Tesi Triennale_Simone Sasso_def

Page 1

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE: EDITORIA E GIORNALISMO

TESI DI LAUREA

LA FEDELE RIPRODUZIONE A MEZZO STAMPA COME METODO DI CONSERVAZIONE E DIFFUSIONE DELLE OPERE D’ARTE

Relatore: Prof. ALESSANDRO BIGARDI

Laureando: SIMONE SASSO

ANNO ACCADEMICO 2008 - 2009


Indice Introduzione ..................................................................................................................... pag. 2 Parte Prima: La colorimetria 1.1 La luce ......................................................................................................................... pag. 3 1.2 Gli oggetti .................................................................................................................... pag. 4 1.3 Temperatura colore ...................................................................................................... pag. 5 1.4 Curve di emissione spettrale ........................................................................................ pag. 6 1.5 Modelli colore .............................................................................................................. pag. 7 Parte Seconda: Acquisire il documento originale 2.1 Acquisizione ................................................................................................................. pag. 15 Parte Terza: Gestione del file 3.1 Colour Management .................................................................................................... pag. 21 3.2 Tecnologie di gestione del colore a confronto ............................................................. pag. 27 Parta Quarta: La realizzazione della riproduzione 4.1 Il supporto .................................................................................................................... pag. 29 4.2 La realizzazione delle matrici per la stampa ................................................................ pag. 31 4.3 Gli inchiostri................................................................................................................. pag. 32 4.4 Essicamento dell’inchiostro ......................................................................................... pag. 34 4.5 Il controllo e le possibili variazioni del “puntino” nella stampa ................................. pag. 36 4.6 La retinatura ................................................................................................................. pag. 37 4.7 La stampa ..................................................................................................................... pag. 39 4.7.1 Grado di grigio ed errore di tinta ......................................................................... pag. 40 4.7.2 Densità di stampa ................................................................................................. pag. 43 4.7.3 Contrasto di stampa .............................................................................................. pag. 45 4.7.4 Dot Gain ............................................................................................................... pag. 47 4.7.5 Trapping ............................................................................................................... pag. 50 4.8 Le scale di controllo ..................................................................................................... pag. 52 Conclusioni ....................................................................................................................... pag. 55 Bibliografia ....................................................................................................................... pag. 57


Introduzione Ogni tesi nasce da un’ipotesi. Mi sono chiesto se esiste un metodo univoco e di approccio scientifico, che se seguito, consente di ottenere in modo relativamente economico la fedele riproduzione di un’opera d’arte. Il tutto limitando al minimo l’estro dell’operatore di stampa, nonché l’onere di valutare la bontà del risultato. In sala stampa, frequenti sono le manovre interpretative che avvengono ad opera dei macchinisti, spesso dettate solamente dal loro gusto estetico. Ho quindi cercato, partendo dalle nozioni teoriche che stanno alla base del colore, di tracciare una linea guida da seguire per arrivare ad un risultato finale congruo alle aspettative e soprattutto ripetibile in qualsiasi situazione. Parlare di colore risulta impossibile senza un background di nozioni fondamentali; la mia analisi, comprende dunque un breve cenno alle basi sul colore, dalla sua definizione alla sia interpretazione. Cercherò di determinare un flusso di lavoro (work-flow) valido e adattabile alle situazioni riproduttive, valorizzando e puntualizzando come le operazioni di linearizzazione e calibrazione delle attrezzature, siano ormai fondamentali per creare e definire uno standard raggiungibile in qualsiasi momento. I riferimenti dunque risultano fondamentali. In questo breve viaggio toccherò tutte le fasi del ciclo pruduttivo, dall’ottenimento della fotografia digitale, alla correzione dell’immagine, alla realizzazione della prova colore, tutte fasi che convoglieranno nella stampa, risultato ultimo e obiettivo delle lavorazioni. Tutto supportato da nozioni teorico-tecnologiche. La sezione sulla quale mi soffermerò maggiormente sarà ovviamente quella della stampa, in quanto è quello il momento più importante di tutto il ciclo, il momento nel quale, se condotto in maniera impeccabile, è possibile verificare e toccare con mano la bontà (o meno) del lavoro di preparazione. Nello stesso tempo, però, è anche la fase del work-flow nella quale intervengono più variabili e controllarle risulta complicato. Mi riferisco alla carta, agli inchiostri, e soprattutto alla bontà della gestione della macchina da stampa in termini di quantità di inchiostro depositato sul foglio stampato, di equilibrio tra la soluzione di bagnatura e l’inchiostrazione, di pressione e di bontà di materiali utilizzati. Con questa analisi, non è mia intezione svolgere un esperimento scientifico, né di fornire la soluzione a tutti i problemi degli stampatori; è invece mia intezione suggerire un’indicazione, e consigliare una possibile strada che, se percorsa, può permettere a chiunque di arrivare al risultato finale con ottimi risultati.

1


Parte prima: La colorimetria 1.1 La luce Nell’affrontare le tematiche della corretta riproduzione di un originale, qualsiasi esso sia, è necessario chiarire alcuni argomenti tecnici, indispensabili per comprendere il mondo del Colore. Cercherò quindi di fornire queste basi in modo semplice e veloce, basandomi anche sulle definizioni. La luce è l’agente fisico che permette la visione degli oggetti. Questo termine si riferisce ad una porzione dello spettro delle onde elettromagnetiche alla quale l’occhio umano è sensibile. La luce, come le altre onde elettromagnetiche, è definibile da alcune grandezze fisiche di base, tra cui la frequenza, la lunghezza d’onda, l’ampiezza e la polarizzazione.

(figura 1.1)

Lo spettro del visibile (figura 1.1) si identifica nelle lunghezze d’onda comprese tra 380 e 780 nm (10 -9 m), che vengono poi interpretate dal cervello come colori. Nel caso si verificasse l’emissione contemporanea di tutte le lunghezze d’onda, l’occhio umano percepirebbe la luce bianca. Queste lunghezze d’onda assumono toni descritti come viola, blu, azzurro, verde, giallo, arancione e rosso, al crescere della lunghezza d’onda e al diminuire della frequenza. Ogni lunghezza d’onda identifica una ben precisa tonalità. La prima scomposizione dello spettro del visibile nelle sue componenti è stata realizzata da Isaac Newton (1642-1727) attraverso l’esperimento del prisma. In questo, lo scienziato, verificò due elementi fondamentali, il primo che la luce bianca è composta da un’insieme di elementi più semplici (le diverse radiazioni luminose alle diverse lunghezze d’onda che non possono ulteriormente essere separate), il secondo che un insieme di radiazioni luminose separate tra loro

2


possono essere opportunamente ricomposte e restituiscono luce bianca.

y

(figura 1.2)

Le lunghezze d’onda (figura 1.2) adiacenti allo spettro del visibile sono indicate con i termini Ultravioletto (minori di 380 nm) ed Infrarosso (superiori a 780 nm), hanno trovato larga applicazione nell’ambito grafico editoriale soprattutto per la preparazione delle matrici e per l’asciugatura o polimerizzazione della stampa. La luce si propaga nel vuoto alla velocità 299 792 458 m/s.

1.2 Gli oggetti Gli oggetti, come ad esempio i supporti per la stampa, interagiscono con i fotoni della luce; questa interazione è legata a diversi fattori. In primo luogo distinguiamo gli oggetti opachi dai trasparenti. I primi sono quelli che riflettono la luce incidente; la riflessione potrà essere di tipo diffusa o speculare (figura 1.3). Gli oggetti trasparenti sono invece quelli che rifrangono la luce e si lasciano attraversare dalla stessa. Anche in questo caso possiamo avere trasmissione diffusa o lineare. 100

100

100

100

100

100

100

100

90 70

30

10 90

70

30

10

(figura 1.3)

3


L’opacità o la lucidezza di un campione non sono legate al colore dello stesso ma alla sua caratteristica superficiale (figura 1.4). Quando un oggetto, sia esso opaco o trasparente, è colpito dalla luce, in relazione alle sue caratteristiche cromatiche, è in grado di trattenere o di riflettere una parte delle radiazioni luminose incidenti. Le radiazioni luminose trattenute dagli oggetti sono quelle complementari al colore dell’oggetto stesso. luce incidente

(figura 1.4)

1.3 Temperatura colore La temperatura di colore di una sorgente indica, in termini numerici, il colore apparente della stessa. Il concetto di temperatura di colore è stato sviluppato da Planck (Max Karl Ernst Ludwig Planck 1854- 1947) in relazione al concetto di corpo nero. Un corpo nero è un corpo teorico che ha la caratteristica di riuscire a trattenere interamente tutte le radiazioni incidenti e restituirle sotto altra forma di energia in uguale misura (es. assorbe luce e restituisce calore). Il comportamento del corpo nero può essere paragonato a quello di un metallo; infatti, se surriscaldato, un pezzo di ferro produce ad una data temperatura una sensazione luminosa. All’aumentare della temperatura il colore emesso diventa via via rosso, poi giallo, poi bianco, poi assumerà una dominante di colore azzurra e infine blu.

(figura 1.5)

4


La temperatura di colore espressa in gradi Kelvin, può quindi essere efficacemente utilizzata per indicare le caratteristiche cromatiche di una sorgente luminosa (figura 1.5). Qui di seguito alcuni esempi di illuminanti descritti attraverso il termine di TC (Temperatura Colore). La temperatura di colore esprime un valore indicativo della cromaticità della sorgente. Le curve di emissione spettrale della sorgente invece danno l’indicazione precisa del comportamento della sorgente alle diverse lunghezze d’onda dello spettro del visibile (figura 1.6). Per ogni temperatura di colore esiste una curva caratteristica descritta dalla curva di emissione del corpo nero. La CIE (Commission International de l’Eclairage) ha definito alcune illuminanti standard, di cui da indicazione oltre che della temperatura di colore anche della curva di emissione spettrale. Nella tabella qui sotto sono riportate le temperature colore dei principali tipi di sorgente luminosa.

Sorgente Candela Alba/tramonto Lampada al tungsteno Lampada alogena Lampada fluorescente (neon) Sole a mezzogiorno Lampada ad arco (HMI) Cielo nuvoloso

temperatura in °K 1930 2000-3000 2850 3200/3400 3200-5000 5000-5600 5600-6000 6800-7500

(figura 1.6)

1.4 Curve di emissione spettrale Le curve di emissione spettrale (figura 1.7) definiscono le caratteristiche di emissione di una sorgente in relazione allo spettro del visibile. L’analisi delle curve di emissione permette di valutare una sorgente non solo per l’apparenza (definita con la temperatura di colore), ma per la sua propria caratteristica. Esistono infinite curve di emissione spettrale per le infinite sorgenti luminose, se prendessimo ad esempio una sola tipologia di sorgenti, quelle ad esempio che emettono luce che ha una corrispondenza di TC 6500K allo stesso modo troveremmo molte curve che soddisfano questo requisito.

5


(figura 1.7)

Le curve di emissione spettrale identificano in maniera molto precisa una sorgente e risultano fondamentali per capire l’emissione energetica di una determinata sorgente luminosa. Infatti ogni sorgente luminosa emette energia di emissione spettrale definita, avente cioè determinate caratteristiche colorimetriche. Facendo la media di tali emissioni energetiche è possibile definire il colore di tale luce emessa che corrisponde esattamente a quanto il nostro cervello elabora in termini di colore. Il picco più alto corrisponderà alla colorazione che il cervello percepirà sebbene possa essere influenzata dalla presenza di altre radiazioni luminose. Le curve spettrali possono essere classificate in due grandi aree, quelle che hanno andamento continuo e quelle che hanno andamento a bande o caratterizzate da picchi per alcune lunghezze d’onda. Maggiore è la planarità della curva, maggiormente la luce sarà priva di influenze cromatiche; maggiore sarà l’inclinazione della curva (nella parte centrale o nelle parti laterali), maggiore sarà l’influenza cromatica corrispondente a quella determinata lunghezza d’onda.

1.5 Modelli colore Nella sua evoluzione, l’uomo ha sempre cercato di comunicare e codificare le informazioni; tra i modelli sviluppati ed utilizzati, quello dell’uso del colore è sicuramente uno dei più importanti. La necessità di riprodurre colore è una delle esigenze che anche oggi caratterizzano il nostro lavoro e la nostra vita. Per ottenere tutti i colori che ci circondano abbiamo però imparato a mescolarne tra loro alcuni che ne permettono l’ottenimento di altri. La riproduzione del colore può essere descritta attraverso le sintesi di riproduzione del colore che sono classificate, a seconda che si addizionino luci per l’ottenimento del colore (in tal caso si parte 6


dall’assenza di luci e si sommano poi luci colorate) o che si sottragga via via luce fino all’ottenimento del nero (in tal caso si parte dalla presenza di luce che via via è sottratta grazie all’azione dei pigmenti colorati), con i termini Additiva e Sottrattiva. Fino ad ora abbiamo parlato degli effetti della luce sul nostro sistema percettivo, senza mai portare in primo piano le importanti differenze esistenti tra la percezione di colori come risultato di luci provenienti direttamente da una sorgente luminosa e la percezione di colori come risultato di luci riflesse da superfici interposte tra una sorgente ed i nostri occhi. È ora il momento di considerare in dettaglio questa differenza, cominciando dai fenomeni legati alla prima delle due situazioni indicate. La visione dei colori dipende dall’azione combinata di tre tipi di coni presenti nell’occhio umano, diversamente eccitati dalle onde elettromagnetiche che compongono la luce. È possibile sperimentare che un’opportuna mescolanza di radiazioni di diversa lunghezza d’onda produce la visione del bianco: tale risultato è l’opposto di ciò che un prisma è in grado di fare, e cioè di scomporre un fascio di luce bianca solare nei colori dello spettro visibile grazie all’azione degli specchi in esso contenuti. Luci di differente lunghezza d’onda, se viste singolarmente, ci appaiono ciascuna colorata in modo diverso; se vengono però sommate assieme, assumono un colore bianco. Questo fenomeno viene definito come sintesi o mescolanza Additiva. La visione del bianco altro non è che l’energia composta da una uguale quantità di tutte le sue componenti, che si tramuta in una curva di emissione spettrale tendenzialmente orizzontale. Ai fini della creazione di un sistema affidabile per la generazione di colori ottenuti miscelando luci colorate, si ricorre solitamente all’uso di tre colori-base, che sono definiti primari. I primari utilizzati per riprodurre le tre rispettive luci primarie nei monitor (televisivi, dei computer) e nei sistemi di grafica digitale sono il rosso, il verde e il blu (RGB). Risulta interessante notare, però, che la terna dei cosiddetti colori primari è una scelta arbitraria dell’uomo e che non ha giustificazioni nella fisica o nella fisiologia dell’occhio. Una terna di colori primari, cioè, non esiste in natura. I tre tipi di coni presenti sulla retina hanno, ad esempio, il loro picco di sensibilità intorno alle frequenze del blu-violetto del verde e del giallo-verde, non in corrispondenza del rosso, del verde e del blu, e vengono stimolati tutti e tre (sia pure in modo diseguale), o almeno due su tre, dalla maggior parte delle frequenze visibili, a causa della relativa sovrapposizione della curva di sensibilità di ciascuno di essi. Ciò che ha radici nella fisiologia della visione è piuttosto: 1) il fatto che tre è il numero minimo di luci colorate che è necessario mescolare per ottenere una gamma di colori più o meno paragonabile alla ricchezza cromatica dello spettro

