Il Qr code sul pannello segnaletico
174
179. Ponte Vecchio, Firenze
189
180. Pianta piano quota +1.50m
190
181. Pianta piano quota +6.50m
191
182. Pianta piano quota +10m
192
183. Prospetto ovest
193
184. Sezione A-A’ e render di progetto esterno, ingresso infopoint
194
185. Sezione B-B’
195
186. Prospetto interno ovest e render di progetto interno corte castello
196
187. Stralcio sezione A-A’
199
188. Stralcio planimetrico dell’area di intervento e pianta piano quota +1m
200
189. Prospetto nord, sezione A-A’, sezione B-B’ e sezione C-C’
201
190. Stralcio sezione A-A’
202
191. Render di progetto, esterno grotta
203
192. Render di progetto, interno grotta
205
193. Pianta piano quota +1.50m
206
194. Sezione A-A’ e sezione B-B’
207
195. Prospetto ovest, sezione C-C’ e render di progetto, esterno lato nord
208
196. Prospetto nord e prospetto sud
209
197. Prospetto nord, prospetto sud e render di progetto, esterno lato sud
210
198. Stralcio prospetto sud
Indice delle figure
Indice dei grafici e delle tavole
PARTE II
211
199. Render di progetto, esterno lato sud
213
200. Vista superiore, pianta quota +1m, +6m, +11m, prospetto ovest, sud, est, nord, sezione A-A’ e sezione B-B’
214
201. Stralcio sezione B-B’
215
202. Render di progetto, angolo nord est ed angolo nord ovest
216
203. Render di progetto esterno lato nord
217
204. Render di progetto esterno lato est
PARTE I
43
Distribuzione ecomusei in Puglia
60
Inquadramento territoriale
63
Assetto morfologico
77
Percentuale di suolo utilizzato per le principali colture
102
Tipologia delle anfore rinvenute a largo del litorale Salsello
106
La Peucezia con i principali centri di interesse archeologico e la rete viaria antica
136
Principi di progetto: punti, linee, superfici
168
Circuito ecomuseale
PARTE II
Un grande grazie
al Prof. Pietro Marani per la guida e la pazienza, alla mia famiglia per il sostegno morale, affettivo, economico e gastronomico, a Ciccio per l’amore incondizionato, a chi è passato da Casa Uruguay, chi ci è rimasto e ormai riconosco dal passo, a tutti coloro che hanno fornito preziosi suggerimenti e suggestioni a supporto di questa tesi, nelle fasi di ricerca, stesura e progetto.
Milano, 6 aprile 2013