COPYLEFT – ALL WRONGS REVERSED
Il testo è riproducibile su richiesta specifica all’autore o all’editore da far pervenire a: consulenza@simoneperuzzi.it - editore@maggioli.it L’estrazione di parti del testo è consentita, ma si richiede la citazione della fonte e la collocazione degli estratti in un contesto che non ne deformi il significato; è richiesta la segnalazione all’autore dell’eventuale utilizzo di estratti. Non è dovuto alcun pagamento di royalties per l’utilizzo del testo, alle condizioni sopracitate. Parte del ricavato della vendita del presente volume è devoluto, come libera contribuzione, all’Associazione ME.D.U. (Medici per i Diritti Umani), viale Donato Giannotti 13, 50126 – Firenze (www.mediciperidirittiumani.org).
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a Jacopo, Francesco, Alessandro, Rosanna, Elena e Lucia che mi danno sempre nuovi obiettivi il libro è dedicato a tutti quelli che s’impegnano quotidianamente nelle loro Organizzazioni con fatica ed entusiasmo un grazie di cuore agli amici che hanno contribuito con la loro testimonianza a rendere più vivo questo testo
≪Non può essere tutto perfetto, ma se ci provi almeno elimini qualche difetto≫ Management del dolore post operatorio - Il Numero 8 1
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Auff!! - MArtelabel 2012 Un ringraziamento particolare agli amici Luca Romagnoli, Marco Di Nardo, Andrea Paone e Nicola Ceroli, che con la loro musica mi hanno fatto tornare a saltare e con le loro idee mi hanno di nuovo agitato.
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PREMESSA
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INTRODUZIONE
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0.1 IL CAMPO DI RIFERIMENTO: L’ORGANIZZAZIONE 7 0.2 CAPTATIO MALEVOLENTIAE: DIALETTICA (CHE NON C’È) VS NEWAGE (CHE CE N’È TROPPA) 7 0.3 LA NOSTRA PROSPETTIVA: OSSERVARE L’ORGANIZZAZIONE CON RISPETTO 11 0.4 STRUMENTI E FINALITÀ DEL LORO UTILIZZO: UNA RELAZIONE PREFIGURATIVA 12 1 PARS DESTRUENS
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1.1 “CONSULTING ADDICTION”: PERCHÉ SI ODIA LA QUALITÀ. 14 1.2 LA QUALITÀ È PRIMA DI TUTTO CULTURA, SUPPORTATA DA METODICHE. SMONTIAMO ANCHE QUESTO PREGIUDIZIO: LA QUALITÀ NON È UNA TECNICA O UN INSIEME DI MODELLI. 17 1.3 FARE LA QUALITÀ, SUBIRE LA QUALITÀ: CHI CONTROLLA IL CONTROLLORE? E ANCORA: LA CARTA E LA BUROCRAZIA. 22 2 PARS CONSTRUENS
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2.1 GLI STRUMENTI, LE TEORIE E GLI OBIETTIVI 28 2.2 ANATOMIA DI UN FILM, MA NON SOLO 32 2.2.1 IL MODELLO ADHOCRATICO E LA CULTURA CATTOLICA: TEORIA DELLA CONTAMINAZIONE 32 2.2.2 LEADERSHIP SITUAZIONALE 36 2.2.3 LE SCELTE DEL LEADER 39 2.2.4 NOMINARE GLI OBIETTIVI PER CONDIVIDERLI 49 2.2.5 IL PROTAGONISTA NEGATIVO 51 2.2.6 LA COMUNICAZIONE 52 2.2.7 LA GESTIONE DELLE RISORSE 56 2.3 OPEN SOURCE: DIFFONDERE IL MODELLO 62 2.3.1 CHI È L’AUTORE DI UN’OPERA? 62 2.3.2 IL COPYLEFT 63 2.3.3 LIBERA RETE: LE RISPOSTE DELLE ISTITUZIONI 64 2.3.4 IL COPYRIGHT ALL’ATTACCO 72 2.3.5 NON SOLO SOFTWARE 76 2.4 IMPLEMENTARE UN SISTEMA DI GESTIONE QUALITÀ CON PIATTAFORME FREE COST: ANTIFORMA S.R.L. 78
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2.5 TESTIMONIANZE: LE ORGANIZZAZIONI PARLANO ATTRAVERSO CHI VIVE LA GESTIONE QUALITÀ 89 2.5.1 ANTIFORMA S.R.L. 90 2.5.2 ORFEO S.C.A R.L. 95 2.5.3 ME.D.U. (MEDICI PER I DIRITTI UMANI) 102 2.5.4 FONDAZIONE PADRI CAMILLIANI: LA R.S.A OVIDIO CERRUTI115 2.5.5 ESTRATTO DAGLI ATTI DEL CONVEGNO “NASCERE NATURALMENTE”: FIRENZE, 28 OTTOBRE 2011 119 3 INIZIO
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libera la Qualità Premessa Il testo non è mio. Ho cercato, improbabilmente, di dare voce, corpo, scrittura, a idee che girano. È un tentativo di dare struttura a emozioni preindividuali. Ciò nonostante il testo ha preso forma. L’impellenza del voler raccontare esperienze di cui sono, appunto, testimone, ha preso il sopravvento ed ha trovato manifestazione: epifania. Questo è anche il motivo per cui, nel testo, sono presenti altre testimonianze, che ho cercato di richiamare all’interno del percorso, non tanto per validarlo e trovarne conforto, quanto, invece, per autonomizzarlo da me. Questo è, infine, il motivo per cui narro tutto in prima persona plurale: sono io che ho rilevato le esperienze descritte, siamo in molti ad averle vissute. Sempre nel testo, una parte rilevante, direi centrale, risulta quella del copyleft, proprio a dichiarare quanto i prodotti intellettuali non abbiano ragione di essere sottoposti al vincolo dei diritti d’autore; poiché l’unico merito dell’autore - che non gli conferisce alcun diritto - è la passione con cui compie un atto di conoscenza che lo porta a dare forma ad alcune idee e consegnarle agli altri. Attraverso queste righe ho cercato di restituire al Genius, quello che è di Genius. «…Supponiamo che Io voglia scrivere. Scrivere non questa o quell’opera, soltanto scrivere, e basta. Questo desiderio significa: Io sento che da qualche parte Genius esiste, che vi è in me una potenza impersonale che spinge alla scrittura. Ma l’ultima cosa di cui Genius ha bisogno è un’opera, lui che non ha mai preso in mano una penna (e tanto meno un computer). Si scrive per diventare impersonali, per diventare geniali e, tuttavia, scrivendo ci individuiamo come autori di questa o quell’opera, ci allontaniamo da Genius, che non può mai avere la forma di un Io, e tanto meno di un autore. Ogni tentativo di Io, dell’elemento personale, di appropriarsi di Genius, di costringerlo a firmare in suo nome è necessariamente destinato a fallire…»2
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Giorgio Agamben, Genius, Nottetempo, collana: i sassi, 2004
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libera la Qualità Introduzione «…Non c’è nulla di più ingiusto che far parti uguali fra diseguali.» Lettera a una professoressa - Lorenzo Milani
0.1 Il campo di riferimento: l’Organizzazione Questa è una storia di persone. Un percorso collettivo. Plurale. È la storia di rapporti sociali. È la storia di relazioni all’interno delle Organizzazioni L’Organizzazione merita la maiuscola perché è qualcosa di vivo e affascinante. Perché chi la costituisce ha un nome proprio, con la maiuscola. Ogni Organizzazione è un’esperienza a sé ed è anche un evento sociale, così rilevante e particolare che anche la grammatica e la sintassi devono riconoscerla come eccezione. Non più dunque sostantivo comune, singolare, astratto: non c’è niente di meno comune e scontato; non c’è niente di meno singolare; non c’è niente di più concreto. L’Organizzazione è frutto di un percorso dialettico e interindividuale, è una danza.
0.2 Captatio malevolentiae: dialettica (che non c’è) Vs newage (che ce n’è troppa) A proposito della dialettica, o meglio, della sua assenza: la dialettica è cosa rara ai nostri giorni, fatti di pensieri dominanti e intransigenti, di apodittiche verità che interrompono il flusso epistemologico e ne inaridiscono e sclerotizzano il processo, irrigidendo il pensiero cognitivo sulla tesi e non consentendone sviluppo e derive, proprio perché si presuppone dall’interazione e dallo scontro con l’antitesi. Oggi si assiste a una logorrea infinita sul concetto di diversità; niente è più lontano dall’accettazione del concetto di diversità dell’attuale modalità di interpretarla, intenderla e, in ultima analisi, di massacrarla: la tolleranza propugnata a squarcia gola dalla maggior parte delle menti sedicenti progressiste della nostra epoca è molto, molto vicina al suo esatto opposto.
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libera la Qualità Noi le differenze le amiamo, oppure le odiamo; comunque le riconosciamo e le rispettiamo. Proprio perché non le tolleriamo affatto. Il trucco sta nel non volerle presupporre; nel momento stesso in cui ci dichiariamo tolleranti, la differenza diventa immediatamente subordinata al nostro pensiero. Si produce un’evidente dimensione gerarchica che dunque rimuove ab initio la possibilità di attivare un processo dialettico. Ché tesi e antitesi stanno sullo steso piano e l’una non può fare a meno dell’altra. Pena la secca epistemologica. Questa digressione su differenze, dialettica (sua assenza) e tolleranza, è, in realtà, uno dei fili conduttori del testo. E non può essere diversamente: le Organizzazioni di cui vogliamo raccontare sono Organizzazioni che sulle differenze hanno molto da dire così come sui conflitti e sulla loro potenza gnoseologica. L’universo sociale cui facciamo riferimento, il mondo sociosanitario e assistenziale, è nato sulle differenze, ne ha avuto linfa filosofica, fino dai suoi presupposti: la Carta Costituzionale e la Legge Nazionale 833/1978. Purtroppo e troppo spesso, ne abbiamo violentato e parodizzato il valore fino a farlo diventare puro pretesto; ideologia autoreferenziale e affatto omologante. Come a dire: si nasce dalle e per le differenze e si finisce per appiattirle in un sistema dove, la diversità, viene considerata tradimento, risulta quanto mai scomoda e inopportuna se non, addirittura, indice di eterodossia politico-sociale. E l’ortodossia è, per definizione, pensiero dominante e assoluto, inevitabilmente e drammaticamente lontana dalla diversità. Il cerchio si chiude: scriviamo il necrologio della Dialettica e, con questo, quello delle figlie Differenza, Diversità e Antitesi. Tutto ciò in un contesto sociale sedicente solidale e tollerante, cooperativo e democratico. Requiescant in pacem. Ci occupiamo di pedagogia e andragogia. Di formazione e di cultura. Ci occupiamo di relazioni con soggetti che hanno una loro storia, una loro esperienza di vita e professionale, loro valori, loro sensibilità, loro approcci cognitivi. Soggetti diversi, quindi. Inevitabilmente e straordinariamente diversi. D’altro canto, e qui introduciamo un’altra digressione, molta parte della nostra società, sta vivendo da alcuni lustri un dramma cognitivo e relazionale che va sotto il nome di new age. Già ci piacerebbe capire come si possa definire nuova un’età che non fa altro che riproporre e santificare paradigmi sociali già consunti da almeno un secolo.
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libera la Qualità Ma la vera aberrazione consiste nel drammatico approccio che la new age propone nei confronti di tutto quello che dovrebbe avere a che fare con l’uomo, con la sua storia, con le sue relazioni: l’elemento, per l’appunto, relazionale. Al proposito, e tanto per farci da subito qualche nemico, o meglio, per collocarci dialetticamente e recuperare quello che ci stanno scippando nel quotidiano, cominciamo con il prendere le distanze da un maître à penser della pedagogia italiana. Ci riferiamo a Duccio Demetrio, uno dei nostri più importanti riferimenti teorici in ambito pedagogico, autore di un’intelligente e assolutamente imprescindibile analisi storico-pedagogica: Educatori di Professione.3 Purtroppo, non ci resta che dichiarare il nostro estremo dispiacere nel constatare che, a fronte di questa lucidissima e pertinente analisi sul problema della complessità del mondo pedagogico, svolta dal primo Demetrio, dove l’attenzione all’aspetto sociale risulta essere estremamente illuminante e di un’efficacia dirompente, è succeduto un Demetrio individuale4, che gioca la carta della autobiografia come cura del sé - a suo avviso centrale nell’intervento pedagogico riconducendo un aspetto eminentemente collettivo ad una pseudoepistemologia, propria della new age; approdo tranquillo e nient’affatto utile alla conoscenza per chi, come il Demetrio di Educatori di professione, intendeva invece svolgere un’analisi storica e contestuale. La Storia, che non può confondersi e perdersi nell’autobiografia proposta da un newager, diventa qui autoreferenziale e consolatoria, à la page come l’ultimo film-panettone o il presenzialismo nei talkshow dell’italietta contemporanea. Diventa pericolosa nelle sue implicazioni sociali: si estorce agli individui il senso del loro vivere collettivo, si consegna la Storia alla mera interpretazione e alla speculazione introspettiva. Se ne impedisce il naturale processo cognitivo che si sostanzia di un fare sul quale riflettere, che genera apprendimento e che diventa patrimonio sociale solo se condiviso.5
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Duccio Demetrio, Educatori di professione, La Nuova Italia, 1990 Al proposito risulta paradigmatica l’opera di Duccio Demetrio, Il gioco della vita. Kit autobiografico, ed. Guerini e associati, Milano, 1997 5 Esplicativo il testo: C. Argyris D.A. Schoen, Apprendimento organizzativo, Guerini e associati, Milano, 1998 4
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libera la Qualità La Storia, come bene aveva intuito lo stesso Demetrio, è una metastoria, è la storia della pedagogia, in altre parole, la storia della crescita e del cambiamento dell’uomo, «del processo finalizzato a generare, a costruire, ad articolare, i diversi complementi che rendono viva, materializzano, strutturano, una realtà costruita ad hoc per il cambiamento».6 Storia di quella che, scomodando Aristotele, è caratteristica discriminante dell’uomo: il suo essere sociale.7 E così, grazie a Demetrio e a tutti quelli come lui, oltre al necrologio della Dialettica, assistiamo atterriti allo stupro sistematico della Storia e della pedagogia sociale.
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Duccio Demetrio, Educatori di professione, op.cit., pag. 99 Vorremmo dirimere qualunque questione in merito alla possibile obiezione che la storia viene inevitabilmente fatta dagli individui: ne siamo così convinti che ci viene voglia di andare molto oltre questa nota per avvalorare questa posizione. La riscoperta dell’autobiografia nella metodologia della ricerca storica può essere ricondotta ai primi anni ’60 con il recupero dell’oralità proposto da LeviStrauss (Il pensiero selvaggio, ed. Il Saggiatore, Milano, 1964), piuttosto che da McLuhan (Galassia Gutenberg, ed. Armando, Roma, 1976) o Havelock (Cultura orale e civiltà della scrittura, ed. Laterza, Bari, 1973). Questa nuova attenzione alla soggettività, contrapposta alla soggezione, consente l’affermazione di un doppio diritto, avere una storia ed essere nella storia. Parafrasando Lotman, si passa dal diritto alla biografia al diritto all’autobiografia inaugurando un problema di merito, ovvero la coniugazione tra oggettività e soggettività, tra storia e psicologia. In questo campo diventa allora interessante, ad esempio, il concetto durkeheimiano di rappresentazioni collettive, intese come socializzazioni di esperienze soggettive. Un’altra interessante direzione di indagine è quella della cosiddetta critica fenomenologica del metodo della storia di vita, che si fonda sulle teorie ermeneutiche di Norbert Elias, ovvero sulla necessità di far interagire soggettività e oggettività, riconoscendo i soggetti nella tensione del loro rapporto con l’oggettività. Ci piacerebbe andare molto avanti, ma, per ragioni di contesto, evitiamo. Resta un fatto, l’autobiografia risulta essere fondamentale nella ricerca storica e non è questo il rimprovero che muoviamo a Demetrio. Piuttosto, il suo sganciare programmaticamente questo portato soggettivo dal suo naturale elemento dialettico costituito dall’oggetto, ovvero dal contesto sociale. E questo, sulla scorta di quel vuoto interpretativo caratterizzato dalle posizioni della new age, abbracciate e rivendicate da Demetrio come funzionali alla conoscenza e, a nostro avviso, capaci solo di uscire dalla dialettica tra individuo e società per tuffarsi nel trionfo dell’incomunicabilità tra soggetti, dove l’armonia tra l’essere e l’universo nega intenzionalmente qualsiasi presupposto per l’armonia tra gli esseri.
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libera la Qualità Tempi duri per chi continua a credere nei rapporti tra umani e nella dimensione relazionale come precondizione di ogni sviluppo civile e, per l’appunto, organizzativo. Noi, infatti, continuiamo a proporre con forza la deriva, il divenire come strumento di ricerca ed il concetto di rizoma (se nella moderna pedagogia sociale si continua a parlare di rete, com’è possibile che si scivoli nella dicotomia individuo versus società?). D’altra parte ci dichiariamo figli di Eraclito, del quale apprezziamo l’amore per il dubbio cognitivo e per l’assenza di Verità apodittica. E ancora, si parva licet, ci piacciono Deleuze e Guattari; proprio per le loro teorie sul rizoma come paradigma di ricerca epistemologica e di comunicazione tra individui. E in ultimo, dichiariamo la nostra passione per tutte le teorie della complessità, che hanno spazzato via il concetto autoreferenziale e normativo della scienza e hanno introdotto e modellizzato un approccio al mondo e alla conoscenza critico e mai definitivo, per dirla con Spinoza, asintotico.
0.3 La nostra prospettiva: osservare l’Organizzazione con rispetto Tutta questa premessa per dire cosa? Intanto per collocarci e scegliere una posizione, consentendo appunto uno sviluppo dialettico, in quanto non riteniamo le nostre idee né decisive, né tantomeno esaustive e di riferimento assoluto. Poi, per presentare l’ambito socio-culturale all’interno del quale tutta questa storia si sviluppa ed è contestualizzata. Infine per urlare il dolore per le perdite che abbiamo denunciato, nei confronti delle quali non ci siamo rassegnati e non ci rassegneremo mai e che proviamo dunque a riportare umilmente e con fatica a nuova luce. La prospettiva è quella con la quale Mantegna dipinge “Il Cristo morto”: si sta al di sotto della linea di orizzonte, perché quello che si rappresenta è più importante di colui il quale è chiamato a darne testimonianza. Osserviamo e descriviamo l’Organizzazione con rispetto e understatement, con determinata ammirazione, ma con la volontà di indagarne il mistero, convinti come siamo che la ricerca debba e possa aiutare le persone, che sono i veri e gli unici protagonisti del mondo che qui proviamo a raccontare.
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Andrea Mantegna, Il Cristo Morto, Pinacoteca di Brera
0.4 Strumenti e finalità del loro utilizzo: una relazione prefigurativa In questa premessa non ci siamo curati di presentare l’altra parte del quadro interpretativo che verrà utilizzato: l’Organizzazione è per noi relazione e interazione di soggetti ma, proprio per uscire dalla cialtroneria che spesso ha contraddistinto analisi basate esclusivamente su tali presupposti, affronteremo i problemi della struttura organizzativa e delle sue dinamiche socio-economiche e produttive (sic!) alla luce di tutti quegli strumenti manageriali che ci hanno consentito di sviluppare senso e che costituiscono un supporto imprescindibile ed efficace sia per la conduzione delle attività che sostanziano l’agire organizzativo, sia per la loro evidenza e per la conseguente possibilità di descrizione. Non ne abbiamo finora delineato il portato e le caratteristiche perché siamo convinti che gli strumenti siano strumenti e che sia molto più importante descrivere il contesto nel quale vengono utilizzati. Non ci siamo mai innamorati della zappa o del violino: i tulipani e le “sonate e partite” di Bach sono invece occasioni di passione e di smisurata e incontenibile gioia. D’altra parte cerchiamo quotidianamente di non essere vittime di quel feticismo ben descritto nell’adagio “quando indico la luna con il dito, gli stupidi guardano il dito”. E ci siamo, per altro, allontanati con determinazione e intenzionalità dai precetti teleologici che cercano di giustificare mezzi assai terribili e improbabili in funzione di fini sublimi ancorché, anch’essi, improbabili.
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libera la Qualità Per noi il percorso per raggiungere gli obiettivi aziendali (ché di Organizzazioni produttive stiamo trattando) deve essere omogeneo e coerente con l’obiettivo stesso. Lo strumento sfuma sullo sfondo ma è prerequisito, sempre se appunto omogeneo, per un’efficace progressione degli intenti organizzativi. Di donne e uomini quindi, ma anche di management, tratteremo. Con un corollario nient’affatto scontato o marginale, soprattutto perché il contesto in cui operiamo è, spesso, particolarmente ostile e refrattario all’argomento: non abbiamo paura delle parole, non ci pieghiamo alla banalizzazione lessicologica che impone un ridimensionamento costante del valore dei simboli linguistici adottati. Breviter: utilizzeremo termini manageriali, cercando di spiegarne il valore contestuale acquisito nelle nostre Organizzazioni, ma senza timori reverenziali o ideologiche preclusioni. Da noi si parla così. E non solo: non ce ne vergogniamo affatto. Piuttosto riteniamo che sia un valore aggiunto e una condizione facilitante e assolutamente rispettosa delle persone e del loro intendere l’Organizzazione nel suo valore complessivo e nelle sue declinazioni operative quotidiane. E adesso sul titolo. Liberare la qualità da tutti i pregiudizi - e non lo sono affatto che la caratterizzano da sempre. Liberare le potenzialità delle Organizzazioni attraverso l’implementazione di sistemi di gestione, snelli, efficienti, efficaci e rispettosi delle persone e dei contesti Liberare le Organizzazioni da molti dei costi gestionali del sistema attraverso l’utilizzo di piattaforme open source e applicazioni gratuite, quindi libere.
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Pars destruens «…La mente che si apre ad una nuova idea non torna mai alla dimensione precedente.» Albert Einstein «La passione per la distruzione è anche una passione creativa» Michail Aleksandrovic Bakunin
La Qualità non si fa. La Qualità non si subisce. La Qualità non è burocrazia (e la burocrazia non è necessariamente un male). La Qualità non usa smodatamente la carta.
1.1 “Consulting addiction”: perché si odia la Qualità. Tutti i pregiudizi sulla Qualità sono assolutamente fondati e, quindi, non sono affatto pre-giudizi. Al limite sono post-giudizi. Legittimi e motivati. Per anni, i consulenti aziendali hanno spacciato polverosi tecnicismi come nuove frontiere manageriali, imprescindibili e capaci di risolvere, quasi magicamente, i problemi organizzativi, gestionali e quelli relativi al posizionamento e al successo commerciale. La consulenza nasce dalla conoscenza dei processi delle Organizzazioni; la professione è figlia della fuoriuscita di manager dalle aziende e del loro ricollocamento come metodologi presso altre aziende. Grande esperienza tecnico-professionale quindi, ma anche forte connotazione di contesto e scarsa competenza andragogica. Negli ultimi trent’anni la professione consulenziale si è progressivamente strutturata ed ha acquisito specificità proprie e conseguente collocazione come supporto per le Organizzazioni. Contemporaneamente le teorie manageriali, hanno sviluppato orizzonti di riferimento per far fronte al problema della frenesia dei mercati, della loro estrema dinamicità e della conseguente necessità di collocarsi all’interno di questi con caratteristiche distintive, efficaci e risolutive, nell’ottica dell’ottimizzazione delle performance aziendali. I consulenti diventano depositari di “saperi forti” che non solo rispondono a queste nuove esigenze ma, spesso, le determinano,
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libera la Qualità inducendo nel mercato veri e propri bisogni cui loro sono in grado di dare soddisfazione, generando quindi forme di dipendenza. Questa “consulting addiction” è divenuta nel tempo così radicata nel sistema che quasi viene data per scontata. Nei mercati evoluti e nelle forme organizzative più raffinate, la consulenza diventa elemento di supporto aziendale e capitolo di spesa, anche cospicuo, per la costituzione di una tecnostruttura8 capace di garantire efficacia ed efficienza. Parallelamente nascono le scuole di consulenza, capaci di sfornare nuovi professionisti, meno connotati di specificità merceologiche e produttive e maggiormente competenti sulle teorie che vengono da loro introdotte nelle aziende. Si assiste quindi al perfezionamento della consulenza che passa dalla competenza tecnica alla competenza manageriale, dando enfasi alle teorie sulle quali si formano i nuovi consulenti. Resta il problema della capacità di lettura sociale e comportamentale delle Organizzazioni e degli individui che le compongono. E si comincia ad evidenziare - vero e proprio vulnus dell’approccio consulenziale - la pressoché totale assenza di competenze andragogiche. In sostanza, si rileva una progressiva crescita di saperi e metodi organizzativi, veicolati perlopiù nelle aziende da professionisti che di questi saperi sanno tutto o quasi, ma che difficilmente riescono a declinarli all’interno delle Organizzazioni con adeguata capacità formativa. Negli ultimi vent’anni, in parallelo ad una progressiva terziarizzazione del sistema produttivo, si assiste alla crescita di una vera schiera di consulenti, spesso molto giovani e altrettanto inesperti, cresciuti all’ombra delle grandi agenzie di consulenza, che hanno invaso il mercato, forti del brand delle loro società di appartenenza e di un impianto cognitivo sempre più orientato alla teoria e quasi mai caratterizzato da attenzione a dove questa teoria si va ad applicare. Lo stesso boom di agenzie consulenziali, ha imposto, per sconfiggere la concorrenza, una dinamica commerciale caratterizzata da una forte aggressività, spesso non accompagnata da una più elevata qualità del prodotto offerto, laddove, invece, risulta l’offerta economica la vera variabile di competitività: prezzi sempre più bassi per servizi spesso, drammaticamente 8
H. Mintzberg, La progettazione dell’organizzazione aziendale, Il Mulino, Bologna, 1996
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libera la Qualità standardizzati, vero ossimoro tra concetti sostanzialmente incompatibili: servizio e standardizzazione. Il servizio è unico, irripetibile e orientato dal/verso il cliente. Risulta quindi comprensibile quanto, a causa di questa politica pervasiva e profonda condotta dalla consulenza, il prodotto di questi interventi abbia spesso generato tutt’altro, rispetto ai valori promessi e attesi. Il copia e incolla dei modelli – non soltanto teorici ma anche e soprattutto strumentali (Manuali, Procedure, Protocolli, Linee Guida, Modulistica) – ha generato un tessuto organizzativo, livellato verso il basso e caratterizzato da inefficacia, inefficienza e costante disaffezione da parte di coloro i quali si sono trovati a subire questo martellamento metodologico. Sono migliaia le Organizzazioni che hanno implementato sistemi di governo caratterizzati dall’introduzione top-down di modelli assolutamente incoerenti con la realtà organizzativa e incapaci di creare integrazione con la storia e la cultura aziendale, spesso violentata e snaturata. Sono migliaia le Organizzazioni che, dopo aver introdotto questi sistemi, hanno perso produttività, affaticato il sistema, irrigidito le prassi operative, alterato le relazioni, opacizzato la propria creatività e dato vita a sistemi di disempowerment dei propri professionisti. Sono migliaia gli imprenditori e i Direttori Generali che, dopo aver introdotto, spesso senza comprenderne il senso e per puro spirito emulativo, i vari sistemi manageriali supportati dalla consulenza, hanno cominciato a perdere fiducia negli stessi e a disinvestire, se mai avessero davvero investito, mantenendo soltanto una struttura formale, svuotata di senso: pura superfetazione organizzativa, autoreferenziale se non, addirittura, autistica. Sono migliaia gli imprenditori e i Direttori Generali che, sulla scorta delle sollecitazioni politiche, veicolate da leggi che richiamano quelle teorie e che, spesso, hanno garantito sovvenzioni e/o compartecipazioni alla spesa, hanno introdotto questi sistemi senza curare quella che invece risulta essere la sola vera leva organizzativa: la cultura dell’Organizzazione. Sono, infine, decine le leggi e le direttive regionali che, in modo spesso poco organico, a macchia di leopardo e con incisività e prescrittività variabile, hanno introdotto questi modelli, ai quali le Organizzazioni si sono avvicinate, per lo più obtorto collo, rispondendo alla cogenza senza comprenderne né il valore, né tantomeno l’utilità.
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libera la Qualità In tutto questo panorama, ben si comprende come le persone che si sono viste scaraventare sulla testa queste prescrizioni, accompagnate da un carico di lavoro accessorio, abbiano immediatamente sviluppato un senso d’insofferenza e una sostanziale idiosincrasia nei confronti delle teorie che queste prescrizioni richiamavano. Ecco perché quando si sente parlare di Qualità, le persone scappano. Ecco perché la Qualità è considerata sinonimo di burocrazia. Ecco perché si confonde la Qualità con la carta che essa produce; per una mal digerita necessità di dare evidenza oggettiva dei processi, per un’incapacità a comprendere cosa siano i processi e quanto invece, se ben presidiati, potrebbero portare in termini di miglioramento, di snellezza (qualcuno ha parlato di lean thinking, appunto), di ottimizzazione, di tutela e valorizzazione dei professionisti, di efficienza e di efficacia.
1.2 La Qualità è prima di tutto cultura, supportata da metodiche. Smontiamo anche questo pregiudizio: la Qualità non è una tecnica o un insieme di modelli. «…la cultura non si mangia...» Giulio Tremonti «…Quando sento parlare di cultura, la mano mi corre alla pistola…» Joseph Goebbels
Parlare di cultura, in Italia, in questi anni, sembra tristemente anacronistico. Parlarne in relazione all’introduzione di sistemi di governance aziendale sembra addirittura fuori contesto: anche in ambito scolastico si è cercato di “piegare” tutto quello che è culturale all’interno di “logiche aziendalistiche”, si studia per essere inseriti nel mondo del lavoro, quando poi, una volta finito di studiare, nei posti di lavoro, ti dicono che non hai esperienza e che tutto quello che sai lo hai imparato sui libri, che non serve e che te lo devi dimenticare. Studiare per il piacere di conoscere, per avere una mente aperta, per sviluppare modelli di autoapprendimento lifelong learning, sembra davvero fuori moda. Figuriamoci se poi si prova ad introdurre prospettive culturali anche in azienda.