7


visibile ovvero il numero minimo di input per ottenere il numero massimo di output; 2) che il rosso, il verde e il blu sono colori prodotti da una forte eccitazione di uno solo dei tre tipi di coni e da una scarsa stimolazione degli altri due tipi, cosa che si accorda con la necessità di far corrispondere ai colori “primari” tre fonti di stimolazione luminosa il più possibile indipendenti l’una dall’altra e in grado, combinate tra loro, di provocare la massima eccitazione di tutti e tre i tipi di coni, fenomeno quest’ultimo che produce appunto la visione del bianco. La scelta di questi tre “primari” si paga però con il fatto che mescolanze uguali di rosso, di verde e di blu non producono esattamente il bianco, ma una sfumatura tendente al giallo: occorre aggiungere del blu al rosso primario – o aumentare la luminosità del blu - per ottenere il bianco. Di seguito (figura 1.8) viene rappresentato lo schema classico della sintesi Additiva. È l’effetto che si ottiene sovrapponendo tra loro tre raggi luminosi: uno verde, uno rosso e uno blu, opportunamente corretti in partenza nel modo poco sopra descritto. Un simile esperimento si può realizzare facilmente, usando tre sorgenti di luce bianca, ciascuna schermata con un filtro di uno dei tre colori qui considerati primari, e proiettando i tre raggi su una superficie neutra. Come si può vedere, al centro, dove i tre raggi si sovrappongono, appare il bianco. Dove, invece, si sovrappongono solo la luce rossa e quella verde, vediamo il giallo. Nella zona di sovrapposizione tra verde e blu, il colore percepito è il cyan (un celeste luminoso e molto saturo). Infine, là dove si mescolano il rosso e il blu, il colore percepito è il magenta.

(figura 1.8) Esempio della mescolanza Additiva Spaziale

Il tipo di mescolanza Additiva mostrata sopra è detto spaziale, perché l’effetto è prodotto dalla sovrapposizione di luci su una stessa porzione di spazio. Esistono però altri due tipi di sintesi Additiva: per media spaziale e per media temporale. La sintesi per media spaziale avviene quando delle luci di colore differente, molto ravvicinate tra loro, sono viste dall’occhio a una distanza tale 8


per cui non è più possibile scorgere le singole componenti: al loro posto appare invece un’unica macchia che assume una colorazione pari al risultato ottenibile miscelando i due colori. È questo appunto il principio adoperato da monitor e televisori, nei quali ogni punto visibile dello schermo è costituito da tre subpixel (elementi fotosensibili) molto ravvicinati tra loro, uno attivo nelle gradazioni del rosso, uno in quelle del blu ed uno in quelle del verde: l’occhio interpreta la loro vicinanza come un’unica stimolazione-somma, in grado di produrre la visione dei colori secondo le regole della mescolanza Additiva, che è il meccanismo naturale di funzionamento dei nostri recettori della retina. L’esempio che segue (figura 1.9) mostra una sintesi Additiva per media spaziale: il quadrato giallo-verde sulla destra è l’unione di molte migliaia di semi-quadrati rossi e verdi, come quelli – molto ingranditi – accostati nel quadrato sulla sinistra dell’immagine: i recettori della retina non sono in grado di separare le singole componenti di rosso e di verde quando esse sono molto piccole e ravvicinate, per cui vediamo un unico colore-somma che è l’effetto della loro mescolanza Additiva.

(figura 1.9) Esempio della sintesi Additiva per media spaziale

La sintesi Additiva può avvenire anche per media temporale. Essa si ottiene quando luci che ci appaiono di colore differente colpiscono lo stesso punto della retina in rapida successione (almeno 50 o 60 volte al secondo): quando il ritmo del loro alternarsi è sufficientemente elevato, i recettori della retina non sono più in grado di discriminare tra due sensazioni successive, che vengono quindi fuse nella percezione psicologica di un unico colore-somma. Nella figura seguente (figura 1.10) è mostrato un esempio di sintesi Additiva per media temporale: il disco rosso-verde (a sinistra), posto in rapida rotazione, viene percepito dall’osservatore come disco di colore giallo uniforme (a destra).

(figura 1.10) Schema della sintesi Additiva per media temporale 9


Se la luce che colpisce i recettori sulla retina non proviene direttamente da una sorgente, ma è riflessa da una superficie da essa illuminata, la percezione del colore avviene in base alle caratteristiche colorimetriche di quel supporto. Esse definiscono quali componenti (rossa, verde, blu) di un fascio di luce proveniente dall’ambiente circostante vengono assorbite e quali invece vengono trattenute determinando la visione. Tali risposte possono essere schematizzate tramite i grafici che riproducono le curve di riflessione. La combinazione delle componenti riflesse della luce da così origine al colore percepito dall’occhio umano. In questo caso si parla di sintesi o mescolanza Sottrattiva, in quanto il colore è determinato dalla “sottrazione” di una determinata componente all’ipotetica luce incidente bianca. Così, se una superficie illuminata da luce bianca è in grado di assorbirne solamente la componente blu, ci apparirà del colore risultate, secondo le regole già descritte della sintesi Additiva, dalla somma delle luci riflesse rimanenti. In questo caso, privando la luce bianca della sola componente blu, la somma delle componenti riflesse (luce verde con la rossa) produrrà come risultato la percezione del colore giallo. Lo stesso esempio vale per il cyan; una superficie ci appare tale in quanto, se colpita da luce bianca, è in grado di assorbirne solamente la componente rossa riflettendo quella verde e quella blu. Se sommate, le due luci riflesse danno origine al colore percepito. Infine, la superficie di color magenta (quella in basso) ci appare tale poiché è in grado di assorbire la componente verde di una ipotetica luce bianca illuminante, riflettendo invece le radiazioni blu e rosse. Tali radiazioni, combinandosi, danno origine al magenta percepito. Riporto qui di seguito (figura 1.11) uno schema che riproduce graficamente come tre superfici vengono percepite dal nostro occhio quando vengo illuminate da una luce bianca.

(figura 1.11)

Se consideriamo il fenomeno dalla parte della radiazione assorbita e non della radiazione riflessa, le superfici ci appaiono colorate in quanto sono in grado di sottrarre alla nostra visione una parte dello 10


spettro visibile. Mescolando tra loro in modo appropriato due pigmenti colorati, la tinta percepita dal nostro occhio corrisponderà a quella parte di luce riflessa da entrambi i pigmenti. Combinando quindi il cyan e il magenta, il nostro occhio percepirà il colore della luce che entrambi i pigmenti sono in grado di riflettere: la blu in quanto la verde viene assorbita dal cyan e la rossa dal magenta. Analogamente, infine, mescolando del cyan con del giallo vedremo il colore verde, mentre verranno assorbite le luci nello spettro del rosso e del blu. I tre colori di base utilizzati nell’esempio – il cyan, il giallo e il magenta – non sono stati scelti casualmente. Ciascuno di essi ha la proprietà di bloccare, cioè di sottrarre alla vista, uno dei colori primari della sintesi Additiva e di riflettere gli altri due. Cyan, giallo e magenta sono perciò considerati i colori primari della sintesi o mescolanza Sottrattiva, cioè di quella mescolanza di pigmenti che genera la visione di colori in dipendenza dal modo in cui essi riflettono la luce bianca. Come abbiamo avuto modo di constatare, la mescolanza di due primari qualsiasi della sintesi Sottrattiva genera uno dei primari della sintesi Additiva. Gli effetti della combinazione parziale o totale dei colori primari della sintesi Sottrattiva sono illustrati nello schema qui sotto (figura 1.12).

(figura 1.12) Schema della sintesi Sottrattiva.

È da notare che, mentre nella sintesi Additiva il colore ottenuto dalla combinazione dei tre primari è il bianco, nella sintesi Sottrattiva il colore risultante è il nero. Ciò si spiega facilmente: se ognuno dei primari della sintesi Sottrattiva ha il potere di assorbire un terzo differente della radiazione visibile, mescolandoli tutti e tre l’intero spettro visibile verrà assorbito e nessuna luce sarà riflessa verso l’osservatore. A questo punto risulta necessario un chiarimento molto importante. Dalle spiegazioni date fin qui,

11


potrebbe sembrare che le mescolanze di colori basate sulla sintesi Sottrattiva siano altrettanto prevedibili e definite di quelle basate sulla sintesi Additiva. In realtà non è affatto così. La mescolanza Sottrattiva reale, purtroppo, deve fare i conti con la natura materiale dei pigmenti e delle superfici utilizzati. Le curve di riflessione dei colori usati nella pittura, ad esempio, sono solo una lontana approssimazione delle curve di riflessione ideali che occorrerebbero per produrre gli effetti teorici descritti negli esempi precedenti. Nell’illustrazione successiva (figura 1.13) vengono poste a confronto le effettive risposte in RGB dei coni presenti nell’occhio umano, relativamente ai pigmenti effettivamente disponibili per i colori cyan, magenta e giallo, con le rispettive curve di riflessione ideali in sintesi additiva.

(figura 1.13)

I diagrammi appena esposti, frutto di letture spettrofotometriche, descrivono come i pigmenti color cyan riflettano la luce verde meno della blu e addirittura anche una certa quantità di luce rossa. La teoria vorrebbe, invece, il 100% di riflessione di luce verde e blu e lo 0% di riflessione di luce rossa. Analogamente il pigmento giallo considerato nella figura riflette la luce verde in misura minore di quella rossa (in luogo del 100% richiesto dalla teoria per entrambe) e riflette anche una notevole quantità di luce blu, che dovrebbe invece essere completamente assorbita. Quel che ne consegue da questa oggettiva differenza di comportamento tra i pigmenti realmente disponibili e le prescrizioni della teoria, è la progressiva perdita di saturazione (vivacità) risultante dalla mescolanza di pigmenti diversi. Nella mescolanza Sottrattiva, infatti, nessun colore ottenuto dalla combinazione di pigmenti può essere più saturo dei suoi componenti e, in generale, dei tre colori primari (cyan, magenta e giallo). Questo perché la saturazione è una caratteristica delle luci spettrali pure, che i colori della sintesi Sottrattiva conservano solo nella misura in cui rimangono 12


pure le luci che riflettono verso la retina. I pigmenti usati come colori primari nella sintesi Sottrattiva risentono di un difetto di saturazione, dovuto a curve di riflessione che non sono in grado di bloccare completamente una determinata lunghezza d’onda dello spettro visibile. Di conseguenza saranno meno saturi i colori risultanti dalla mescolanza di pigmenti diversi. Qui di seguito (figura 1.13) è illustrato il cosiddetto Saturation cost” (prezzo di saturazione) inteso come la quantità di saturazione, a cui si deve rinunciare nel caso in cui si voglia mescolare tra loro pigmenti differenti. Il cerchio rappresenta la gamma dei colori ottenibili mescolando i tre primari della sintesi Sottrattiva, mentre lungo la circonferenza sono stati posizionati i colori più saturi; a mano a mano che si procede verso il centro, occupato dal nero, i colori divengono sempre meno saturi e sempre più scuri. Il colore risultante dalla combinazione di due pigmenti posti sulla circonferenza, si troverà su una corda che attraversa la circonferenza nei due punti occupati dai colori utilizzati: da ciò deriva che, quanto più sono lontani sulla circonferenza i due colori utilizzati, tanto più vicino al centro, e perciò meno saturo e più scuro, sarà il colore risultante dalla loro combinazione. giallo giallo-arancio

giallo-verde

Punti di unione

media saturazione

bassa saturazione

linea di unione indica che i due colori sono complementari

alta saturazione maggiore è la distanza dal nero maggiore è il grado di saturazione

magenta

cyan (figura 1.14)

I due modelli della sintesi Additiva e Sottrattiva sono elementi fondamentali nella definizione colorimetrica, e nel comparto grafico editoriale hanno trovato larga applicazione. Si pensi ad esempio alla riproduzione di negativi e positivi pellicolari, oppure alle caratteristiche di misurazione dei densitometri (caratterizzati da filtri colorati).

13


Parte Seconda: Acquisire il documento originale. 2.1 Acquisizione Nell’era del digitale, dove le tradizionali pellicole fotosensibili ad alogenuri di argento sono quasi del tutto scomparse (i grossi produttori hanno chiuso definitivamente le linee di produzione e quindi di vendita), la prima questione da affrontare riguarda le modalità tramite le quali ottenere un file digitale adatto alla riproduzione del soggetto in oggetto. All’interno di un work-flow del tutto computerizzato, il file è il punto di partenza ed il cuore di tutto il processo, in quanto gli obsoleti processi analogici sono ormai parte integrante della storia, del tutto estinti e non sono in grado di garantire una qualità controllabile e ripetibile. Inoltre, una volta definito e riconosciuto valido il lavoro di preparazione, esso può essere Per la digitalizzazione di un originale, il tradizionale flusso di lavoro richiedeva tempi più lunghi e costi notevolmente più alti. Era necessario, infatti, fotografare il soggetto con una macchina analogica a pellicola; in questo modo, l’unico sistema per visualizzare la qualità della foto scattata era obbligatoriamente il passaggio tramite lo sviluppo della stessa. Per ottimizzare quindi tempi e costi, il fotografo, oltre che ad avere una grossa esperienza, si trovava costretto a realizzare più scatti variando i valori di setting della macchina (fuoco, esposizione, otturatore, diaframma), con l’intento di ottenerne almeno uno valido. Individuato lo scatto migliore, lo si digitalizzava tramite costose apparecchiature chiamate scanner a fotomoltiplicaori. Con l’avvento della fotografia digitale, il work-flow per la realizzazione di uno scatto è decisamente mutato; lo si esegue infatti tramite una fotocamera digitale, la quale permette di visualizzare quasi in tempo reale, la foto appena scattata, annullando completamente i tempi di sviluppo e i costi del materiale fotosensibile. L’ormai obsoleta pellicola in questi strumenti è stata sostituita con un sensore, un particolare dispositivo elettronico composto da un numero molto elevato di ricettori elettronici fotosensibili, capaci cioè di convertire la luce in un segnale elettrico. I sensori sono essenzialmente di due tipi, CCD1 e CMOS, e sono fabbricati con tecnologie sostanzialmente diverse. I sensori CCD utilizzano una tecnologia specificamente sviluppata per le telecamere e le fotocamere, mentre i sensori CMOS2 impiegano la tecnologia standard normalmente usata per i chip di memoria. I primi sensori CMOS erano caratterizzati da una qualità delle immagini decisamente scarsa ed erano impiegati solamente per gli apparecchi più economici. Attualmente però, la qualità delle immagini prodotte con i sensori di nuova generazione, come quelli impiegati nelle fotocamere reflex Canon Eos più recenti, è difficilmente distinguibile da quella prodotta da

14


apparecchi con sensori CCD di pari risoluzione. Entrambi i tipi di sensore sono sensibili alla luce di qualsiasi colore, si comportano cioè in modo simile a una pellicola fotografica monocromatica sensibile a tutta la gamma dei grigi. Per ottenere immagini a colori è necessario quindi sommare le immagini ottenute sovrapponendo al sensore filtri delle tre luci primarie della sintesi additiva (la rossa, la verde e la blu) in tre diversi momenti. È il concetto dei dorsi digitali a tre scatti i quali appunto, per comporre un’immagine a colori, incrociano le informazioni ottenute dalle tre differenti esposizioni realizzate con i tre diversi filtri anteposti all’obiettivo della fotocamera. Negli apparecchi a colori a scatto singolo il sensore è invece rivestito da un mosaico di minuscoli filtri dei colori primari (Bayer Mosaic), ciascuno dei quali ricopre un elemento fotosensibile. Nel settore della fotografia digitale il termine risoluzione è utilizzato un po’ impropriamente per indicare il numero complessivo di pixel di un sensore. Il parametro che più interessa è però la risoluzione delle immagini in dpi3 che è possibile ottenere e questo dipende dal formato finale di

__________________ 1

Il CCD (acronimo dall’inglese di Charge-Coupled Device) consiste in un circuito integrato formato da una riga, o da una griglia, di elementi semiconduttori in grado di accumulare una carica elettrica (charge) proporzionale all'intensità della radiazione elettromagnetica che li colpisce. Questi elementi sono accoppiati (coupled) in modo che ognuno di essi, sollecitato da un impulso elettrico, possa trasferire la propria carica ad un altro elemento adiacente. Inviando al dispositivo (device) una sequenza temporizzata di impulsi, si ottiene in uscita un segnale elettrico grazie al quale è possibile ricostruire la matrice dei pixel che compongono l'immagine proiettata sulla superficie del CCD stesso. Questa informazione può essere utilizzata direttamente nella sua forma analogica, per riprodurre l'immagine su di un monitor o per registrarla su supporti magnetici, oppure può essere convertita in formato digitale per l'immagazzinamento in file che ne garantiscano il riutilizzo futuro. 2 I sensori CMOS hanno numerosi vantaggi rispetto ai CCD tradizionali. Gli amplificatori di ogni pixel velocizzano notevolmente la ricezione del segnale da parte del processore. Sono evitati i trasferimenti non necessari delle cariche, per consumi ridotti e una maggiore durata delle batterie. Le prestazioni con livelli di rumore limitati fanno sì che anche alle alte sensibilità ISO risoluzione e qualità rimangano invariate. Il circuito on-chip riduce i disturbi random e i pattern fissi, per fotografare con una sensibilità ISO 6400 (equivalente). Un filtro passa-basso, posizionato davanti al sensore, elimina i falsi colori e l’effetto moiré che caratterizzano spesso le immagini in alta risoluzione. Una gamma più dinamica I pixel di grandi dimensioni dei sensori CMOS determinano una gamma più dinamica. Ciò significa che le immagini vantano contrasti e dettagli migliori nelle zone scure o particolarmente illuminate. Le piccole sfumature dei colori e della luce sono riprodotte con estrema precisione. Questi pixel inoltre reagiscono alla luce più efficacemente, e sono più sensibili in condizioni di scarsa luminosità. 3dpi = dot per inc (punti per pollice). Il significato assunto da questa parola è strettamente legato al concetto di risoluzione e dipende da vari fattori: il dispositivo (input o output) con cui si sta lavorando, la fase del processo grafico in cui si trova il lavoro (acquisizione, elaborazione, stampa). La risoluzione di input è una sorta di indice della qualità dell’immagine e della quantità di informazioni in essa contenute. A risoluzioni più alte corrisponde qualità superiore. In stampa, il concetto di risoluzione è legato al dispositivo di riproduzione che si utilizza (stampante laser, a getto di inchiostro, CTP). Per un’ottima qualità di stampa va tenuta in considerazione anche la frequenza della retinatura. Nella fase di output, il concetto indica la risoluzione necessaria e sufficiente che l’immagine deve avere per ottenere risultati adeguati sui dispositivi di stampa prescelti. Il calcolo è abbastanza immediato, complicato soltanto dal fatto che il valore in dpi è riferito all’unità di lunghezza anglosassone, il pollice che corrisponde a 2,54 cm.

15


stampa. La questione è molto semplice; in primis si deve definire che la risoluzione minima per la stampa di un libro che si legge da una distanza media di circa 45 cm è di 216 dpi e non di 300 dpi come si è sempre pensato. È il risultato di uno studio compiuto da un fotografo francese di nome Painter relativamente alla resa dell’immagine analogica in funzione di quella digitale. Studia quali caratteristiche deve avere un file immagine affinché dia la stessa sensazione di insieme rispetto ad una foto tradizionale. La ricerca porta, anche grazie a calcoli matematici, ad affermare che la risoluzione ottimale di un’immagine digitale stampata è tre volte quella della stessa immagine osservata per riflessione tramite un monitor (72 x 3 = 216). Quindi, se consideriamo un sensore da 10 megapixel (10 milioni di pixel presenti in un’immagine rettangolare catturata da una macchina distribuiti in circa 3800 pixel sulla base per 2600 pixel in altezza), per la stampa, potremo ottenere un un’immagine al massimo di 17,2x11,7 pollici (3800/221 = 17,2 e 2600/221 = 11,7 pollici) che equivalgono a 43,5x29,7 cm. Questo è l’unico limite delle fotocamere digitali, in quanto il trittico sensore-ottica dell’obiettivoilluminazione condiziona la qualità e le dimensioni massime del file riproducibile. Uno degli strumenti più utili per il controllo e l’elaborazione delle fotografie digitali è l’istogramma dei valori di luminosità delle tre luci primarie, la rappresentazione grafica della distribuzione di luminosità dei pixel che compongono l’immagine. L’istogramma si presenta come il profilo di una catena montuosa e l’altezza di ogni punto è determinata dal numero di pixel che hanno quel certo valore di luminosità, in genere crescente da sinistra verso destra, partendo dal nero per arrivare al bianco. Nel caso delle immagini a colori si avranno più istogrammi distinti, uno per ognuno dei tre colori primari. L’istogramma consente di valutare facilmente la correttezza dell’esposizione di una fotografia digitale (figura 2.1 - fugura 2.2 - figura 2.3). Una fotografia esposta più del necessario è spesso irrecuperabile in quanto la gamma tonale riprodotta presenta poche informazioni (troppo tendente al bianco). L’addensarsi dell’istogramma in corrispondenza dei valori più elevati evidenzia il fatto che tutte le sfumature più luminose di un certo valore sono state registrate come bianco, sono state cioè, in gergo tecnico, “bruciate”. Riducendo la luminosità dell’immagine, il bianco si trasforma in un grigio più o meno chiaro, ma i dettagli persi a causa dell’eccessiva esposizione sono comunque irrecuperabili. Partendo invece da un’immagine sottoesposta si può ottenere una fotografia con l’equilibrio tonale corretto e di buona qualità, utilizzando appositi strumenti e funzioni dei più celebri software di fotoritocco. L’istogramma relativo all’immagine così corretta non è però uniformemente popolato e il profilo mostra delle discontinuità, che nei casi più esagerati può evidenziarsi sotto forma di un

16


difetto di riduzione del numero di passaggi di sfumatura (posterizzazione). La maggior parte delle fotocamere digitali di un certo pregio, sia compatte che reflex, consente di visualizzare l’istogramma delle immagini registrate, facilitando cosÏ la corretta regolazione dell’esposizione, in maniera molto piÚ precisa di quanto sia possibile fare basandosi su quanto mostrato dal visore a colori.

(figura 2.1) istogramma chiaro

(figura 2.2) istogramma normale

17


(figura 2.3) istogramma scuro

A questo punto, dando per assodate la conoscenza di tutte le regolazioni che gli apparecchi digitali sono in grado di gestire in maniera automatica (tra le quali il calcolo del tempo di esposizione in funzione della luminosità, regolazione del fuoco) e tralasciando le considerazioni teoriche relative della tecnica di ripresa (messa a fuoco, profondità di campo, scelta dell’obiettivo, scelta del diaframma, etc.), è il momento di realizzare lo scatto e quindi l’acquisizione del file immagine. Le fotocamere digitali, tramite la luce che impressiona il sensore, trasformano il segnale analogico in digitale mediante un elaboratore. Le informazioni ricavate dallo scatto, vengo salvate in un formato proprietario universalmente riconosciuto dai costruttori: il RAW, un particolare metodo di memorizzazione dei dati descrittori di un'immagine. Ciò permette di non avere perdite di qualità nella registrazione su un qualsiasi supporto rispetto ai segnali catturati dal sensore e successivamente composti per interpolazione dal processore d’immagine della fotocamera nelle sue tre componenti fondamentali RGB (Red, Green, Blue). La denominazione RAW in questo ambito sta ad indicare che l'immagine catturata dal sensore CCD o CMOS della macchina fotografica viene registrata nella sua forma originaria, numerica, cioè dopo essere stata solo convertita da analogico a digitale, senza nessuna ulteriore elaborazione da parte della fotocamera. Nel formato RAW vengono registrati, quindi, i dati monocromatici grezzi indicanti l'informazione di intensità luminosa incidente sui singoli sensori di immagine sensibili alla componente rossa della luce (photodetector

18


R), sui singoli photodetector G (sensori per la componente verde) e sui singoli photodetector B (sensori per la componente blu). Dunque la registrazione in RAW dà la possibilità di catturare le immagini con una regolazione anche non ottimale di alcune impostazioni (esposizione, bilanciamento del bianco, etc.), in quanto la successiva elaborazione in studio (il corrispettivo della ormai scomparsa fase di sviluppo in camera oscura che è denominato sviluppo in camera chiara) consente di regolare questi parametri di ripresa mantenendo la qualità ai massimi livelli disponibili. Ma attenzione: profondità di campo e messa a fuoco devono essere ottimali in fase di ripresa perché la metodica RAW di registrazione non consente di ricostruire dettagli di immagine persi dall’ottica della fotocamera a causa, ad esempio, della mancata messa a fuoco della scena ripresa o di suoi singoli elementi.

19


Parte terza: Gestione del file. 3.1 Colour Management Definiti tutti i parametri relativi alla corretta gestione della fase di acquisizione dell’immagine, risulta necessario stabilire il cuore del nostro work-flow: il colour management. La teoria della gestione del colore si pone come obiettivo quello di mantenere la fedeltà cromatica dell’immagine con l’originale il più possibile, sia quando la si vede a monitor che, soprattutto, quando la si stampa (indipendentemente della periferica che si utilizzerà - stampate o macchina da stampa). Per gestione colore, quindi, si intende l’insieme di tutte le tecnologie sviluppate per giungere a questo risultato. Concetto fondamentale del colour management è il mantenimento della coerenza cromatica dell’immagine nei vari step del work-flow e nei passaggi da una periferica all’altra mediante l’utilizzo di profili di periferiche, intenti di rendering e algoritmi di conversione di colore. Il termine gestione non è da confondere con il termine correzione; le due operazioni, infatti, sono da considerarsi indipendenti e complementari. Prima si assicura il mantenimento dei colori, poi la possibilità di poterli modificare. Le periferiche di stampa trattano il colore mediante il concetto della sintesi sottrattiva (i 3 colori base più il nero di rinforzo), mentre le periferiche di cattura (scanner o fotocamere) trattano il colore mediante la sintesi additiva, sfruttando cioè la luce. Risulta logico pensare che, ad un certo momento del processo, sia necessaria una trasformazione, una conversione dei dati che consenta di passare da una descrizione numerica del colore generata da una terna di numeri (spazio colore RGB usato per descrivere la luce che ha generato l’acquisizione) ad una generata da quattro numeri (spazio colore Cmyk utilizzato dagli inchiostri di stampa). È in questa fase che si verificano i problemi maggiori in quanto non esiste un sistema di riproduzione del colore univoco; le variabili di stampa sono molteplici (inchiostri, supporti, sequenze dei colori stampati, attrezzature utilizzate), mentre il concetto di colore in senso lato è univoco (la luce bianca è luce bianca). Una stessa immagine può apparire diversa da un monitor ad un altro, da una stampa ad un’altra. In questo frangente si inserisce dunque la questione del colour management. Poniamo ad esempio di stampare un pieno di cyan (100%C - 0%M - 0%Y - 0%K). Sicuramente sarà un cyan ma, a seconda dei casi, si tratterà di una tonalità un po’ più rossastra, piuttosto che verdastra, e con livelli variabili di luminosità e saturazione. La causa risiede nelle varie tecnologie in gioco, nelle caratteristiche dei pigmenti e del supporto cartaceo. In sintesi, ogni periferica ha una propria personalità e produce (monitor o stampante) o legge (fotocamera o scanner) i colori in modo soggettivo. Questa diversità nella generazione e nella rappresentazione dei colori stampati è detta device dependent (dipende dalla periferica). Per questo motivo i valori delle periferiche vengono 20


definiti come “numeri” e non come “colori” (Rgb o Cmyk), utilizzando invece il termine “colore” per descrivere la nostra percezione e le coordinate colorimetriche (Lab) che la rappresentano. Solamente attribuendo un significato univoco ai numeri con i quali si definiscono i colori è possibile garantire la corrispondenza cromatica su tutti i dispositivi del flusso produttivo. Ciò si realizza stabilendo una correlazione tra valori Rgb o Cmyk e coordinate colorimetriche, che in un certo senso sono assolute e indipendenti da qualunque periferica. Mediante questa corrispondenza si possono così riprodurre gli stessi colori, questa volta individuati in modo univoco, mediante i singoli apparecchi. In altri termini, i modelli Rgb e Cmyk indicano ai dispositivi la quantità di colore da utilizzare, ma l’effettivo colore generato dipende poi dalle specificità della singola macchina. Il primo step richiesto dal colour management si definisce caratterizzazione. Caratterizzare significa definire la risposta in termini cromatici di una determinata periferica in una condizione ripetibile. È necessario cioè stabilire le sue caratteristiche, ossia rendere non ambigui i valori numerici relativi ai colori. Questa operazione si rende necessaria sin dalla cattura dell’immagine tramite la fotocamera e la si esegue fotografando, nelle condizioni di luce che verranno utilizzate per lo scatto definitivo, una tavola di colori dalle caratteristiche conosciute. Il target di riferimento è il ColorChecker di Gretag Macbeth (figura 3.1), un supporto contenente 24 tasselli colorati i quali, tramite la lettura colorimetrica e l’analisi di n software, permettono di determinare la differenza di colore presente tra il riferimento e il colore realmente fotografato .