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libera la Qualità È l’azienda che è entrata nella scuola, purtroppo, non viceversa, come vorrebbe il buon senso. Molte volte ci è capitato, durante i nostri interventi formativi o consulenziali, di sentirci dire che “..ci si aspettava qualcosa di più pratico e meno filosofico….” Non c’è niente di più pratico che affrontare i temi inerenti alla Qualità, nell’ambito dei suoi risvolti culturali. Non c’è niente di meno pragmatico e di meno efficace che affrontare questi temi dal punto di vista della tecnica. Aiutare l’Organizzazione e gli individui che la compongono a comprendere il senso delle cose, a individuare lo “sfondo integratore”9 all’interno del quale si possono introdurre metodiche e tecniche e a sviluppare consapevolezza e protagonismo, significa, sostanzialmente, promuovere cambiamenti culturali. Ed è questo di cui le Organizzazioni hanno bisogno. È questo di cui gli individui hanno bisogno. Le tecniche si apprendono abbastanza facilmente. Perché usarle, come e quando, con quale efficacia e con quali rischi e opportunità è, invece, molto più complesso. Cercare il modo per cui l’utilizzo di queste tecniche diventi patrimonio collettivo, quindi dell’Organizzazione, è un fatto sociale e culturale. 9
si fa riferimento ad un concetto, sviluppato in ambito sistemico, che molto deve alle riflessioni di Gregory Bateson e di tutta la scuola di Palo Alto. Lo “sfondo integratore” in Italia è stato introdotto dalle considerazioni di A. Canevaro e P. Zanelli. Possiamo riassumere il senso dell’apprendimento all’interno dello “sfondo integratore”, a partire dalla seguente affermazione contenuta in H. Maturana, F, Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano, 1987, pag 195: «…tenere un atteggiamento di permanente vigilanza contro la tentazione della certezza...[]...conoscere la conoscenza non significa seguire l’andamento di un albero, con un saldo punto di partenza che cresce gradualmente fino a raggiungere tutto quello che c’è da conoscere. Somiglia di più alla situazione del ragazzo ritratto in “La galleria delle stampe” di Escher. Il quadro che egli guarda, gradualmente e impercettibilmente, si trasforma nella città in cui si trova la galleria! Non sappiamo dove situare il punto di partenza: fuori o dentro? La città o la mente del ragazzo? Il riconoscimento di questa circolarità conoscitiva non costituisce tuttavia un problema per la comprensione del fenomeno della conoscenza, ma in realtà fissa il punto di partenza che permette la sua spiegazione scientifica.»
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M.C. Escher, La galleria delle stampe
Introdurre tecniche senza questi presupposti significa indulgere alla tecnocrazia, ancora una volta autoreferenziale, ancora una volta inutile e dannosa. Introdurre tecniche senza sviluppare cultura significa pensare di avere ricette buone per risolvere ogni tipo di male; significa autolegittimarsi a partire dalla conoscenza specifica del metodo, senza interrogarsi sul contesto nel quale il metodo si va ad applicare. È come se, un matematico, acquisita competenza sul teorema di Talete, pretendesse di applicarlo anche per ottenere l’area del cerchio conoscendone il raggio. Significa essere feticisti: e la venerazione/odio di oggetti implica spesso, secondo i presupposti della metonimia, la venerazione/odio dello stregone che li propone: il consulente. Non ci possiamo illudere di avere ricette. Occorre affrontare il problema della crescita e del cambiamento culturale, in un’ottica sistemica, dove il cambiamento di un elemento perturba comunque il sistema e determina condizioni di cambiamento globale. Dove il cambiamento è condizione per la crescita se non, addirittura, per la sopravvivenza: non cambiare significa essere rimossi dalla Storia. Dove il cambiamento è prodotto di una crescita collettiva e si sostanzia di un percorso che ha per protagonista l’individuo che lo compie, sempre in relazione agli altri individui che abitano il medesimo sistema. Cosa significa affrontare il problema della cultura di un’Organizzazione? «Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. - Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.
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libera la Qualità - Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra, - risponde Marco - ma dalla linea dell'arco che esse formano. Kublai Kan rimase silenzioso, riflettendo. Poi soggiunse: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell'arco che mi importa. Polo risponde: - Senza pietre non c'è arco.» Italo Calvino, Le città invisibili
In primo luogo significa mettere le persone al centro dell’attenzione. Non c’è priorità organizzativa che possa fare a meno delle persone. Giustificare interventi organizzativi come fondamentali, quando questi negano le istanze degli individui significa, inevitabilmente, fare i conti con il mancato raggiungimento dell’obiettivo organizzativo. Questo modo di procedere è miope e denuncia una cattiva interpretazione del senso profondo di Organizzazione e dei suoi bisogni. Questa aporia dei sistemi organizzativi non trova composizione né privilegiando l’Organizzazione a discapito degli elementi che la costituiscono, né analizzando la relazione tra questi elementi. È invece la relazione tra elemento e contesto, tra individuo ed Organizzazione, che diventa strategica, quantunque complessa da analizzare e da risolvere. Posto che la si possa e la si debba risolvere. L’Organizzazione e l’individuo fanno riferimento a diversi livelli logici, pur essendo in stretta interconnessione e reciproca dipendenza. L’individuo, professionalmente (ma anche a livello umano), acquisisce significato solo in relazione al contesto nel quale opera, ma, l’Organizzazione si sviluppa e si determina solo a partire dalla relazione tra gli individui che la compongono, attraverso una danza di questi elementi, poco rappresentabile, assolutamente affascinante e fondativa; atto generativo dell’Organizzazione e sua costante nutrizione. To feed, nelle lingue anglofone, significa nutrire. È questo il senso profondo del feed-back, quello di offrirci nutrimento. E le Organizzazioni, di questo nutrimento dovrebbero avvalersi costantemente: il feedback delle persone è - e deve essere – costante ago magnetico capace di indicare la rotta. Ma non c’è solo questa tra le indicazioni per orientarci nella mappa. Il soggetto, per definizione, si muove con bisogni propri e non necessariamente coerenti con quelli organizzativi. Occorre dunque avere un’altra dimensione capace di orientare le scelte e i percorsi delle Organizzazioni: gli obiettivi organizzativi e i
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libera la Qualità valori che li contraddistinguono sono il polo dialettico che si relaziona/contrappone con il bisogno dell’individuo. La dialettica quindi, quella di cui si piange la drammatica assenza, è condizione per comporre questa dicotomia storica tra elemento e contesto. E, si veda bene, non nell’ottica di una definitiva composizione, bensì nella logica di una complessità che è strutturale nei processi dialettici: mai la sintesi si deve porre come definitiva ma sempre come nuovo polo dialettico cui, sempre e auspicabilmente, deve contrapporsi una nuova antitesi. Non si può aderire totalmente ai bisogni dell’individuo, pena la frantumazione di ogni contesto e di ogni dimensione sociale, così come non si può sclerotizzare il sistema su una radicalizzazione dei bisogni dell’Organizzazione, che presupponga costantemente dai bisogni degli individui che la compongono e che si ponga come unico motore del sistema stesso, pena l’insostenibilità dei percorsi e l’inefficacia di ogni intervento. La dialettica tra Organizzazione e individuo, tra contesto ed elemento è, e non potrebbe essere differente, condizione di vita delle aziende, ne stabilisce e determina il senso, la capacità di successo, il benessere. Questa costante e complessa relazione è paradigma sociale, perché un’Organizzazione ha una responsabilità sociale prima ancora che economica o, meglio, proprio perché economica. Di nuovo, proprio in conseguenza di quanto fin qui detto, il problema è culturale. Lo è quando s’intenda promuovere questo paradigma proprio nell’ottica di un processo dialettico, lo è quando se ne individuano le specificità e le carenze: che non sono tecniche e metodologiche, ma alquanto culturali. Ecco che la questione della formazione diventa centrale. I soggetti cambiano nella misura in cui apprendono, mentre le organizzazioni apprendono nella misura in cui cambiano, quindi i soggetti devono essere disposti a cambiare mentre le organizzazioni devono essere disposte ad apprendere. Cambiamento ed apprendimento. È un problema tecnico? Lo può risolvere una tecnica, quantunque eccellente? La domanda è tautologica. La risposta scontata. Peccato che, invece, sempre più nelle Organizzazioni ci sia questa tendenza ad introdurre teorie che, più tecniche sono, più illudono di essere risolutive.
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libera la Qualità Peccato che gli individui, forse per pigrizia, perché il cambiamento è fatica, ricerchino costantemente queste tecniche, utilizzate come ricette buone per la risoluzione di ogni male. La Qualità è stata vissuta con questo portato taumaturgico ed introdotta nelle Organizzazioni come la Panacea. Qualcuno se n’è innamorato, e l’ha resa feticcio, in molti l’hanno odiata, anche perché non l’hanno mai capita. E allora torniamo alla necessità di affrontare la questione dal punto di vista di un quadro generale, formativo, culturale, complesso, contro un’idea che ha voluto invece introdurre e discutere della Qualità, sempre e solamente, in termini specifici, tecnici, segmentati e frammentari.10
1.3 Fare la Qualità, subire la Qualità: chi controlla il controllore? E ancora: la carta e la burocrazia. La Qualità non si fa. In verità molti “la fanno”. Ed infatti passano ore, giornate intere, a compilare moduli richiesti dalla qualità (la minuscola è d’obbligo). Se chiedi perché lo fanno, la risposta è inequivocabile: “lo vuole la qualità”.
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sul rapporto tra totalità e frammento possiamo richiamare un illuminante scritto del semiologo Paolo Fabbri: “il cerchio e l’ellisse; sulla teoria della complessità”, intervista con Antonio Caronia, DUE, n°1,2000: «…Ma voglio chiarire una cosa: il fatto che io sostenga un sistema dei saperi ellittico e policentrico non significa affatto che io sia dalla parte del frammento, o che respinga la ricerca di uno sguardo unitario. Qui c'è un equivoco. Molti sono preoccupati che con il concetto di complessità si reintroduca un concetto di totalità, e privilegiano un frammentarismo relativistico. Io rovescerei l'ipotesi: il frammento, se ci pensi bene, è la cosa più dura che si possa immaginare, altrimenti si sarebbe già rotto. Il frammento è solido e inattaccabile. Non c'è niente di peggio della conoscenza frammentaria, che poi è quella spesso praticata dai filosofi: sanno solo quella cosa lì, e non ne escono mai. Invece la totalizzazione a cui ci porta la complessità (dico totalizzazione, attenzione, e non totalità), è fragile: le totalizzazioni sono tutte fragili, stanno su per caso, sempre pronte a disfarsi, sono castelli di carta. La mia impressione è che siano due tipi di "tutto", come in latino, che distingue fra totus, la totalità, il totalitarismo se vuoi, e omnis, l'onnicomprensivo. Omnis introduce un'idea di movimento, come quando Orazio dice "Non omnis moriar", "non morirò del tutto"…»
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libera la Qualità Se obietti che non c’è scritto da nessuna parte che questo debba essere fatto così, si schermiscono rimandando la responsabilità all’Ufficio Qualità aziendale. Ti rivolgi all’Ufficio Qualità aziendale ed ottieni come risposta che lo vuole la Norma, la quale richiede evidenze oggettive. Se obietti ancora che le evidenze oggettive sono una cosa e la pedanteria è un’altra e che si può dare evidenza anche senza durare tutta questa fatica e, magari, con un po’ più di senso ed efficacia, ottieni come risposta che “l’Azienda ha implementato questo modello, l’Azienda ha deciso così”. Hanno ragione loro. Visto che si è sempre fatto così, continuiamo a fare così. Che importa se la gente si trova oberata di lavoro, se la gente subisce la qualità e non ne capisce il senso, se i carichi di lavoro aumentano e diminuisce la produttività? Una delle Norme più incriminate è la UNI EN ISO 9001:2008, riferimento per la certificazione ed ormai ritenuta requisito di ingresso per molti accreditamenti e, spesso, utilizzata come titolo di accesso per la partecipazione a gare ed appalti. È una Norma di adesione volontaria, sebbene ormai, proprio perché ritenuta prerequisito per l’acquisizione di altri titoli o privilegi, sia divenuta quasi cogente: se non sei “certificato”, non lavori. Poco importa che la certificazione venga rilasciata alla luce di un sistema, spesso, poco trasparente e corretto. Per certificarti devi sottoporti ad un audit di parte terza, ovvero condotto da un Organismo di certificazione, accreditato da un sistema di riferimento (in Italia Accredia, ex Sincert), che dà garanzia di indipendenza e costante monitoraggio dei requisiti degli auditor e delle loro strutture (anche qui una Norma: UNI CEI EN ISO/IEC 17021:2011). Ogni Organismo è sottoposto ad audit da parte di Accredia per valutare la conformità del suo operare con i requisiti della Norma di riferimento. Poi però gli auditor conducono i loro audit quasi sempre in autonomia (tranne quando Accredia decide di assistere al campionamento dell’audit). L’Ente che propone la certificazione, alla quale l’auditor appartiene, è scelto e pagato dall’Organizzazione auditanda. Se l’auditor rileva delle Non Conformità maggiori, tali da non consentire la proposta di certificazione, l’Organizzazione deve occuparsi di correggere i processi non conformi e risottoporsi ad un nuovo audit, con costi aggiuntivi.
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libera la Qualità Secondo voi è inusuale che l’Organizzazione dichiari all’auditor la sua intenzione di rivolgersi ad un altro Ente? Secondo voi è inusuale che, a fronte dell’intransigenza dell’auditor, l’Ente, nella sua struttura commerciale, decida di derubricare le Non Conformità per non perdere un cliente? Secondo voi se l’Organizzazione decide di rivolgersi ad altro Ente, farà fatica a trovarne qualcuno maggiormente compiacente? In Italia sono accreditati 91 Organismi di Certificazione per i Sistemi Gestione Qualità di cui 17 per il settore IAF 38 (Sanità e altri servizi sociali). Vi sono 133.397 Aziende certificate 9001:2008, di cui 4579 per il settore IAF 3811. Il sistema di accreditamento è decisamente da perfezionare e sono frequenti situazioni imbarazzanti, proprio in relazione alla serietà, correttezza, coerenza e uniformità dei giudizi: dalle offerte (basate sul numero di giornate/uomo necessarie al campionamento dell’Organizzazione e quotate in modo assai diverso dai diversi Enti con costi, evidentemente, anche molto differenti), alla valutazione delle situazioni di Non Conformità, al sistema di chiusura delle Non Conformità rilevate. Quis custodet custodem? Chi controlla il controllore? Confidiamo nell’avere presto un quadro maggiormente tutelato, anche perché, come detto, la certificazione in alcuni casi è strumento di accesso a gare e appalti, garanzia di accreditamento, insomma atto che, pur nella sua adesione volontaria, rischia di essere una discriminante commerciale e, quindi, incidere a livello di competizione sul mercato e, in ultima analisi (ma per la Qualità dovrebbe essere la prima), di valore del servizio/prodotto fornito al cliente. Nel frattempo un'altra domanda: quanto è utile per un’Organizzazione cercare di ottenere certificazioni non corrispondenti al reale stato di conformità? Ma soprattutto: quanto è intelligente considerare la certificazione come obiettivo e non come strumento per il miglioramento delle performance aziendali? 11
i dati qui presentati sono di fonte Accredia al 29 dicembre 2012. Cfr. http://www.accredia.it. I.A.F. (International Accreditation Forum) è la struttura mondiale di riferimento che definisce le modalità di conformità e la classificazione dei differenti settori merceologici.
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libera la Qualità Noi abbiamo sempre cercato Organismi di certificazione con i quali abbiamo condiviso i principi della Qualità: opportunità di miglioramento per l’Organizzazione attraverso un confronto con un Ente terzo capace di evidenziare punti di forza e spunti di crescita. Non abbiamo mai cercato di occultare le criticità: ogni Non Conformità è per noi opportunità di sviluppo e indicazione di un percorso per meglio orientare la nostra Organizzazione. ≪Non ci sono errori, ma opportunità per conoscere le cose≫ Ugo Foscolo
Si chiama pedagogia dell’errore: s’impara dall’esperienza, si cresce solo quando si capisce dove si sbaglia. E la carta? Montagne di carta in nome della Qualità, di nuovo con la giustificazione di dover dare evidenza oggettiva dei passaggi secondo quanto richiesto dalla Norma. Nel paragrafo 3.7.6 della Norma UNI EN ISO 9000:2005 (Sistemi di gestione per la qualità. Fondamenti e vocabolario), si chiarisce quello che significa Registrazione: documento che riporta i risultati ottenuti o fornisce evidenza delle attività svolte. E per documento s’intende (paragrafo 7.3.2): informazioni con il loro mezzo di supporto. Il mezzo di supporto può essere carta, nastro magnetico, disco elettronico od ottico, fotografia, campione di riferimento o una loro combinazione (nota 1 del paragrafo). Dove sta scritto che bisogna continuare ad abbattere alberi per garantire che i nostri processi siano adeguatamente supportati da registrazioni? Un semplice esempio che spesso proponiamo nelle nostre aule: Descriviamo un processo attraverso un diagramma di flusso. Per definizione, le attività descritte in un diagramma di flusso sono tra loro consequenziali. Dobbiamo dare evidenza che l’attività A sia conclusa prima che l’attività B cominci. Il burocrate di turno introduce un documento che dovrà essere siglato da colui il quale conclude l’attività A. Quello che invece considera la Qualità come un sistema flessibile assume che se l’attività B parte c’è già evidenza oggettiva che l’attività A è conclusa, proprio perché il diagramma descrive questa necessaria consecutio.
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libera la Qualità Il burocrate obietta: “e se B fosse partito prima?” L’uomo flessibile risponde: “quando B parte prima che A sia conclusa apro una Non Conformità, così ho due informazioni: 1) informazione relativa all’efficacia del processo per come è descritto 2) informazione relativa all’effettivo utilizzo e monitoraggio del processo stesso. Inoltre: il burocrate riempie moduli tutte le volte, l’uomo flessibile solo quando serve.
A
Documento con firma
A
B
B burocrate
Non Conformità
uomo flessibile
Semplice no? Abbiamo usato però un termine che, ultimamente, risulta un po’ inflazionato e sul quale occorre, forse, fare un po’ di chiarezza: burocrazia. “Con burocrazia s’intende l'organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità, impersonalità. Il termine, definito in maniera sistematica da Max Weber indica il "potere degli uffici" (dal francese bureau): un potere (o, più correttamente, una forma di esercizio del potere) che si struttura intorno a regole impersonali ed astratte, procedimenti, ruoli definiti una volta per tutti e immodificabili dall'individuo che ricopre temporaneamente una funzione“.12 La burocrazia ha avuto e continua ad avere un ruolo fondamentale come modello organizzativo, soprattutto per la Pubblica Amministrazione.
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definizione tratta da Wikipedia: cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Burocrazia
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libera la Qualità Nel tempo, ha acquisito significato sempre più connotato da autoreferenzialità, lentezza e inefficienza. Queste sono le cose che rendono odiosa la burocrazia. Ci sono però aspetti che dovrebbero rendercela meno indigesta: la struttura burocratica è una struttura che garantisce la stabilità dell’Organizzazione e che ne definisce procedure e sistemi di governo capaci di affrontare e gestire le problematiche proprie dei sistemi di erogazione di servizi pubblici, ad alto livello di interfaccia operativa (molti servizi, molti clienti, criticità di servizio). Il prezzo che si paga è la minor dinamicità rispetto ad altri sistemi organizzativi, sicuramente molto più performanti ma anche soggetti a mutazioni e livelli di interfaccia meno critici. Insomma, il privato deve essere meno burocratico possibile, più dinamico e veloce, proprio perché opera in un contesto dove la perdita di dinamismo significa espulsione dal mercato. Il Pubblico deve essere burocratico, perché opera in un contesto dove la criticità dei servizi erogati richiede stabilità e continuità. Questo, ovviamente, non significa che non ci sia la necessità di snellire processi e svecchiare modelli: si può e si deve lavorare anche nel Pubblico per rendere maggiormente performanti e meno autoreferenziali i servizi. Ma la garanzia della stabilità ci consente di avere anche la garanzia della continuità e dell’offerta universale dei servizi: quando poi si parla di salute, questo si amplifica e si iscrive in un disegno che impegna la Repubblica Italiana, fin dalla sua fondazione, attraverso l’articolo 32 della Carta Costituzionale, ad erogare servizi a tutti gli individui e su base gratuita. Questo grazie anche alla struttura burocratica di questi servizi.
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libera la Qualità 2
Pars construens
2.1 Gli strumenti, le teorie e gli obiettivi «quando indico la luna con il dito, gli stupidi guardano il dito.» proverbio cinese «…se i dati e la teoria non concordano, cambia i dati.» Albert Einstein
Partiamo dal proverbio cinese. Molti sono quelli che guardano il dito. Alcuni, e non sono pochi, addirittura guardano il gomito, oppure il dito sbagliato. Occorre comprendere che il mezzo, lo strumento con cui si persegue il fine, non può assurgere a finalità. Non deve. È troppo facile e, purtroppo, drammatico, innamorarsi degli strumenti: richiede meno fatica, non necessita capacità di analisi, diventa spesso molto consolatorio. Curare bene lo strumento dopo averne compreso la struttura, riesce facile a molti. Peccato che questo identifichi un culto feticistico e non un’intelligenza risolutiva. Amare la zappa e non il grano, il web e non la comunicazione rizomatica, gli Harlem globe trotters e non Michael Jordan, significa stabilire culti pagani delle tecniche e perdere definitivamente di vista il motivo per cui le tecniche sono nate e si sono sviluppate. È ovvio che ogni strumento richiede la sua cura: apprezziamo quindi sia i forgiatori di zappe che i tecnici informatici e gli allenatori di basket. È altrettanto ovvio, però, che non se ne può fare culto, pena l’autoreclusione nella pura speculazione, nel collezionismo, nel tecnicismo, appunto. A noi le tecniche interessano eccome. Ci interessa studiarle, comprenderle, sperimentarle, validarle e perfino contaminarle (proprio perché non siamo dei “puristi”). Non ci interessa venerarle e diventarne schiavi. Se qualcosa ci serve, lo usiamo. Se questo qualcosa evidenzia dei limiti, non pieghiamo la verità alla tecnica: abbandoniamo la tecnica e ci orientiamo alla verità, magari ricercando, spesso con fatica, nuove tecniche più utili a comprendere la verità stessa.
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libera la Qualità L’alternativa è rendere drammaticamente vera la citazione di Einstein fatta a inizio del paragrafo: la genialità e l’ironia del Maestro gli permettevano di dichiarare che le teorie erano più importanti dei fatti…noi che siamo vittime (consapevoli e colluse) di un pensiero pragmatico, volto al raggiungimento di obiettivi, dichiariamo con forza che i dati confermano le idee e le loro prefigurazioni, altrimenti significa che abbiamo sbagliato e ci tocca riformulare ipotesi e implementare nuovi modelli. Che andranno misurati e verificati nella loro efficacia. E se il calcolo non torna, significa, di nuovo, che abbiamo sbagliato. E siccome il calcolo non torna mai, significa che abbiamo sempre da migliorare. Il calcolo non torna, non perché siamo cialtroni e incapaci, ma perché le variabili in gioco sono infinite, ci si misura con esseri umani che sono, per definizione, imprendibili e, soprattutto, perché il mondo è soggetto a continua e persistente mutevolezza, quindi, inevitabilmente, quanto abbiamo previsto, incontra scostamenti, testimoniati dai fatti che rileviamo. La scommessa è proprio quella di rilevare sistematicamente i dati e minimizzare gli scostamenti, pronti ad apprendere dagli errori che facciamo, a ridefinire gli obiettivi, a rilanciare per migliorarci. Questa è la Qualità. Lasciamo ai feticisti la devozione agli strumenti, alle tecniche e alle loro teorie apodittiche. Ci consoliamo sapendo che non sono loro che ci sopravanzeranno nei risultati. Perché non sono gli apologeti delle tecniche che ottengono successi; costoro si ritagliano degli spazi, a volte anche ben remunerati, ma vivono di autoreferenzialità e disseminano insuccessi e disaffezione verso gli obiettivi. Sanno parlare soltanto dei loro strumenti, ma, se chiediamo loro di darci conto dei risultati, sono sempre pronti a tirar fuori alibi e giustificazioni: sono i cultori del “dipende”. Ecco che ritorna la dipendenza: tutto, in mano a costoro, “dipende”: dipende dal mercato, dipende dalla congiuntura economica, dipende dal team, dipende dal leader ecc. Dipende da tutti tranne che da loro e dalle loro dottrine rigide e incapaci di leggere i cambiamenti. Però questa fragilità non li mette mai e in nessun modo in crisi, anzi, rilanciano con nuove teorie e nuovi strumenti, possibilmente complessi e incomprensibili: così si garantiscono sempre nuovo lavoro, ed è questa l’unica dipendenza reale, quella che propinano e impongono. Non che le dimensioni che generano complessità siano assenti nei contesti dove ci si trova ad operare. Tutt’altro: il dinamismo
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libera la Qualità della realtà, la sua frenesia e la sua difficoltà a essere compresa e rappresentata è, oggi, condizione strutturale. Proprio a causa di questa presenza immanente e pervasiva, non possiamo, noi consulenti, continuare a evocarla come scusa per gli eventuali insuccessi. Questa è la condizione della nostra realtà: complessa, dinamica, volubile, frenetica e imprevedibile. Ci pagano per dare risposte a queste condizioni, non per passare mesi a proporre soluzioni improbabili e poi dichiarare che l’insuccesso dipende (ma va….) dalle condizioni sulle quali eravamo chiamati a intervenire. Non esistono situazioni stabili dunque. Occorre prenderne atto e da qui muoverci. Le tecniche servono a rappresentare queste situazioni, fotografarle e ipotizzare soluzioni: più si riesce a comprendere i problemi, più li si nomina e li si perimetra, più si condividono queste analisi, maggiormente avremo possibilità di implementare soluzioni efficaci. Ancora, le tecniche ci consentono di pianificare gli interventi, di monitorarli, di raccogliere informazioni e dati, di controllare gli scostamenti rispetto a quanto pianificato, di ripianifcare sulla base delle risultanze del controllo. È possibile dunque dichiarare che le condizioni sono critiche e irrappresentabili? Lo è, se non si assume la dinamicità dei contesti e se ci si pone irresponsabilmente come detentori di saperi forti. Non lo è affatto, se ci si assume la responsabilità di rappresentare questa dinamicità in un’ottica sincronica, qui ed ora; se ne sappiamo individuare le criticità; se sappiamo definire i criteri di misurazione; se si accetta la multistabilità come caratteristica fondativa dei nostri sistemi, se si proietta il cambiamento a partire dal confronto con dati omogenei rilevati, in ottica, quindi, diacronica. Di questo, quindi, si tratta: saper descrivere, saper controllare, saper migliorare. Questa è, ancora, la Qualità. Saper descrivere significa avere la capacità di rappresentare quello che si fa, come lo si fa e dove lo si fa; e condizione fondamentale è la partecipazione ed il coinvolgimento di tutti quelli che sono implicati nei processi in esame. Saper controllare significa avere la consapevolezza che si deve misurare, definirne quindi caratteristiche, strumenti, criteri, indicatori, standard e tempi di rilevazione per poter avere una base di dati significativa, capace di raccontarci dell’andamento dei processi.
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libera la Qualità Saper migliorare significa avere una costante tensione all’obiettivo, sapendolo ridefinire alla luce dei cambiamenti del contesto, sia interno che esterno all’Organizzazione; avere la consapevolezza che tutto è perfettibile, sempre; avere la capacità di leggere le informazioni e, sulla base di queste (“scelte basate sui dati di fatto”, direbbero gli esperti della ISO 9001), saper declinare nuovi interventi e stabilizzare quanto di buono è stato rilevato. E questi tre saperi, non sono tecniche. Si avvalgono di tecniche, ma non sono tecniche. Occorre svegliarci e usare gli strumenti per i fini che ci prefiggiamo. Il rischio, altrimenti, è quello di fare la fine di Endimione, splendidamente rappresentato dal Guercino, in un dipinto che apre il corridoio vasariano sopra gli Uffizi a Firenze: un bellissimo fanciullo, che, nella rivisitazione secentesca del mito, è dotato anche di cannocchiale, ma è costretto al sonno perpetuo. E la luna resta sullo sfondo, imprendibile.
Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino, Endimione
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2.2 Anatomia di un film, ma non solo
«…il fallimento non è contemplato…» Eugene Francis Kranz da Apollo 13 di Ron Howard
2.2.1 Il modello adhocratico e la cultura cattolica: teoria della contaminazione La luna ritorna ancora, come mito e come metafora della ricerca dell’uomo. Non abbiamo mai amato più di tanto la cinematografia americana; troppo viziata dalla sindrome di John Wayne: l’eroe vince sempre, da solo, contro tutti. Diversa la coralità di certi film del novecento europeo; valga su tutti l’immenso Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, ben prima che il figlio ci togliesse la voglia di andare al cinema. In De Sica padre, non c’è un eroe, c’è un’intera società che si muove sotto i riflettore di occhi capaci di rappresentarne caratteri, bellezze e drammi. Ma c’è un film americano, che si distacca dal cliché d’oltre oceano e che ci sembra straordinario, quantomeno nel suo offrirci innumerevoli spunti di riflessione su argomenti che sono centrali in questo testo. Il regista è un vero americano, quel Ron Howard che nei panni di Ricky Cunnigham, ha dato vita ad uno degli stereotipi più ficcanti della società statunitense, nella serie Happy days. L’ambiente è anch’esso straordinariamente americano: la NASA, l’Ente spaziale degli Stati Uniti. Il mito, infine, pur non essendo un’esclusiva americana, è sicuramente costitutivo della natura del popolo statunitense: la ricerca di nuovi spazi, dalla conquista del West a quella della luna. Ecco, appunto, la luna. Ma il protagonista qui non è un eroe. E non è nemmeno un protagonista corale, almeno non nell’accezione neorealistica. Il protagonista del film è il gruppo, il team, un sistema sociale, definito e limitato, orientato a obiettivi specifici. Nessuna sorpresa, quindi, che ci offra opportunità di riflessione. Semmai, straordinaria, è la molteplicità di spunti che ci offre. Sono tanti, tali e così ben delineati da spingerci alla considerazione che Howard, oltre alla consulenza della NASA e al brogliaccio del testo
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da cui è tratto,13 si sia avvalso di una sostanziosa e quanto mai efficace consulenza manageriale. Tutta questa attenzione alle dinamiche del gruppo non può essere farina del suo sacco: troppo precise le analisi, troppo attenta la sceneggiatura, troppo efficaci le battute dei leader e dei professionisti che popolano questa Organizzazione. Se, invece, è tutta roba sua, allora ha sbagliato mestiere; perché leggere così approfonditamente un’Organizzazione, rappresentarla con questa capacità di analisi, sintetizzarne la molteplicità di aspetti, è cibo per palati fini del management, e lui sarebbe uno chef di prim’ordine. Il film è Apollo 13, una produzione del 1995, con la regia, appunto, di Ron Howard e con un cast di tutto rispetto: Tom Hanks, Ed Harris, Kevin Bacon, Gary Sinise, Bill Paxton. Due Oscar nel 1996 su nove candidature, al miglior montaggio e al sonoro (ma ci sembrano più interessanti i due Screen Actors Guild Awards del 1995 a Ed Harris, come attore non protagonista, e al cast intero).
Il film14 è per noi un pretesto. Un signor pretesto. 13
Lost Moon, Jim Lovell, 1994. Il libro è scritto dal comandante della missione Apollo 13 ed il film di Howard si richiama esplicitamente al testo di Lovell. 14 Tutte le immagini sono screenshots relative al film Apollo 13 che è protetto da copyright. Si ritiene che esse possano essere riprodotte in questo testo, limitatamente alle voci che riguardano direttamente l'opera, in osservanza dell'articolo 70 comma 1 della legge 22 aprile 1941 n. 633 sulla Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, modificata dalla legge 22 maggio 2004 n. 128, poiché trattasi di «riassunto, [...] citazione o [...] riproduzione di brani o di parti di opera [...]» utilizzati «per uso di critica o di discussione», o per mere finalità illustrative e per fini non commerciali, e in quanto la presenza in questo testo non costituisce «concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera». In osservanza del comma 3, deve sempre essere
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libera la Qualità Lo abbiamo utilizzato in aula, come strumento didattico, centinaia di volte. È la storia di un grande successo, anzi di «...un fallimento di grande successo…». Il fallimento, qui, interessa poco: l’Apollo 13 non arrivò mai sulla luna, come pianificato, a causa di un incidente che impedì alla missione l’allunaggio. Il grande successo è invece quello che ci interessa, eccome: grazie al lavoro congiunto di un grande gruppo, ben orientato, ben coordinato, altamente performante e motivato, i tre astronauti sono potuti tornare a casa sani e salvi, dopo l’esplosione avvenuta a bordo. Per inciso, ma fondamentale: se non fossero riusciti a tornare, il grande lavoro, il grande coordinamento e l’elevata performance, ci sarebbero stati comunque, tanto che spesso ci viene la voglia di modificare il finale e far concludere il film prima dell’happy end. Non una virgola delle nostre riflessioni cambierebbe: il successo di un gruppo dipende da centinaia di variabili, occorre predisporre le condizioni del successo lavorando al meglio su tutte quelle che possono determinarlo. Ma non si avrà mai la certezza del successo. Mai. Quando le persone guardano questo film, con attenzione agli aspetti del team e delle sue dinamiche, notano immediatamente le differenze tra un gruppo come quello della NASA ed il proprio gruppo di lavoro. La comparazione viene naturale, anche perché il motivo che ci spinge alla proiezione di questo film è esattamente quello di portare le persone a riflettere sulla propria esperienza di lavoro. E con la comparazione, viene quasi inevitabile e conseguente la frustrazione. Occorre, quindi, fare da subito delle precisazioni di contesto. La Nasa è un’Organizzazione adhocratica,15 si muove su presupposti propri del project management e questo la rende estremamente performante.
presente la «menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta». Queste immagini non possono essere utilizzate per altri scopi senza il previo assenso dell'azienda o dell'autore titolare dei diritti, Universal Pictures. 15
H. Mintzberg, op.cit.
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libera la Qualità È una struttura gerarchica, paramilitare, elettiva e selettiva. La selezione avviene sulla base delle competenze e della meritocrazia; se funzioni sei dentro, altrimenti il progetto farà a meno di te. La base culturale è fortemente caratterizzata dalla dimensione etico-religiosa calvinista: fin dal 1620, i padri pellegrini della Mayflower, hanno definito molte delle caratteristiche della società americana, la cultura WASP (white anglo-saxon protestant) è sicuramente fondativa del modello sociale, produttivo e di erogazione dei servizi negli USA. Eccellere nel lavoro è dunque condizione per dare evidenza di essere nelle grazie di Dio. Si promuove ed incentiva il merito. Così come si espelle, non solo il demerito, ma anche i non meritevoli. Siamo molto lontani dalla cultura della solidarietà propria del mondo d’influenza cattolica che caratterizza la nostra società. Oltre oceano non è concesso l’errore. A dire il vero, anche altre culture, ben diverse da quella americana, risultano essere spietate nei confronti dell’errore: in Giappone, dove il disonore uccide, la diffusione del suicidio tra i manager e i dirigenti che hanno fallito è drammaticamente elevata. Forse da noi si esagera sulla concessione di opportunità e sull’impunità soprattutto laddove l’errore è proditorio ed intenzionale. Però la selettività e l’espulsione che caratterizza il mondo americano protestante è cosa a noi alquanto sconosciuta. E viene da dire, quasi, meno male. È conseguente il rischio di minor performance, prezzo pagato per garantire tutela e inclusione, laddove altri escludono. È dunque difficile pensare che il modello adhocratico si sviluppi dalle nostre parti, per lo meno nella sua purezza e ortodossia. Della burocrazia già abbiamo parlato, difendendone la struttura che garantisce welfare e continuità dei servizi, pur denunciandone lentezze e criticità. Nessuno ci impone la regola, né l’ortodossia. Possiamo apprendere ed essere influenzati da modelli, cercando di ritenerne le positività, difendendoci dalle caratteristiche che non ci piacciono e che metterebbero in crisi la nostra cultura e i nostri valori. Ecco che possiamo tranquillamente studiare il Total Quality Management, derivarne strumenti e approcci metodologici, senza per questo iscriversi integralmente nel modello produttivo e sociale nipponico. Ecco che possiamo adottare il Project Management e il dinamismo adhocratico, usandoli come riferimenti, modelli, contaminando il nostro pensiero e facendoci sollecitare da chiavi
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libera la Qualità interpretative e da metodologie applicative, senza doverne sposare né etica, né, tantomeno, principi e valori. Allora la Nasa che ci viene raccontata in Apollo 13, può diventare suggestiva senza bisogno che sia intesa come riferimento cui aderire totalmente. E, forse, dopo questa riflessione, possiamo anche ritenerci soddisfatti di essere all’interno di un mondo, sicuramente meno efficace, ma altrettanto sicuramente più consono alla nostra sensibilità e cultura. Il film è quindi uno stimolo, una sollecitazione, non propone un modello totalizzante. Per altro, il contesto in cui il film si sviluppa è caratterizzato da altissima tecnologia e la trama ci racconta la storia di un’emergenza, dove diventa fondamentale salvare tre vite umane. Quante vite vengono salvate quotidianamente nelle nostre strutture sanitarie? Quanta emergenza è connaturata con la tipologia dei servizi che i nostri ospedali erogano? Quanto è elevata oggi la struttura tecnologica con la quale ci troviamo ad operare? Bene, anche queste condizioni possono di buon grado consentirci di utilizzare la storia raccontata da Howard come opportunità per riflettere su di noi e sul nostro operare. Siamo ancora a promuovere modelli di contaminazione, piuttosto che teorie monolitiche.
2.2.2
Leadership situazionale
Tra le cose che ci opprimono ce n’è una che è particolarmente molesta: le affermazioni apodittiche. Quando poi queste affermazioni riguardano le stesse persone che le asseriscono, il sentimento muta: dall’oppressione al compatimento. Non c’è niente di più patetico che un’autodefinizione assoluta. Come a ricercare nell’attestato che si fa di se stessi, l’approvazione inevitabile dell’altro. Convincere gli altri, di una cosa di cui non siamo convinti noi, affermandola con forza e aspettandoci riconoscimento e collusione. “Sono un leader democratico”. Oppure, quelli più disincantati, che non hanno paura di lanciarsi in sentenze che li collocano in posizioni impopolari, a causa della loro certa conoscenza del genere umano e delle scarse virtù che lo accompagnano: “sono un leader autoritario”.
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libera la Qualità Si guardi bene: non propendiamo, nemmeno per simpatia, per nessuna delle due categorie. Ci sembrano assurde entrambe. Ci sembrano capaci, infatti, di negare nel profondo l’ontologia stessa della leadership. Un leader si confronta con lo stadio di vita del gruppo che coordina. Un leader non è, un leader diventa. Sicuramente non si nasce leader. Ci possono essere dei tratti caratteriali che favoriscono la leadership: il carisma, l’estroversione, la temperanza, l’autostima ecc. Ma nessuna di queste caratteristiche, né da sola, né congiunta alle altre, è garanzia di una buona leadership. Per diventare leader si deve studiare. Non sono poche le competenze da acquisire, sia di natura organizzativa che psico-relazionale: analisi di processo, capacità di descrivere i processi, indicatori e monitoraggio degli stessi, pianificazione, controllo di gestione, assetti strutturali, riconoscimento e rispetto dei ruoli, delega, gestione dei conflitti, implementazione di sistemi di assessment, sviluppo motivazionale e lettura dei bisogni ecc. Per ognuna di queste competenze esiste una cospicua letteratura di riferimento. E poi c’è l’esperienza. Quella ce la si fa sul campo, sbagliando e cercando di limitare al minimo le conseguenze degli errori. Una cosa è sicura: per saper dirigere occorre aver imparato ad obbedire. Una lunga appartenenza a gruppi di lavoro, consente sicuramente di aver testato tante situazioni e saperne riconoscere opportunità e punti critici. Ma inevitabilmente, per quanta esperienza uno possa aver maturato, la realtà operativa eccederà la casistica riscontrata e s’incontreranno nuove storie, nuove persone, nuove dinamiche, nelle quali occorrerà spendersi con attenzione e impegno. Modulare il proprio stile di leadership sullo stadio di vita del gruppo significa saperne leggere la maturità organizzativa, il livello di autonomia, il grado di appartenenza, le competenze espresse e le attitudini esplicitate e latenti. In ogni situazione avremo quindi necessità di comportamento diverse da parte del leader: avremo situazioni in cui si dovrà essere particolarmente direttivi, per far fronte alla scarsa autonomia e alla fragile lettura del contesto da parte dei membri del gruppo, ne avremo altre in cui sviluppare la delega e garantire supporto diventerà, invece, la prerogativa di un buon leader. Stiamo quindi configurando una leadership situazionale, ovvero capace di declinare i propri interventi in funzione delle diverse
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libera la Qualità condizioni organizzative che verranno rilevate, sia dal punto di vista competenziale che da quello emotivo. Sicuramente l’autorevolezza è condizione per poter attivare ogni tipo di intervento. E l’autorevolezza ci si guadagna nel tempo su base esemplare. Occorre essere credibili e disponibili, nonché riconosciuti nel proprio ruolo. Nel concreto, questo significa: chiarire gli scopi, diffondere le informazioni, assicurare sufficienti risorse, provvedere a sostegni relazionali e affettivi, coinvolgersi personalmente e garantire un ambiente comunicativo dove si possa sviluppare una cultura d'identificazione. Il leader si muove quindi all'interno di un sistema che è contemporaneamente capace di promuovere una sua ritualità e di produrre dei propri miti. Provo a spiegarmi. Quando, ad esempio, svolgiamo la nostra attività consulenziale per un'Organizzazione, cerchiamo di entrare in possesso di tutta la struttura documentale che la descrive: l'organigramma, la mappa dei processi, le procedure e quant'altro sia in grado di darci una fotografia dell'Organizzazione stessa. Poi ci avviciniamo alla macchinetta del caffè e parliamo con le persone. È qui che scopriamo la realtà profonda della comunicazione aziendale, la sua dimensione "informale", in breve, i riti di quel gruppo di persone. E così veniamo a sapere molto del substrato comunicativo che è attivo in quella realtà, simpatie ed antipatie che, organizzativamente parlando, costituiscono strumenti di supporto o di ostacolo allo sviluppo del team e alla sua capacità di performance. Analogamente, si comprende come il gruppo abbia i propri miti. Vere figure di riferimento, formali o informali, persone, azioni od oggetti che costituiscono elemento di canalizzazione del senso di appartenenza. Un leader dovrebbe essere capace di promuovere questa mitizzazione, anche, magari, giocando sui propri vezzi, sul quel paio di scarpe particolari, su quella passione per la musica. Si pensi all'orologio sul polsino o il nodo particolare della cravatta di Gianni Agnelli, alla maglia "lupetto" di Steve Jobs ma anche alla Haka, la danza maori della nazionale neozelandese di rugby. Ecco, l'incontro tra il mito e la sua ritualizzazione, diventa un supporto davvero significativo ed efficace al senso di appartenenza. Il leader deve riuscire a piantare un totem, il suo, particolare, specifico ed originale, intorno al quale il gruppo danza e si riconosce come appartenente. Ecco da dove proviene l’autorevolezza.
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libera la Qualità Abbiamo anche parlato di attitudini. Queste non sono assolutamente da confondersi con le competenze. E non sono nemmeno facili da disoccultare. Nel tempo, le persone, si sono abituate a non esplicitare le proprie preferenze e i propri talenti. Siamo costantemente vittime della “sindrome della naja”: ≪chi sa utilizzare il computer? Bene, a
pulire i cessi!≫ E allora ci si guarda bene da dire cosa ci piace e per cosa siamo portati. Ma perché nelle Organizzazioni si mortificano le attitudini? Forse perché riconoscendole e valorizzandole, si perde parte del controllo. Se si delega la conduzione di un processo a chi ne sa più di noi, perché su quel processo esprime il suo talento, certamente, si rischia di non sapere come e quanto il soggetto si muove. E questa condizione, inevitabilmente, crea una situazione di fragilità dal punto di vista del potere. Un leader deve saper rinunciare all’ossessione del controllo in favore di un aumento della produttività e della crescita del team. Valorizzare le attitudini, significa sviluppare anche motivazione e appartenenza. Il controllo va esercitato sul prodotto e non sul processo: si misura e si valuta l’esito della performance e la corrispondenza di questa al mandato; non come si sia raggiunto il risultato, che è prerogativa assoluta del professionista.
2.2.3
Le scelte del leader Dio ha fatto l'uomo come l'oceano ha fatto i continenti: ritirandosi Friedrich Hölderlin
Non ci siamo dimenticati del film. Ci interessava presentare, almeno sommariamente, i tratti e le caratteristiche di un leader. E adesso vediamo come, nelle sequenze del film, la leadership è stata rappresentata. Abbiamo innanzitutto almeno due leader, Gene Kranz e Jim Lovell. Il primo, responsabile della missione e coordinatore del team “a terra”, quello che opera nei reparti della Nasa. Il secondo, responsabile del volo. Partiamo da Lovell. A tre giorni dal lancio della missione Apollo 13, si verifica un’epidemia di morbillo.
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libera la Qualità Ken Mattingly, pilota designato alle difficili manovre della navicella e unico astronauta destinato a restare sulla nave spaziale mentre gli altri due scendono sulla luna con il LEM, non ha avuto il morbillo. I vertici della NASA decidono di sostituire il pilota con la riserva e lo comunicano a Jim Lovell il quale resta contrariato e prova ad opporsi alla decisione. Vengono poste due possibilità: o si cambia il pilota, o si cambia l’intero equipaggio. La scelta spetta a Lovell.
22’ 46’’ ≪è stata una mia decisione!≫
Forse è il momento più intenso di tutto il film dal punto di vista manageriale. Jim deve rinunciare al suo pilota, amico e compagno di tutto il percorso di preparazione, fidatissimo collega. L’alternativa è rinunciare alla missione. La rinuncia significherebbe, tra l’altro, creare una criticità organizzativa decisamente elevata: non soltanto una sostituzione, ma il cambio di tutto l’equipaggio. La scelta di Lovell è straordinaria. Lo è perché difficile ma, soprattutto, perché gestita in modo eccellente: Lovell non soltanto decide di non creare ulteriori problemi alla missione ma si incarica personalmente di comunicare la scelta a Ken. Lo fa convocando l’intero equipaggio e si assume la responsabilità della decisione. Lo fa malgrado non fosse convinto della decisione stessa. Se si sta in un’Organizzazione, se ne rispettano le gerarchie e le decisioni, assumendosi, di fronte ai propri collaboratori, la responsabilità. Non farlo metterebbe in cattiva luce l’Organizzazione stessa e, soprattutto, introdurrebbe una fragilità devastante nelle dinamiche di ruolo. Se un coordinatore mette in discussione i propri superiori, adducendo loro le “colpe” di una decisione impopolare, apre la possibilità, per non dire la certezza, di vedersi mettere in discussione a sua volta dai collaboratori.
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libera la Qualità Molti avrebbero spostato la responsabilità della scelta sull’Organizzazione. Ma un vero leader, anche in una situazione critica, non abdica al proprio ruolo. Non solo Lovell accetta la scelta e la comunica, ma, nei tre giorni successivi, che vedranno una febbrile formazione del nuovo pilota, difenderà lo stesso continuamente dalle critiche che gli vengono mosse sia dall’altro membro dell’equipaggio che dai membri del gruppo di simulazione. L’accettazione della soluzione è quindi totale e radicale. Senza condizioni. Un esempio straordinario di appartenenza e di responsabilità. Dopo l’esplosione a bordo, le dinamiche relazionali all’interno della navicella sono sicuramente esasperate dalla precarietà della situazione. A Jack Swigert, il pilota sostituto, viene rimproverato da Fred Haise, il secondo astronauta, di aver provocato l’incidente, senza aver controllato i dati relativi ai serbatoi di ossigeno, la cui inversione sembra aver scatenato la reazione esplosiva. Il pilota è palesemente sotto stress e dichiara di sentirsi abbandonato dalla centrale NASA, la quale a suo dire non sa come risolvere la situazione.
1h 22’ 51’’ ≪ci sono un migliaio di cose che devono accadere in sequenza e noi ora siamo alla n°8≫
Jim Lovell si fa carico della gestione emotiva del conflitto fra i due colleghi. Razionalizza il problema, riporta la questione a dati specifici. Propone di intervenire su quello che si può fare. Interviene dunque come mediatore delle controversie che non sono di sostanza, ma evidentemente emotive. Smonta la visione paranoica di Jack e quella colpevolizzante di Fred. C’è anche lui nella navicella. Anche lui rischia di morire. Anche lui ha le solite, scarse, informazioni degli altri. Eppure agisce con estrema direttività, impartendo i compiti ai due collaboratori e
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libera la Qualità riportandoli all’unica scelta possibile: quella di operare al meglio sulle risorse presenti. L’unica possibilità che possono percorrere è quella di lavorare sui pochi elementi a loro disposizione e cercare di renderli funzionali alla risoluzione del problema. Pochi attimi prima del rientro, quando oramai i giochi sono fatti e si tratta di superare l’ultimo pericolosissimo atto, il rientro nell’atmosfera terrestre, i tre astronauti si siedono sui loro seggiolini. Jack, per aiutare Fred, febbricitante, ad assicurarsi alla propria postazione, si siede sul seggiolino centrale. Quando arriva Jim si siede sul seggiolino vuoto, il posto del pilota, e si crea una situazione imbarazzante, perché sembra che Jim voglia occupare il posto del collega. Ma appena Jim si rende conto della situazione, restituisce il posto di pilota a Jack.
1h 56’ 30’’ ≪scusa Jack, ci sono affezionato al sedile del pilota…è tutto tuo!≫
Anche questa situazione è di straordinaria efficacia dal punto di vista della rappresentazione di come un leader debba saper rispettare i ruoli e le deleghe formali presenti nel gruppo. Pur in una situazione critica e pur avendone tutte le competenze (Jim è stato più volte pilota in missioni precedenti ed ha sicuramente un’esperienza maggiore del collega), il capitano Lovell, riconosce al proprio pilota il ruolo e le competenze necessarie e non si sostituisce a lui. Un grande leader. Un esempio straordinario di gestione delle relazioni interne ad un gruppo. Ma veniamo a Gene Kranz, il responsabile della missione Apollo 13. Un altro leader assolutamente autorevole. Ricordate la questione dei miti?
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libera la Qualità Sta per partire il vettore Apollo 13. Siamo nella sala controllo. Gene Kranz non è ancora apparso. C’è un lungo piano sequenza che accompagna una scatola attraverso tutta la sala. Una vera e propria processione. La scatola viene depositata davanti alla postazione del capo missione. La apre, estrae un gilet, confezionato, come per ogni missione, dalla moglie. Il gilet viene indossato. Tutti gli operatori applaudono.
30’19’’ ≪cominciavo a preoccuparmi…eccolo qua≫
30’ 54’’ ≪molto elegante! Ora possiamo procedere…≫
Ecco una chiara rappresentazione di come il mito supporta la leadership attraverso una ritualizzazione di elementi che possono sembrare anche banali, ma di fatto, costituiscono uno dei poli catalizzatori del team. Quando abbiamo visto questa scena, abbiamo definitivamente eletto questo film a strumento didattico assolutamente capace di descrivere tutte le dinamiche di un gruppo di lavoro. L’attenzione a questi dettagli offre al formatore un supporto quasi imprescindibile.
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libera la Qualità Gene Kranz indossa l’abito talare: il sacerdote può iniziare a celebrare la funzione. Il gruppo riconosce il totem e balla la danza officiata dal proprio leader. Ma all’interno dei gruppi, la leadership non è esercitata soltanto su dimensioni rituali e relazioni. Ci sono aspetti manageriali da gestire. Ci sono scelte da fare e occorre farle a partire da dati di fatto, supporti oggettivi che, spesso, non possono essere rilevati esclusivamente dal leader. Anzi, se si è sviluppato un buon sistema di deleghe, saranno i propri collaboratori ad orientare le scelte. A bordo della nave spaziale c’è stata un’esplosione. Tutti i professionisti in sala comando si attivano per rilevare dati e trovare una soluzione al problema. Uno degli operatori suggerisce di chiudere le valvole dei reagenti delle pile a combustibile, per isolare la perdita di ossigeno. La manovra significa dichiarare fallita la missione, poiché non è possibile riaprirle e non si può allunare in quelle condizioni. Gene Kranz è inizialmente perplesso rispetto alla soluzione prospettata. Ma i dati sono quelli: l’unico modo per provare a fermare l’emorragia di ossigeno è quello. Il capo della missione fa impartire l’ordine di chiudere le valvole.
30’ 54’’ ≪Gene, la Odyssey è spacciata! Per quanto mi riguarda, questa è l’unica alternativa…≫
Le scelte sono del leader. I dati su cui si basano le scelte sono forniti dagli operatori e sono incontrovertibili. Non è facile prendere alcune decisioni; farlo con il supporto di dati è fondamentale.
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libera la Qualità In molti altri passaggi del film, le scelte di Gene Kranz sono state supportate da informazioni che ogni professionista era, per delega e per competenza, in grado di fornire. Il leader si assume la responsabilità della scelta, ma fa di tutto per poter effettuare la stessa sulla scorta di dati che la rendano la migliore possibile. Uno dei metodi più interessanti per la raccolta di queste informazioni è il brain storming: si lasciano parlare i collaboratori, ognuno porta il suo punto di vista e le ipotesi che ritiene più pertinenti. Poi è il leader che sintetizza lo studio, effettua una ricognizioni analitica delle ipotesi formulate, effettua la scelta. Durante uno di questi momenti, spesso rappresentati nel film, Gene Kranz incappa in un’ulteriore criticità: parrebbe risibile, banale, eppure il suo comportamento in questo frangente è davvero eccellente. Un gruppo di professionisti è raccolto in una saletta per riportare le proprie idee su come far rientrare la Odyssey a terra. Gene Kranz si appresta a sintetizzare la scelta, si avvicina ad una lavagna luminosa per disegnare su un lucido il percorso, l’accende e la lampadina dello strumento si fulmina. Gene Kranz sposta la lavagna luminosa, alza lo schermo, scopre una comunissima lavagna, prende un gessetto e procede con il disegno.
1h 04’ 57’’ ≪…improvvisiamo una nuova missione. Come li riportiamo a casa?≫
Chiunque si sarebbe arrabbiato imprecando contro il fatto che “quel giorno” niente funzionava…nemmeno la lavagna luminosa. Gene Kranz, no. Lui prende e fa con quello che c’è.
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libera la Qualità Il messaggio è chiaro, esemplare: la navicella si è rotta e bisogna riportarla a casa con quello che resta a disposizione, esattamente come, se si rompe la lavagna, si può disegnare lo stesso, in un altro modo. Un leader attrae con l’esempio. Non possiamo “spingere” le persone ad ottenere risultati, dobbiamo far loro vedere che si può raggiungere l’obiettivo e far vedere loro come. E se le risorse sono poche, dobbiamo far vedere che siamo capaci di usarle al meglio. In questo modo, e solo in questo modo, possiamo sostenere la motivazione. È, ancora, a partire da questo comportamento esemplare che si costruisce la propria autorevolezza. Quell’autorevolezza che sembra sconfinare in presunzione, quando Kranz afferma: “Non abbiamo mai perso un americano nello spazio e di sicuro non ne perderemo uno mentre io sono qui……. il fallimento non è contemplato!” Oppure quando il presidente Nixon chiede quante probabilità ci sono di riportare a casa gli astronauti e lui risponde: “Non perderemo l’equipaggio!” E infine, ancora, quando verso la fine della drammatica avventura, di fronte a decine di variabili critiche che potrebbero far fallire il rientro nell’atmosfera terrestre, in risposta a chi paventava che potesse essere la peggior tragedia della Nasa, Kranz afferma: “Con tutto il rispetto, signore, io penso che sarà la nostra ora di gloria!” Non è presunzione, né tantomeno incoscienza. È ferma determinazione a perseguire l’obiettivo: se il responsabile di un progetto afferma che ci possono essere solo il 30% di probabilità di successo, il team lavorerà, al massimo, per il 30% delle sue potenzialità. Affermare con decisione che l’obiettivo verrà raggiunto è l’unica possibilità di avere una tensione massima verso il risultato da parte di tutti. Tranne poi, in caso d’insuccesso, assumersene le responsabilità e valutare quali sono stati gli eventuali errori commessi. La motivazione è quindi una condizione da alimentare e custodire con cura. Non è né un prerequisito da considerare scontato e dovuto, né un atteggiamento imputabile ai singoli membri del team: è il leader che si fa carico di questa impegnativa e costante ricerca di empowerment del team, consapevole che gli elementi psicologici in gioco sono molteplici e che ogni membro del gruppo è sensibile agli atteggiamenti di tutti quanti gli altri, a maggior ragione del leader.
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libera la Qualità Impegno costante dunque per il sostegno del gruppo, facendosi carico delle tensioni, assumendosi la responsabilità delle scelte, difendendo il team dagli eventuali insuccessi, promuovendo e valorizzando le competenze e le attitudini attraverso la delega. E poi si resta spesso soli. Si sono appena aperti i paracadute, la navicella è ammarata, la missione di recupero degli astronauti si è conclusa positivamente. Tutti gioiscono, Kranz, sfinito, sembra davvero solo con se stesso.
2h 04’ 37’’ ≪bentornati a casa…≫
Spesso è così: la conquista dei risultati da parte del team viene festeggiata dai suoi membri, il leader è defilato. Il miglior riconoscimento che può avere un leader è quello di veder esultare il proprio gruppo e attribuire loro il merito del successo. Se si pretende la ribalta non si sarà mai capaci di promuovere una vera crescita del team. Dicevamo della necessità di essere “situazionali”. Dopo tre giorni dall’esplosione, vissuti evidentemente con una forte tensione emotiva e senza riposare, il medico responsabile, invita i tre astronauti a prendere sonno. Lovell in risposta, si toglie i sensori biomedici e viene immediatamente seguito dagli altri due compagni. Kranz minimizza l’accaduto.
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libera la Qualità
1h 33’ 28’’ ≪Si tratta di un ammutinamento, dottore. Stia tranquillo non li ha persi. Cerchiamo di essere elastici…≫
In una struttura come la Nasa, vigono le regole della disciplina militare. La parola “ammutinamento” non è utilizzata a sproposito, né implica decisioni di poco peso. Togliersi i sensori biomedici, durante una missione spaziale, non solo è un atto di insubordinazione, ma impedisce sostanzialmente la ricerca medica in una situazione critica, dove la rilevazione dei dati potrebbe essere comunque di elevato interesse. L’ammutinamento prevede la corte marziale. Eppure Kranz, invita ad essere elastici. Abbiamo quindi un esempio di lettura di contesto che, addirittura, porta il leader ad omettere una delle prerogative del comando, ad invitare il team a comprendere la particolare condizione emotiva dei tre astronauti e ad accettare le azioni, quantunque in discordanza con le regole. La navicella sta rientrando ma ancora non sono pronte le procedure di rientro. Kranz ordina ai suoi di produrle immediatamente.