(figura3.1) Gretag ColourChecker

Sulla base di questa differenza (valore espresso in ∆E) il software realizza il profilo descrivendo le caratteristiche del device di input. Questa tabella non riporta tutte le combinazioni Rgb ottenibili, ma il minimo necessario affinché l’algoritmo presente nel software generi con ottima precisione il 21


profilo ICC. Tale profilo servirà ai vari software di gestione e di trattamento delle immagini come indicazione; tale indicazione verrà opportunamente utilizzata per eseguire una prima trasformazione colorimetrica dell’immagine compensando le differenze causate dall’attrezzatura. Esso infatti è costituito da una serie di numeri, di indicazioni che descrivono oggettivamente le caratteristiche di un dato dispositivo. Arrivati a questo punto è possibile eseguire lo scatto digitale, allegando successivamente (tramite l’assegnazione del profilo precedentemente calcolato) le caratteristiche della fotocamera che lo ha realizzato. Disponiamo così di un file digitale in alta risoluzione in grado di corrispondere alla realtà. La perfezione, però, la si ottiene solamente dopo l’ulteriore intervenento sul file apportando una serie di modifiche mediante un software di trattamento delle immagini (esempio Adobe Photoshop). Sorge quindi un secondo problema: il dispositivo tramite il quale si osserva la foto (il monitor) ha una buona fedeltà nella rispondenza cromatica? La risposta è molto semplice: non lo si può sapere! È prima necessario eseguire la sua caratterizzazione, conoscere cioè le sue caratteristiche colorimetriche definendo una condizione di ripetibilità, ottenibile in qualsiasi momento, necessaria per poter quindi valutare ciò che i nostri occhi stanno osservando. Concettualmente, la caratterizzazione avviene sempre nello stesso modo: si riproducono dei tasselli colorati con caratteristiche cromatiche conosciute e li si legge tramite un dispositivo (il colorimetro) in grado di interpretarli. Come si è fatto per la fotocamera, prima di rilevare le caratteristiche del monitor (realizzazione del profilo) è necessario regolare le posizioni di tutti i controlli che influiscono sul colore (comandi di luminosità e contrasto) cercando di ottenere un risultato ripetibile.

(figura3.2) esempio di colorimentro per monitor 22


Si procede quindi con l’analisi della risposta cromatica tramite il colorimetro (figura 3.2) il quale rileva le radiazioni emesse dal monitor trasformandole poi in coordinate Lab4 (metodo univoco per descrivere il colore) tutti i colori proposti, determinando il relativo profilo di caratterizzazione. Questo concetto di caratterizzazione è applicabile a qualsiasi dispositivo; deve quindi essere eseguito, al fine di conoscere le relative caratteristiche, anche alla stampante e alla macchina da stampa. Per quest’ultima l’operazione è più complessa in quanto le variabili da tenere sotto controllo sono molteplici e tutte vanno calibrate in modo tale da garantire la ipetibilità di stampa, condizione necessaria per procedere ad un flusso di lavoro di questo tipo. Regolati tutti i parametri, è necessario stampare una tavola riportante una serie di tasselli colorati (con caratteristiche colorimetriche note e ben definite) che successivamente dovranno essere letti tramite un apposito strumento chiamato spettrofotometro. La figura 3.3 riporta un esempio di target di riferimento per eseguire le letture che daranno origine poi al profilo colore.

(figura3.3) esempio di target sul quale effettuare la lettura spettrofotometrica

__________________ 4Questi

concetti sono stati analizzati ed un metodo univoco per rappresentare e classificare i colori, inserendoli all’interno di uno spazio colore tridimensionale chiamato. Il Lab è una rappresentazione dello colore elaborata nel 1976 dalla CIE, una commissione internazionale che per anni ha studiato il colore. Esso viene qui rappresentato come una sfera, all’interno della quale ci si può muovere tramite le coordinate tridimensionali L (asse verticale, relativo alla luminosità con valori che vanno dallo 0, per esprimere l’assenza di luce, al 100 per descrivere il bianco), a (asse orizzontale relativo al magenta e al verde, suo complementare, con valori che vanno da +100 a -100) e b (altro asse orizzontale relativo al giallo e al suo complementare blu con valori che vanno da +100 a -100). 23


Sulla base dei dati ottenuti, con il software di profilazione viene calcolato il profilo di quella data macchina da stampa che ha stampato la test-chart in condizioni di stampa conosciute. Le fabbriche di carta, hanno a listino diverse tipologie di materiali i quali presentano differenti caratteristiche superficiali. Ogni supporto va quindi caratterizzato in quanto, pur mantenendo costanti determinate variabili relative al processo fisico di trasferimento dell’inchiostro, i pigmenti colorati reagiscono in modo differente in funzione a dove si depositano. Poniamo il caso di dover riprodurre in stampa un acciaio; a seconda del colore della carta, l’effetto di cromatura verrà valorizzata in modo differente assumendo dominanti differenti a causa della mancanza di inchiostro nelle zone relative ai colpi di luce e ai riflessi chiari. Medesima procedura va applicata al sistema con il quale verrà realizzata la prova colore, una simulazione digitale del risultato che avverrà in stampa e sulla base del quale, si deciderà di intervenire sull’immagine qualora, una volta completato il flusso di lavoro, il risultato non sia consono all’originale. Lo scopo della prova colore, è quindi quello di simulare in tutto e per tutto, il risultato finale con un notevole risparmio in termini economici e riduzione del rischio di errore. Una simulazione è tale se è in grado di riprodurre fedelmente l’originale (nel nostro caso la stampa). In base al risultato ottenuto con la prova colore, si deciderà se apportare delle correzioni alle immagini al fine di affinare ulteriormente la qualità della riproduzione. Considerato il fatto che le tecniche di stampa sono differenti, per ottenere un buon risultato, risulta necessaria una caratterizzazione dell’attrezzatura; è d’obbligo la conoscenza delle sue potenzialità e dei suoi limiti cromatici per poterla allineare al risultato cromatico finale. Come per la macchina da stampa, anche per la prova di stampa è necessario stampare la tavola (figura 3.4) contenente i tasselli colorati utilizzati per la realizzazione del relativo profilo. L’unico modo per poter creare una situazione di ripetibilità è tramite la calibrazione dell’apparecchiatura, termine con il quale ci si riferisce ad un insieme di operazioni mediante le quali l’attrezzatura è in grado di garantire appunto una ripetibilità nel risultato finale.

(figura3.4) esempio di una forma test da stampare

24


Si utilizza il grigio come riferimento in quanto è l’unico “strumento” in quanto consente una ripetibilità nella calibrazione intesa come perfetto equilibrio di utilizzo dei vari colori. A questo punto è possibile procedere con la caratterizzazione dell’attrezzatura, operazione che culmina con la realizzazione del profilo. In questo modo sono stati calcolati i Gamut di ogni strumento che interviene nel processo di riproduzione di un originale, inteso come l’insieme dei colori che un’attrezzatura è in grado di riprodurre. Viene espresso con una percentuale riferita allo spettro di tutti i colori visibili da un osservatore medio ed è schematizzato graficamente mediante l’inscrizione di una forma all’interno della rappresentazione dello spazio colore Cie19315.

(figura3.5) gamut appartenenti a diversi dispositivi

Negli schemi sopra riportati sono stati esemplificati quattro diversi gamut; in essi si può notare come cambino in base alle diverse caratteristiche dei vari dispositivi; è altresì evidente che non tutti i colori visibili dall’occhio umano sono riproducibili dalle attrezzature. Rimane quindi fondamentale identificare l’”ultimo gamut” del flusso di lavoro, in funzione del quale verranno adattate tutte le fasi del work-flow. Nel nostro caso, considerata la riproduzione in macchina da stampa dell’opera d’arte, sarà necessario lavorare in funzione dello spazio colore dell’attrezzatura che verrà utilizzata adattata al supporto scelto. Considerato il fatto che il monitor lavora con la luce (quindi Rgb), mentre la macchina da stampa lavora con gli inchiostri stampati, lo spazio colore

__________________ 5Sistema

di descrizione grafica del colore elaborato dalla CIE basato sulle coordinate xyY sostituito

successivamente dal Lab. Consta in un diagramma cartesiano ad un quadrante nel quale ci si sposta sulle coordinate x e y, mentre con la Y viene rappresentata la terza dimensione relativa alla luminosità. Ad una determinata coppia di valori sarà posizionato il neutro.

25


riproducibile con un monitor sarà sicuramente più ampio di quello ottenibile per sintesi sottrattiva in stampa. Tutti i pixel dell’immagine con colori al di fuori del gamut di destinazione non possono essere riprodotti; per ovviare a questo, risulta necessario sostituire tale colore con il colore esistente (riproducibile) che presenta le caratteristiche colorimetriche più simili. Questo comporta una inevitabile rinuncia alla corrispondenza precisa optando per un’approssimazione ragionevole. Ciò non può essere fatto a caso, ma in modo ponderato: dipende dall’effetto che si desidera ottenere. Si parla quindi di intenti di rendering come quei criteri di “approssimazione ragionevole” e sono raggruppabili in due grandi famiglie: ad una appartengono gli intenti che mantengono le coordinate colorimetriche (per i colori in gamut ed eventualmente dopo un adattamento cromatico), ovvero il colorimetrico assoluto e relativo; all’altra appartengono gli intenti che operano trasformazioni di gamut (gamut mapping) con l’obiettivo di modificare l’apparenza del colore in base a varie esigenze (per esempio, per rendere almeno piacevole la stampa di una fotografia in cui non è possibile riprodurre tutti i colori catturati), ovvero gli intenti di rendering percettivo e saturazione. Gli intenti del primo gruppo sono più adatti quando la conversione è da un gamut piccolo ad uno più grande, quelli del secondo gruppo sono più opportuni nella situazione opposta. Il software che esegue il calcolo della conversione del colore da un profilo di origine a un profilo di destinazione, mediante un determinato intento di rendering, è detto motore di colore (color engine oppure color management method oppure color management module, in ogni caso abbreviato con Cmm). Un profilo Icc può essere scritto in termini di spazio colorimetrico; oltre a questo, il color engine è responsabile: • della creazione e del calcolo delle trasformazioni di colore; • dell’implementazione di eventuali intenti non compresi nelle tabelle (colorimetrico assoluto a partire da colorimetrico relativo; compensazione del punto di nero); • dell’interpolazione nelle tabelle; • dei calcoli e degli arrotondamenti; • della conversione tra i diversi spazi colorimetrici. 3.2 Tecnologie di gestione del colore a confronto Per una corretta gestione del flusso di lavoro basato sui profili colore, gli elementi necessari alla conversione del colore sono essenzialmente quattro: • profilo di origine; • profilo di destinazione; 26


• intento di rendering (metodo per eseguire la trasformazione); • motore di colore (software che esegue il calcolo della trasformazione). Se una conversione di colore non desse i risultati attesi la causa primaria potrebbe essere una forte differenza tra i due gamut (molti colori del gamut di origine sono esterni al gamut di destinazione). Altrimenti potrebbe risiedere in uno dei quattro elementi indicati in precedenza: un profilo di origine o di destinazione scorretto, la scelta di un intento di rendering non adeguato, un errato funzionamento del motore di colore. La creazione effettiva di un profilo Icc avviene in tre passaggi: calibrazione, caratterizzazione e profilazione. Queste tre fasi sono spesso collegate e sono viste dall’utente come un unico procedimento. Calibrare significa portare la periferica in uno stato noto e misurabile. Caratterizzare significa registrare in una tabella il comportamento della periferica calibrata. Profilare significa costruire il profilo a partire dalla tabella di caratterizzazione. Per fare un paragone, si potrebbe dire che la creazione di un profilo è come fotografare una persona: calibrare corrisponde a metterla in posa, caratterizzare equivale a scattare la fotografia e profilare è analogo a stampare l’immagine. Il presupposto per la creazione e l’uso di un profilo è la stabilità della periferica nello stato di calibrazione e la possibilità di esservi ricondotta in caso di alterazione. A questo punto, si ha la quasi certezza che ciò che si vede a monitor possa corrisponde cromaticamente a quello che la stampate per la prova colore sarà in grado di riprodurre, e quanto stampato mediante la prova colore corrisponderà al risultato finale. Non rimane quindi che eseguire tutti gli interventi che l’occhio umano di un professionista del colore riterrà opportuno apportare.

27


Parte Quarta. La realizzazione della stampa 4.1 Il supporto. Prima di procedere alla stampa, risultano obbligatorie alcune considerazioni relative al supporto, quale strumento in grado di influenzare notevolmente il risultato finale. Indubbiamente, il materiale più adatto alla riproduzione di un’opera d’arte è la carta in quanto meglio si presta al procedimento di stampa offset, tecnologia che meglio garantisce un risultato di qualità. La carta è un materiale costituito da materie prime fibrose, generalmente vegetali, unite per feltrazione (fenomeno che consiste nella salda unione reciproca delle fibre cellulosiche da una sospensione) ed essiccate. A seconda dell'uso a cui è destinata, alla carta possono essere aggiunti collanti, cariche minerali, coloranti ed additivi diversi. Il materiale più comunemente usato per la sua fabbricazione è la polpa di legno o di cellulosa, solitamente ricavata da legno tenero come per esempio l’abete o il pioppo. A seconda degli usi è possibile utilizzare anche altre fibre quali il cotone, lino, la canapa, oltre che, ovviamente, a quelle ricavate dalla carta riciclata. L’idoneità ad un determinato sistema di stampa è assicurata dall’impostazione del tipo di carta e dalla tecnologia di fabbricazione. Ogni tipo di carta cioè, viene impostato e fabbricato in modo tale da acquistare caratteristiche e proprietà idonee a soddisfare sia tutte le esigenze tecniche, economiche e funzionali del sistema con il quale verrà stampato, sia tutte le esigenze delle operazioni con le quali la carta, dopo la stampa, sarà trasformata in prodotto finito (libri, riviste, quotidiani, etc.). La classificazione delle carte passa attraverso un’analisi in termini di macchinabilità, di inchiostrabilità e di evidenziabilità dell’immagine. Con il termine macchinabilità ci si riferisce al comportamento fisico-meccanico del foglio (o della bobina di carta) nella macchina da stampa ed è determinata fondamentalmente dalle caratteristiche fisico-meccaniche della carta. Una buona macchinabilità significherà quindi assenza di stampa fuori registro (perfetta sovrapposizione dei colori tra loro), inconvenienti meccanici, rotture, accartocciamenti, grinze, strappo superficiale, ecc. Il supporto quindi va analizzato in base alla sua trasparenza se posto di fronte ad una sorgente luminosa (speratura), in base alla direzione delle fibre che ne determina la resistenza alla trazione e la rigidità, in base alle variazioni dimensionali che esso può subire a causa delle condizioni di umidità dell’ambiente circostante che ne determinano la sua planarità e la sua tendenza allo spolvero causata dalla presenza in superficie di particelle e frammenti di fibra che si distaccano per azione di sfregamento durante la fase di stampa. È l’aspetto che può interessare maggiormente le carte utilizzate per la stampa su macchine rotative.

28


L’aspetto della stampabilità rappresenta l’idoneità della carta a ricevere e a stabilizzare l’inchiostro sulla sua superficie senza dar luogo a difetti nella riproduzione. Si parla dunque di inchiostrabilità in quanto questa caratteristica è direttamente legata alle caratteristiche superficiali e chimiche della carta, quali il grado di liscio, l’assorbenza e il tipo di struttura porosa che assieme determinano direttamente la ricettività, l’immobilizzazione e la stabilizzazione dell’inchiostro, e il pH superficiale che agevola l’azione fondamentale dell’acqua nella fase di stampa. L’evidenziabilità d’immagine si riferisce a quelle caratteristiche della carta che, pur senza influire sul suo comportamento all’atto della stampa, sono in grado di modificare le qualità estetiche dell’immagine riprodotta; una buona evidenziabilità d’immagine si riferirà al fatto che il supporto è dotato di caratteristiche, principalmente ottiche, in grado di conferire all’immagine stampata nitidezza e contrasto, tali da attenuare o impedire fenomeni di visibilità dell’immagine stessa sul retro del foglio. A tal proposito, la valutazione del supporto avviene attraverso l’analisi del grado di bianco (il “colore” che risulta obbligatorio considerare durante la fase di colour management), la sua opacità (necessaria per impedire il trapasso dell’inchiostro verso il retro del foglio che penalizzerebbe il risultato) e il grado di lucido che è in grado di modificare il contrasto dell’immagine stampata. È opportuno sottolineare l’importanza che riveste l’uniformità di ciascuna caratteristica ai fini della qualità di stampa; entro certi limiti si potranno in effetti modificare le condizioni di stampa per adattarle al tipo di carta, a patto che le caratteristiche della carta stessa risultino uniformi: la variazione di tali caratteristiche nel corso di una tiratura comporterà inevitabilmente alterazioni dell’uniformità del livello qualitativo ottenibile nella riproduzione di un dato originale. Alla luce delle considerazioni fatte, le carte da stampa possono essere racchiuse in tre diverse famiglie, ognuna delle quali è adatta a determinati utilizzi ed è in grado di offrire risultati qualitativamente differenti: naturali, patinate (lucide, semi-matt e matt), carte speciali (colorate, gofrate, lavorate, perlate etc.). La tipologia che meglio si presta ad una fedele e duttile riproduzione è senza dubbio quella delle carte patinate. Queste carte sono costituite essenzialmente da un supporto fibroso ricoperto da un sottile strato di materiale costituito da un pigmento minerale bianco le cui particelle sono unite tra loro e ancorate al supporto per mezzo di un legante organico naturale o sintetico. In questo modo si da origine ad una struttura superficiale meno discontinua di quella della carta naturale la quale è caratterizzata prevalentemente da pori di dimensioni molto piccole. Lo strato di patina applicato conferisce al supporto valori elevati sia di bianco che di opacità, e allo stesso tempo migliora notevolmente gli indici relativi al grado di lucido e al grado di liscio.

29


4.2 La realizzazione delle matrici per la stampa Ipotizzato il fatto che la riproduzione dovrà avvenire non con una tiratura elevata ma bensì con una qualità e un’affidabilità cromatica di una certa levatura, il procedimento di stampa più adeguato, come già accennato, è senza dubbio quello offset a foglio. Questa scelta è dettata dal fatto che utilizzare macchine più grandi (magari web) comporta una spesa maggiore che si giustifica solamente con un’elevata tiratura e una richiesta di una qualità mediocre. Le macchine web infatti, viste le alte velocità di stampa, devono necessariamente utilizzare carte ed inchiostri trattati, nonché lineature più basse; tutti fattori necessari per sostenere velocità di un certo tipo. Pensiamo alle riviste periodiche. Definiamo la stampa come il trasferimento di una certa dose di inchiostro da una matrice ad un supporto adatto a riceverlo, in una determinata posizione, con una certa concentrazione, in modo ripetibile e con una determinata velocità. In tutti i procedimenti di stampa quindi sono presenti una matrice, l’inchiostro (o un elemento che ne fa le veci) e un supporto. Pensiamo ad un timbro: la parte in gomma che impugniamo è la matrice, l’inchiostro è il mezzo che permetterà la riproduzione della matrice e la carta è il supporto che accoglierà la stampa. Il procedimento planografico offset è così chiamato in quanto la sua matrice è costituita da una lastra di alluminio presensibilizzato nella quale le zone che rappresentano la figura o il testo che devono essere riprodotti (i grafismi) e le zone che non devono invece stampare (i contrografismi) sono allo stesso livello. Le zone stampanti sono lipofile, mentre i contrografismi sono idrofili (affini all’acqua). Gli inchiostri utilizzati per questo tipo di stampa sono a base grassa e l’inchiostrazione della matrice offset è resa possibile grazie ad una sua preventiva bagnatura; l’acqua si fermerà nelle zone idrofile e non si soffermerà invece nelle zone lipofile, consentendo all’inchiostro di depositarsi solamente nelle zone asciutte. Il risultato ottenuto sarà una lastra di metallo umida in alcune zone ed inchiostrata in altre. Il trasferimento dell’inchiostro dalla lastra così inchiostrata non avviene direttamente sul supporto ma indirettamente: l’inchiostro viene “stampato” dalla matrice ad un cilindro ricoperto da uno strato di gomma (caucciù) che, a sua volta, lo passa direttamente sul supporto. Questo strumento intermedio permette di non trasferire sul supporto l’acqua utilizzata per inchiostrare la lastra (sebbene in parte venga trasferita sotto forma di umidità). Inoltre, il passaggio intermedio consente di utilizzare delle matrici a lettura diritta e non rovescia tipiche dei procedimenti di stampa diretti (tipografia, serigrafia, flexografia, rotocalcografia) che permettono analizzare facilmente il contenuto di quanto è stato impressionato, fornendo un’ulteriore possibilità di controllo. Una lettura diritta infatti è di certo meno ardua rispetto ad una speculare. Infine, le sue doti di comprimibilità gli permettono di adattarsi a supporti diversi aumentandone la duttilità. 30


La matrice per la stampa offset è costituita da un laminato di alluminio sul quale viene steso uno strato di colloide fotosensibile. La scrittura delle matrici offset avviene per mezzo di un laser che illumina la lastra in determinate zone (i grafismi), tralasciando quelle che invece dovranno accogliere l’acqua. Una volta esposta alla luce del laser, come avveniva per le pellicole nelle macchine fotografiche, la lastra subisce un ciclo di sviluppo, che ha lo scopo di separare le zone idrofile da quelle lipofile. In questa fase molto delicata del processo, i fattori da considerare e da gestire sono molteplici: uno solo di questi è in grado di compromettere la qualità del risultato finale riscontrabile solamente all’uscita del foglio stampato dalla macchina da stampa. L’obiettivo, però, rimane quello di trovare una strada che permetta di fornire le indicazioni necessarie al raggiungimento dello standard qualitativo ripetibile. Frequenti controlli vengono eseguiti sia sulle lastre, sia sul laser, sia sui liquidi di sviluppo. Si è reso necessario trovare il modo di linearizzare anche questa fase del “work-flow” eseguendo la scrittura di una scaletta di controllo sulla matrice (figura 4.1), sul cui risultato è possibile verificare le potenzialità del laser e le risposte dei liquidi. Qualora la scaletta fornisse informazioni non conformi allo standard qualitativo previsto, si provvederà all’analisi delle motivazioni che hanno portato a questa mancanza.

(figura 4.1) esempio di scala di controllo per lastre

Riscontrate le condizioni ottimali del dispositivo, si procede alla realizzazione delle lastre necessarie alla stampa, una per ogni inchiostro previsto. 4.3 Gli inchiostri In termini generali, l’inchiostro è una sostanza nella quale convivono in quantità differenti tre tipologie di elementi: una sostanza colorante, il veicolo o vernice e gli additivi. 31


Le sostanze coloranti, che conferiscono il proprio colore all’inchiostro, sono classificabili in due categorie: i pigmenti (organici o inorganici, insolubili) e i coloranti (organici e solubili). Le qualità richieste alle sostanze coloranti sono molteplici: tonalità e forza colorante, coprenza o trasparenza, insolubilità nel veicolo (per i pigmenti), insolubilità

nel veicolo (per i coloranti), resistenze

specifiche (alla luce, agli agenti chimici, ecc.). Per veicolo si intende la parte fluida dell’inchiostro che tiene in sospensione il pigmento o soluzione colorante. La sua principale funzione è quella di rendere possibile il rasferimento della sostanza colorante al supporto, fissandola saldamente allo stesso. È un fluido viscoso, risultante dall’unione di una parte solida e di una parte liquida, composta di olio minerale e vegetale, solvente e plastificante. Gli additivi, come dice la parola stessa, sono sostanze ausiliarie, il cui compito è quello di migliorare l’inchiostro o di attribuirgli determinate caratteristiche. Possono essere essicanti (ne aumentano la velocità di reazione), cere (aumentano la resistenza allo sfregamento), plastificanti (rendono flessibile la pellicola di inchiostro secco), amidi e composti al silicio (per ridurre il fenomeno della controstampa), addensanti (favoriscono l’aumento della viscosità) o diluenti (diminuiscono la viscosità). In tutte quelle situazioni nelle quali la carta stampata è esposta a frequente illuminazione (manifesti, pack e altro) la resa tonale dell’inchiostro subisce un mutamento. Negli inchiostri si parla quindi di resistenza alla luce quando si vuole definire il livello di resistenza o di mantenimento delle caratteristiche del pigmento in essi contenuti. Un altro aspetto da non sottovalutare è dato dal fenomeno del metamerismo, un effetto dovuto alla differenza fra i componenti coloranti del campione standard e i pigmenti usati nell’inchiostro. Due colori metamerici sono simili, ma possono apparire diversi a causa delle diverse curve nello spettro di riflettanza. I vari tipi di metamerismo si possono così riassumere: • dovuto a sorgenti di luce differente ossia due colori possono apparire uguali se osservati sotto una determinata fonte luminosa e differenti se osservati sotto un’altra fonte luminosa; • dovuto al punto di osservazione. Due colori possono sembrare simili da un osservatore e differenti da un altro; • dovuto ad effetto geometrico. Due colori presumibilmente uguali possono invece apparire diversi solamente cambiando l’angolo di illuminazione. Abbiamo analizzato e specificato come il gamut del sistema di stampa sia limitato rispetto allo spettro del visibile. Per riprodurre determinati colori al di fuori della gamma riproducibile con la quaterna tradizionale di stampa (cyan, magenta, giallo e nero), i fabbricanti di inchiostro hanno 32


redatto una serie di inchiostri definiti “speciali” utilizzando pigmenti diversi creando una gamma sterminata di possibilità. È in questo settore che si inserisce quello tra loro più famoso (Pantonte) che per primo ha stabilito una regola e una classificazione codificata di soluzioni speciali corredata dalla ricetta di fabbricazione. Le caratteristiche principali dell’inchiostro offset sono: Il tiro. Il tiro è una proprietà inerente alla natura degli inchiostri ed esprime la resistenza della pellicola di inchiostro a rompersi in direzioni opposte. Risulta necessario per mantenere aperto il retino delle illustrazioni, in modo tale da permettere la massima densità di stampa e al medesimo tempo la massima nitidezza. Quando il tiro dell’inchiostro è più elevato della resistenza alla trazione della superficie della carta, si produce lo strappo. • La trasferenza. È la proprietà che deve avere l’inchiostro per passare dalla lastra al supporto da stampare. La trasferenza dell’inchiostro dal calamaio e dalla lastra al supporto da stampare dipende da una serie di elementi quali: • La superficie e l’insieme delle composizioni della carta (porosità, compressibilità, lisciatura, ecc.). La viscosità dell’inchiostro dev’essere in rapporto con la porosità della carta per favorire la trasferenza. Generalmente, diminuendo la viscosità e di conseguenza la consistenza, aumenta la trasferenza dell’inchiostro e nella misura in cui questa diminuisce si favorisce la penetrazione immediata nel supporto. • Tipo e condizione del caucciù. • Pressione: il suo aumento corrisponde alla riduzione della lunghezza delle fibre della carta che a sua volta produce un allargamento del loro diametro; così l’inchiostro è maggiormente forzato a penetrare nei pori della carta. • Velocità e diametro dei cilindri della macchina: maggiore è la velocità, minore è il tempo di contatto; più breve è il contatto, più bassa sarà la quantità di inchiostro che penetrerà nella carta. 4.4 Essiccamento dell’inchiostro. Essenzialmente, il processo di essiccamento di un inchiostro altro non è che la trasformazione di un liquido in un solido. Alcuni oli che si impiegano nelle fabbricazioni degli inchiostri hanno la proprietà di ossidarsi a contatto con l’aria. Gli essiccanti che si aggiungono agli inchiostri possono essere liquidi o in pasta. I metalli risultati più efficaci sono il cobalto, il manganese e il piombo.