1h 45’ 05’’ ≪Non voglio tutta la Bibbia, mi bastano un paio di versetti…Voglio le procedure: adesso!!!≫
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libera la Qualità In questo caso è urgente produrre le procedure di rientro: gli astronauti stanno cedendo da un punto di vista psicologico ed è imminente il momento critico dell’impatto con l’atmosfera terrestre. Kranz sa che deve dare informazioni all’equipaggio e, con un’altra eccellente manifestazione di lettura del contesto, urla ai suoi che ha bisogno di questi dati. I due esempi riportati sono apparentemente in contraddizione tra loro, per quanto attiene lo stile comportamentale del leader. In realtà sono di una coerenza estrema. Il leader non è coerente con se stesso, ma con le situazioni che si trova a dover gestire: il suo atteggiamento risulta funzionale al governo delle differenti criticità. È un leader autorevole sempre, direttivo quando serve, supportivo ed elastico quando invece sarebbe insensato applicare rigidamente le regole.
2.2.4
Nominare gli obiettivi per condividerli
Veniamo ad un’altra questione strategica: la determinazione degli obiettivi e la loro contestualizzazione. Siamo all’inizio della storia, si racconta del primo allunaggio e dell’esperienza elettrizzante che hanno vissuto gli astronauti rimasti a terra nel vedere il primo passo di Armstrong sulla luna. Finita la festa, Lovell è nel giardino di casa e “punta la luna”: vuole andarci anche lui, ci è già andato vicino con l’Apollo 8 e sa che sarà protagonista delle prossime missioni.
05’ 10’’ ≪da oggi viviamo in un mondo in cui l’uomo ha messo piede sulla luna e non è un miracolo, abbiamo deciso di andarci≫
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libera la Qualità C’è già stato l’incidente a bordo: la navicella circumnaviga la luna per utilizzarne l’orbita come fionda per il rientro. Gli astronauti passano vicinissimi alla superficie lunare e rimpiangono di non poter scendere. Lovell punta la terra e richiama l’equipaggio ai compiti che li aspettano per il rientro.
1h 11’.14’’ ≪signori, quali sono le vostre intenzioni? Io voglio tornare a casa≫
Cambiano le situazioni, cambiano gli obiettivi. La lettura dei contesti risulta fondamentale per la gestione di un team. Senza orientamento ad un obiettivo, un gruppo non può definirsi un team. Ma la dinamicità degli eventi, a volte la loro frenesia, richiede una revisione degli obiettivi. In questo caso il progetto muta di 180°. Prima si deve andare sulla luna, poi si deve tornare a casa. La sintesi filmica è eccellente: la visione “in soggettiva” del protagonista che “punta i suoi desideri” è molto più efficace di ogni parola. Ma gli obiettivi, per essere tali, vanno condivisi e devono essere nominati. Ed è quello che Lovell fa, riportando concretamente i suoi compagni alle azioni da compiere per questo nuovo progetto: il rientro a casa. Analogamente, a terra, Kranz si muove con tutti i suoi collaboratori per organizzare il rientro e, anche lui, condivide e nomina il nuovo obiettivo. Abbiamo già visto prima, “improvvisiamo una nuova missione…”, ma anche: “scordiamoci il piano di volo” e, ancora, di fronte alle rimostranze dei progettisti del LEM che non sembrano convinti dell’utilizzo di questa struttura, progettata per scendere sulla luna e non per ospitare gli astronauti nel rientro a terra: “beh, sfortunatamente non scendiamo sulla luna: non mi interessa per cosa sia stato progettato, mi interessa che cosa può fare”.
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libera la Qualità Ecco, questo significa condividere e nominare gli obiettivi. Se è vero, come dicevano i latini che nomina sunt consequentia rerum, è altrettanto vero che le cose, senza un nome che le rappresenta, semplicemente, non esistono. Occorre nominare le cose, gli obiettivi, per costruire il vocabolario del team. Per parlare la medesima lingua. I vocabolari nascono così: viene assegnato ad un significato, un significante: ad un contenuto, una parola che lo rappresenta. Senza questa operazione, il contenuto, o l’oggetto, o l’obiettivo, non sono patrimonio collettivo, non sono rappresentati, se ne lascia una libera interpretazione soggettiva, in breve: non ci sono. La condivisione degli obiettivi è dunque, in primo luogo, un momento di costruzione della lingua del gruppo, che consentirà di orientare in modo sinergico le intenzioni, le azioni e le risorse verso lo stesso fine. Spesso questa operazione viene omessa o disattesa perché viene dato per scontato che tutti percepiscano il problema nello stesso modo. Non solo questo è un errore perché non consente il raggiungimento dello scopo, in quanto, se non condiviso, ognuno è libero di inventarsi il suo, è anche uno degli elementi scatenanti dei conflitti: laddove non sono chiari e condivisi gli obiettivi, si puntano direzioni diverse e si accusano gli altri di aver preso quella sbagliata.
2.2.5
Il protagonista negativo
Nell’efficacia descrittiva dei processi interni ai gruppi, questo film riesce addirittura a mostrarci anche quello che “non deve” accadere: in tutta la vicenda, ci si sbalordisce continuamente per la costante attenzione ad ogni passaggio e per le scelte sempre eccellenti da parte di ogni professionista: tutti lavorano per un unico obiettivo, sempre. Ma in realtà c’è un soggetto che “canta fuori dal coro”. È il progettista del LEM che, come accennato sopra, quando gli vengono richieste informazioni sulla possibilità di utilizzare il suo apparecchio per poter riportare a casa gli astronauti, si schermisce e continua ad affermare che non è stato progettato per quello. Invece di attivarsi per poter verificare quanto e come poter sfruttare questa risorsa, declina ogni responsabilità. Gli astronauti sono nel LEM e devono riaccendere i motori per correggere la rotta di rientro.
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libera la Qualità Kranz chiede al progettista delucidazioni sulla sostenibilità della manovra e lui si rifugia in affermazioni che scaricano la propria responsabilità. Ma poi, una volta che la manovra riesce, rivendica l’efficacia del proprio apparecchio.
1h 39’ 12’’ ≪lo sapevo!!! Lo sapevo!!! Hai visto il nostro LEM, che mi dici? Che non hai perso il posto…≫
Ma in una struttura adhocratica, dove si premia il merito ed anche la responsabilità, è certo che nel prossimo progetto, questo signore non ci sarà.
2.2.6
La comunicazione
Il film inizia con la descrizione da parte di Lovell di come si intende il lavoro all’interno della NASA: “L’astronauta è soltanto la persona più in vista di un gruppo ben più ampio e tutti noi, compreso il ragazzo che pulisce il pavimento, ci onoriamo di farne parte”. È una comunicazione formale, tenuta durante una visita pubblica all’interno della struttura che contiene il vettore previsto per la missione spaziale. Secondo Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson, autori dell’imprescindibile Pragmatica della comunicazione umana,16 “non si può non comunicare”, ovvero ogni atto performativo, anche il silenzio, comunica qualcosa. Nessuna azione può essere dunque sottovalutata in merito al suo portato comunicativo. Nelle nostre Organizzazioni è centrale fare profonda attenzione a tutti gli agiti e al valore che questi
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AA.VV. Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, 1967
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libera la Qualità promuovono e a come essi vengono recepiti, poiché è quanto arriva che è importante, non quello che parte. È il destinatario della comunicazione che dovrebbe determinare il modo con cui l’emittente comunica, pena l’inefficacia di quanto comunicato. E allora vediamo, ancora una volta rappresentato in modo magistrale, come nel film si dia una considerazione estrema a tutti i setting comunicativi e a come essi vengono presidiati, sia quelli formali e istituzionali, sia quelli di routine e “apparentemente” non importanti. Già abbiamo presentato il modo ineccepibile con cui Lovell ha trattato, anche dal punto di vista comunicativo, l’improvvisa sostituzione del pilota, gestendo almeno tre diversi contesti, con modalità coerenti con i contesti stessi: dalla litigata con i propri superiori, ai quali adduce i motivi della sua perplessità sul cambio di pilota, all’informazione della scelta con il proprio equipaggio, fino alla comunicazione in sede di simulazione, sia con il pilota e l’altro compagno, sia con il team di controllo della simulazione. Accenniamo, proprio per rilevare l’importanza che la comunicazione riveste nella struttura della Nasa, che nessuna trasmissione tra il gruppo a terra e quello nella navicella è gestito direttamente da Kranz: per ogni avviso, esiste un membro del team delegato alla comunicazione ed è lui che gestisce direttamente ogni passaggio con gli astronauti. Soltanto durante la trasmissione delle procedure per il rientro, in considerazione dell’elevato contenuto tecnico, sarà il pilota rimasto a terra, autore della ricerca e della produzione delle specifiche, che terrà contatti diretti con il pilota in orbita. Non possiamo lasciare al caso, non possiamo gestire la comunicazione sull’onda dell’emotività. Nelle Organizzazioni, le emozioni sono fondamentali ma non hanno il diritto di contaminare le scelte tecniche e le comunicazioni formali. Per altro, anche la comunicazione informale, direi familiare, ci offre spunti di riflessione. Siamo nella cucina della famiglia Lovell, Jim ha appena avuto la comunicazione che sarà lui a comandare la missione dell’Apollo 13 e sta facendo colazione con il piccolo figlio. Dopo che Jim ha spiegato al figlio, con linguaggio evocativo e simbolico, come la navicella raggiunge la luna, il bimbo formula una domanda preoccupata al padre, chiedendogli se conosceva gli astronauti dell’Apollo 1, tragicamente periti in un incendio del simulatore.
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libera la Qualità
15’ 35’’ ≪hanno aggiustato tutto? Oh si, non ci sono più problemi…≫
Qualunque genitore, di fronte alla domanda imbarazzante e preoccupata del figlio, avrebbe cercato di sviare l’attenzione, proponendo un gioco e distogliendo l’attenzione dal problema. Lasciando intatte, inevitabilmente, la tensione, la paura e la preoccupazione. Jim invece, con voce calma e rassicurante, si fa carico della responsabilità della comunicazione e spiega, sempre con linguaggio molto comprensibile per il bambino, che conosceva bene i tre astronauti ma che tutto è stato sistemato e che non ci sono più problemi. E lo sguardo rasserenato del bambino è la prova che assumersi questa responsabilità, per quanto a volte possa essere pesante e difficile, è l’unico modo per gestire le situazioni critiche. Analogamente, una volta avvenuto l’incidente a bordo, anche la moglie di Jim si rende protagonista di un’efficace performance comunicativa. La moglie con due figli fa visita in una casa di riposo, dove è ricoverata la madre di Jim, per comunicarle dell’avvenuto incidente. La nonna cerca di rassicurare la nipotina che tutto andrà bene.
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libera la Qualità
1h 30’ 55’’ ≪non ti preoccupare, tesoro: se quelli riescono a far volare una lavastoviglie, il mio Jim la fa atterrare…≫
Ancora una volta un esempio di eccellente responsabilità comunicativa. La nonna è anziana e malata, perché farla preoccupare con una notizia così stressante? Intanto perché le persone hanno il “diritto di sapere” e questo vale ad esempio anche per le notizie infauste che spesso, per lo meno in alcuni reparti ospedalieri, devono essere date e che, altrettanto spesso, malgrado la legge parli chiaro e il buon senso pure, vengono comunicate a tutti tranne che al diretto interessato. Inoltre, e qui davvero l’esempio diventa immediatamente chiaro di quanto assumersi la responsabilità della comunicazione sia utile e produttivo, la nonna, appena appresa la notizia, diventa, a sua volta, elemento di comunicazione positiva, rassicurando la nipotina con una battuta tanto felice, quanto efficace. Un’ultima riflessione sul tema della comunicazione ci viene dalla rilevazione di come, in alcuni casi, comunicare abbia davvero effetti di grande motivazione e sostegno psicologico: verso la fine della storia, in piena fase di rientro e con gli astronauti ormai allo stremo e anche terrorizzati dal fatto che a terra non riescano a trovare soluzioni valide per il rientro, dal comando, arriva la comunicazione che devono spostare degli oggetti dentro la navicella perché non essendo allunati e non avendo raccolto delle rocce come campioni, il peso della navicella risulta inferiore al previsto. Questa comunicazione, oltre ad avere un valore tecnico, ha sicuramente un peso emotivo enorme: nessuno si sogna di dare informazioni così tecniche e specifiche se non sa cosa fare. Il gruppo percepisce dunque di non essere stato abbandonato e si rigenera per affrontare le ultime pericolose fasi del rientro. Quanto affermato dovrebbe aiutarci a comprendere come, l’analisi dei dati, la loro produzione e la loro formalizzazione, abbia
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libera la Qualità un valore non soltanto contestuale e inerente all’oggetto di lavoro, ma costituisca supporto continuo al clima del team. Frequentemente ci viene chiesto un sostegno formativo sulla comunicazione perché si è in presenza di criticità organizzative e conflitti. In realtà, la comunicazione è diventata un po’ l’alibi e la panacea per ogni situazione difficile: parrebbe essere sia causa che risoluzione dei problemi. Sembra infatti che sia proprio la cattiva comunicazione ad essere il terreno di scontro nelle Organizzazioni. E così, si investono diversi denari per avere formazione sulla comunicazione, con tutti i contenuti ad essa correlati: prossemica, comunicazione non verbale, gestione dei conflitti ecc. Il problema è che dopo questi corsi di formazione…il problema persiste. Per quanto si possa riflettere sulle relazioni ed acquisire competenze sugli stili comunicativi, si resta sempre su condizioni astratte, su teorie che poi, in concreto, non si riesce quasi mai a mettere in essere. La comunicazione non è cosa che si impara è cosa che si pratica. E allora, forse, è meglio accompagnare queste teorie, assolutamente interessanti, sia chiaro, con elementi pragmatici. Ecco perché parliamo di dati così come di procedure. Scrivere insieme una procedura significa, infatti, “dover” comunicare con gli altri. Ma lo si fa su un oggetto concreto e “altro” dalla relazione: ecco dunque che le teorie che studiano la relazione trovano campo di applicazione e possono essere declinate su oggetti che ne consentono la manifestazione pratica senza che restino puro esercizio speculativo.
2.2.7
La gestione delle risorse «Misura ciò che è misurabile e rendi misurabile ciò che non lo è» Galileo Galilei
Un litro d’acqua nel deserto è una risorsa. Lo stesso litro d’acqua, davanti ad una fonte sorgiva alpina, che rovescia e disperde nei campi e sulle rocce questo importantissimo liquido vitale, non è una risorsa. Non è dunque la qualità o la quantità dei beni che determina le risorse. La caratteristica principale che rende un bene risorsa è il suo essere limitata. Ci troviamo spesso all’interno di realtà dove si lamenta la scarsezza di risorse ed il fatto che ci si trova a doverle gestire in
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libera la Qualità precarietà. La condizione è, diciamolo, tautologica. Non ci fosse questo limite, non avremmo bisogno di gestire le risorse. Se ci pensiamo bene, anche le cosiddette risorse umane, si sono cominciate a gestire: la nascita della funzione aziendale Gestione Risorse Umane è contestuale allo sviluppo delle risorse umane stesse, alla loro crescita in termini di valore come elemento centrale dei percorsi produttivi delle Organizzazioni. Fintanto che le persone erano semplicemente delle appendici delle macchine e fintanto che non se ne percepiva la discriminante produttiva, non si doveva gestire nulla, semplicemente si reclutava, si sfruttava e, laddove veniva meno la produttività, si sostituiva. Non c’era nulla di manageriale, era una funzione che si autogestiva ed era spesso direttamente ricoperta dal datore di lavoro. Quando la produzione si è fatta più complessa, quando il mercato è diventato selettivo, quando il cliente è diventato protagonista, quando i servizi sono diventati centrali nei sistemi di riproduzione del capitale, la risorsa umana è assurta a elemento critico, nonché distintivo del sistema di lavoro: la complessità dei processi, le caratteristiche sempre più articolate delle diverse competenze, la distinzione tra i diversi sistemi di valori che caratterizzano le Organizzazioni, hanno imposto un sistema di gestione. Le persone sono diventate risorse. Analogamente possiamo pensare allo sviluppo tecnologico. Un tempo, in pieno regime tayloristico, la tecnologia fungeva da mero supporto tecnostrutturale. Si impiantava una catena di montaggio, si standardizzava la produzione, se ne definivano le specifiche e si controllava a campione il prodotto. La tecnologia era povera e, semplicemente, se ne doveva garantire il funzionamento. Oggi la tecnologia accompagna di pari passo lo sviluppo delle risorse umane: se ne richiede una costante gestione proprio in quanto non basta che funzioni. La macchina, una volta accesa, deve essere direzionata ed il suo valore produttivo dipende sempre più dal pilota. Non c’è oggi una tecnologia autonoma. Non c’è la catena di montaggio. Ecco allora che si sviluppano diversi sistemi di governance che, così come per le persone, richiedono meta-competenze: si deve organizzare l’utilizzo della risorsa tecnologica, tanto quanto si deve organizzare la struttura del team. Nasce dunque il management delle risorse, poiché queste risorse vanno ottimizzate. Per quanto riguarda il personale, abbiamo già visto quanto la figura del leader abbia un ruolo di governo strategico e possa garantire la performance proprio grazie alla sua sensibilità
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libera la Qualità relazionale, psicologica, alla sua capacità di promuovere riti, ma anche di indirizzo, di condivisione di obiettivi, di gestione dei processi. Per la tecnologia, l’altra risorsa critica, nasce il technology assessment, condizione fondativa per poterne governare la complessità, la fragilità e i suoi raffinati sistemi di funzionamento. Le ruote dentate, gli ingranaggi oliosi e la ferraglia immortalati da Fritz Lang in Metropolis o da Charlie Chaplin in Tempi Moderni hanno lasciato spazio a milioni di apparecchi hardware (buffo che il nome richiami la ferramenta) di ogni azienda.
Qualche settimana fa siamo passati nella City londinese di notte. Dai seggiolini rialzati del bus a due piani, la mia compagna mi ha fatto notare lo spettacolo affascinante di file sterminate di tavoli con sopra computers, presenti nei luminosissimi uffici di uno dei centri d’affari più importanti del mondo.
È questa la nuova tecnologia.
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libera la Qualità E quando l’hai preparata, manutenuta e resa funzionante – e non è cosa da poco – non hai ancora fatto nulla: la gestione dei vari Centri Elaborazione Dati è puramente tecnica, prerequisito per l’utilizzo di ognuna delle macchine della rete. L’uso delle nuove tecnologie è spaventosamente individuale, ognuno tira fuori dal silicio e dai bit quello che serve alla moderna produzione in modo assolutamente discrezionale. Il sistema di gestione delle risorse diventa strategico. Non possiamo sempre e solo lamentarne l’insufficienza. Abbiamo detto che una risorsa è tale proprio in quanto limitata. E allora è proprio sul governo di questo limite, sulla riduzione degli sprechi e delle inefficienze, sulla razionalizzazione e ottimizzazione dei processi che si gioca la partita gestionale. Nel film c’è anche questo. Nel LEM, utilizzato come scialuppa di salvataggio, c’è problema di eccessiva presenza di CO2. Il LEM prevedeva la presenza a bordo di due astronauti, doveva servire per allunare. Invece adesso è utilizzato per navigare nello spazio con l’obiettivo di rientrare a terra. Gli astronauti sono tre e la loro respirazione produce gas tossico in eccedenza. I filtri presenti sulla navicella sono di un diverso formato da quelli presenti sul LEM.
1h 17’ 20’’ ≪beh, allora inventatevi come mettere un piolo quadrato in un buco rotondo…≫
Nessuno poteva inviare un nuovo filtro nello spazio. Nessuno poteva lamentarsi del fatto che la progettazione non aveva tenuto conto della difformità di standard dei due filtri. Occorreva attrezzarsi e rendere possibile una sfida che l’uomo combatte da migliaia di anni: la quadratura del cerchio.
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libera la Qualità Una squadra si chiude in una stanza, rovescia sul tavolo una serie di oggetti presenti a bordo della navicella e, con il solo utilizzo di quanto presente, costruiscono un apparecchiatura in grado di far funzionare il filtro nell’alloggiamento necessario. Non è soltanto estrema creatività. La fantasia si fonda sulla conoscenza specifica e di dettaglio di ogni cosa presente a bordo. Per poter utilizzare al meglio le risorse, bisogna conoscerle. Bene. Soltanto conoscendo minuziosamente cosa si ha, è possibile ottimizzarlo e renderlo utile in ogni occasione, anche in quelle insolite. Ed infine, tutto il procedimento per modificare la struttura del filtro e renderla compatibile con l’altro, viene descritto in una procedura, per poterlo comunicare a bordo, in quanto saranno gli astronauti a dover ricostruire l’apparato. In tutto il film, la conoscenza dei dati e la loro comunicazione risulta essere fondamentale per ogni scelta e per la risoluzione dei diversi problemi. Tutte le decisioni sono basate su dati oggettivi. Quando si misurano gli ampere, quando si calcolano i dati per trasferirli da un computer all’altro della navicella, quando si deve scegliere quale sistema utilizzare per il rientro della nave spaziale. La misurazione dei dati è condizione per l’utilizzo ottimale delle risorse. Non si misura mai abbastanza. Siamo troppo orientati al “fare”, poco al “descrivere quello che si fa”, ancor meno a “misurarlo”. Dobbiamo prendere confidenza con indicatori e standard. Dobbiamo prevedere in maniera sistematica la misurazione di quello che facciamo, per evitare l’incapacità di oggettivarne gli esiti e migliorarne i processi. Non è facile, soprattutto perché ci appartiene poco da un punto di vista culturale. Riflettere su quello che si fa, partendo da dati di fatto, misurabili e misurati, sembra spesso una perdita di tempo. È invece condizione per il miglioramento. Se non descriviamo quello che facciamo, non possiamo misurarlo. Se non misuriamo, non possiamo migliorarlo. Se non miglioriamo, saremo sempre qui a lamentarci che non abbiamo abbastanza, ma non faremo mai niente di utile per poter raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati. Con questa esortazione alla misurazione, chiudiamo l’analisi di questo grande film. Ne abbiamo parlato perché, per noi, come già detto, la Qualità è questa: descrivere, controllare e migliorare. Detto in altre parole: conoscere quello che si ha, misurare quello che si fa, valutare quello che si ottiene.
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libera la Qualità In due ore poco più, abbiamo un condensato di esempi efficaci sia nella loro pertinenza che nell’analisi delle dinamiche che si presentano nelle Organizzazioni. Insomma, come vedremo nel prossimo capitolo, questo è il “nostro film”: lo leggiamo così, lo interpretiamo così. Ci piace pensare che, quello che abbiamo scritto qui e detto centinaia di volte, sia il vero messaggio di quest’opera la quale, per noi, è soprattutto un riferimento manageriale. Non ce ne vogliano Ron Howard e i cultori dei disaster movies: questo è il senso di quest’opera. Lo è per noi e questo ci basta. Adesso lo è anche, almeno un po’, per chi legge questo testo.
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libera la Qualità 2.3 Open source: diffondere il modello «…il plagio è necessario, il progresso lo implica.» Isidore Lucien Ducasse conte di Lautréamont
2.3.1
Chi è l’autore di un’opera?
Fin da quando ero ragazzino, non capivo il senso del copyright. Ci hanno provato in molti a spiegarmi il motivo del perché esistessero leggi e consuetudini che regolamentavano la tutela del diritto d’autore: non ci sono riusciti. A prescindere dalla miseria economica che entra nelle tasche degli autori, cosa che dovrebbe invitare quantomeno a una rivisitazione lessicologica, il problema è se e perché, far pagare qualcosa a qualcuno per un prodotto dell’intelletto. Un testo, semioticamente inteso come qualsiasi tipo di produzione comunicativa, un romanzo, una poesia, un saggio, ma anche un film, un’opera musicale, una foto, un dipinto e una scultura, è quello che il destinatario, il lettore, il fruitore, vi vede e non quello che è stato messo dentro dall’autore. Tutta la critica decostruzionista, ha fondato, su questa concezione dell’opera, le proprie teorie: non c’è possibilità di colmare la distanza tra il senso che noi diamo al testo e il progetto dell’autore. È il fruitore dell’opera che costruisce l’opera. Lo stesso Umberto Eco, definisce opera aperta17 ogni testo: aperta a tante interpretazioni, quanti sono gli individui che la interpretano. Senza forzature, e con il conforto di una discreta schiera di critici e filosofi, da Jacques Derrida a Paul de Man, da Harold Bloom allo stesso Umberto Eco, possiamo quindi affermare che questa opera la state scrivendo voi. Ed è a voi stessi che dovreste pagare il diritto d’autore. Il libro, infatti, per questioni di coerenza alle quali non vogliamo affatto rinunciare, esce, grazie anche ad un editore illuminato che me lo ha concesso, senza copyright. Meglio: esce come testo coperto da copyleft, a significare che di regole ce ne sono, per garantire il dovuto rispetto delle intenzioni 17
Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962
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libera la Qualità dell’autore, le mie, ma che non ci sono royalties da pagare e che è possibile – auspicata – una libera distribuzione del testo stesso.
2.3.2
Il copyleft
Il copyleft non è un sistema di distribuzione senza regole. Nasce dentro al Diritto commerciale, proprio per tutelare le regole dell’autore, ovvero, per garantire lo sviluppo delle opere d’ingegno e mantenerle vive, di fronte a coloro i quali, invece, speculano sulle opere stesse e ne esaltano la sola dimensione economica e commerciale. Quando si parla di copyleft, dunque, si intende garantire il senso profondo dell’opera e si promuove la sua diffusione ed il suo utilizzo pervasivo, culturale. Nel 1983, Richard Matthew Stallman, dette un primo colpo al sistema del copyright e del software hoarding (accaparramento), avviando il progetto GNU in risposta a chi, utilizzando il prodotto del suo ingegno, gli impedì l’accesso ai codici sorgenti, in qualche modo blindando la sua opera. Nasce così un’esperienza tra le più interessanti e “sovversive” in ambito commerciale: la sovversione consiste nel fatto che, chi produce, non intende lucrare sul prodotto, bensì diffonderlo e renderlo di dominio pubblico. L’idea è, a nostro avviso, affascinante. E la sua realizzazione e diffusione progressiva è ancor più intrigante, poiché, un approccio quasi naif e molto idealistico, ha trovato, nel giro di pochissimi anni, uno sviluppo e un successo assolutamente eccezionale. Sicuramente, la nascita e l’affermazione del web e di tutta la comunicazione telematica ha costituito un supporto decisivo; malgrado la giurisprudenza rincorra costantemente le innovazioni tecnologiche e cerchi di arginare la costante e progressiva “fame” di cultura free cost, il bisogno di libero accesso ai prodotti culturali è diventato virale e ha bypassato ogni vincolo legislativo, spesso, utilizzando le stesse armi del nemico, ovvero rifacendosi al Diritto commerciale. Insomma, il copyleft, da non confondersi in alcun modo con la pirateria, sebbene muovano entrambi dal bisogno di accesso libero ai prodotti intellettuali, nasce e si sostiene proprio all’interno di un panorama legislativo consolidato, in un’ottica di detournement. L’idea fondativa è quella di garantire libero accesso e divulgazione massima al sapere.
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libera la Qualità Libero accesso, perché siamo convinti che il sapere abbia bisogno di essere disponibile e non elemento di lucro e di discriminazione. Massima divulgazione, perché più si sviluppano i canali di accesso e se ne garantisce capillarità, maggiormente si consente la crescita e l’affermazione delle innovazioni, capaci di imporsi a partire dal riconoscimento di bontà e efficacia delle stesse da parte degli utilizzatori, con la possibilità per gli autori di accedere alla distribuzione in modo agevolato e non vincolato da criteri commerciali selettivi, spesso veri sbarramenti per il decollo di prodotti efficaci e qualitativamente significativi. Non si comprende, ma forse abbiamo un approccio troppo ingenuo, il motivo per cui, a fronte di identica e, spesso, migliore performance di alcuni prodotti freeware (parliamo ad esempio di software open source), si continui a privilegiare l’acquisto di licenze, decisamente onerose e senza possibilità di modifiche e adattamenti ai bisogni dell’utente. Esistono sistemi operativi, piattaforme web, suite office, totalmente liberi, con i sorgenti a disposizione dell’utilizzatore, a costo zero, spesso immuni dai virus, estremamente stabili, assolutamente performanti e, proprio in conseguenza della totale disponibilità dei sorgenti, modificabili e adattabili alle esigenze più disparate e specifiche. Forse qualcuno, prima o poi se ne accorgerà. In realtà, alcune Pubbliche Amministrazioni, sia in Italia che all’estero, hanno già cominciato a intraprendere percorsi di riconversione verso il software freeware, ma il cammino sembra essere lungo e affatto lineare: le controindicazioni che impediscono il passaggio, trovano legittimazioni nei testi legislativi, i quali offrono scappatoie alquanto agevoli per tutti coloro i quali sembrano voler continuare a speculare serenamente su costi che sono davvero ingenti. Ma qualche passo c’è e ogni cammino è fatto di piccoli passi.
2.3.3
Libera rete: le risposte delle Istituzioni
Riportiamo in questo paragrafo la situazione dell’utilizzo di software open source nelle Pubbliche Amministrazioni.
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libera la Qualità Tutte le seguenti informazioni sono tratte dall’Enciclopedia libera Wikipedia18: Motivi La spinta alla valutazione di questo passaggio è motivata da diversi elementi. Da un lato si vuole tutelare con l'uso di formati aperti l'accessibilità ai dati da parte di clienti ed utenti anche a distanza di tempo e contemporaneamente eliminare i potenziali rischi legati alla dipendenza dal software proprietario. Un ulteriore vantaggio non meno motivante del precedente è la riduzione dei costi derivati dall'acquisto delle licenze ma anche necessari per il mantenimento operativo dei sistemi, dato dai costi di assistenza informatica, formazione del personale, rinnovo del software ecc. Questo costo è definito Total Cost of Ownership (TCO). In Italia In Italia la Pubblica Amministrazione sta valutando i possibili benefici derivanti dall'adozione di formati aperti, come si può evincere dall'emanazione di direttive volte a sensibilizzare gli enti in questa direzione. Un punto di riferimento è la direttiva Stanca, in cui si richiede esplicitamente l'adozione di soluzioni informatiche in grado di gestire almeno un formato aperto. Il Centro Nazionale per l'Informatica nella Pubblica Amministrazione (http://www.digitpa.gov.it/), l'ente governativo che si occupa di supportare le amministrazioni nell'utilizzo efficace dell'informatica, gestisce un Osservatorio Open Source destinato ad analizzare e promuovere l’uso e la diffusione di codice a sorgente aperto. L'Osservatorio Open Source del CNIPA ha realizzato una rilevazione continua sull'uso del software open source presso le Pubbliche Amministrazioni italiane; tale strumento - in continua evoluzione - ha lo scopo di raccogliere e diffondere i casi di adozione e le best practice relative all'uso delle tecnologie open in ambito istituzionale. Inoltre, è anche attivo un Ambiente di Sviluppo Cooperativo per permettere lo 18
questo è l’URL di Wikipedia dal quale sono tratte le informazioni riportate nel testo: http://it.wikipedia.org/wiki/Elenco_di_casi_di_adozione_di_software_libero
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libera la Qualità sviluppo (nella tipica modalità "aperta" delle community) di applicativi e componenti open source per la Pubblica Amministrazione. Leggi sul Software Libero Il Decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, Decreto Sviluppo (in supplemento ordinario n. 129/L alla Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 147 del 26 giugno 2012), coordinato con la legge di conversione 7 agosto 2012, n. 134 recante: «Misure urgenti per la crescita del Paese.». (GU n. 187 del 11-8-2012 - Suppl. Ordinario n.171) ha modificato in maniera sostanziale l'art. 60 del CAD, Codice dell'Amministrazione Digitale (Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82 e sue successive modifiche ed integrazioni). Nello specifico l'art. 60 del CAD è stato così modificato: Le pubbliche amministrazioni acquisiscono programmi informatici o parti di essi a seguito di una valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico tra le seguenti soluzioni disponibili sul mercato: a) software sviluppato per conto della pubblica amministrazione; b) riutilizzo di software o parti di esso sviluppati per conto della pubblica amministrazione; c) software libero o a codice sorgente aperto; d) software combinazione delle precedenti soluzioni. Solo quando la valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico dimostri l’impossibilita’ di accedere a soluzioni open source o gia’ sviluppate all’interno della pubblica amministrazione ad un prezzo inferiore, e’ consentita l’acquisizione di programmi informatici di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d’uso. La valutazione di cui al presente comma e’ effettuata secondo le modalita’ e i criteri definiti dall’Agenzia per l’Italia Digitale, che, a richiesta di soggetti interessati, esprime altresi’ parere circa il loro rispetto. Ad oggi (30/10/2012) L'Agenzia per l'Italia digitale sta ancora scrivendo le bozze delle definizioni dei formati dei file e del tipo di documento da adottare.
Queste sono le leggi approvate da alcune regioni italiane.
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libera la Qualità Toscana Il 21 gennaio 2003 all'interno della Legge Regionale su Promozione dell'Amministrazione elettronica e della società dell'informazione e della conoscenza nel sistema regionale. Disciplina della "Rete telematica regionale Toscana" è stato introdotto fra i criteri guida l'utilizzazione di standard aperti e l'utilizzo preferenziale di software a sorgente aperto. Umbria Secondo la Legge Regionale n. 11 del 25 luglio 2006, Norme in materia di pluralismo informatico sulla adozione e la diffusione del software a sorgente aperto e sulla portabilità dei documenti informatici nell'amministrazione regionale, gli uffici pubblici della Regione Umbria devono adottare software libero per produrre documenti e servizi, in modo tale da garantirne un accesso senza ostacoli da parte dei cittadini. Veneto Il 14 novembre 2008 Il consiglio regionale del Veneto ha approvato la legge regionale n. 19 Norme in materia di pluralismo informatico, diffusione del riuso e adozione di formati per documenti digitali aperti e standard nella società dell'informazione del Veneto. Piemonte Il consiglio regionale del Piemonte ha approvato la legge regionale n. 9 del 26 marzo 2009 Norme in materia di pluralismo informatico, sull'adozione e la diffusione del software libero e sulla portabilità dei documenti informatici nella pubblica amministrazione. Lazio Il consiglio regionale del Lazio ha approvato la mozione sul software libero presentata dal Consigliere Regionale Pino Palmieri (Lista Civica Polverini). Attualmente è in corso la proposta di legge che prevede l'utilizzo di OpenOffice.org all'interno della Regione Lazio e in tutta la pubblica amministrazione. Mozione regionale n. 108 del 2 novembre 2010 PROMOZIONE E DIFFUSIONE DEL SOFTWARE LIBERO/OPEN NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE. Puglia
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libera la Qualità Il consiglio regionale della Puglia, in data 24 luglio 2012, ha approvato la LEGGE REGIONALE n. 20 “Norme sul software libero, accessibilità di dati e documenti e hardware documentato” Comune di Firenze Giugno 2001: L'amministrazione comunale di Firenze ha approvato una mozione proponente l'Introduzione e espansione di Software Libero nella Pubblica Amministrazione. Comune di Lodi Marzo 2002: approvata una mozione per l'introduzione ed espansione di Software Libero nella Pubblica Amministrazione Comune di Roma L'assessore al comune di Roma Mariella Gramaglia ha annunciato, nel febbraio 2004, la scelta dell'amministrazione di migrare gradualmente l'infrastruttura informatica a piattaforme di tipo aperto, sottolineando che le motivazioni sono prevalentemente di natura politica. È inoltre previsto che la libera concorrenza sarà favorevole alle piccole imprese locali fornitrici di sistemi open source. Provincia di Bolzano Le scuole italiane in Provincia di Bolzano sono passate al Software Libero. A spingerci verso il software libero - spiega l'ispettore Lorenzi - non ci sono ragioni economiche legate ai costi delle licenze proprietarie. L'unica molla che ci ha spinto al cambiamento è stato un approccio per così dire filosofico che seguiamo nei processi di istruzione. Crediamo che le tecnologie abbiano un ruolo fondamentale nella costruzione dei saperi e poter contare su tecnologie non proprietarie consente di allargare le possibilità di crescita. Istat L'Istituto Nazionale di Statistica (Istat) sta lavorando da anni per introdurre software libero al proprio interno. Per fare questo dapprima è stato creato un gruppo di lavoro sull'Open Source che ha iniziato a diffondere le tematiche del FLOSS, in seguito sono state prese alcune decisioni strategiche, tra cui la più importante è stata la migrazione dei server centrali a Linux.
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libera la Qualità La decisione iniziale è del 2004: andava sostituito il parco installato composto da decine di server RISC IBM e da un server multiprocessore IBM/SP, tutti dotati del sistema operativo AIX. È stata definita dapprima l'architettura hardware (server multiprocessore con processori CISC) e scelta la distribuzione Linux (si è optato per Red Hat): la migrazione è iniziata nel 2005, partendo da una sede "pilota" scelta tra le sedi romane dell'Istituto. Dopo la fase di test, sono state migrate le applicazioni e i database, in parallelo con una fase di formazione del personale (informatico e statistico) sulle funzionalità della nuova piattaforma. Dopo l'esito positivo della sperimentazione, si è deciso di proseguire estendendo la migrazione a tutte le sedi; la migrazione si è conclusa nel 2009. Tra gli obiettivi raggiunti: un notevole risparmio economico: il solo costo delle licenze software annuali non più pagate ripaga i server acquistati nel primo anno; indipendenza dai fornitori hardware che ha consentito di bandire gare dove sono stati ottenuti notevoli risparmi nell'acquisto hardware; un servizio affidabile: nei primi due anni di funzionamento Linux si è dimostrato una piattaforma stabile e sicura. In parallelo è stato introdotto l'ambiente Open Source R, l'uso di R ha consentito all'Istat di iniziare a scrivere software Open Source; alcuni pacchetti software Open Source sono oggi rilasciati alla pagina http://www.istat.it/it/strumenti/metodi-esoftware/software. Brasile Dal 2005 il governo federale brasiliano di Luiz Inácio Lula da Silva intende perseguire una politica decisa per favorire l'adozione del software open source imponendone l'uso agli uffici della pubblica amministrazione. La ragione principale che ha portato alla decisione è di natura economica. L'obiettivo è di dirottare il denaro speso in licenze per sistemi proprietari acquistati all'estero verso lo sviluppo del settore infomation tecnology interno. Per contrastare questa politica la Microsoft ha avviato la distribuzione di una versione di Windows XP con funzionalità limitate ma a prezzo ridotto in Brasile.
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libera la Qualità Francia L'assemblea nazionale migrerà entro il 2007 a soluzioni basate su Linux, OpenOffice.org e Firefox. Dicembre 2005: Dopo avere adottato OpenOffice.org, la Gendarmeria francese ha deciso di adottare Firefox e Thunderbird nei suoi uffici. Germania Nel maggio 2003 il comune di Monaco di Baviera ha annunciato un piano per migrare gradualmente, nell'arco di quattro anni, i propri sistemi informatici da Windows a Linux, tra cui diversi server Windows NT, 14000 PC desktop e 16000 notebook. L'investimento previsto è di 35 milioni di euro. Le motivazioni della proposta, più che per considerazioni economiche sono state considerazioni sull'accessibilità dei dati ma soprattutto la certezza di potere controllare nel dettaglio i codici sorgente. La proposta ha ricevuto l'approvazione di tutte le forze politiche locali tranne il partito conservatore CSU, che si è dichiarato fermamente contrario. Il progetto ha assunto il nome ufficiale di LiMux. Intorno alla metà del 2004 il progetto ha subito un brusco arresto in occasione della possibile approvazione da parte del parlamento europeo della normativa sui brevetti software in Europa. I timori sono dettati dai rischi che nel codice del software libero possano essere presenti violazioni di brevetto, e secondo alcuni studi si andrebbe da poche decine a 238, di cui alcuni Microsoft. Per definire meglio la situazione è stata commissionato ad un gruppo di esperti legali, tra cui Bernhard Frohwitter, esperto in proprietà intellettuali, uno studio dell'impatto che la decisione europea avrebbe sul progetto. In seguito ai pareri rassicuranti uniti al sostegno del governo tedesco e alla determinazione degli ideatori, il progetto è quindi ripreso, sebbene con forti ritardi ed è tuttora in corso Schwäbisch Hall aggiornò le proprie 400 workstations a Linux nel 2002. Le motivazioni principali furono i costi e una maggiore sicurezza data dal software libero. Russia Nell'ottobre 2003 il ministero russo all'informatizzazione ha stipulato un accordo con IBM per avviare un "Centro di competenza Linux". Enti pubblici, istituzioni educative ed aziende
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libera la Qualità possono testare prodotti, ottenere supporto, consulenza, formazione e certificazione. Speranza del governo è che questa iniziativa permetta alle aziende locali di acquisire conoscenze nel settore e acquisire competitività a livello mondiale. Stati Uniti Nell'agosto 2005 lo Stato del Massachusetts ha deliberato di utilizzare software libero per la propria documentazione ufficiale. Il Massachussetts è stato il primo Stato degli USA ad affrontare la questione dell'utilizzo di formati aperti nei documenti pubblici. Su annuncio di Eric Kriss, segretario di stato per l'Amministrazione e le Finanze, il Massachusetts ha convocato un summit sull'open format summit il 9 giugno 2005. Tra gli intervenuti il Segretario Kriss, il CIO Peter Quinn, e rappresentanti di formati proprietari e aperti. Il 31 agosto 2005, il Massachusetts ha rilasciato una bozza della sua politica sull'open format che appoggia esplicitamente il formato OASIS OpenDocument a partire dal 2007, il primo Stato a compiere un'azione del genere. L'implicazione per i commercianti di software è che i loro prodotti devono supportare gli open format a partire dal 2007, altrimenti verranno rimossi dalle scrivanie degli impiegati. Microsoft Office, che attualmente fornisce la quasi totalità delle applicazioni per ufficio sui computer governativi del Massachusetts, ha risposto sottomettendo la sua tecnologia di formato di documenti, Office Open XML (Extensible Markup Language), all'Ecma International, un ente di standardizzazione. Il formato è co-sponsorizzato da Apple, Barclays Capital, BP, the British Library, Essilor, Intel Corporation, Microsoft, NextPage Inc., Statoil ASA and Toshiba. La prossima versione di Microsoft Office, che arriverà il prossimo anno, salverà i documenti in questo formato. Peter Quinn ha annunciato le sue dimissioni il 28 dicembre 2005, citando la controversia sorta intorno alla politica dell'open. Svizzera Dicembre 2005: 3000 server migrati a Linux Austria Nel 2005 migrò da Microsoft Office 2002 a OpenOffice.org e cambiò i propri server Microsoft Windows 2000 a Gnu/linux India
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libera la Qualità Grazie al progetto IT@School nel Kerala fu adottato software libero e opensource per le scuole Il governo di Assam fece dell'opensource una parte del proprio programma politico Romania IOSSPL è un progetto OpeSource usato per le librerie pubbliche.
2.3.4
Il copyright all’attacco
«Dove non esiste più la forza della ragione, subentrano le ragioni della forza»
Non è una difesa di un diritto. È un palese attacco alle libertà, perpetuato nelle peggiori forme, con la violenza propria di un potere cieco alle necessità degli individui, delle moltitudini, a vantaggio del privilegio di pochi, con il pretesto di tutelare presunte legalità e legittimi proventi derivanti dall’ingegno e dalle fatiche degli autori. Peccato che dietro il concetto di “diritto d’autore”, si celino i torti (perché il contrario di diritto è torto, non solo in toscano, ma anche nell’anglofona coppia semantica rights e wrongs) perpetuati dalle majors, dalle multinazionali della produzione e della distribuzione, che sui prodotti intellettuali ci lucrano. E non poco. Citiamo a memoria una discussione tenuta anni fa con un docente universitario, autore di romanzi gialli e strenuo difensore del suo diritto d’autore: la percentuale che gli derivava dal suo diritto così fieramente sostenuto, sul prezzo di copertina dei suoi libri, era del 3%. Su un prezzo medio di un libro di € 20, il suo tornaconto sarebbe quindi di € 0,6. Se non sei Bruno Vespa, Giorgio Faletti o Fabio Volo, la possibilità di vendere più di 3.000 copie, in Italia, risulta davvero remota. Il grande romanziere guadagna dunque, dalla e per la sua fatica, la cifra stratosferica di € 1.800. Totò direbbe: «mi faccia il piacere….» Se vendi 20.000 copie, ovvero sei un caso letterario, guadagni € 12.000.
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libera la Qualità Capiamo che pecunia non olet, ma non ci sembrano cifre da poter ostentare come legittime rivendicazioni per compensare lo sforzo intellettuale e l’ingegno. Piuttosto, il resto del prezzo di copertina, il 97%, chi lo prende? Non siamo scesi nel dettaglio, con l’amico docente universitario. Ci bastava sapere che il suo diritto era ridicolizzato e che, forse, occorreva quantomeno rivedere la dicitura: diritto d’autore? E allora, ci corre l’obbligo di plagiare De Curtis e glielo diciamo anche noi.
Dietro questa mistificazione si cela, peraltro, un’operazione che, per gli autori, risulta essere una terribile inclinazione masochistica: non distribuire gratuitamente un’opera (esclusi i costi, s’intende), significa precluderne la diffusione. Significa condannarsi alla marginalità. Significa non diffondere le tue idee, che dovrebbe essere, a conti fatti, l’obiettivo principale di un autore. La Microsoft ha fondato la sua fortuna sull’imposizione di uno standard: tutti usavano Windows. La maggior parte degli utenti aveva una copia pirata del famoso Sistema Operativo. Questo non ha impedito il successo commerciale e la ricchezza di Mr. Bill Gates. Anzi: proprio la grande diffusione del Sistema Operativo ha fatto sì che questo venisse adottato su larga scala. Comprendiamo le ragioni dei piccoli produttori di software, ai quali, se vengono piratate la metà delle copie, rischiano un drastico ridimensionamento del fatturato. Forse occorre una revisione del concetto, una revisione legislativa ed anche una maggior tutela degli interessi reali degli autori.
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libera la Qualità Questo libro esce con il copyleft. Chi vuole lo può copiare entro le logiche definite nel disclaimer. Il prezzo di copertina della copia cartacea copre i costi di stampa e di distribuzione. Il resto va in sostegno di un’Organizzazione umanitaria. Riusciremo a sopravvivere anche senza i proventi di questa opera. In compenso, speriamo in una più ampia diffusione del testo e saremo contenti se il testo stesso, con quanto da noi espresso, passerà di mano in mano: avremo avuto la possibilità di far conoscere le nostre idee a un numero maggiore di persone. E questo ci basta. Ma gli interessi delle majors non scherzano affatto, non difendono, attaccano. Ecco allora un proliferare di proposte di legge spesso su base transnazionale, considerata ormai la globalizzazione del sistema di fruizione e diffusione. Diamo di seguito una panoramica sommaria e provvisoria degli interventi e delle proposte in essere. In Italia, la tutela del software è stata introdotta con DPR n°518 del 31 dicembre 1992, in recepimento della Direttiva CEE 91/250 e in modifica della legge originaria n° 633 del 1941. Nel 2000, la legge 248 del 19 settembre, ha introdotto criteri ulteriormente restrittivi e punitivi con sanzioni penali ed amministrative. Il Dlgs n° 68 del 9 aprile 2003 recepisce definitivamente la Direttiva 29/2001/CE con l’introduzione di novità sui sistemi anticopia. La legge 128 del 21 maggio 2004 (legge Urbani) estende le sanzioni amministrative anche alla semplice condivisione del software senza finalità di lucro. L’emendamento del deputato leghista Giovanni Fava all’articolo 18 della legge comunitaria 2011, ha intenzione di estendere la responsabilità degli operatori di rete per le eventuali condotte illecite degli utenti, consentendo a chiunque di richiedere al provider la rimozione di un contenuto considerato illecito. Nel dicembre 2012 la Procura della Repubblica di Vallo della Lucania ha provveduto alla chiusura di due portali per la condivisone di file torrent. Il protocollo torrent è il più utilizzato al mondo per la distribuzione di software Linux e la chiusura dei due portali per evitare il file sharing di prodotti coperti da copyright, finisce per ledere il diritto alla libera distribuzione di materiale freeware. E questo è uno solo degli esempi di interventi, più o meno radicali, perpetuati dalla magistratura, in palese attacco al
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libera la Qualità diritto di utilizzare software open source e sfruttare i normali e logici canali di comunicazione e condivisione. Nel frattempo, a livello internazionale ci sono in atto vere e proprie offensive con diverse proposte atte a limitare il libero utilizzo della rete19: SOPA: Stop Online Piracy Act PIPA: Protect Intellectual Property Act Sono proposte di legge statunitensi, ma con effetti internazionali. Attualmente il voto, grazie alle proteste in corso, è stato posticipato. Sopa e Pipa sono due testi piuttosto simili. Entrambi prevedono la possibilità di punire i siti che agevolano la diffusione di materiale pirata, inclusi i motori di ricerca e i social network. I detentori del diritto d'autore possono ottenere un'ordinanza con cui fare oscurare i siti secondo loro colpevoli e i provider dovrebbero occultarli prima ancora che un giudice abbia stabilito la loro colpevolezza. Essendo Google, Facebook, Yahoo! e Twitter società americane, la legge avrebbe un effetto indiretto anche sul web non statunitense. Lo stesso potrebbe accadere con il Domain Name System, gestito dalla californiana Icann e alla base del funzionamento della rete. Tra i due testi è il Sopa il più restrittivo, visto che estende la sua attività a ogni sito che anche solo in parte agevola la diffusione di materiale pirata, mentre il Pipa si concentra sui siti nati proprio allo scopo di violare il copyright. ACTA: Anti Counterfeiting Trade Agreement Accordo commerciale multilaterale segreto tra Australia, Canada, Giappone, Marocco, Nuova Zelanda, Singapore, Corea del Sud, Stati Uniti e 22 paesi dell'Unione Europea (Italia inclusa), in attesa di ratifica da parte del Parlamento europeo. Si occupa di contrastare la contraffazione internazionale, sia “fisica” che “digitale”. Fornisce il potere ai detentori del diritto di autore di fare pressione su provider e intermediari per bloccare contenuti direttamente o raccogliere informazioni su sospetti pirati, senza un mandato del giudice. L'accordo incentiva infatti la collaborazione diretta tra mayor e provider scavalcando polizia e autorità giudiziaria, negando nei fatti il diritto a un processo equo e aprendo la porta a rischi rilevanti per la privacy del cittadino. Molto contestata è poi la segretezza con cui i vari attori hanno negoziato l'accordo scavalcando i parlamenti nazionali e le istituzioni 19
Informazioni tratte dal portale on line di La Repubblica: http://static.repubblica.it/repubblica/tecnologia/diritto-autore
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libera la Qualità comunitarie e internazionali. Le prime bozze del documento sono state rese pubbliche solo grazie a siti come Wikileaks e sono passati tre anni prima che i documenti fossero diffusi per vie ufficiali. TPPA: Trans-Pacific Partnership Agreement Accordo commerciale multilaterale segreto tra Singapore, Cile, Nuova Zelanda, Brunei, Australia, Perù, Vietnam e Stati Uniti, in fase di negoziazione, al fine di agevolare il commercio tra Asia e Americhe attraverso la riduzione o eliminazione dei dazi doganali. Nella parte dedicata alla proprietà intellettuale, redatta sulla base della legge statunitense, prevede l'estensione della durata del copyright, la disconnessione forzata e sanzioni penali per chi viola il diritto d'autore. L'ammontare dei danni verrebbe poi calcolato da chi detiene il diritto d'autore. I documenti con le bozze dell'accordo sono coperti da segreto.
2.3.5
Non solo software «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con la biro, l’uomo con la pistola è morto» Roberto Benigni «A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca» Lorenzo Milani
Abbiamo già parlato dei software e anche, in minima parte, del misero ricavo tratto dagli autori dal copyright sull’editoria. Ci piace comunque pensare che le logiche del copyleft possano essere estese ad ogni prodotto intellettuale, con la possibilità di accrescere il sapere collettivo e poter, al contempo, tutelare i veri diritti dell’autore, che sono quelli di non veder il proprio prodotto sfruttato a fini commerciali o distorto nelle sue linee e idee costitutive. L’open source, i codici sorgenti aperti e disponibili, sono un paradigma che può essere utilizzato per ogni prodotto dell’intelletto, anche al di fuori del mondo informatico che lo ha partorito. Gli stessi documenti che noi produciamo nel corso della nostra consulenza, le slide proiettate nei nostri corsi di formazione, i testi che scriviamo e utilizziamo nei nostri interventi, noi li consideriamo open: più girano le nostre idee e più siamo convinti che i nostri clienti sapranno a chi rivolgersi quando avranno bisogno di un supporto.
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libera la Qualità Il principio è quello di diffondere il modello e che le idee che girano sono le migliori. Siamo peraltro convinti che, contro il sistema di commercializzazione delle idee e il loro sfruttamento, la forza delle idee stesse possa risultare vincente. Di fronte alla pistola del copyright, occorre utilizzare la sofisticata intelligenza della “biro”, del pennello, della chitarra, della tastiera, della macchina da presa ecc. Fino ad oggi, il detournement agito dagli “smanettoni” del software libero, ha creato non pochi problemi ai “parrucconi” promotori di crociate in favore del copyright. Tutto in piena legalità: si usano le crepe del sistema, l’entusiasmo e la dedizione alla causa. E, malgrado le catene imposte, si riesce comunque ad utilizzare ancora la rete per diffondere il sapere e a fare in modo che il sapere cresca, si alimenti e produca novità sempre più interessanti. Occorre che le mani di chi non è compromesso si agitino, picchino con intensità sui tasti di un computer o di un pianoforte, producano fotogrammi, testi di ogni tipo e forma e non rimangano silenti o lamentose del progressivo imbarbarimento commerciale della cultura. Contro lo sfruttamento economico della cultura, il copyleft è un vero elemento che scardina: farsi assorbire dal malcostume e partecipare al baraccone del mercato delle idee non libera né il sapere, né la qualità e, malgrado gli specchietti, i lustrini e le lusinghe, non arricchisce minimamente l’autore. L’unico modo per arricchirci è diffondere quello che facciamo, perché il sapere è patrimonio di tutti e la cultura, compreso quella della qualità, è tanto più elevata, quanto più condivisa.
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libera la Qualità 2.4 Implementare un Sistema di Gestione Qualità con piattaforme free cost: Antiforma s.r.l. Dopo aver descritto le nostre posizioni sull’utilizzo di software libero e sulle battaglie in corso contro la censura e le restrizioni imposte dalle legislazioni in materia di tutela dei diritti d’autore, vorremmo presentare una nostra esperienza diretta nell’utilizzo di una piattaforma free cost per l’implementazione del Sistema di Gestione Qualità. La piattaforma in questione non è propriamente riconducibile al software freeware né a quello coperto da copyleft, ma consente, malgrado il suo impianto commerciale, di utilizzare supporti gratuiti e funzionali ad una gestione efficace, snella, condivisa e accessibile in modo agevole. La piattaforma di supporto è quella offerta da Google, la società leader mondiale tra i motori di ricerca, la quale ha esteso i suoi servizi anche nel mondo del clouding e del web managing. Intanto chiariamo cosa offre e quali sono le condizioni. Google Drive è un servizio di storage con la possibilità di fare hosting fino a 5GB senza costo alcuno. Purtroppo, attualmente, non è supportato l’utilizzo dei sistemi operativi Linux. È però possibile caricare i file, condividerli con chiunque abbia un profilo Google, gestire i documenti creati con Google Docs (una suite office totalmente gratuita, residente sul server Google e utilizzabile in remoto) e sincronizzarli tramite un’applicazione specifica da istallare sul proprio computer. Google Sites è un servizio che permette la creazione di siti web, anch’esso gratuito e interfacciabile in modo integrato con le altre applicazioni Google, compreso Drive e Docs, con supporto per le statistiche del sito (Google Analytics) e per l’eventuale presenza di banner pubblicitari (Google AdSense). L’integrazione tra tutte queste applicazioni è sicuramente il punto di forza del sistema, unito alla gratuità e all’accessibilità in remoto. Esiste però una fragilità intrinseca al sistema che, gli stessi amministratori Google, non difettano di dichiarare, esplicitandone le caratteristiche. La privacy è davvero critica. La policy di sicurezza non garantisce la riservatezza delle informazioni caricate sul server Google, tanto più che le legislazioni in materia sono tutt’altro che allineate a livello internazionale.
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libera la Qualità Inoltre la sottoscrizione dei termini di servizio, vera e propria liberatoria, concede a Google e alle sue strutture partner, una licenza per “utilizzare, ospitare, memorizzare, riprodurre, modificare, creare opere derivate (come quelle derivanti da traduzioni, adattamenti o modifiche che apportiamo in modo che i contenuti dell’utente si adattino meglio ai nostri Servizi)”. Come ben possiamo notare, il rischio di essere totalmente nelle mani del supporto ospitante è davvero elevato. E con questo rischio, si contraddice apertamente quanto sopra dichiarato in materia di copyleft. Non è l’amore per le capriole che ci porta a proporre qui questa piattaforma. È invece un calcolo abbastanza cinico dei costi e dei benefici. Facciamo battaglie di libertà ma non ci interessa essere i paladini di nessuna ideologia. Piuttosto, la contaminazione, come detto in altre parti di questo testo, ci sembra un buon metodo di accompagnamento per le nostre scelte. A fronte di una mancata tutela della proprietà, abbiamo una piattaforma per una intranet accessibile e piuttosto versatile. Una domanda: il nostro sistema qualità aziendale è così appetibile per i signori della Google? Pensiamo di no. Da qui la nostra scelta: non riteniamo infatti che quanto da noi prodotto possa in qualche modo configurare una intenzionale violazione della privacy da parte della struttura ospitante, violazione che, magari in modo meno diretto e agevole, sarebbe comunque possibile se ci si appoggiasse a qualsiasi altro servizio di hosting. Inoltre la proprietà dei documenti resta nostra, anche se non se ne può garantire il controllo sulla diffusione. Un modo per tutelarci, anche se appesantisce la fruizione sarebbe comunque possibile, crittografando i documenti attraverso un software che imposta una chiave cifrata per la decodifica, oppure comprimendoli (rar o zip) e impostando una password. A nostro avviso, l’importante è essere consapevoli della vulnerabilità del sistema. L’utilizzo del web è critico per definizione ma le sue potenzialità sono elevate e ci sembra utile e sensato adattarsi al compromesso, piuttosto che denunciare il “Grande fratello” e restarne fuori. Forse una soluzione, per lo meno parziale, potrebbe esserci: appoggiarsi totalmente su piattaforme Linux, con software open source e con sistemi di protezione sofisticati che rendano meno permeabili le nostre informazioni.
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libera la Qualità Ma non abbiamo, purtroppo, competenze così sviluppate da poter implementare tutto in autonomia; non facciamo parte degli “smanettoni” anche se ci piacciono molto. E poi ci dovremmo appoggiare su un server pubblico e allora il problema della potenziale violabilità del sistema si riproporrebbe comunque. Antiforma s.r.l., un’azienda per la quale lavoriamo, ha dunque scelto la piattaforma Google. Abbiamo implementato la struttura del Sistema di Gestione Qualità su una intranet appoggiata sulle apps di Google. Meglio: abbiamo virato tutto il Sistema che già era in piedi ma che necessitava di essere snellito, razionalizzato, reso maggiormente fruibile. Siamo certificati ISO 9001 da più di 10 anni e il nostro sistema si è progressivamente migliorato e raffinato: siamo partiti da un impianto documentale corposo e, a volte, ridondante e scarsamente funzionale, per verificarne, nel tempo, le sue lacune, le sue inefficienze e abbiamo quindi prodotto interventi di razionalizzazione. Poi abbiamo deciso il grande salto. La documentazione relativa a tutto il nostro Sistema di Gestione per la Qualità, doveva essere più snella e più capace di rispondere ai bisogni dell’Organizzazione, non ultimo quello dell’accessibilità e della condivisione. L’intervento è stato duplice. Da una parte una rivisitazione di tutte le Procedure, le Istruzioni Operative e la modulistica, caratterizzato dalla standardizzazione della stessa attraverso l’adozione di un format specifico, dalla descrizione dei processi attraverso i diagrammi di flusso e dall’integrazione con una matrice di responsabilità e con la sezione dei documenti richiamati da ogni fase del processo. Sempre nell’ottica della razionalizzazione, abbiamo riallineato tutti i documenti, riemessi in revisione 1 e sottoposti ad un periodo di test per verificarne la funzionalità, la necessità e l’effettivo utilizzo. I risultati del test ci hanno consentito di rimuovere dei documenti che non risultavano utili, di comprendere le motivazioni per le quali alcuni non risultavano efficaci e di prevedere delle azioni correttive utili alla modifica di alcuni moduli e al rinforzo formativo del personale per un più corretto utilizzo della documentazione stessa.