33


Il cobalto favorisce l’essiccamento superficiale della pellicola dell’inchiostro; il manganese e il piombo agiscono principalmente in profondità. Stabilire la percentuale di aggiunta degli essiccanti è difficile, dato che la quantità che di solito si aggiunge agli inchiostri è molto piccola. Oltrepassando certi limiti, non solo la sua azione è nulla, ma si produce sulla carta un effetto contrario, cioè l’essiccamento viene ritardato. I fattori che possono influire sull’essiccamento degli inchiostri possono così essere così classificati: • La temperatura. Un aumento di 10°C della temperatura riduce della metà il tempo di essiccazione. • L’acidità della carta, che può arrivare ad annullare l’attività degli essiccanti se il valore del pH scende oltre il 4,5. Ad esempio, il medesimo inchiostro sopra una carta che presenta un valore di pH pari a 7 essicca in quattro ore circa; se la stessa carta avesse invece un valore di pH pari a 4 essiccherebbe in circa novanta ore. • L’umidità dell’ambiente. Un alto valore di umidità dell’ambiente riempie i pori della carta impedendo l’azione di penetrazione da parte dell’inchiostro. Se si sommano gli effetti dei due fattori, basso valore di pH e alto valore di umidità, i risultati per l’essiccamento risultano disastrosi. • L’acidità dell’acqua di bagnatura. Nel depositarsi sulla carta si comporta come una carta acida causando problemi di essicumanto. • Emulsione acqua-inchiostro nei rulli inchiostratori, che in condizioni normali può arrivare a un contenuto di acqua del 30%. Se l’acqua è acida, nell’emulsionarsi con l’inchiostro ritarderà notevolmente l’essiccamento. Considerare tutti questi fattori non è cosa semplice nel momento in cui si prepara l’inchiostro. Bisognerà procedere con giusto metodo, preparando l’inchiostro secondo le necessità dello stampato che si dovrà eseguire, dando ad esso le qualità necessarie in termini di tonalità, di essiccabilità e di consistenza. La tonalità viene indicata dal campione che si deve imitare, mentre risulta più difficile stabilire con precisione sia il grado di essiccabilità che soprattutto la consistenza. Le norme generali per evitare (o circoscrivere) queste problematiche sono: • usare inchiostri sempre ben concentrati; • usare essiccanti con molta parsimonia; • limitare l’uso degli additivi, usandoli solo in caso di estrema necessità; • non mescolare inchiostri troppo diversi tra loro per composizione, natura chimica e fabbricazione. Bisogna inoltre tener presente: • se il lavoro da stampare è a mezzatinta o a tinta piena; 34


• se le masse piene da stampare sono grandi o piccole; • se la retinatura delle illustrazioni è fine o meno; • se la carta è liscia, ruvida o patinata; • quanto intervallo di tempo intercorrerà tra la tiratura del primo colore e quella dei successivi; • la forza dell’inchiostrazione; • il tipo di lastra che stiamo usando; • la temperatura dell’ambiente stampa e la stagione. L’inchiostro conviene che sia piuttosto consistente; all’occorrenza lo si diluisce mediante aggiunte di appositi emollienti. 4.5 Il controllo e le possibili variazioni del “puntino” nella stampa. Il trasporto fedele dell’immagine dalla lastra alla carta è, senza dubbio, il risultato che ogni macchinista intende raggiungere. Gli elementi che possono variare la riproduzione del retino (punto stampa) si riscontrano quindi nelle fasi successive di lavorazione. La reazione del puntino è particolarmente condizionata dai seguenti fattori: • sistema di inchiostrazione: diametri e posizione dei rulli macinatori e inchiostratori; • scompensi fra acqua e inchiostro: valori PH del liquido di bagnatura e tipo e qualità degli inchiostri; • pressione di stampa: forte o leggera e dallo sviluppo dei diametri dei cilindri e loro rivestimenti; • tipo di caucciù: comprimibile o no; • temperatura e igrometria della sala di stampa; • tipo e natura della carta su cui si stampa; Qui di seguito si elencano i principali fenomeni che determinano la variazione del puntino ed i suggerimenti allo stampatore: Schiacciamento. Per schiacciamento di intende un aumento delle dimensioni del punto di retino stampato rispetto alla lastra; tale aumento è in parte incontrollabile dallo stampatore, dato il condizionamento causato dal metodo, dal materiale usato e dalla macchina (si può anche parlare di ingrossamento del punto di retino). È possibile però ovviare, almeno parzialmente, all’inconveniente agendo soprattutto sull’inchiostrazione, sulla pressione tra i cilindri e soprattutto “scavando” le lastre, ossia diminuendo la percentuale di punto scritto in previsione dell’aumento provocato dalla macchina da stampa. Sottrazione. Per sottrazione si intende una riduzione delle dimensioni del punto di retino stampato rispetto alla lastra. Se la lastra si usura oppure se si accumula dell’inchiostro sul caucciù si può

35


produrre un cattivo trasferimento con conseguente riduzione del punto di retino. Per ovviare a questo inconveniente si eseguono frequenti lavaggi del caucciù e dei gruppi inchiostratori, eventualmente si cambiano inchiostro e successione della stampa, e si controllano rulli inchiostratori, pressione di stampa e svolgimento di stampa. Spostamento. Nello spostamento la forma di un punto di retino durante il processo di stampa viene modificata a causa del “gioco” esistente fra cilindro lastra e cilindro caucciù e/o fra caucciù e foglio stampato, tale da ottenere un punto di retino deformato (per es. un punto ovale invece che rotondo). Uno spostamento in direzione della stampa viene denominato “spostamento in periferia” mentre lo spostamento trasversale rispetto alla stampa viene detto “laterale”. Se si rileva la presenza di entrambi i tipi di spostamento contemporaneamente, si ha come risultato uno spostamento in direzione obliqua. Spesso di questo inconveniente è responsabile un caucciù non sufficientemente teso, un’inchiostrazione eccessiva, un cattivo sincronismo di rotazione fra cilindro lastra e cilindro caucciù oppure una eccessiva tensione di stampa. Doppieggio. Il doppieggio è quel fenomeno che si verifica quando vicino al punto di retino stampato viene a trovarsi un punto colorato ombreggiato, per lo più di dimensioni inferiori. Il doppieggio è causato da un riporto di inchiostro non uniforme attraverso il caucciù successivo. Questo si verifica specialmente nelle macchine a più colori colori e le cause sono molteplici. Di regola devono essere ricercate nel materiale da stampare oppure nella meccanica della macchina. Sbaveggio. Viene definito sbaveggio la deformazione del punto di retino risultante dopo il processo di stampa da influenze meccaniche. I punti di una macchina nei quali il foglio viene sostenuto meccanicamente sul lato stampato che presenta l’inchiostro fresco costituiscono le più comuni fonti di sbaveggio. 4.6 La retinatura Per poter realizzare la stampa delle immagini a colori con variazioni tonali (in scala di grigio, quadricromia o con colori speciali) è necessario che le matrici siano retinate. La retinatura può essere più o meno visibile all’occhio umano in base alla lineatura utilizzata . Concettualmente la lineatura rappresenta la “concentrazione” o la vicinanza dei singoli puntini tra loro; maggiore è la lineatura, maggiore sarà la qualità di riproduzione dei passaggi tonali. Il retino sulle pubblicazioni di alta qualità si osserva solo con una lente di ingrandimento, mentre si vede ad occhio nudo su poster di grande formato. Senza il retino non si possono riprodurre i toni cromatici intesi come i passaggi graduali dello stesso colore o tra colori adiacenti.Per ottenerlo si scompone l’originale da riprodurre in tanti punti.

36


retinatura AM

retinatura FM

(figura 4.2) differenza di punto in AM e in FM

Con il processo di retinatura elettronica si sono consolidati due modalità di retinatura digitale (figura 4.2): una a modulazione di ampiezza (AM) e una a modulazione di frequenza (FM), mentre è scomparsa quella tradizionale fotografica. Nella retinatura AM esiste una griglia regolare fatta di linee rette perpendicolari in cui sono posti i puntini in maniera equidistante. Per riprodurre le variazioni tonali il processo di retinatura provvede a creare punti di dimensioni variabili combinando opportunamente i punti della griglia (cella di retinatura). Si avranno così punti più grossi in corrispondenza dei toni scuri e punti più piccoli per i toni chiari. La retinatura FM sfrutta il concetto diametralmente opposto della retinatura AM: riproduce dei punti di dimensione fissa (ovviamente impercettibili) ma ne varia la concentrazione o vicinanza. i avrà quindi una maggior concentrazione/vicinanza dei puntini nei toni scuri, mentre nei toni più chiari le distanze saranno maggiori. La retinatura FM viene utilizzata per stampe di altissima qualità e, non presentando una griglia fissa, non presenta il problema del moiré. Le componenti principali della retinatura sono la frequenza, l’angolo di inclinazione e la forma del punto. Con il termine frequenza o lineatura (figura 4.3) si indica la qualità della griglia; esprime il numero di linee per unità di misura (centimetri o inch), altri parametri invece si applicano per il retino a FM (detto anche stocastico)

(figura 4.3) differenza di lineatura o frequenza

Si parla di angolo di inclinazione (figura 4.4) in quanto il retino delle immagini (sia a colori che a scala di grigi) deve presentare una differente angolazione, operazione indispensabile per evitare in stampa un fastidioso effetto moiré tipico delle sovrapposizioni di due o più retini analoghi. Come si può osservare qui sotto, per la quadricromia i valori orientativamente sono: Cyan a 105°, Magenta a 37


75°, Giallo a 90°, Nero a 45°, mentre se si realizza un lavoro ad un solo colore l’angolo di retino è solitamente di 45°.

(figura 4.4) esempio di retinatura ad angoli diversi

Il punto di retino può avere forme diverse: tondo, quadrato, ellittico, euclideo. Per ottenere il miglior risultato in stampa si dovrebbe scegliere la forma di retino idonea 4.7 La stampa La qualità di uno stampato viene giudicata, oltre che mediante criteri quali ad esempio la presenza di macchie di inchiostro non previste, di velature, di difetti di registro, anche in base alla fedeltà di riproduzione del valore di tonalità e di colore mantenuta stabile nell’ambito della tiratura. Difficile risulta invece la sola valutazione visiva delle tonalità cromatiche. Oltre all’influenza degli eventuali fondi sui quali è stampato il colore in esame, le diverse condizioni di illuminazione, e la sensibilità personale al colore di ogni singolo operatore consentono una valutazione puramente soggettiva. Il controllo visivo può essere adeguatamente aiutato da una serie di metodologie, strumenti e tecnologie che rendono l’analisi più attendibile e precisa. Il controllo strumentale e oggettivo è quindi una necessità imprescindibile per il raggiungimento e soprattutto per il mantenimento nel tempo di una buona qualità riproduttiva. La resa cromatica di un’immagine stampata dipende solo parzialmente dallo spessore dello strato di inchiostro depositato sul supporto. Per la carta patinata i punti cromatici corretti dovrebbero venire raggiunti con uno spessore fra 0,7 e 1,1 micron. In base al tipo di inchiostro e di carta il film di inchiostro nella stampa offset può corrispondere anche a valori superiori a 2. Le variazioni di spessore dello strato di inchiostro risultano visibili otticamente nei colori della scala cromatica attraverso le differenze di saturazione e luminosità delle tonalità riprodotte. Come conseguenza si hanno differenze dal punto di vista cromatico entro una stessa tiratura oltre ad una limitazione della gamma cromatica. 38


Come già sottolineato, il controllo visivo dell’inchiostrazione rappresenta solo il primo grado di un’analisi del foglio di stampa. Si necessita quindi di un densitometro: strumento in grado di analizzare, non tanto lo spessore dello strato di inchiostro effettivamente trasferito sul supporto quanto la sua capacità di fermare la luce incidente. Tale strumento fornisce, infatti, una lettura indiretta dell’opacità dello strato attraverso il calcolo e la determinazione della densità ottica dello stesso. Una condizione fondamentale per il corretto soddisfacimento delle esigenze che impone un CMS è la ripetibilità del riferimento finale. Anche in possesso di tutti gli strumenti utili a tale scopo si corre il rischio di replicare un risultato che non rispecchia completamente tutte le potenzialità delle attrezzature e materie prime a disposizione. Molte volte si è più attenti a riprodurre fedelmente standard ideali che non a crearne di propri sulla base di prove e valutazioni oggettive. In questa maniera si garantisce un prodotto costante ma mediocre. Per riuscire a creare queste condizioni standard personalizzate è necessario analizzare il prodotto stampato dal punto di vista della riproduzione del colore, prendendo in considerazione quei parametri che permetteranno il raggiungimento e il controllo della migliore qualità di stampa. Queste valutazioni, offriranno in futuro, la possibilità di ritrovare rapidamente le medesime condizioni riproduttive, oltre a permettere, nella fase di gestione del file digitale, di creare selezioni ad hoc che preventivamente tengano in considerazione di eventuali condizioni critiche in stampa. 4.7.1 Grado di grigio ed errore di tinta La prima verifica da fare, al fine di controllare la purezza, determinare la costanza e valutare la qualità cromatica della terna di inchiostri a disposizione, è quella dell’errore di tinta e grado di grigio. Questi parametri permettono fin da subito di capire se i pigmenti di cui si dispone permettono o meno il raggiungimento di particolari saturazioni. Come si è già accennato precedentemente, i colori base ideali per la quadricromia dovrebbero ipoteticamente essere in grado di assorbire perfettamente tutta la quantità della luce incidente relativa al colore complementare (il cyan la sola componente rossa, il magenta la sola componente verde, e il giallo la sola componente blu) e riflettere totalmente le altre due. La cosa si verificherebbe solo con pigmenti perfettamente puri non reperibili però sul mercato in quanto difficilmente realizzabili ed eccessivamente costosi. Tutti i pigmenti primari utilizzati in stampa risultano, quindi, più o meno inquinati dagli altri due.