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esempio di Istruzione Operativa
risultati del test sull’utilizzo della documentazione
L’altro intervento di sistema ha riguardato l’implementazione di una intranet per la Gestione della Qualità, basata, come dicevamo, sulla piattaforma Google.
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libera la Qualità La costruzione del sito e di tutte le sue pagine è quantomai semplice: esistono dei templates che rendono il tutto assolutamente praticabile anche da neofiti. Nelle pagine è possibile caricare sia foto, che video, che grafici ed è altrettanto possibile caricare direttamente dei files di qualsiasi formato che potranno essere visualizzati o scaricati da chiunque abbia accesso alla pagina e abbia i relativi privilegi. È anche possibile caricare i documenti in Google Drive e richiamarli come link nelle pagine del sito. Abbiamo, ad esempio, fatto così con un foglio di calcolo, costruito direttamente con Google docs, e condiviso con tutti gli operatori aziendali; in questo foglio è possibile registrare le Non Conformità e visualizzare le Azioni Correttive e Preventive in corso. Questo ha consentito una maggiore confidenza con lo strumento di registrazione e, conseguentemente, una più facile gestione delle Non Conformità, aumentando decisamente il livello di partecipazione da parte di tutto il personale e la possibilità di utilizzare la Non Conformità come effettiva opportunità di miglioramento.
Oltre all’analisi delle cause, abbiamo introdotto un’analisi FMECA (Failure Modes and Critical Effects Analysis) che consente l’individuazione dell’Indice di Priorità del Rischio (IPR), ovvero una scala di gravità delle Non Conformità che consente una pesatura delle stesse in funzione dell’impatto che queste hanno sulle dinamiche aziendali. L’IPR si basa su tre parametri: la possibilità che la Non Conformità di ripeta (P), la gravità della stessa, soprattutto in relazione a quanto impatta sul cliente (G) e la rilevabilità, ovvero quanto la Non Conformità sia o meno occulta o rilevabile (R). I tre parametri hanno un gradiente 1-10 che viene applicato dal Responsabile Qualità, dopo aver studiato l’evento critico. Possibilità e gravità hanno un gradiente ascendente, più è possibile che si ripeta o più è grave e più elevato è il valore, da un minimo di 1 a un massimo di 10. La rilevabilità ha un gradiente inverso: più è rilevabile e più basso è il valore, più è occulto e più è alto. Questo
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libera la Qualità perché è peggiore una Non Conformità subdola, difficilmente rilevabile, piuttosto che una che si palesa in modo evidente. I tre valori vengono moltiplicati tra di loro e il risultato ci dà una classe di appartenenza che abbiamo così definito: IPR < 150 = classe 1 IPR > 150 = classe 2 Le Non Conformità valutate in classe 2 sono generalmente le più critiche e quelle sulle quali è presumibilmente opportuno aprire un’Azione Correttiva. In alcuni casi le Azioni Correttive vengono comunque aperte anche in classe 1. Così come è possibile risolvere una Non Conformità in classe 2 anche soltanto con un trattamento della stessa, senza ricorrere ad azione specifica controllata e monitorata. Il supporto di Google per tutta la struttura aziendale è garantito anche dall’utilizzo di Google calendar e Google spredsheet. Con il calendario, è possibile condividere un’agenda aziendale e tutte le agende dei collaboratori, le quali possono essere aggiornate dalla segreteria o direttamente dal collaboratore che può anche visualizzare tutte le agende condivise con lui da qualsiasi smartphone.
Il calendario ha diverse visualizzazioni, quella giornaliera, quella settimanale o quella mensile.
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libera la Qualità Ogni appuntamento è possibile configurarlo in maniera specifica, aggiungendo in allegato l’eventuale documentazione utile, la lettera d’incarico, eventuali altri collaboratori coinvolti (che vedranno l’appuntamento sulla loro agenda). Per ogni evento è possibile configurare un promemoria che verrà attivato a seconda del bisogno e che si può manifestare sia con l’invio di una email all’interessato o, qualora sia stato configurato un numero di telefonia mobile associato al contatto, con un sms che verrà recapitato con l’anticipo desiderato.
I moduli sono invece utilizzati per condividere lo Stato Avanzamento Lavori e sono prodotti dalla nostra segreteria e compilati da ogni consulente, per ogni incontro fatto. La semplicità di compilazione e la possibilità di produrlo in remoto da qualsiasi computer o da smartphone, garantiscono una reportistica delle giornate di lavoro che possono poi costituire la base di una relazione finale con tanto di statistiche, grafici e resoconto dettagliato dei vari incontri.
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La gestione della intranet prevede la consegna di un profilo personalizzato ad ogni consulente il quale con la ricezione dello stesso (login e password) dà evidenza della conoscenza del sistema di comunicazione previsto e di tutte le opportunità che la intranet stessa garantisce. Le specifiche di accesso e tutte le modalità di gestione della documentazione e delle sezioni della intranet sono descritte in un apposito videotutorial consegnato agli operatori al momento della consegna del profilo di accesso. Lo stesso videotutorial si costituisce come Piano della Qualità, ovvero come contratto tra l’Azienda e il singolo consulente, garantendo dunque anche una gestione del rapporto in outsourcing in modo efficace e trasparente.
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L’esperienza della intranet ci ha fatto fare un clamoroso balzo in avanti nel Sistema di Gestione per la Qualità, sia nell’ottica di una più capillare condivisione che di un’effettiva efficacia ed efficienza dei processi aziendali. Questo miglioramento è stato per altro riconosciuto e attestato anche dal nostro ente di certificazione, come attesta il sensibile miglioramento (nel 2009 abbiamo implementato il nuovo sistema) registrato nel ranking basato sugli otto punti qualificanti della norma:
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libera la Qualità 2.5 Testimonianze: le Organizzazioni parlano attraverso chi vive la Gestione Qualità Questo capitolo, ancor più degli altri, è il contributo attivo e partecipe di persone, belle, che ho avuto il privilegio d’incontrare nel corso della mia esperienza professionale. Sono persone con le quali lavoro, per le quali lavoro o ho lavorato, studenti che ho seguito nel loro percorso di tesi. Quando ho pensato di scrivere questo testo, ho anche, da subito, pensato che mi sarebbe piaciuto dar loro voce, perché ho visto e so, quanto la Qualità abbia, in questi casi, preso forme interessanti e garantito reale valore aggiunto per le loro Organizzazioni. Ho quindi richiesto una testimonianza, non tecnica, non didascalica, bensì vicina al loro sentire, al loro vissuto, in relazione all’esperienza che hanno fatto avvicinandosi al mondo della Qualità. Le testimonianze danno conto del diverso modo di intendere la Qualità, del diverso approccio che ognuno di loro ha avuto. Non sono intervenuto minimamente sugli scritti, quello che ho ricevuto è quello che di seguito presento. Ancora un grazie a loro, per questa fatica. Mi hanno fatto, davvero, un regalo gradito. In coda abbiamo aggiunto il testo di un intervento dell’autore in occasione di un convegno sul percorso nascita naturale. Ci era stato richiesto di intervenire sugli eventi sentinella e sulla gestione degli eventi avversi. Ci è sembrato interessante aggiungere anche questa testimonianza per dar conto di come la cultura della Qualità possa trovare applicazione pragmatica nell’operare quotidiano e nel contrastare le pratiche che denunciano criticità. Ci è sembrato, inoltre, particolarmente significativo rilevare come la legislazione stia spesso prefigurando scenari e favorendo interventi proprio nell’ottica del descrivere, controllare e migliorare che, abbiamo visto, sono paradigmi dei Sistemi di Gestione per la Qualità.
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2.5.1 Antiforma s.r.l. Intervista a due colleghi di Antiforma s.r.l. Come cambia il lavoro con la Qualità Sara Zottola, Paolo Tiberi Quando hai sentito parlare per la prima volta di Qualità? Paolo - Lavoro in Antiforma dal 2008 quando, neo laureato, cominciai a collaborare come assistente del direttore scientifico. Fino ad allora non mi ero mai occupato di tematiche aziendali e non avevo mai sentito parlare di qualità. La prima cosa che mi venne presentata il primo giorno di lavoro fu però proprio il sistema di gestione della qualità e venni introdotto alle principali istruzioni operative. Fu quindi quella la prima volta. Sara - Ho sentito parlare di Qualità nel 2003 durante il mio stage universitario presso un centro di formazione professionale; i primi giorni d'inserimento in Azienda furono dedicati ad illustrarmi il manuale e le procedure che avrebbero riguardato la mia attività lavorativa Hai conosciuto altri Sistemi per la Qualità oltre a quello di Antiforma? Paolo – Oggi, dopo qualche anno di esperienza lavorativa, posso dire di aver visto alcuni sistemi qualità utilizzati in aziende con cui mi sono interfacciato. Il sistema qualità delle Università, quelli delle aziende ospedaliere con cui lavoriamo, e alcuni altri. L'impressione che posso testimoniare oggi in merito a quei sistemi è di un parziale appesantimento burocratico del lavoro degli impiegati. Credo tuttavia che questo sia necessario. Qualsiasi organizzazione deve dotarsi di strumenti che le permettano di agire come soggetto unico e la qualità in questo è quasi perfetta. Devo dire che non conosco quei sistemi abbastanza approfonditamente per dire se effettivamente riescono negli intenti che si fanno! Sara – Alla fondazione Minoprio, durante il periodo di stagetirocinio universitario mi presentarono la monitorizzazione dei processi lavorativi. Ho avuto modo di lavorare con alcuni sistemi proceduralizzati e
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libera la Qualità con sistemi qualità di diverse aziende ospedaliere. Di tutti questi però non ho mai avuto modo di approfondire la conoscenza La tua prima impressione di fronte alle richieste che il Sistema Qualità di Antiforma prevedeva? Paolo - Standardizzazione e ricerca di uniformità dei comportamenti. La necessità di avere modelli di documenti preimpostati, la descrizione a priori delle attività da svolgere: ogni cosa mi segnalava la necessità dell’azienda di operare come un soggetto organizzato e non come somma di azione di singole persone. Sara – Burocratizzazione eccessiva dell’attività lavorativa che cercava un controllo irrealizzabile dei flussi e processi di lavoro. Qual è stato il tuo atteggiamento di fronte ai documenti che il Sistema Qualità richiedeva? Paolo – curiosità e interesse di fronte ad una visione del lavoro fortemente organizzata. Sara - i documenti, per me, sono sempre stati la parte più tangibile di interfaccia con il SGQ. All'inizio della mia attività in Antiforma molti documenti erano utilizzati parzialmente o non utilizzati e quindi veniva meno l' utilità di avere strumenti comuni utili a dare supporto ed evidenza ai processi lavorativi. Cosa significa per te una Non Conformità? Paolo - È un azione o un suo prodotto che non rispetta le procedure aziendali. In sintesi un azione difforme al normale agire dell’azienda. Sara – E’ uno strumento che permette di verificare e monitorare i processi di lavoro con lo scopo di avviare un processo di miglioramento globale dell’organizzazione. Quanto hai vissuto la Non Conformità come un errore da nascondere? Paolo/Sara - Nella nostra Azienda la non conformità non ha mai avuto questo significato, ma al contrario ha sempre rappresentato una opportunità di confronto tra colleghi e
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libera la Qualità principalmente con i responsabili. Perché adesso non hai più timore a registrare le Non Conformità? Paolo/Sara - Con il tempo abbiamo acquisito consapevolezza che la registrazione della non conformità fosse una parte del sistema di miglioramento continuo. Al tuo primo audit quale è stato il tuo approccio? Paolo - Il primo audit l’ho vissuto fondamentalmente come uditore non partecipante. Ho assistito al lavoro del RAQ e del lead auditor con interesse. Sara – Di osservatore attento e curioso. Adesso come ti avvicini a un audit? Paolo - Con il crescere delle mie responsabilità in azienda è anche cresciuta la consapevolezza dell’importanza del mio lavoro attraverso i documenti e le procedure previste dal sistema. Sono consapevole che l’audit è l’occasione per effettuare una verifica sul reale utilizzo del sistema. Sara – All’audit mi avvicino sempre con grandi aspettative perché penso sia un momento di confronto importante durante il quale attraverso l’analisi delle attività e delle procedure si aprono nuove possibilità di miglioramento qualitativo per la nostra Azienda. Come è cambiato il tuo modo di lavorare grazie al Sistema gestione Qualità di Antiforma? Paolo - Il sistema di gestione mi ha fornito un metodo di lavoro che probabilmente prima non avevo. Sara – In Antiforma abbiamo modo di essere parte del Sistema Qualità e la possibilità di essere coinvolti in prima persona ci permette di capire l’importanza di lavorare in una logica di Sistema organizzato. Come funziona l'integrazione tra Sistema Gestione Qualità e supporto informatico?
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libera la Qualità Paolo - In Antiforma i sistemi sono quasi completamente sovrapposti. La gestione informatica dei documenti permette una maggiore velocità di condivisione tra tutti gli operatori, cosa che sarebbe impossibile con l’utilizzo del cartaceo. Sara – Credo che l’utilizzo della piattaforma Google quale supporto informatico alla gestione del SQ sia stata una vera e propria svolta. I due sistemi si integrano perfettamente garantendo la fruibilità del Sistema da parte di tutti e permettendo, in questo modo, una maggior condivisione dei processi di lavoro. Un ultima domanda: quanta fatica, quanto impegno per la Qualità? Ne vale la pena? Paolo/Sara – Quando Antiforma ha deciso di rivedere il SGQ il lavoro è partito dalla mappatura dei processi, definendo così le varie attività che ciascuno seguiva, dalla gestione delle commesse alla ricerca bibliografica passando per la gestione dei fornitori e dei consulenti e, alla progettazione e così via. Tutti i processi sono stati ridefiniti e sistematizzati in flow chart, per ogni fase del flusso sono stati poi definiti attraverso la matrice di responsabilità i vari attori coinvolti nel processo in questione. Ripensare e descrivere i propri flussi di lavoro ha richiesto uno sforzo particolare per la difficoltà di isolare i singoli processi che spesso, nella routine lavorativa, si sovrappongono e definire per ciascuno un percorso preciso e lineare ma è stato utile per ciascun operatore per poter acquisire consapevolezza rispetto alla propria attività lavorativa e ha permesso di eliminare e rivedere le azioni ripetitive e superflue. Terminata la prima fase di mappatura delle procedure lo sforzo si è concentrato sulla documentazione. Molti degli strumenti in uso con il ‘vecchio’ sistema non venivano utilizzati o utilizzati in maniera parziale, per ciascuno si è cercato di definire se fosse ormai superato lo strumento perché non più utile a dare supporto e evidenza ai processi lavorativi o se fosse necessaria una semplificazione dello strumento per garantirne una miglior fruibilità anche alla luce della nuova rappresentazione data ai processi di lavoro. Ad oggi la fatica e l’impegno sono legati alla familiarizzazione con gli strumenti e con il loro supporto informatico e sicuramente lo sforzo è ricompensato dai risultati tangibili e dalla consapevolezza di governare progressivamente i propri processi di lavoro.
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libera la Qualità *ANTIFORMA S.r.l. Antiforma s.r.l. è una società di formazione e consulenza che, come lo stesso nome indica, va controcorrente. Prendendo le distanze dalla formazione intesa come indottrinamento, Antiforma s.r.l. sceglie le culture e le organizzazioni come referenti principali e si sposta verso una logica di accompagnamento cognitivo dell’individuo. Ciò si riflette nell’offerta formativa, che prevede non solo corsi precostituiti a catalogo, ma anche una vera e propria personalizzazione dell’intervento, che viene interamente progettato e studiato sulle specifiche esigenze delle persone e delle aziende. Il tutto, per aprire uno scenario culturale e organizzativo, in cui ciascuno – si tratti di aziende o singole persone – possa trovare il proprio percorso di crescita. Antiforma s.r.l., per portare cultura nelle organizzazioni. • Antiforma s.r.l. crede nella laicità dei processi culturali e li designa come elementi di immediata fruibilità da parte del cliente pervasi da un modello etico orientato al massimo rispetto delle differenze culturali. • Antiforma s.r.l. pone al centro delle dinamiche relazionali aziendali la qualità intesa come elemento costante di scambio rispetto ai processi e al sistema valoriale prevalente. • Antiforma s.r.l. è convinta di operare attraverso servizi (consulenza, formazione e ricerca) che si pongono come elementi di crescita per le persone; in questa direzione, quindi, il miglioramento continuo e la tensione all'eccellenza risultano motore motivazionale imprescindibile. • Antiforma s.r.l., forte del proprio sistema valoriale, crede nella sostenibilità delle culture e dei processi cognitivi; in questa direzione si colloca in posizione di ascolto permanente delle istanze interne ed esterne fonte di diversità opinionale e culturale, ritenendo queste ultime motivo trainante di crescita. • Antiforma s.r.l. crede nelle logiche di networking finalizzandole a una dimensione costante di confronto tra pari e motivo di continuo confronto rispetto ai differenti livelli scientifici e culturali. • Antiforma s.r.l. incentra l'azione di motivazione alla qualità poggiando sui valori di massimo investimento sulle risorse umane esistenti in azienda alla luce dei valori espressi e all'insegna della massima efficienza ed efficacia. • Antiforma s.r.l. intende operare all'insegna della soddisfazione del cliente interno ed esterno convinta che la prima sia direttamente funzionale e proporzionale alla seconda. • Antiforma s.r.l. vuole implementare l'analisi dei processi di lavoro con l'obiettivo preciso di misurare gli output di qualità misurando costantemente i livelli di qualità progettata, erogata, paragonata e percepita. • Antiforma s.r.l. intende predisporre e rendere attivo un sistema qualità che ponga le basi per un futuro modello di governo della qualità che veda integrate le competenze informatiche interne con un modello di gestione culturalmente condiviso. • Antiforma s.r.l. desidera attivare e rendere costanti nel tempo strumenti di rilevazione e misura della qualità percepita da parte del cliente esterno e interno e, sulla scorta dei dati ottenuti dalla rilevazione, agire in modo concreto con azioni di miglioramento che sfruttino lo logica del lavoro di squadra in quanto valore aziendale condiviso. Per maggiori informazioni: www.antiforma.it
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2.5.2 Orfeo s.c.a r.l. ORFEO Una cooperativa sociale in jazz Silvia Cannizzo
Quando penso alla storia di Orfeo mi vengono in mente i quadri di Picasso, scomposti ed armonici al tempo stesso, colorati, apparentemente casuali, razionali e disordinati. Mi vengono in mente le sue figure che rivelano punti di vista plurimi ed integrati. L’atto costitutivo risale al 2002 ma la storia della cooperativa nasce molto tempo prima, quando un gruppo di studenti universitari decise di fondare un’associazione culturale provando a far sentire la propria voce in quel mondo professionale verso cui approdavano. Non ho partecipato personalmente a queste prime fasi, ho conosciuto l’associazione quando offriva già alcuni spazi di incontro e servizi a studenti e neolaureati. I primi legami concreti si sono materializzati con la gestione di un progetto di orientamento rivolto a giovani in difficoltà e collocato in una zona periferica di Torino. Per realizzarlo avevo bisogno di qualcuno che mi desse una mano e così ho iniziato a lavorare con la persona che da allora collabora con me alla gestione della cooperativa e con la quale ho da sempre condiviso il rischio imprenditoriale di ogni decisione importante che abbiamo preso. E’ stato un incipit che mi ha permesso di conoscere un gruppo di persone che si era già costituito e di inserirmi poco a poco nei discorsi e nelle iniziative che venivano promosse. Poi… da cosa nasce cosa… e ad un certo punto il gruppo ha ritenuto che fosse ora di fare un salto e di affrontare l’idea di fondare una vera e propria organizzazione in grado di giocarsi un ruolo nel dibattito cittadino su alcuni temi sociali di interesse. I primi anni del 2000 erano il momento giusto, l’Italia godeva di una certa prosperità dovuta a finanziamenti europei che hanno dato la possibilità di sviluppare, a livello locale, idee e attività intorno ai temi della formazione professionale, dell’orientamento e dell’educazione. Le condizioni erano favorevoli e la motivazione tanta.
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Picasso, 1921, Three musicians, Oil on canvas, MoMa, New York.
Parlare di “organizzazione” però non è cosa scontata e mettere insieme i “Tre musici”20 richiede grande maestria di colori, volontà, esperienza e formazione. Si decise così di affrontare un percorso, costoso e faticoso, di studio di temi organizzativi e si decise anche di orientare il proprio percorso verso la progettazione di un sistema che garantisse qualità sia nei risultati che nei processi di lavoro. E’ stato difficile, lungo, ed impegnativo e più di ogni cosa, è stata una scelta che ha segnato un percorso continuo, tuttora in atto. E’ così che Arlecchino, Pulcinella e il Monaco si sono ritrovati, grazie alla mano di Picasso, dentro ad un quadro dinamico in cui ad ogni pennellata è emerso e continua ad emergere qualcosa di nuovo e di diverso, di bello e di brutto, di chiaro e di scuro, di vecchio e di nuovo. Ci sono elementi di continuità ma anche di discontinuità. C’è una cornice unica ma anche tanti quadri diversi uno dentro l’altro. Ci son degli unici e degli insiemi. Ci son delle persone. C’è una musica suonata da diversi strumenti e da diverse mani. Personalmente ho sempre pensato che l’organizzazione in quanto tale non esista ma che esistono singole persone che nell’organizzazione sviluppano relazioni e negoziano decisioni e, nel fare questo, disegnano un contesto ove altre persone continueranno a decidere, negoziare, creare. 20
Picasso, 1921, Three musicians, Oil on canvas, MoMa, New York.
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libera la Qualità Ho sempre pensato che il ruolo di amministratrice delegata di una cooperativa sociale (che ricopro dal 2004) sia una responsabilità che mi richiama continuamente alla creazione ed al mantenimento di giuste condizioni di contesto ove gli investimenti di soci e socie devono trovare uno sviluppo in termini di crescita professionale, di diffusione di benessere e di crescita economica. E’ per questo motivo che ho sempre sostenuto e valorizzato il percorso di certificazione della qualità dei processi di lavoro. Ed è per questo motivo che mi son trovata d’accordo con il mio gruppo di lavoro nello sviluppo di un sistema di management per valori. Mi è sembrata una buona strada per dichiarare intenti a lungo termine e per definire una cornice univoca di riferimento:
ORFEO scs a rl sostiene la capacità di rispondere di ognuno credendo nelle abilità di ogni membro dell’Organizzazione di perseguire obiettivi condivisi con i propri interlocutori interni ed esterni e nelle capacità di assumersi la responsabilità del proprio ruolo. ORFEO scs a rl pone molta attenzione alla gestione delle risorse e alla redditività dell’organizzazione e dell’individuo, attivando sistematicamente azioni di monitoraggio dei dati economici e finanziari, sia a livello di gestione dei singoli progetti, sia a livello aziendale. L’azienda inoltre ha strutturato una politica di definizione delle offerte al fine di garantire contemporaneamente un buon posizionamento sul mercato, la buona riuscita dei progetti ed una equilibrata gestione delle risorse necessarie per la realizzazione delle diverse attività. ORFEO scs a rl crede che sia importante sviluppare una cultura della qualità totale e per questo si pone nell’ottica di dare evidenza ai processi, rendere espliciti i meccanismi di comunicazione interna ed esterna, esplicitare le finalità ed i limiti delle proprie azioni, gestire in maniera integrata le risorse umane, valorizzare i clienti interni ed esterni ed impostare una modalità di lavoro per obiettivi. I processi organizzativi disegnati sono rappresentabili secondo lo schema Plan-Do-Check-Act e si propongono, a partire da una prima fase di progettazione e pianificazione, di sviluppare azioni, di controllare e monitorare le stesse e di ridefinire infine la progettazione secondo uno schema circolare. Le funzioni e i referenti dei progetti sono quindi chiamati a monitorare sistematicamente l’andamento delle attività, i risultati conseguiti, le relazioni interne ed esterne all’organizzazione e a comunicare le conoscenze sviluppate nella gestione delle attività agli altri componenti dell’organizzazione.
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libera la Qualità ORFEO scs a rl intende promuovere benessere, sostenendo l’individuo nel processo di crescita e acquisizione di autonomia e considerandolo parte del suo sistema di riferimento. Si vuole quindi garantire lo sviluppo di cultura individuale e collettiva attraverso percorsi formativi specifici. A tal fine l’azienda investe nella formazione ed elabora annualmente un piano aziendale coinvolgendo le funzioni e tutti gli operatori nella raccolta e definizione delle proposte. ORFEO scs a rl valorizza la creatività delle persone perché è convinta che sia un elemento di crescita organizzativa e motivazionale. Ciò si esplicita con una lettura e un approccio dinamico al contesto, la ricerca di strumenti e di modalità adeguati al raggiungimento degli obiettivi, l’approccio innovativo all’organizzazione. ORFEO scs a rl è convinta che l’integrazione e valorizzazione delle diversità fra le caratteristiche delle persone sia la condizione affinché la creatività non resti solo un “bel pensiero possibile” ma possa concretizzarsi in azioni organizzative reali ed in virtuosi processi di apprendimento individuale. In questo senso ORFEO scs a rl adotta un modello organizzativo che si fonda sul concetto di “organizzazione che apprende”: i processi organizzativi prevedono continue interfacce professionali al fine di promuovere innovazione e miglioramento. Ma la cornice non basta e, per funzionare, è stato necessario pensare anche a dei meccanismi di funzionamento e ad un’architettura organizzativa. E così un week end dopo l’altro… e grazie al supporto di due bravi consulenti e al duro lavoro di colleghi e colleghe che, nel tempo, hanno creato e perfezionato il modello, la struttura organizzativa ha assunto una forma di matrice a pendolo che restituisce importanza e valorizza l’apporto di tutti, in primis di chi gestisce direttamente l’operatività sul campo. I responsabili (dirigenti) diventano così strumenti a servizio dei clienti interni: forniscono strategie quadro e metodi di lavoro condivisi agevolando la costruzione di un’identità unitaria e il miglioramento di risultati e processi. In questo modo la sfida è continua perché da una parte è necessario pensare al proprio ruolo come ad un garante della coerenza interna e, dall’altra, come ad un professionista in grado di valorizzare (e spesso stimolare) la creatività di referenti ed operatori e di tradurre gli input esterni in elementi utili all’organizzazione per sviluppare altro business. Il percorso che abbiamo intrapreso ci ha così portati a lavorare sulle responsabilità, sulle relazioni e sulla descrizione dei processi completi di strumenti tecnici specifici. L’apprendimento è avvenuto
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libera la Qualità mentre si creavano e si dichiaravano modalità operative ma, soprattutto, mentre si ricostruiva un quadro unitario a partire da singoli pezzi di lavoro e si generava così una coerenza complessiva. I ruoli che andavano disegnandosi, e la cui prima descrizione formale si è completata solo dieci anni dopo che ORFEO è nata, erano e sono complessi, dal primo all’ultimo: richiedono consapevolezza organizzativa e competenze molto articolate e fortemente legate ad aspetti gestionali oltre che operativi. La definizione di organizzazione che ho sempre tenuto a mente è quella data da Ferrante e Zan: “Un’organizzazione è un insieme reiterato di azioni collettive in cui i compiti sono differenziati ed integrati fra di loro e i meccanismi che li regolano sono intenzionali e tendenzialmente stabili”21. Non trovo definizione più azzecata e carica di significato: differenziazione e integrazione al tempo stesso. Non si tratta di definire mansioni o compiti, ma di scegliere consapevolmente attività differenziate ed integrate al tempo stesso, di disegnare flussi di lavoro organizzati per processi in cui diversi musici suonano, autonomamente ed intenzionalmente, strumenti diversi per produrre un unico concerto. E’ molto più difficile ma di gran lunga più interessante. “Per il musicista si tratta di suonare un insieme di note non scritte e inventate al momento che devono essere coerenti con il brano; per poterlo fare deve avere una buona conoscenza dell’armonia e saper dare un senso melodico all’improvvisazione. Quando improvvisa esprime sé stesso. ... La preparazione culturale consentirà al musicista di esplorare in profondità i contenuti dei brani da eseguire. La buona conoscenza dello strumento gli permette di tradurre in musica il proprio mondo interiore. La creatività caratterizza la sua vena espressiva, esalta il suo estro e la perizia nel comunicare. “L’ottica dell’improvvisazione aiuta a mettere a fuoco la differenza fra “eseguire l’azione” in modo rigidamente aderente alle regole, quasi automatico, e “personalizzare l’azione”, puntando sempre all’esito atteso, ma con la possibilità di poter intervenire e introdurre variazioni, in relazione al contesto, al proprio modo di sentire, alla consapevolezza del proprio ruolo, agli atteggiamenti dell’interlocutore, alla creatività che l’ambiente suggerisce”22 E’ così che è stato costruito ed in seguito gestito il nostro Manuale per la qualità, è così che abbiamo cercato, anche se a 21 22
Ferrante, Zan; Il fenomeno organizzativo; Carrocci ed; Roma, 2003. Leonardi; Azienda in jazz; Il sole24ore; Milano, 2008.
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libera la Qualità volte con grande fatica, a farlo vivere ai nostri collaboratori ed ai soci ed alle socie che sono entrati/e ed uscite dall’organizzazione nel tempo. E’ così che, in sostanza, ci siamo presi il rischio di non dare importanza agli strumenti ma alle persone e che ci siamo presi il rischio di far parte di un’organizzazione che ha spesso dovuto ripensarsi, anche a seguito di conflitti interni molto forti che hanno lasciato immutato il sistema ma non le teste, i cuori, le pance e la consapevolezza di ognuno. Oggi Orfeo affronta, come molti altri, un momento di grande crisi e revisione profonda del suo stare sul mercato. Le politiche sociali e della formazione sono un campo sempre più duro ove i bisogni aumentano e le risorse scarseggiano. Le sfide sono all’ordine del giorno e non esistono soluzioni magiche. Parlare di qualità oggi è più che mai attuale, soprattutto per le conseguenze che questo ha sulle consapevolezze individuali sia di chi produce che di chi utilizza un servizio. Produrre bene, con poco e in maniera consapevole. Semmai ci riusciremo potremo dire di essere davvero arrivati. Significa produrre avendo capito a fondo il bisogno, significa produrre sapendo quante risorse saranno necessarie, significa produrre avendo cura di documentare ciò che si sta facendo perché diventa importante sapersi raccontare e, quindi, mettere in discussione, significa produrre restituendo appieno alla persona con cui si lavora la possibilità di intervenire sul processo di produzione del servizio. E’ un problema culturale, non di strumenti. Certo è stato utile aver sviluppato strumenti e processi quali: analisi dei bisogni, analisi di fattibilità, progettazione e sviluppo, gestione del processo di erogazione, verifica e riesame della progettazione, monitoraggio e valutazione, controllo di gestione, amministrazione, costituzione e gestione dei team. E’ una buona piattaforma di partenza ma qualità non vuol dire questo. Vuol dire approccio attento ai contenuti, vuol dire attribuire significato alla scheda aziendale da compilare perché si hanno delle cose interessanti da dire e discutere con i colleghi. Vuol dire avere la capacità di evidenziare le aree problematiche sulle quali è ancora necessario lavorare. Vuol dire, soprattutto, avere la maturità di capire che la specifica azione e lo specifico processo sono parte di un progetto più ampio ove è possibile partecipare, criticare, modificare, valutare attivamente ogni suo pezzo. Vuol dire sapere che la propria cultura e la propria formazione sono lo strumento primo di intervento. La piattaforma degli strumenti è qualche cosa che aiuta e supporta un lavoro che deve essere in buona parte razionale, è qualche cosa che aiuta a individuare gli oggetti sui
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libera la Qualità quali confrontarsi, a volte è un utile supporto operativo che velocizza o che limita i danni. Nei ruoli che ricopro avere un sistema qualità è stato sempre molto utile, è sempre stato un valido strumento al quale appigliarmi in caso di problemi e difficoltà. Ma è, soprattutto, un valido strumento culturale che mi obbliga ad interrogarmi continuamente su quanto si immagina, si fa e si decide: stiamo individuando le giuste priorità? Stiamo analizzando bene i bisogni? Stiamo offrendo a tutti e tutte delle risposte coerenti? Stiamo integrando e differenziando correttamente gli skill di ognuno? Stiamo facendo davvero mercato? Siamo in grado di sostenere il nostro progetto? Non ho sempre trovato tutte le risposte, spesso non le ho trovate per tempo e non ritengo ancora di aver raggiunto gli obiettivi del progetto Orfeo ma per ora è stato un contesto di crescita e di apprendimento avvenuto attraverso cambiamenti, a volte drastici a volte progressivi.
*ORFEO S.c.a r.l. Orfeo è una società cooperativa sociale senza fini di lucro che opera negli ambiti della Ricerca sociale, della Formazione, dell’Educazione e dell’Orientamento scolastico e professionale. ORFEO s.c.s.r.l. offre servizi finalizzati a promuovere il benessere di bambini, preadolescenti, adolescenti e adulti offrendo loro strumenti trasversali per scoprirsi protagonisti attivi e responsabili dei propri progetti. I professionisti di ORFEO (educatori, psicologi, orientatori, sociologi, formatori) si pongono come mediatori di processi di crescita, maturazione, scoperta, apprendimento facendo leva sulle risorse individuali delle persone e facilitando l’acquisizione di conoscenze e metodi utili per affrontare le diverse tappe della vita scolastica e professionale in modo maggiormente efficace e equilibrato. ORFEO è un contesto dove imparare ad apprendere. ORFEO collabora da anni con l’università degli Studi di Torino, la Regione Piemonte, Le Province di Torino e di Biella, il Comune di Torino, la Camera di Commercio di Torino. Inoltre collabora con diverse organizzazioni del privato sociale e non. Per maggiori informazioni: www.cooporfeo.it
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2.5.3 Me.D.U. (Medici per i Diritti Umani) IL FASCINO IMPREVISTO DELLA QUALITA’ in tre a raccontare Ilaria Lemmi, Alessandra Puppo, Elisabetta Sarti
- Avevo partorito da circa tre mesi quando una cara amica e collega mi disse che si sarebbe iscritta al master per il coordinamento nelle professioni sanitarie e mi propose di iniziare quest’avventura insieme a lei. Era il momento ideale per iniziare un percorso post-laurea: ancora in aspettativa per maternità avevo del tempo da investire per il futuro. D’altronde, per noi che abbiamo il “solo” diploma universitario, il master rappresentava un’occasione per avere un titolo in più per competere con le tante colleghe più giovani che, con il nuovo ordinamento, oggi si laureano o che addirittura terminano la laurea specialistica ancora prima di iniziare a lavorare. Fare il coordinatore non era nelle mie ambizioni: ho sempre guardato a questo ruolo con sospetto. Ho sempre fatto pura clinica e pensato che noi che eravamo tutti i giorni “in prima linea” rappresentavamo i veri lavoratori. Non loro che lavoravano per l’azienda, i coordinatori, che mettono su orari sempre sbagliati, che ti costringono a corsi così poco professionalizzanti e che ragionavano con un linguaggio incomprensibile, lontano da quello che parla la mia professione. Comunque un titolo da punteggio, non si sa mai. Ho scelto questo master e non un altro, magari più clinico, perché lo avevano scelto le altre. Mi sarei ritrovata in un gruppo di amiche ostetriche e sicuramente ci saremmo divertite e confrontate in maniera costruttiva durante le lezioni. E’ con queste motivazioni, tutt’altro che passionali, che ho iniziato a frequentare il master. (Ilaria) - Per me è iniziata quando ho cambiato lavoro, e sono arrivata in un centro nascita innovativo, appena aperto, ispirato a un’ottica di razionalità e scientificità, in cui tutto quello che veniva fatto andava motivato, documentato e ridiscusso e tutto sotto la guida di una dirigente capace di coinvolgere, di dare fiducia e motivare le persone. Mi è piaciuto moltissimo. Io, che fino a quel momento avevo scansato le sporadiche riunioni ritenendole il più delle volte tempo
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libera la Qualità perso e rubato alla vita privata, mi sono ritrovata in prima fila negli incontri settimanali, senza nessuna remora per le ore extra di lavoro. Per la prima volta mi sono resa conto della differenza di vita che intercorre tra lavorare “bene” e lavorare “male”, dell’importanza di una dirigenza attiva e presente in modo positivo e propositivo, dell’influenza che esercita su un gruppo che all’improvviso non si tira indietro e non si perde in sterili e generiche lamentele. Ma che fortuna! Che fortuna che la responsabile fosse una donna particolarmente capace, che una benefica congiuntura astrale avesse concesso il riunirsi di una serie di persone che vivevo assolutamente sopra la media! Ancora non mi soffermavo troppo sul ruolo del fattore organizzativo in questo stato di benessere lavorativo. E’ in questo clima di soddisfazione che mi è arrivata la proposta di fare il master di coordinamento, ventilandomi vaghe ma non impossibili eventualità di poter arrivare a coordinare questo stesso centro che tanto mi piaceva, o comunque motivando la proposta con la necessità di “produrre” coordinatori più giovani e motivati per non doversi accontentare di assegnare questo ruolo solo a chi ci arriva perché a fine carriera, in attesa della pensione e ormai stanco di fare le notti. Lunghe diatribe interne sulla mia capacità e predisposizione: in verità ancora non pensavo o non credevo che tutto questo fosse qualcosa che si potesse “imparare”. Di fatto vedevo il master solo come il veicolo amministrativo, il titolo per poter aspirare al ruolo. E così, se master doveva essere, cercai almeno di iscrivermi a quello ritenuto più “facile”, senza esame di ammissione, senza troppe verifiche intermedie. (Alessandra) - Non so cosa di preciso quell’autunno del 2008 mi ha spinto a fare domanda di iscrizione al master di coordinamento delle professioni sanitarie; sicuramente ero in un momento di crisi lavorativa e quando delle colleghe e amiche mi proposero di partecipare al master mi sembrò un modo per rispondere alla mia insoddisfazione. Certamente ero piena di incertezze, leggevo e rileggevo il programma e più lo leggevo e più mi domandavo cosa c’entrassi io con problematiche tipo la gestione del sistema qualità o la gestione delle risorse umane. Colleghe più lungimiranti mi convinsero che era l’unico modo per riuscire a cambiare le cose, per riuscire a fare al meglio quello che veramente mi piaceva fare: l’Ostetrica. Iscrivermi al master è dunque stata una grossa prova di fiducia. Ricordo con chiarezza le prime lezioni in aula, ero scettica, disincantata e convinta di poter smontare in qualunque momento
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libera la Qualità ciò che il professore era li a spiegare con i miei cavalli di battaglia: io lavoro per l’utenza non per l’azienda, io sono dalla parte del lavoratore non della dirigenza, il mio lavoro non può essere contaminato da appesantimenti burocratici che mi distolgano da fare ciò che veramente serve alla persona che assisto. Insomma, siamo seri: come potevo aiutare una donna in travaglio utilizzando un diagramma di Ishikawa??? (Elisabetta) L’abbiamo trovato e scelto, il master facile, quello più comodo, anche se la prima lettura del programma non era certo stata entusiasmante: materie assolutamente deprimenti, dall’Analisi dei processi al miglioramento della qualità alla Valutazione delle performance nelle aziende sanitarie per passare poi dalla Programmazione strategica e sistema dei budget, fino all’ Efficienza, efficacia, appropriatezza e qualità. Difficile dire cos’era peggio! Siamo partite con l’allegria di chi sta facendo “forca” a scuola (nel nostro caso era il contrario, la forca si faceva al lavoro), ma con scarse aspettative di poter imparare qualcosa di utile. Dobbiamo ammettere che di base ci siamo sempre sentite più orientate sulla protezione del sociale che non sull’efficienza aziendale: la logica del profitto non è proprio la nostra. Lo spirito con cui ci siamo accostate ai temi della qualità non era quindi dei più disponibili: roba da “sfruttatori imperialisti bocconiani”! Comunque abbiamo iniziato, e poi il professore sembrava simpatico e nonostante si parlasse di qualità riusciva in qualche modo a tenere la classe sveglia. Poi, un po’ alla volta, è venuto fuori che “la qualità” era qualcosa di diverso da come l’avevamo pensata. Abbiamo preso atto che organizzare il lavoro vuol dire prima di tutto tenere sotto controllo quello che succede o potrebbe succedere e che quindi in qualche modo è una tutela per il lavoratore e non un modo per “fregarlo”. Che una buona organizzazione fosse alla base di una maggior qualità del servizio erogato e una garanzia per i lavoratori infondo lo pensavamo già, ma il concetto si andava sempre più chiarendo e rafforzando e soprattutto quello che era sempre più evidente era che nessuna professione poteva eludere questa esigenza di qualità organizzativa. E a maggior ragione i professionisti chiamati a tutelare la salute delle persone, per le grandi implicazioni che le loro scelte possono avere sia in termine di salute che di investimenti pubblici. Si trattava di entrare in un nuovo modo di pensare, con una visione logica e sequenziale delle azioni che consentisse di sapere
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libera la Qualità sempre “dove sono”, “cosa sto facendo”, “perché”. Un modo di affrontare grandi e complessi problemi senza lasciarsene sopraffare, scomponendo sempre l’azione in piccole parti, per poterla leggere e vederne gli aspetti critici e poter essere quindi propositivi, con soluzioni fantasiose ad ogni singola parte, senza abbandonarsi al disfattismo e soccombere di fronte all’ingestibilità del problema nel suo insieme. Ma c’è un altro importante aspetto che è emerso via via che le lezioni andavano avanti: anche se sei propositivo, se non hai la possibilità di poter comunicare con la stessa lingua dei tuoi interlocutori le tue idee sono inesorabilmente destinate a rimanere inascoltate. Se invece riesci a esprimerle con un linguaggio codificato e condiviso, a tradurle quindi in obiettivi, risorse, indicatori, attività, responsabilità, controllo, revisione, ecc. diventano progetti articolati, discutibili e soprattutto molto più credibili. Insomma, anche apprendere un linguaggio aiuta a non sentirsi l’ultima ruota del carro! Aiuta a sapersi proporre con la determinazione di chi sa di avere strumenti per potersi esporre ai livelli necessari. Far capire e raccontare questo nostro “cambiamento” non è stato facile. Tornando la sera, ritrovandosi insieme a cena con i nostri compagni, gli amici, e commentando la giornata, abbiamo improvvisamente smesso di lamentarci per la distanza, per tutta quella strada da fare, per le lezioni noiose che non finivano mai. Ci siamo ritrovate a sostenere con spiegazioni tronche, motivazioni a metà, non assimilate e certo poco digerite, concetti e modelli inusuali per il nostro gruppo di amici; nuovi modi di leggere il mondo del lavoro per noi affascinanti, anche se ancora nebulosi, ma per chi ci ascoltava decisamente ostili o quantomeno inutili. Certamente non era facile per loro entrare nel mondo della qualità e dell’efficienza senza il sostegno progressivo e continuativo di un docente che giorno dopo giorno sa farti entrare con competenza nella materia. Era ovvio quindi che le nostre entusiastiche ma altrettanto imprecise “spiegazioni” abbiano fatto temere a chi ci ascoltava sospettoso che potessimo essere vittime di qualche improvviso cambio di personalità, un virus? O magari plagiate da qualche mago dell’efficienza/efficacia! Il master è andato avanti, con alti e bassi, con nuovi entusiasmi e sprazzi di noia, muovendosi fra lo stimolante approccio con la qualità, l’incombente e minaccioso budget e altre tematiche più note, ben più rilassanti, forse proprio perché più vicine alla nostra formazione. Un po’ per fiducia, un po’ per capacità di convincimento, col tempo i nostri racconti incontravano sempre
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libera la Qualità meno ostilità e ormai il “tarlo” della qualità era riuscito ad insinuarsi anche negli amici meno malleabili e disponibili al cambiamento, e anche nella nostra “associazione”: e qui si apre un nuovo capitolo. L’amicizia tra di noi era precedente alla frequentazione del master, e tante cose ci univano ed erano già condivise. Tra queste in particolare la partecipazione come volontarie ad un’associazione, Medici per i Diritti Umani (MEDU)*. Associazione giovane, in piena crescita ed espansione, sia sul versante delle attività che nell’affiliazione di volontari. Creata per condividere ideali e aspirazioni tra un ristretto gruppo di amici, con la voglia di passare una serata a cena a parlare di problematiche sociali, di emarginati, di salute negata e non solo dell’ultimo film, ha trovato da subito un grande interesse anche all’esterno del gruppo fondatore. Sempre più soci, sempre più progetti, apertura di nuove sedi territoriali, sempre più “credibilità” all’esterno e in particolare nelle istituzioni. Una crescita esponenziale, non gestita, che rischiava di metterla in crisi: troppe decisioni da prendere, poca chiarezza sui ruoli, scarsa definizione dei compiti e delle responsabilità. Le riunioni e le cene organizzative erano ancora divertenti e cariche di entusiasmo, ma la fatica cominciava a farsi sentire e soprattutto stava diventando spropositata rispetto alle attività da svolgere. Si perdevano occasioni, si stavano creando fratture tra le sedi territoriali, lamentele, malumori e i volontari arrivavano sì numerosi, ma di questi poi anche tanti si allontanavano. E tutto questo proprio mentre frequentavamo il master, le lezioni sulla qualità ….. ed ecco l’idea: perché non provare a proporre a MEDU un approccio organizzativo basato sulla qualità? Il problema di MEDU era abbastanza chiaro: la scarsa organizzazione e la nebulosa definizione dei ruoli era stata sostenibile finché il gruppo è rimasto piccolo e basato su forti rapporti personali, di tipo amicale. Appena c’è stato bisogno di “qualcosa di più” le carenze si sono fatte sentire con tutta la loro forza. Cariche delle nozioni apprese al master e con una grande voglia di misurarsi con la capacità di metterle in pratica, abbiamo pensato di applicarle a MEDU. Certamente sarebbe stato un aiuto in questa sua crisi di crescita e di cambiamento: la qualità è qualcosa di positivo, uno strumento di forza applicabile in qualsiasi organizzazione, non solo in una multinazionale. Si trattava di ripercorre all’interno di MEDU, della sua organizzazione, dei soci, dei coordinatori, dei volontari, quello stesso percorso che nelle
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libera la Qualità nostre menti, lezione dopo lezione, ci aveva portato ad abbracciare con entusiasmo i criteri della qualità. Insomma era l’occasione per spostare sul piano pratico il “fascino imprevisto della qualità” che ci aveva colto. Un progetto apparentemente perfetto, tanto da farci ingenuamente aspettare elogi e ringraziamenti da subito, ma è non andata così: all’inizio si sono alzate soprattutto voci titubanti e scettiche, praticamente ostili. Il lungo lavoro di convincimento fatto con gli amici ed i compagni non era stato nulla rispetto a quello che ci attendeva per riuscire a convincere tutta l’associazione della “bontà” del progetto. Il responsabile del corso e il professore che si occupa di questi temi, consultati in cerca di conferme e sostegno, suggeriscono allora di sfruttare questo lavoro anche come argomento della tesi di master, un’idea subito accolta con entusiasmo da tutte e tre: se anche non riuscissimo nella riorganizzazione di MEDU, almeno la tesi è fatta! L’assemblea generale dell’associazione è stata l’occasione per presentare il progetto, cercare di suscitarne l’interesse, spiegarne l’utilità e i vantaggi che ne sarebbero derivati, e cercare quindi di farlo “approvare”. Una riunione affollata, alcuni volontari lì solo per la speranza di partecipare ad un esaltante progetto in Colombia, e tanti altri giovani medici già coinvolti in un progetto di assistenza ai senza fissa dimora, animati da un bisogno di rivendicazione politica del diritto alla salute per tutti, con una serie infinita di problematiche urgenti da definire quanto prima. Non era forse il clima più adatto per presentare il nostro progetto. Un po’ timorose, sicuramente poco esperte nella gestione della comunicazione, ci siamo comunque misurate nel tentativo di far condividere all’assemblea l’esigenza di approntare per l’associazione un piano di miglioramento. Grazie al master ormai giunto a buon punto, sentivamo di aver acquisito qualche utile conoscenza organizzativa; un professore si era reso disponibile, e non solo a consigliarci ma anche a seguire proprio tutto lo svolgersi dei lavori: è con queste credenziali che abbiamo richiesto il coinvolgimento e la fiducia all’assemblea per poter partire col nostro progetto. Le prime reazioni non sono state certo entusiastiche: un misto di disinteresse e di diffidenza, tra chi cercava di cambiare discorso per tornare a problematiche “più urgenti” e chi faceva l’esperto con frasi tipo “non so, queste metodiche le conosco, non mi sembrano adatte…” , “l’analisi organizzativa non la può fare qualcuno dall’interno, è troppo coinvolto”. Comunque, non si sa bene come,
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libera la Qualità ma la proposta è passata, e forse proprio perché in un clima poco organizzato (in questo caso “grazie a”) raramente un punto dell’ordine del giorno viene analizzato, sviscerato, discusso fino ad arrivare ad una conclusione da trascrivere in un verbale e rendere quindi definitiva. Potremmo dire che il nostro progetto di riorganizzazione dell’associazione Medici per i Diritti Umani è stato approvato per inerzia e disorganizzazione: proprio le cose che ci approntavamo a combattere! Di fatto dunque siamo sì partite, ma senza alcuna certezza che giunte a conclusione il nostro lavoro sarebbe stato davvero messo in pratica. Avevamo strutturato l’intervento in due fasi successive: prima l’analisi del modello organizzativo, poi la stesura del piano di miglioramento. La prima è stata certamente la fase più complessa e delicata, proprio perché il lavoro di analisi e ricerca andava a mettere sotto la lente di ingrandimento il modo di lavorare di tutti quelli che svolgevano funzioni definite di responsabilità o come stipendiati. In un’associazione relativamente piccola, l’organigramma è necessariamente molto limitato, e quindi l’andare alla ricerca dei ruoli e dei compiti facilmente viene vissuto più come controllo sull’operatività delle singole persone che non come un tentativo di definire genericamente le responsabilità, i ruoli, l’ambito d’intervento delle specifiche professionalità. Cercando di entrare in punta di piedi, per non far sentire nessuno sotto esame, abbiamo pensato di riadattare alcuni strumenti conoscitivi che altrimenti avrebbero potuto sembrare troppo intrusivi e diretti. Di fatto nell’applicazione delle metodiche non siamo mai state molto rigorose: abbiamo osato sottoporre ad “aggiustamenti” strumenti, tecniche, teorie, anche se da poco apprese e minimamente assimilate. Pensavamo che una cosa era scrivere la tesi, una cosa era gestirne l’applicazione pratica: una sorta di dissociazione fra il dover essere pratiche e facilmente comprensibili sul versante dell’associazione, e all’opposto sentire di dover essere estremamente precise e tecniche nella stesura della tesi, a dimostrare di aver studiato e assimilato le differenze, compreso le più piccole sfumature tra un modello e l’altro di analisi organizzativa. Per noi era come una conferma dell’idea che ci eravamo fatte al corso che la qualità non è da intendersi come qualcosa di statico, definito una volta per tutte, inamovibile, che si deve solo studiare e applicare. Anzi, quanto più il modello sa adattarsi alle specifiche contingenze, quanto più si integra e si modifica, genera nuove e insperate soluzioni e si fa così ancora più
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libera la Qualità vitale ed utile. In altri termini: mentre cercavamo di convincere gli altri che non esiste una “soluzione giusta” di per sé, ma che va cercata una soluzione adattabile e soprattutto sostenibile dal gruppo, al tempo stesso rendevamo “adattabili e sostenibili” i vari strumenti appresi al master. Probabilmente non tutti i professori del master ci avrebbero perdonato la disinvoltura, unita ad una buona dose di inconsapevolezza, con cui abbiamo smontato e preso pezzi da una parte e dell’altra, mischiando Total Quality e Project Management, rimontandoli secondo le nostre necessità, come in una sorta di grande LEGO. Certamente è stato molto liberatorio e in definitiva ci ha anche rafforzate nell’idea che la gestione della qualità sia una particolare forma mentale che si realizza al meglio proprio quando riesci ad unire il rigore con la fantasia. Nell’analizzare il modello organizzativo di MEDU le difficoltà non sono nate certo quando ci siamo messe a verificare i protocolli in uso o i sistemi di comunicazione, quanto piuttosto quando abbiamo proposto un questionario conoscitivo, da sottoporre a tutti gli associati, per delineare il clima interno, ed un altro limitato a chi aveva ruoli decisionali, per riconoscere gli stili di leadership presenti: in entrambi i casi le resistenze sono state evidenti. Ed era anche comprensibile e prevedibile che succedesse. Non è facile far accettare l’idea del meccanismo di standardizzazione, controllo e verifica a chi opera in maniera prevalentemente volontaria: c’è sempre il timore di subire una limitazione dell’autonomia decisionale personale o quanto meno una critica al proprio modo di agire. Questo timore ha radici molto profonde: si genera e si rafforza in una diffusa e radicata cultura della “colpa”. E non è difficile ritrovarci anche residui di matrice cattolica sempre ben presenti nel nostro tessuto sociale, ma forse succede anche in culture con origini religiose diverse; sta di fatto che qui da noi il concetto della colpa e della ricerca del colpevole sembrano essere assolutamente intrinseche a qualunque gruppo di lavoro. Appena succede qualcosa, una situazione si fa critica, nasce un problema, è facile veder spuntare il dito alzato all’individuazione del colpevole! Invece un concetto che ci ha affascinato molto durante il master è proprio che non è tanto importante chi sbaglia ma piuttosto perché si sbaglia. E dietro quel perché quasi sempre c’è molto: un’organizzazione che non risponde; una variabile non prevista; un sistema di controlli non efficace; verifiche e doppi controlli non predisposti. Quando accade un errore non è mai colpa unica e finale del singolo, ed è inutile e dannoso da tanti punti di vista
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libera la Qualità cercare il capro espiatorio su cui scaricare tutta la responsabilità (fondamentalmente perché il problema non si risolve, ma anche perché si perde la disponibilità a collaborare del “capro”, si instaurano meccanismi di diffidenza all’interno del gruppo che ostacoleranno ogni successiva richiesta di prestazione, … ). Mentre riuscire a far passare il concetto che l’errore è prima di tutto da usare come possibilità di crescita, questo sì che è inusuale e innovativo: non solo analizzarlo in tutto il suo verificarsi, ad ogni livello, passo dopo passo, porta a modificare il sistema in senso migliorativo, ma aiuta tutto il gruppo a sentirsi sostenuto, aumentando la fiducia e la partecipazione e sviluppando così anche nuove potenzialità. La stesura del piano di miglioramento è stata decisamente più semplice: le priorità di cui dovevamo occuparci erano emerse direttamente dai volontari, partendo dalle difficoltà in cui quotidianamente si ritrovavano nell’affrontare i vari compiti. Ovviamente anche dai risultati dell’analisi organizzativa e in parte anche dalle difficoltà sperimentate personalmente come volontarie. Ci siamo concentrate su tre specifiche tematiche: l’inserimento dei nuovi volontari, la gestione delle riunioni e il programma formativo. Abbiamo volontariamente scelto di partire da problematiche organizzative “piccole”: volevamo che il piano di miglioramento non coinvolgesse le fondamenta di MEDU, con un impatto troppo brusco, col rischio di scardinare i già precari equilibri esistenti, e che desse invece modo e tempo di coinvolgere le varie figure dell’associazione, evitando di calare dall’alto un modello chiuso, completo, non elaborato e condiviso con loro. Era quindi obbligatorio orientarsi su interventi semplici, facilmente comprensibili e attuabili, che stimolassero il desiderio di misurarsi e confrontarsi, e che avessero soprattutto una attuabilità veloce con un ritorno facilmente apprezzabile. A conti fatti la nostra esperienza in questo campo era pari allo zero e una sana dose di autocritica ha fatto sì che non ci lanciassimo in un’impresa già così poco apprezzata con la presunzione di voler cambiare tutto in un colpo solo! Cominciando ad occuparsi di un livello operativo più basso, vissuto come più pratico e concreto, è stato anche più facile sganciarsi dalla diffidenza e confrontarsi su scelte operative sentite come necessarie e inderogabili. Ed è stato proprio questo modo poco invasivo di lavorare sul piano del miglioramento, graduale e dosato, che ha suscitato all’interno dell’associazione il vero, sincero interesse per l’approccio nell’ottica della qualità.