39


Secondo la definizione del GATF gli errori di tinta e grado di grigio possono essere valutati misurando un colore primario con i tre filtri (rosso, verde e blu) in maniera tale da poter evidenziare e quantificare l’eventuale presenza dei due primari “inquinanti” all’interno del terzo. Nello schema riportato di seguito vengono rappresentate graficamente le tre letture effettuate su un magenta. Dagli istogrammi si evidenzia la presenza sia di ciano che di giallo. Tale condizione permette un’immediata considerazione: il magenta è un pigmento inquinato e avrà sicuramente una determinata percentuale di grado di grigio (figura 4.5) Questo primo parametro è rappresentato dalla quantità minima uguale di tutti i tre pigmenti primari. In sintesi sottrattiva, infatti, la somma totale dei tre colori primari dà come risultante un marrone scuro (tendente al nero). Una quantità minore ma uguale dei tre darà come sintesi un sensazione acromatica (priva di dominanti) con un grado di luminosità inversamente proporzionale alla quantità di inchiostro misurato. Il grado di grigio fa perdere al pigmento primario analizzato sia luminosità (ferma più luce e quindi appare più scuro) che saturazione (è meno puro), ma non ne modifica la tinta. Matematicamente è possibile indicare il grado di grigio come l’incidenza in percentuale del valore densitometrico più basso (Low) rispetto a quello più alto (High). Minore è il valore di questo parametro, maggiore sarà la vivacità del colore analizzato. densità 2

alto

1

medio

grado di grigio

basso filtro rosso

filtro verde

filtro blu

(figura 4.5) grafico del grado di grigio

L’errore di tinta è una misurazione della deviazione del colore rispetto alla condizione ideale. È rappresentato dalla presenza di un pigmento inquinante in quantità maggiore rispetto all’altro.

40


Questa eccedenza provoca una virata di tinta del primario teoricamente puro verso il pigmento maggiormente inquinante. Un primario, quindi, potrebbe essere caratterizzato da una percentuale di errore di tinta che provocherebbe indifferentemente una virata verso un pigmento inquinante o l’altro. La percentuale dell’errore di tinta, infatti, permette di determinare l’entità dell’inquinamento ma non il tipo. Per avere questa informazione è sufficiente verificare nel grafico quale dei due pigmenti inquinanti è presente in maniera più abbondante. Grado di grigio ed errore di tinta sono due parametri che non sono dipendenti l’uno dall’altro. È possibile analizzare inchiostri con un alto errore di tinta ma non necessariamente caratterizzati anche da elevati gradi di grigio e viceversa. Normalmente il pigmento magenta è quello che presenta un indice di inquinamento molto superiore agli altri due. Il valore dell’errore di tinta (figura 4.6) è generalmente superiore al 30% e a determinarlo è il pigmento inquinante giallo. In commercio non esiste una terna completamente esente da questo errore. Esistono però scale più “fredde” (tendenti al blu) o più “calde” (tendenti al rosso). Si tratta solo di capire quale compromesso scegliere per le proprie riproduzioni. Solitamente è una questione psicologica e di cultura; ad ogni modo, la questione fondamentale è riconoscere i coefficienti e tenerli sotto controllo, nel caso le partite di inchiostri mutassero o fossero scadenti. densità 2

alto

1

medio

errore di tinta basso filtro rosso

filtro verde

filtro blu

(figura 4.6) grafico dell’errore di tinta

Dopo aver analizzato la colorimetria degli inchiostri si deve passare al controllo di quei parametri che permettono, se valutati e gestiti al meglio, la creazione di uno standard personalizzato per l’ottimizzazione del risultato finale.

41


4.7.2 Densità di stampa Il primo parametro per la creazione dello standard è la densità di stampa. In ambito grafico si fa riferimento alla densità come a quella caratteristica ottica che corrisponde alla forza colorante, al potere coprente di un inchiostro. La densità è una misurazione indiretta della quantità di luce assorbita dallo strato di inchiostro. Molte sono le condizioni che influenzano la densità di uno stampato. Precedentemente si è sottolineata la diretta dipendenza tra il film depositato e la sua densità. Quest’ultima risulta però fortemente condizionata anche da altri fattori come ad esempio la pigmentazione dell’inchiostro. Esistono in commercio diversi inchiostri che si differenziano anche per la percentuale di pigmento contenuto. Gli inchiostri ad alta pigmentazione risulteranno possedere un grado di coprenza più alto rispetto agli inchiostri normali e quindi a parità di spessore si otterranno cariche densitometriche maggiori. La conseguenza di questo è facilmente riscontrabile in una minore problematicità della stampa che risulterà meno critica nella gestione dell’ingrossamento del retino, dell’essiccazione dell’inchiostro, della controstampa, del trapping ecc. oltre ad una minore necessità di quantità di inchiostro da depositare sul supporto che si tradurrà in un risparmio in termini economici. Altra variabile da tenere in considerazione è sicuramente la tipologia del supporto di stampa. La densità ottimale (figura 4.7), infatti, si raggiunge su carte diverse a livelli molto differenti. Tra una carta usomano e una patinata lucida si possono avere differenze di densità pari ad un 15-20%.

supporti

cyan

magenta

giallo

nero

USO MANO

1.20

1.15

1.10

1.60

PATINATA LUCIDA

1.45

1.40

1.35

1.80

PATINATA OPACA

1.35

1.30

1.25

1.75

+/- 0.05

+/- 0.05

+/- 0.05

+/- 0.05

tolleranza

(figura 4.7) tabella riassuntiva densità ottimali in funzione al tipo di carta

Normalmente le caratteristiche di una carta usomano sono tali da non permettere il raggiungimento di cariche densitometriche troppo elevate. L’alto grado di assorbenza del supporto provoca un ingrossamento del punto di retino che incide negativamente sulla resa tonale del soggetto da riprodurre. La microporosità dei supporti patinati permette

42


invece una stampa più “secca” e di conseguenza la possibilità di trasferire quantità maggiori di inchiostro. La corretta valutazione della densità di stampa permette il raggiungimento delle massime saturazioni. In altri termini la condizione di densità ottimale di stampa è sinonimo di massima estensione della gamma cromatica riproducibile che invece viene limitata sia in caso di sottoinchiostrazione che di sovrainchiostrazione. Il problema non è quindi relativo alla misurazione della densità quanto invece alla definizione del livello di densità ottimale. Tale parametro, come è già stato più volte sottolineato, non può essere determinato dall’estrapolazione di dati da tabelle generiche (standard ideali) in quanto non effettivamente costruite sulla base degli stessi supporti, strumenti, inchiostri, ecc. bensì su dati personalizzati, relativi alle effettive condizioni riproduttive. Nei grafici seguenti, viene rappresentato l’esempio di un gamut ottenibile in una particolare situazione riproduttiva nella quale è stata utilizzata una data quaterna di inchiostri stampati in una condizione di stampa generica (figura 4.8), rapportato al gamut ottenibile dagli stessi inchiostri stampati con una caria densitometrica ottimale (figura 4.9). Si può notare come possa aumentare il numero di tonalità riproducibili guadagnando saturazioni (più ci si allontana dal centro del diagramma, maggiore è la saturazione del colore in questione) altrimenti irraggiungibili +b

+75

+50

+25

-a

-75

-50

-25

+25

+50

+75

0

+a

-25

-50

-75

-b (figura 4.8) gamut quaterna di inchiostri stampati genericamente

43


+b

+75

+50

+25

-a

-75

-50

-25

+25 0

+50

+75

+a

-25

-50

-75

-b (figura 4.9) gamut quaterna di inchiostri stampati con densità ottimali

4.7.3 Contrasto di stampa È possibile determinare la corretta inchiostrazione del foglio stampato mediante l’analisi del contrasto di stampa. Semplicemente si tratta di individuare la carica massima di inchiostro stampabile su un dato supporto, con il valore più basso di dot gain. Si determina identificando la differenza tra le zone chiare e scure dell’immagine retinata. Ipotizzando una sfumatura, più elevato è il numero delle gradazioni di tonalità che si riusciranno a rappresentare e maggiore sarà la qualità dell’immagine stampata. Ovviamente la resa tonale di un soggetto risulterà migliore se la stampa sarà eseguita su un supporto capace di limitare al minimo l’ingrossamento del punto di retino (figura 4.13). In tal caso si potranno raggiungere gradi di inchiostrazione più elevati senza rischiare di avere eccessivi impastamenti nei mezzitoni e nei tre quarti di tono. La qualità di una riproduzione eseguita in queste condizioni riproduttive sarà rappresentata anche da valori di contrasto maggiori rispetto allo stesso soggetto stampato su un supporto che fornisce prestazioni più limitate. Il contrasto è determinato mediante la misurazione densitometrica di due tacche: una al 100% e una retinata. La seconda generalmente avrà una percentuale di area coperta del 75-80%. L’andamento del contrasto (figura 4.10), al variare della densità di stampa, è descritto da una gaussiana che nel punto più alto determina, oltre al valore di maggior contrasto raggiungibile, anche la densità capace di determinare questo apice. Sia in condizioni di sottoinchiostrazione che di

44


sovrainchiostrazione (a sinistra e a destra del picco della gaussiana) avremo sempre valori più bassi e conseguentemente una qualità di stampa minore (figura 4.12). K% 50

inchiostrazione ideale

40 30 20 10

Dp 1,0

1,5

area di sottoinchiostrazione

K%

2,0

3,0

area di sovrainchiostrazione

0%

35%

43%

38%

0%

0,0

0,65

0,85

1,25

3,0

0,0

0,0

1,5

2,0

3,0

Dr

Dp

(figura 4.10) Contrasto di stampa e suo andamento in relazione alle cariche densitometriche

Dal grafico del contrasto (figura 4.11) è possibile, inoltre, calcolare la tolleranza di densità accettabile. Scendendo del 2% dal valore massimo raggiungibile dal contrasto si interseca la curva in due punti; le proiezioni dei quali nell’asse delle ascisse determinano il valore minimo e massimo densitometrico accettabile. K% 50 40 30 20 10

Dp 1,25

1,75

3,0

(figura 4.11) Determinazione della tolleranza della densità mediante l’analisi del contrasto di stampa

45


lettura 75%

contrasto

lettura 80%

50% - 60%

ottimo

46% - 54%

45% - %0%

buono

43% - 46%

40% - 45%

discreto

39% - 43%

35% - 40%

commerciale

33% - 39%

25% - 35%

scarsi

23% - 33%

<25%

critico

<23%

(figura 4.12) Riferimento dell’accettabilità dei valori di contrasto

supporti

CMY

K

patinata opaca

30% - 40%

> 45%

patinata lucida

35% - 45%

> 50%

usomano

22% - 28%

> 30%

calandrata buona

28% - 35%

> 40%

calandrata povera

25% - 30%

> 35%

(figura 4.13) Riferimento dei valori di contrasto per i 4 colori, in relazione al supporto di stampa

4.7.4 Dot Gain Dopo aver individuato la corretta carica densitometrica, è necessario valutare quali ingrossamenti del punto di retino questa quantità d’inchiostro determina sulla stampa finale. È molto importante, infatti, conoscere l’andamento della stampa in tutte le zone del soggetto (figura 4.17), dalle alte luci (percentuali minime), ai mezzitoni, a quelle delle ombre più scure (percentuali massime) come schematizzato dalla figura 4.14. A fornire questa informazione è il dot gain ossia l’aumento superficiale del punto dovuto principalmente alle caratteristiche di assorbenza del supporto di stampa. L’andamento del dot gain assume il suo valore massimo nella zona centrale della scala retinata, dove la quantità di grafismi dovrebbe essere la medesima rispetto a quella dei contrografismi, mentre è più basso nelle zone nelle quali il puntino stampato (basse percentuali) o il puntino negativo (alte percentuali) è più piccolo. Pensiamo al 50%, il cui retino è fatto da una scacchiera fatta di punti bianchi e neri uguali. Si parla di ipotesi in quanto, il mezzo tono non è tale a causa dell’ingrossamento del punto; sarà quindi una percentuale più alta.

46


È una condizione riproduttiva ineliminabile ma misurabile e controllabile. Proprio dalla sua valutazione è possibile infatti porre in essere una serie di correttivi (figura 4.16) nella selezione volti a limitare il problema in maniera da avvicinarsi il più possibile ad una “riproduzione lineare”. 10%

50%

90%

+5%

+12%

+4%

(figura 4.14) Principio dell’ingrossamento del punto in stampa

Diventa indispensabile, ai fini di una preventiva correzione delle prematrici o matrici di stampa (figura 4.16), mantenere costante questo parametro. Questa ripetibilità risulta molto più importante rispetto alla capacità empirica di limitare al minimo di volta in volta l’ingrossamento intervenendo su uno o sull’altro fattore. In questo caso verrebbero a modificarsi sistematicamente le condizioni di stampa rendendo imprevedibile il risultato finale. Molte sono le condizioni che influenzano questa variabile: dai rivestimenti dei cilindri alla pressione di stampa, dallo spessore d’inchiostro alle caratteristiche della carta (figura 4.18), dal tipo di caucciù alla macchina da stampa (figura 4.19). Da non dimenticare che anche fattori apparentemente poco significativi come la viscosità dell’inchiostro o il tipo di soluzione di bagnatura possono, in realtà, rivelarsi determinanti per la qualità della stampa finale. % stampa 100

80

60

40

20

% lastra 20

curva ideale

40

60

80

curva della stampa

100

curva della lastra

(figura 4.15) Valutazione dell’andamento della curva del dot gain e determinazione della curva di correzione

47


% ORIGINALE

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

80%

90%

100%

% SUPPORTO

0%

12%

25%

38%

50%

63%

70%

78%

85%

93%

100%

-

2%

5%

8%

10%

13%

10%

8%

5%

3%

-

0%

8%

15%

22%

30%

37%

50%

62%

75%

87%

100%

DOT GAIN CORREZIONE

(figura 4.16) Analisi dell’andamento della curva del dot gain nelle diverse percentuali di punto % stampa 100

80

60

40

20

% lastra 20

40

60

80

100

20%

40%

80%

100%

30%

55%

90%

100%

10%

15%

10%

0%

% lastra

% stampa

dot gain

(figura 4.17) Analisi dell’andamento della curva del dot gain nelle diverse percentuali di punto % stampa 100

80

60

40

20

% lastra 20 patinata lucida

40

60 usomano

80

100

patinata opaca

(figura 4.18) Analisi dell’andamento della curva del dot gain su supporti diversi

48


% stampa 100

80

60

40

20

% lastra 20 SpeedMaster 52

40

60

Roland 200

80

100 MO

(figura 4.19) Analisi dell’andamento della curva del dot gain su macchine da stampa diverse

4.4.5 Trapping L’ultimo importante parametro da controllare è quello relativo al trapping. Indica il grado di accettazione di un secondo colore depositato sopra uno strato precedentemente stampato. È anche definito come il rifiuto di un inchiostro. Non è la stessa cosa stampare un inchiostro su carta bianca o su un colore già stampato ed essiccato oppure se si stampano umido su umido due o quattro colori. La determinazione del trapping viene fatta sui colori secondari (blu, verde, rosso). In condizioni di scarsa accettazione, queste tonalità risultano gravemente condizionate da virate di colore verso il primo pigmento stampato. Un trapping critico ha come conseguenza, quindi, una deformazione dello spazio cromatico relativamente alle tinte e alle saturazioni dei colori secondari. Condizione di fondamentale importanza nella valutazione del trapping è la sequenza di stampa. Con gradi di accettazione ridotti sarà completamente diverso il risultato che si otterrà stampando un blu con sequenza cyan-magenta o viceversa. Nel primo caso la tinta composta sarà tendenzialmente bluastra, nel secondo rossiccia. Da sottolineare che condizioni critiche di questo parametro non sono visibili solo in termini cromatici ma anche la qualità di stampa, intesa come uniformità di stesura, risulta fortemente compromessa.

49


L’accettazione dell’inchiostro si controlla e si valuta visivamente sulla base dell’uniformità della coprenza nella stampa sovrapposta di due o tre colori negli elementi pieni dell’immagine e nei fondini sovrapposti della striscia di controllo. Per la misurazione oggettiva di questo parametro è necessario un densitometro che legge la densità del colore composto, del primo colore stampato e del secondo. I valori ricavati dalla lettura vengono applicati alla seguente formula: T = [(D colore composto - D primo colore) : D secondo colore ] x 100

Tutte le letture sono eseguite con il filtro del secondo colore. VALUTAZIONE

TRAPPING

OTTIMO

>95%

BUONO

85 - 95 %

ACCETTABILE

70 - 85 %

CRITICO

<70 %

(fig.4.20) Riferimento dell’accettabilità dei valori di trapping

In figura 4.21 riportiamo l’esempio di trapping riferito alla stampa di un blu composto dal 100% di cyan e 100% di magenta. stampa del BLU sequenza CYAN + MAGENTA

BLU C 100 M 100

BLU C 100 M 100

BLU C 100 M 100

trapping 100%

trapping 80%

trapping 65%

sequenza MAGENTA + CYAN

BLU M 100 C 100

BLU M 100 C 100

BLU M 100 C 100

trapping 100%

trapping 80%

trapping 65%

(fig.4.21) Esempio di trapping riferito ad un blu 50


Per escludere il più possibile eventuali influenze da parte della sequenza dei colori sul risultato della stampa, prove di stampa e tiratura dovrebbero avvenire in sequenza standardizzata, secondo lo standard BVD/FOGRA. Se la sequenza dei colori è costante gli inchiostri possono essere formulati dal fabbricante direttamente con una consistenza adeguata all’accettazione dell’inchiostro. Sequenza di stampa standardizzata per: - monocolore (umido/secco) su macchina monocolore C + M + G + N - bicolore (umido/umido) su macchina bicolore C - M + N - G - quadricromia (umido/umido) su macchina quattrocolori N - C - M - G È consigliabile però, per una più facile messa a punto dell’inchiostrazione, stampare il nero per ultimo. A seconda del tipo di inchiostro e del soggetto stampato si possono anche scegliere soluzioni diverse che privilegino le tonalità predominanti. Anche il tipo di inchiostro può determinare gradi di accettazione differenti. Inchiostri ad alta o a bassa pigmentazione incidono sulla saturazione del supporto e conseguentemente sulla capacità della stessa di accettare quantità successive di pigmento. Il tipo di supporto può interagire in maniera positiva con l’inchiostro e quindi favorire la sua accettazione o viceversa rendere indispensabile la modifica della sequenza dei colori al fine di non compromettere la resa cromatica della stampa. La stampa umido su umido o umido su secco, la deposizione di un film di inchiostro fresco su un altro appena stampato oppure su uno già vetrificato, rappresentano condizioni non secondarie. Se da un lato la prima situazione può avere il problema di non riuscire ad ottenere un risultato particolarmente positivo a causa dell’emulsionamento acqua-inchiostro, la seconda presenta invece la possibilità di un grado di accettabilità ridotta per l’incapacità di creare legami forti tra strati freschi e asciutti.

4.8 Le scale di controllo Densitometro e scale di controllo sono gli strumenti che consentono al controllo qualità di attraversare le diverse fasi del work flow, mettendole in stretto contatto fra loro e creando una forte interdipendenza reciproca. Gli obiettivi principali delle scale di controllo sono: • in fase di preparazione, di controllare il comportamento dei grafismi in relazione alla potenza del laser e/o sviluppo nei processi di produzione su lastra

51


• nella prova di stampa, di determinare e controllare la densità di stampa e l’ingrossamento del punto in relazione alle condizioni della macchina da stampa, nonché il contrasto di stampa e il grado di grigio. • in fase di stampa, di controllare la densità e l’inevitabile aumento del punto, misurare il grado di accettazione dell’inchiostro nelle sovrapposizioni (trapping), misurare il contrasto di stampa, verificare l’equilibrio tra le forze di stampa degli inchiostri (bilanciamento), evidenziare eventuali situazioni anomale quali strisciamenti, sbaveggi, sdoppiamenti. Per un adeguato utilizzo delle scale di controllo nella fase di stampa è assolutamente necessario posizionarle orizzontalmente lungo tutta la lunghezza del foglio. La scala di controllo deve essere inserita dove lo spazio sul foglio di carta lo consente; se possibile in “coda” al foglio, in quanto è la zona dove gli inconvenienti vengono maggiormente evidenziati. Le scale di controllo, infatti, si comportano come veri e propri amplificatori ottici degli inconvenienti di stampa, grazie alla loro studiata configurazione ottico-geometrica. Si è così certi che un ottimo risultato di stampa in questa zona del foglio comporta la sicurezza di fedeltà anche su tutto il resto. La scala di controllo posizionata nel centro del foglio difficilmente viene influenzata da variabili quali lo sdoppiamento o lo sbaveggio, inconvenienti che si presentano frequentemente in coda al foglio. Questa posizione è consigliata quando si devono eseguire test o set up per la macchina da stampa. Tra le più diffuse, presento qui di seguito quella proposta da UGRA/FOGRA.

La scala di controllo è scomponibile in diverse parti, ognuna delle quali dotata di una particolare funzione. Zona retinata: questo campo serve per analizzare come la scala retinata viene riprodotta (con i diversi colori) e come lo schiacciamento incide su di essa.

Balance: questo campo permette di tenere controllato il bilanciamento dei 3 colori primari (Cyan, Magenta e Giallo); lo si effettua, confrontando la qualità della riproduzione di un 50% di grigio riprodotto con

52


i soli 3 colori rispetto al corrispettivo 50% ottenuto solo Nero. Maggiore è la somiglianza delle due tacche, migliore sarà l’equilibrio cromatico dei 3 colori in quanto sappiamo che l’equilibrio perfetto dei colori primari deve risultare “assenza di colore” (grigio) per quanto detto nel primo capitolo.

Pieni: questo campo serve per misurare la densità di stampa dei pieni.

Mezzo tono / 40%-80%: questi due campi hanno sostanzialmente la medesima funzione, e cioè quella di aiutarci a determinare l’aumento del punto relativamente a tutti i colori di stampa. Le informazioni ricavate dalla misurazione di queste tacche serviranno poi per determinare quanto le lastra dovranno essere “scavate” (o dimagrite) per ottenere corrispondenza tra il colore impostato sul file e il risultato stampato Trapping: in questo campo sono stati inseriti i pieni dei colori primari e i pieni delle somme degli stessi a due a due. Misurando le tacche dei pieni e del colore “somma” siamo in grado di definire il grado di accettazione di un inchiostro rispetto ad un altro. Ogni produttore fornisce inchiostri con caratteristiche colorimetriche e chimiche differenti. In base a quanto letto e a quando specificato precedentemente, siamo in grado di scegliere la sequenza dei colori di stampa migliorando il risultato finale.

53


5.1 Conclusione

In sintesi, quanto da me proposto rappresenta un possibile percorso guidato che suggerisce la strada da percorrere per giungere ad un risultato finale apprezzabile. Nessuno di noi, quando osserva un’immagine stampata, si concentra sul processo che ha portato a quel tipo di risultato, ma soltanto sul fatto di definire gradevole o non gradevole ciò che il cervello, mediante i segnali captati dall’apparato visivo, sta elaborando. Nel corso dei secoli, l’uomo ha cercato di elaborare diversi metodi soggettivi per definire un metro di giudizio univoco; tutti convergono sul fatto che il giudizio finale passa attraverso l’analisi di 3 criteri fondamentali con diversa priorità: il disegno, il volume e l’illuminazione. Per disegno si intende il dettaglio, la leggibilità, la definizione di un’immagine ed è la condizione essenziale che ciò che osserviamo deve avere; se la nostra analisi non passa questa verifica, risulta inutile proseguire la valutazione delle altre due caratteristiche. La scala di valutazione del disegno va da apprezzabile a scadente, passando per buono e accettabile. Con il termine volume intendiamo l’effetto visivo di corposità, plasticità e rotondità che l’immagine ha. È dato dal mix di un’adeguata gradazione tonale ed l’effetto chiaroscurale. Il volume apporta emozione (intesa come colore) a ciò che stiamo osservando e risulta un efficace complemento ai fini della valutazione. La scala di valutazione del volume va da apprezzabile a scarso, passando per buono e accettabile. Una foto con un disegno apprezzabile ed un volume scarso, risulterà piatta, ma ancora accettabile per lavori di bassa qualità. Con il termine illuminazione si intende il valore aggiunto che la vena creativa dell’autore dell’immagine può apportare. Solitamente si tratta dell’opportuno effetto di tonalità calda rispetto alla tonalità fredda dovuta dall’insieme disegno+volume, e quindi della corretta quantità di giallo presente nello stampato. In termini di valutazione, l’illuminazione può essere forte, media o debole. Sebbene siano stati definiti dei termini di valutazione, il concetto di gradevolezza è fortemente legato alla cultura di ogni singola società ed influenzato dall’ambiente circostante; infatti nei paesi Mediterranei, le popolazioni preferiscono tonalità medio-calde, mentre i paesi nordici sono più orientati verso tonalità più fredde. Nei procedimenti di stampa, i criteri di valutazione sono sequenziali: la sovrastampa del cyan sul nero genera il disegno, l’aggiunta del magenta determina il volume e la sovrapposizione finale del giallo dono illuminazione al lavoro. Per non lasciare quindi che il contributo emotivo prenda il sopravvento sul contributo tecnico, risulta necessario stabilire un punto fermo sulla qualità della riproduzione e quindi evidenziare 54


l’importanza che svariate variabili hanno sulla resa qualitativa del risultato finale nella stampa. Per riuscire a valutare e a monitorare oggettivamente il prodotto che si vuole realizzare, sono indispensabili: gli strumenti adeguati, i riferimenti idonei e le metodologie corrette. Senza la capacità di standardizzazione, tutti i tentativi di gestire il colore in maniera professionale, prevedibile, affidabile e coerente sono destinati a risultare inutili. Il fine ultimo è di far riflettere quei professionisti che pur avendo radici nelle esperienze nel passato, faticano ad adeguarsi agli standard e ai tempi richiesti dalla tecnologia e dalle esigenze odierne. Le tematiche da me affrontate si prestano alla riproduzione di qualsiasi originale. Ho posto l’attenzione soprattutto sulla precisa esecuzione del work-flow e al know-how tecnico, componenti indispensabili da affiancare ad adeguati strumenti tecnici. L’opera dello stampatore si è trasformata da “azione artistico-artigianale” a “professione tecnica” altamente specializzata e in continua evoluzione tecnologica che ha come obiettivi prioritari abbattimento dei tempi di produzione ed elevazione degli standard qualitativi medi degli stampati.

55


Bibliografia

• Monti A., Rimondi C., Rinaldi L., Come ottenere la massima qualità in stampa, Artiere edizioni, Bologna 2007 • Nidasio F, Villa M., Elementi di tecnologia grafica, Antonio Ghiorzo Editore, gennaio 2004 • Oleari F., Misurare il colore, Hoepli, novembre 2008 • Bann D., La stampa oggi, Hoepli, gennaio 2008 • Daprà G., Crisanti E., Domande e risposte della prestampa e stampa, supp. al Poligrafico Italiano n. 46/2004, Zeta’s Milano • Müller P., Problematiche della stampa offset, Arti Poligrafiche Europee 1985 • Gianni E., Carte, cartoncini, cartoni. Fabbricazione, caratteristiche, usi, Hoepli 1959 • Calabrò G., Significato e valutazione della stampabilità della carta, CFP grafica Istituto salesiano San Zeno, Verona 1974 • Boscarol M., Colore. I fondamenti della gestione digitale, pag 146-161 PC Professionale, Arnoldo Mondadori Editore, giugno 2007 • Carnelli C., I suggerimenti per essere a norma, pag 66-70 Italiagrafica, Organo Ufficiale dell’Associazione Nazionale Italiana Industrie Grafi che Cartotecniche e Trasformatrici, marzo 2008 • Carnelli C., Come controllare un colore pantone o spot, pag 48-49 Italiagrafica, Organo Ufficiale dell’Associazione Nazionale Italiana Industrie Grafi che Cartotecniche e Trasformatrici, maggio 2007 • Morandi L., Le misure del dot area e del dot gain, pag 30-32 Graphicus, Alberto Greco Ediore, marzo 2003 • Morandi L., Controllo del contrasto di stampa e valutazione del trapping, pag 74-75 Graphicus, Alberto Greco Ediore, giugno 2003 • Morandi L., Il colore come comprenderlo e misurarlo-parte seconda, pag 76-77 Graphicus, Alberto Greco Ediore, giugno 2002 • www.boscarol.it • www.colorconsulting.it • Appunti di incontri fatti nello studio del Professor Pietro Chasseur, ricercatore presso l’Istituto Salesiano San Zeno e docente universitario dell’Università di Parma - Facoltà di Packaging.

56


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.