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libera la Qualità Dalla prima riunione, in cui la nostra semplice richiesta “descrivimi nel dettaglio, nei particolari, come lo fai” aveva suscitato non poche perplessità e diffidenze, l’interesse e la disponibilità sono stati sempre crescenti. I nostri interlocutori si sono resi conto che già solo dettagliando ogni passaggio emergevano e si delineavano con chiarezza le problematiche, i “buchi”, le carenze, e non come conseguenza di nostre critiche al loro modo di lavorare, ma perché nell’analisi volta alla ricerca di una successione logica emergevano in modo spontaneo gli errori, le omissioni, le carenze. Sparita la paura di essere “sotto esame” il lavoro ha potuto proseguire. Ma un lavoro comunque che procedeva a rilento, faticosamente: organizzare gli incontri comportava di dover tener conto dei problemi personali di tutti, tra il doppio lavoro (quello personale di ciascuno e quello da volontari), sapendo poi che il tempo da volontari doveva comunque essere ripartito fra i tanti impegni che l’associazione richiede (le attività nei progetti, le uscite nei campi, le riunioni, ecc.) e ben poco ne rimaneva da dedicare alla programmazione. E naturalmente si doveva fare i conti anche col tempo per la famiglia, i figli, i viaggi, la stanchezza, la voglia di uscire e pensare ad altro… Nonostante tutto fosse così faticoso, le riunioni “per la qualità” procedevano e la credibilità sul tema era ormai assegnata: ci ascoltavano. Ancora una volta la pratica ci aveva confermato quello che sentito dire a lezione ci era sembrato così ovvio che quasi sembrava futile ribadirlo: e invece l’esperienza confermava che è fondamentale ricordarsi che il coinvolgimento del gruppo è prioritario ed ogni elaborazione di un’evoluzione organizzativa deve essere sentita come una necessità propria e non come imposta dall’alto. Analisi, proposte e applicazioni si sono protratte per un anno circa ma il piano di miglioramento che avevamo proposto è stato utilizzato solo in parte: un pezzo, quello della formazione, si è perso per strada, fra la fatica, la dimenticanza e la precedenza data ad altro, sentito probabilmente come prioritario. Dunque delle tre tematiche che avevamo proposto come primo intervento, due hanno dato buoni risultati (buona la risposta sull’inserimento dei volontari e migliorata decisamente la gestione delle riunioni) mentre il piano formativo di fatto non ha mai preso il via. Ma per un pezzo che si è perso un altro se n’è aggiunto: ci è stato infatti richiesto di aiutare a riorganizzare l’intera gestione del progetto “Un Camper per i diritti” a Firenze. Quindi in qualche modo un passaggio ad un livello superiore, di grande interesse per
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libera la Qualità l’associazione e con la possibilità e quindi la responsabilità di una ricaduta organizzativa su tutto l’insieme. I risultati raggiunti probabilmente non passerebbero il vaglio di una commissione per l’accreditamento, ne siamo consapevoli. Però sono risultati positivi, e ne siamo molto orgogliose, uscendo da questa esperienza rafforzate e arricchite da un nuovo modo di saper leggere le cose. Gli altri non ci guardano più con sospetto e oltre ad una certa dose di autostima abbiamo guadagnato considerazione all’interno di MEDU, e non era facile. L’associazione ha continuato la sua buona strada, cresce e si diffonde, ampia gli orizzonti geografici di intervento e il numero dei progetti, inizia ad essere più conosciuta e sempre più apprezzata a vari livelli, anche istituzionali. La crescita e la notorietà hanno sicuramente contribuito a far perdere l’aspetto amicale che ha governato le relazioni all’interno di MEDU, le amicizie sono proseguite su altri piani e non è più questo il fondamento su cui si basa la sopravvivenza dell’associazione. L’espansione così repentina dell’associazione ha reso evidente l’esigenza di predisporre una riorganizzazione capace di far fronte ai nuovi obiettivi. Il nostro intervento ha contribuito a segnalare questa esigenza, ha offerto degli strumenti ed ha trovato soluzioni e, anche se ovviamente non ha risolto le tante difficoltà organizzative, certamente ha prodotto un cambio di atteggiamento nelle persone che frequentano MEDU e che hanno ruoli di responsabilità. Tutta l’associazione sta operando un salto di livello, definendosi e strutturandosi in un’organizzazione sempre più sostenibile e funzionale. MEDU stava vivendo una fase critica, e come dicono i cinesi, ogni criticità ha due facce: difficoltà e potenzialità, rischio di estinguersi o capacità di rinnovarsi e rigenerarsi a un livello superiore. Quello che noi abbiamo fatto è stato di offrire un suggerimento, una proposta di una possibile direzione da sperimentare, e crediamo che questo abbia aiutato a mettere in gioco e stimolare delle energie che erano già presenti ma che vagheggiavano nella ricerca di una soluzione. Una conferma che abbiamo avuto su quello che al master potevamo solo intuire è che di qualità se ne può parlare riferendosi a qualsiasi campo, lavorativo e non, rispetto a un gruppo grande o piccolo, trattando di produzione industriale come di diritto alla salute. Servono strumenti precisi, che vanno appresi ma che non richiedono lauree specifiche e studi particolarmente lunghi e
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libera la Qualità impegnativi; è una materia che dovrebbe arricchire e attraversare in modo trasversale ogni tipo di studio, e che riguarda necessariamente la formazione di chiunque abbia un ruolo di responsabilità, a qualunque livello organizzativo. Sempre più spesso poi oggi ti imbatti in questi strumenti quando ti confronti e ti consulti con altre organizzazioni, altri servizi. Conoscerli è indispensabile: è come una lingua comune, che ti permette di capire il tuo interlocutore, di comunicargli le tue idee, di confrontarti. La forza e l’efficacia di queste metodiche sta nella loro diffusione: determinante che il loro utilizzo parta dal basso, sia capito da tutti e tutti ne comprendano l’utilità. Attualmente è questo Il problema: l’ottica della qualità è già dentro molte organizzazioni ma è come fosse ferma al vertice di una piramide. Il vertice risulta incomprensibile alla base, tanto da non sentirlo parte dello stesso triangolo. Il nostro lavorare insieme per la tesi è stato come ritrovarsi in una sorta di palestra per principianti, dove attrezzi, strumenti, istruttori, consentivano di farsi i muscoli sui temi che ci apprestavamo a dibattere davanti alla commissione. Un’occasione fortunata e difficilmente ripetibile quella che abbiamo avuto di poter sperimentare la teoria da esporre ad una tesi su di una vera organizzazione, consentendoci di prendere dimestichezza con strumenti che studiati solo a memoria probabilmente non avrebbero lasciato alcuna impronta nel nostro modo di ragionare. Realizzazione concreta e sentita sulla pelle delle teorie che stavamo applicando al gruppo di MEDU è stato anche il doversi confrontare, il dover collaborare e mettersi in gioco ognuna per le proprie capacità e competenze. Ognuna di noi si caratterizzava per la sua natura o per abilità acquisite per esperienze personali e vedere che l’altro arriva dove tu non puoi è rassicurante e stimolante al tempo stesso se riesci a pensarti come parte di un team collaborante e non come protagonista assoluto. Ed ecco che accanto a chi richiamava all’ordine e all’urgenza del lavoro da elaborare c’era chi non disdegnava una pausa per il caffè e sigaretta, da una parte una che era più abile nella scrittura e dall’altra qualcuno capace di correggere e tirare le fila. Abilità tecnologiche da una parte, intuizione e animo propositivo dall’altra. E la storia continua….in qualità.
*MEDICI PER I DIRITTI UMANI
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libera la Qualità Medici per i Diritti Umani (MEDU) è una organizzazione umanitaria e di solidarietà internazionale, senza fini di lucro, indipendente da affiliazioni politiche, sindacali, religiose ed etniche. Nasce per iniziativa di un gruppo di medici, ostetriche ed altri volontari, ed è affiliata alla rete internazionale PHR (Phisycians for Human Rights). MEDU è oggi presente con gruppi associativi ed aderenti a Roma, Firenze, Torino, Cagliari, Venezia e Trieste. L’organizzazione ha come obiettivo la tutela dei diritti umani in generale e del diritto alla salute in particolare, sia nel contesto nazionale che all’estero. Attualmente i progetti internazionali in corso coinvolgono i seguenti paesi: Colombia, Ecuador, Palestina, con caratteristiche diverse e specifiche per ogni paese. A livello nazionale sono attivi i progetti: “Camper per i diritti - assistenza ai senza fissa dimora” (a Roma e a Firenze), “Maschio per obbligo” per la prevenzione della violenza di genere e “Progetto Migranti”. Medici per i Diritti Umani si propone di curare le popolazioni più vulnerabili in qualunque situazione di crisi: vittime di disastri naturali, di epidemie, della fame e dell’ingiustizia sociale, vittime di conflitti armati, della violenza politica, rifugiati, minoranze e tutti coloro che in qualche modo siano esclusi dall’accesso alle cure. Medici per i Diritti Umani in totale indipendenza: ! porta assistenza sanitaria alle popolazioni più vulnerabili nelle situazioni di crisi ! individua i rischi di crisi e le minacce alla salute e alla dignità con il fine di contribuire alla loro prevenzione ! sviluppa nuovi approcci e nuove pratiche di salute pubblica nel mondo, fondati sul rispetto della dignità umana e delle diverse culture dei popoli ! cerca di instaurare sempre un rapporto di cooperazione con le popolazioni aiutate, che valorizzi il ruolo dei partner locali e che renda le popolazioni protagoniste del proprio sviluppo ! ricerca la cooperazione di altri partner per azioni di solidarietà al di là dell’area della salute ! denuncia le violazioni dei diritti umani ed in particolare l’esclusione dal diritto alla salute riscontrate, in qualsiasi contesto, durante i suoi interventi; ! considera la testimonianza un aspetto fondamentale della sua azione sia nell’ambito umanitario sia nella cooperazione allo sviluppo ! promuove la militanza civile e l’impegno volontario di medici ed altri operatori professionali della salute, così come di cittadini e professionisti di altre discipline necessari alle sue azioni. Svolge attività di selezione e formazione dei volontari ed attività di studio, ricerca ed organizzazione di corsi, seminari e convegni su argomenti di interesse della Associazione ! sviluppa all’interno della società civile spazi democratici e partecipativi, promuove attività di informazione, sensibilizzazione e formazione, al fine di favorire la conoscenza e la presa di coscienza del diritto alla salute e più in generale dei diritti umani; ! si impegna ad intrattenere una relazione di totale trasparenza con i suoi donatori. Per maggiori informazioni sull’associazione, sui progetti in corso, sulla possibile partecipazione alle attività come volontario, sui meccanismi di donazione, è possibile visitare il sito di MEDU: www.mediciperidirittiumani.org
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libera la Qualità 2.5.4
Fondazione Padri Camilliani: la R.S.A Ovidio Cerruti
DAI “PIZZINI” AL PALMARE viaggio attraverso la Qualità in RSA Irene Acquaviva, Lorella Conte, Silvio Paganelli Quando l’amico Simone Peruzzi ci ha chiesto impressioni e commenti (da inserire nel suo libro) rispetto al progetto qualità creato nella RSA Cerruti, dove prestiamo il nostro lavoro, abbiamo accettato entusiasti. Ed ora eccoci qua, pronti per scrivere. Ma cosa scriviamo? Siamo spiazzati davanti alla pagina Word completamente bianca e già stiamo ridendo ricordando che prima della “Venuta di Simone”, anziché lo schermo di un computer ci sarebbe stato un foglio di carta – ovviamente riciclata - e una biro. Beh, questo è già uno dei traguardi raggiunti: attualmente infatti ogni servizio, grazie al sistema qualità, ha a disposizione uno o più PC! Sembra strano, ma è proprio così … Ma forse è meglio partire dall’inizio. Lavoriamo in una Residenza Sanitaria Assistenziale, in provincia di Bergamo, con duecento posti letto. All’interno della Residenza ci sono un nucleo protetto (che ospita 24 persone) e un nucleo “stati vegetativi”. Inoltre è presente un Centro Diurno Integrato (con 25 posti). Ogni giorno è garantita la presenza medica, fisioterapica e di 2 educatori per almeno 8 ore al giorno, oltre al personale infermieristico e assistenziale, presente 24 ore al giorno. Uno dei problemi che emergevano quotidianamente era la comunicazione tra i vari servizi. Spesso lo scambio di dati e di informazioni tra le varie figure professionali avvenivano telefonicamente e nella migliore delle ipotesi venivano scritte su post-it o biglietti impropri (di varia forma, colore, dimensione) che a volte andavano persi ancor prima di arrivare al destinatario. Senza dimenticare che, quasi sempre, non erano né firmati, né datati, non era ufficiale né il nome del mittente né del destinatario. Ci fa sorridere pensare che di nessuno di questi foglietti sia rimasta traccia perché, una volta giunti a destinazione, venivano irrimediabilmente cestinati.
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libera la Qualità Non a torto, Simone aveva definito il nostro sistema di comunicazione: “Un passaggio di pizzini”. Altro punto debole del nostro sistema di lavoro era l’archivio dei dati, dei documenti e delle consegne tra i vari servizi: resosi conto del, problema, il nostro consulente, cercando da subito di coglierci in castagna, ci chiese come veniva fatto il back-up dei dati inseriti e quali supporti usavamo per salvare i dati. E quando noi, orgogliosamente, abbiamo estratto dal fondo di un cassetto alcuni floppy disks colorati, il suo commento è stato lapidario: “…Ma nemmeno i Flintstones!!!”. A questo punto abbiamo capito che era arrivato il momento di “rivoluzionare” il nostro modo di lavorare. Era arrivata l’ora di cambiare, di “in-for-ma-tiz- za- re”. Era arrivata anche per noi “L’era Moderna” Da queste devastanti premesse è cominciato il nostro percorso con Simone che ci riempiva di informazioni, concetti, istruzioni, usando una terminologia per noi del tutto nuova. Di fronte a tutto ciò provavamo dei sentimenti contrastanti: da un lato eravamo spiazzati dal carico di lavoro che ci veniva prospettato, dall’altro, ci piaceva l’idea di creare tutti insieme, in gruppo, in équipe, qualcosa ex novo, tutto da inventare e costruire. Ci siamo completamente affidati e fidati di Simone, poiché lui era la figura di riferimento, è stato ed è tuttora, il nostro accompagnatore, la nostra guida. Ma come in ogni “matrimonio”, non tutto era rose e fiori: abbiamo conosciuto col tempo quanto questo “Istruttore della qualità” fosse esigente: nulla era dato per scontato, tutto doveva essere dichiarato e scritto.. e quante volte tra di noi ci siamo detti: “… Ma quanto rompe!”. Ci siamo resi conto da subito che il grosso del lavoro non consisteva tanto nel cambiare il nostro modus operandi, ma nel renderlo visibile e dettagliarlo per iscritto: dovevamo costruire le procedure di ogni processo e codificare i diagrammi di flusso rendendo evidenti le responsabilità. Questa fase è stata la più impegnativa e faticosa perché non eravamo abituati a pensare secondo “l’ottica della qualità”, davamo per scontato tante cose, a volte nascondendoci dietro il concetto di autonomia professionale. Nonostante il tempo dedicato a questa nuova avventura dovesse necessariamente essere ritagliato nelle ore di lavoro ordinario, ci si ritrovava nei giorni immediatamente precedenti agli appuntamenti
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libera la Qualità con Simone, a creare una task force di lavoro per preparare tutto quanto messo in programma. Nessuno di noi voleva farsi trovare impreparato e all’arrivo del consulente sembravamo degli scolaretti delle elementari: era tutto un via vai per chiudere le porte, riordinare i moduli, riscrivere le procedure, recuperare il tesserino di riconoscimento, e ogni volta avevamo nuovi dubbi , nuove perplessità, nuove domande e nuove idee da proporre . Ma le preoccupazioni più grandi sono emerse nei mesi precedenti il primo Audit con la società di controllo del Sistema Qualità. Eravamo pronti? Avevamo lavorato bene? Avrebbero bocciato il sistema? Vivevamo l’attesa dell’Audit come l’esame di maturità: qualche paura, un po’ d’ansia, il dubbio di non essere pronti né preparati. Invece, nonostante alcune importanti osservazioni, ci hanno promosso a pieno titolo: la nostra soddisfazione è stata dunque grande. Parallelamente è cresciuta la voglia di continuare a migliorare. Abbiamo ricevuto anche i complimenti da Simone per l’obiettivo raggiunto, sebbene lui non abbia smesso “di starci col fiato sul collo”, ricordandoci che la qualità è un processo continuo e sempre in progressione. A distanza di qualche anno ci siamo resi conto che il Sistema Qualità ha cambiato il nostro modo di lavorare: ha reso perfettamente visibili le modalità operative, il carico di lavoro, le responsabilità delle varie figure professionali, ha rafforzato i rapporti nell’équipe multidisciplinare. Soprattutto nelle fasi iniziali i cambiamenti sono stati molto evidenti e questo ha rafforzato il nostro impegno e ci ha galvanizzato. Simone ogni volta alzava il tiro, ogni volta proponeva dei passi in avanti che miglioravano ulteriormente le procedure. Abbiamo vissuto fasi alterne, oscillavamo tra periodi di entusiasmo e periodi di stallo Le procedure andavano “digerite” da tutto il personale, il sistema doveva allargarsi necessariamente a decine e decine di persone che lavorano con noi e ciò ha causato non pochi problemi, di contenuto ma anche di linguaggio (vogliamo parlare delle NON CONFORMITA’ e di come a volte vengono percepite?) Questa è stata forse la parte più faticosa: condividere il sistema qualità con persone che non l’avevano pensato, codificato, ribaltato, rimaneggiato, migliorato più e più volte; per loro il sistema era imposto dall’alto e in qualche modo subìto.
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libera la Qualità Ci sono voluti tempo e pazienza, abbiamo gestito corsi interni per il personale, abbiamo discusso, ci siamo arrabbiati e abbiamo a volte pensato di gettare la spugna… ma siamo ancora qui… . E’ chiaro che il nostro lavoro non è finito: d’ora in poi i miglioramenti saranno sempre più piccoli, più “fini”, meno eclatanti e il rischio di accontentarsi è sempre in agguato. Simone non demorde e teorizza il “giro visite” con il palmare: “Beh, non lo usano anche i camerieri in pizzeria?”. Se lo dice lui…
*FONDAZIONE PADRI CAMILLIANI: RSA OVIDIO CERRUTI La R.S.A. “Ovidio Cerruti” è una struttura socio-sanitaria di proprietà della Fondazione dei Padri Camilliani ed è gestita dallo stesso Ente. Inaugurata nel 1964, prese il nome del suo benefattore Ovidio Cerruti che donò una parte del terreno attuale e finanziò l’opera. La Casa di Riposo sorge all’ inizio del paese di Capriate, a 300 metri dal casello autostradale. La R.S.A dispone di 200 posti ed è accreditata dalla Regione Lombardia come struttura socio-sanitaria a norma: tale accreditamento è conseguente al possesso dei requisiti strutturali e gestionali definiti dalla Regione stessa. All’interno della casa è stato attivato inoltre un “nucleo protetto” finalizzato all’assistenza e alla cura dei pazienti con gravi alterazioni comportamentali. La R.S.A. Cerruti è certificata secondo la Norma UNI EN ISO 9001/2008
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libera la Qualità 2.5.5 Estratto dagli atti del convegno “Nascere naturalmente”: Firenze, 28 ottobre 2011 Analisi dell’evento sentinella e modifica della prassi assistenziale Simone Peruzzi
Vorrei iniziare questo mio intervento con un tributo ad un uomo che ci ha lasciato da poco e che, qualche anno fa, ha rivolto un emozionante appello alla curiosità e alla spavalderia cognitiva: «stay hungry, stay foolish»23 siate affamati, siate folli. Sembra strano che uno come me, che si occupa di qualità, in un contesto come questo e con un mandato così tecnico, si rifaccia ad un invito così stravagante. In realtà dovremmo cominciare a rivedere tutto quello che concerne la qualità e il governo delle prassi, tra cui spiccano per prescrittività quelle relative al rischio clinico, cercando di togliere il peso e la polvere del puro adempimento a quanto, invece, potrebbe essere prerequisito per accompagnare costantemente il nostro lavoro nell'ottica del miglioramento e della maggior garanzia di efficacia clinica e assistenziale. 23
Steve Jobs, in occasione del ricevimento della laurea ad honorem, alla Stanford University di Palo Alto, nel 2005.
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libera la Qualità In questo senso essere affamati e, perché no, anche un po' folli, può aiutarci: ci può aiutare perché abbiamo sempre consegnato questi principi di governance alla più grigia burocrazia ed occorre oggi un salto cognitivo che ci porti a riappropriarci della voglia e del piacere di migliorare e di crescere con entusiasmo e con creatività. Uscire dal semplice sostentamento per cominciare ad apprezzare il gusto e il piacere di cibarci. Ecco, soltanto a queste condizioni, la qualità, l'accreditamento, il governo del rischio, possono diventarci amici e compagni di viaggio. Solo quando la smetteremo di pensare che tutti questi adempimenti sono ostacolo alla professione e quando ce ne riapproprieremo come strumenti dell'agire professionale, solo allora riusciremo a smettere di giudicare con fastidio quanto invece è condizione di una vera e propria pedagogia. Si apprende dall'esperienza. Meglio: si apprende dagli errori. La mappatura degli errori diventa quindi condizione imprescindibile per poter crescere e migliorare. Ma dobbiamo fare i conti con modelli che ci sono stati trasmessi fin da bambini, che ci rendono gli errori odiosi, oggetto di vergogna, elementi da nascondere. Ci hanno insegnato ad occultare gli errori. Chi sbaglia è cattivo. E nessuno vuole essere giudicato cattivo. Il giudizio sulla persona è, soprattutto in ambito professionale, inaccettabile. Nessuno di noi vuole essere messo in discussione a livello personale. Ed è questo il motivo del nostro comprensibile atteggiamento omissivo nei confronti dell'errore: siamo dei campioni di occultamento. Per disoccultare le criticità, bisogna che queste siano considerate tali, ovvero, uscire dal giudizio colpevolizzante per liberare la potenzialità analitica che deriva dalla scoperta e dalla perimetrazione dell'evento critico. Inaugurare una pedagogia dell'errore, che significa aver chiari i processi, avere una tensione al miglioramento, considerare la temporaneità delle prassi, sempre migliorabili a patto di saperle misurare e analizzare. Mi occorreva questa premessa, per poter trattare questo argomento. Serviva per sdoganare l'analisi dei processi e degli eventi avversi, svincolandola dalla pura realtà sovrastrutturale, aliena dallo specifico professionale, per renderla più vicina, più familiare, più utile. Veniamo al dettaglio. Sono stato chiamato a parlare della necessità di rilevare gli Eventi sentinella all'interno del percorso di nascita. Intanto, cos'è un evento sentinella?
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libera la Qualità Il Ministero della salute li definisce all'interno di uno specifico protocollo siglato di intesa con la Conferenza delle Regioni nel 2008 e aggiornato nel 2009: “evento avverso di particolare gravità, potenzialmente evitabile, che può comportare morte o grave danno al paziente e che determina una perdita di fiducia dei cittadini nei confronti del servizio sanitario. Il verificarsi di un solo caso è sufficiente per dare luogo ad un’indagine conoscitiva diretta ad accertare se vi abbiano contribuito fattori eliminabili o riducibili e per attuare le adeguate misure correttive da parte dell’organizzazione”. Nello stesso protocollo sono evidenziati 16 eventi classificabili come eventi sentinella: 1. Procedura in paziente sbagliato 2. Procedura chirurgica in parte del corpo sbagliata (lato, organo o parte) 3. Errata procedura su paziente corretto 4. Strumento o altro materiale lasciato all’interno del sito chirurgico che richiede un successivo intervento o ulteriori procedure 5. Reazione trasfusionale conseguente ad incompatibilità AB0 6. Morte, coma o grave danno derivati da errori in terapia farmacologica 7. Morte materna o malattia grave correlata al travaglio e/o parto 8. Morte o disabilità permanente in neonato sano di peso >2500 grammi non correlata a malattia congenita 9. Morte o grave danno per caduta di paziente 10. Suicidio o tentato suicidio di paziente in ospedale 11. Violenza su paziente 12. Atti di violenza a danno di operatore 13. Morte o grave danno conseguente ad un malfunzionamento del sistema di trasporto (intraospedaliero, extraospedaliero) 14. Morte o grave danno conseguente a non corretta attribuzione del codice triage nella Centrale operativa 118 e/o all’interno del Pronto Soccorso 15. Morte o grave danno imprevisti conseguente ad intervento chirurgico 16. Ogni altro evento avverso che causa morte o grave danno al paziente Di questi, gli eventi 7 e 8 sono riconducibili al percorso nascita.
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libera la Qualità Questi eventi mettono in evidenza possibili carenze organizzative, quali la mancanza di procedure assistenziali, la sottovalutazione dei fattori di rischio, l’insufficiente comunicazione tra gli operatori e tra operatori e pazienti/familiari. In particolare l’evento può essere dovuto a ritardi/omissioni terapeutiche e assistenziali gravi durante il parto o la vita perinatale. Il riconoscimento dell’evento è importante per procedere alla definizione di interventi sotto il profilo organizzativo, per la revisione dei protocolli in uso, per avviare un’attività di formazione e addestramento del personale. Nel protocollo è prevista l'obbligatorietà della segnalazione al Ministero della Salute e l'attivazione di azioni volte alla comunicazione tempestiva nei confronti di pazienti e parenti, all'analisi delle cause, all'implementazione di azioni correttive, alla disseminazione delle nuove procedure e linee guida, al monitoraggio dell'efficacia delle azioni intraprese. Esiste un altro documento del Ministero, del giugno 2011 e che riguarda le "linee guida per gestire e comunicare gli eventi avversi in Sanità". Forse questo documento risulta per questo contesto maggiormente significativo, per diversi motivi. Innanzi tutto perché descrive la necessità di gestire non solamente gli eventi sentinella ma anche gli eventi avversi e i "quasi eventi" (near miss). In secondo luogo questa linea guida ci sensibilizza sulla necessità di comunicare in modo efficace l'avvenuto evento, sottolineando l'importanza della trasparenza nei confronti di tutti i soggetti portatori di interesse e della comunità di riferimento. Infine, ma risulta centrale ai fini di questo nostro intervento, la linea guida ci introduce alla prassi dell'analisi delle cause, secondo metodologie consolidate e condivise: 1) la Root Cause Analysis (RCA) un sistema strutturato e complesso di analisi di cui il Ministero ha fornito anche un Manuale, presente sul sito del Ministero stesso. 2) l'Audit clinico, basato sulla comparazione con criteri riconducibili alle evidence based pratices e a standard condivisi. 3) il Significant Event Audit (SEA), un sistema meno complesso della RCA che comunque analizza gli eventi nella loro dimensione sistemica e multicausale. Un ultimo significativo documento, che ci sembra opportuno riportare è quello redatto dalla Conferenza Stato Regioni, nel
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libera la Qualità dicembre 2010, inerente la definizione delle linee di indirizzo per il percorso nascita. I presupposti sono da rintracciare nell'aberrazione italiana del ricorso al parto cesareo, ben oltre le medie europee, con distinguo significativi nelle diverse Regioni italiane, ma con un preoccupante trend di crescita, non riconducibile a problematiche di natura clinica e/o sociodemografica. Tra le misure individuate per un miglioramento del percorso nascita e per una sua ricollocazione all'interno di una dimensione meno invasiva, spiccano quelle relative alla gestione e al monitoraggio del percorso, non ultime quelle relative alla diffusione ed implementazione delle misure di sicurezza e di controllo degli eventi avversi. Ecco i 10 punti del documento: • Misure di politica sanitaria e di accreditamento. • Carta dei servizi • Integrazione territorio-ospedale • Sviluppo di linee guida sulla gravidanza fisiologica e sul taglio cesareo • Programma di implementazione delle linee guida • Elaborazione, diffusione ed implementazione di raccomandazioni e strumenti per la sicurezza del percorso nascita • Procedure di controllo del dolore nel corso del travaglio e del parto • Formazione degli operatori • Monitoraggio e verifica delle attività • Istituzione di una funzione di coordinamento permanente per il percorso nascita Ho evidenziato alcuni di questi punti, ma credo, senza forzature interpretative, di poter affermare che, in ognuna di queste indicazioni, sia rintracciabile la necessità di implementare modalità assistenziali maggiormente presidiate, descritte, condivise e monitorate, le quali tengano conto delle criticità come supporto per il miglioramento. La specificità del percorso nascita che in questo convegno si sta promuovendo, riconducibile ad una prassi che restituisce elemento di naturalità ad un processo che è stato progressivamente medicalizzato, richiede una riflessione duplice. Da una parte, il rischio che si corre nel presentare la necessità di monitoraggio e gestione degli eventi critici, di attivare atteggiamenti inclini alla "medicina difensiva", ovvero di snaturare il
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libera la Qualità processo e ricondurlo all'interno di percorsi clinici ipertutelativi e, appunto, poco naturali. Dall'altra, considerare che un percorso naturale, per definizione, non possa prevedere una gestione del processo. I due estremi sono non soltanto pericolosi entrambi, ma risultano sostanzialmente falsi. Le caratteristiche interne al percorso nascita che favoriscono una nascita "naturale" non possono né negare la necessità di promuovere una soggettività proattiva della donna e un percorso il più possibile lontano dalla gestione medicalizzata delle gravidanze fisiologiche, né togliere il presidio del processo da parte delle strutture sanitarie che sono comunque garanti della salute della puerpera e del bambino. La gestione intenzionale di questo percorso, capace di apprendere da se stessa e dalla propria ed altrui esperienza, costituisce elemento fondativo della prassi assistenziale. Occorre agire dentro questa vibrazione di frontiera tra il primato della componente sanitaria e il fascino e diritto alla naturalità della nascita. E su questa vibrazione costruire una comunità di pratiche. Far tesoro delle criticità, saperle raccogliere, sapersene assumere la responsabilità, saperle analizzare e condividere, saperne gestire le azioni correttive e saper implementare e standardizzare i nuovi percorsi sono, dunque, condizioni per un miglioramento continuo dell'assistenza al parto naturale, così come di ogni altro processo sanitario. Occorre aver voglia di far propria la necessità di descrivere accuratamente ed in modo condiviso i processi ed acquisire competenze inerenti ai sistemi di misurazione e rilevazione delle criticità. Senza un'appropriata descrizione del processo è difficile avere una base di riferimento da valutare. Senza una sistematica rilevazione delle criticità è impossibile avere una base per migliorare. Ho iniziato con un tributo ad un genio contemporaneo ed alla sua esortazione ad essere affamati di conoscenza. Vorrei concludere con un altro tributo ad un uomo24, anche lui scomparso da pochi mesi, non un genio, ma sicuramente una grande persona. 24
Vittorio Arrigoni animatore del Blog Guerrilla Radio e autore del libro “Restiamo umani”, ed. Il Manifesto libri, 2009. Ucciso a Gaza il 15 aprile 2011
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libera la Qualità Ed è un richiamo che ritengo quanto mai pertinente in questo contesto: «stay human» restiamo umani Credo che questo possa essere il miglior augurio che si possa fare a chi si occupa di dare il benvenuto naturale ai nostri bambini.
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libera la Qualità 3
Inizio
Un testo finisce con le conclusioni. Non questo. Non è per vezzo o amore del bizzarro che noi chiudiamo con l’inizio. È per coerenza e per convinzione. Se chiedete a un auditor che cosa è la visita di certificazione di un’azienda, vi risponderà che è l’inizio del Sistema di Gestione per la Qualità. Se richiamiamo il ciclo di Deming, il PDCA (Plan Do Ceck Act), il riferimento principe di ogni Organizzazione che si orienta alla Qualità, ci rendiamo conto che non esiste una fine di un processo di miglioramento. Che il miglioramento si definisce come continuo proprio in ragione del fatto che è ciclico e che, conseguentemente, ogni momento di valutazione dell’efficacia di un processo, si conclude con un rilancio, una ripianificazione, nuovi obiettivi. Ecco perché chiudiamo con un inizio. Abbiamo voluto distruggere per ricostruire. Abbiamo distrutto perché siamo convinti che non si possa costruire su terreni infidi. Abbiamo avuto bisogno di bonificare, anche partendo da una critica pesante nei confronti dei sedicenti professionisti della Qualità, i consulenti, che sono a nostro avviso i principali responsabili della metabolizzazione distorta del concetto di Qualità. Ma i consulenti sono in buona compagnia; altri soggetti sono implicati in questa mistificazione del concetto profondo di gestione efficace di un’Organizzazione. Lo sono i dirigenti che non investono in Qualità e che non sostengono il Sistema con appropriate risorse: la Qualità richiede impegno della Direzione, senza il quale non si sviluppa miglioramento e si assiste alla parodia della gestione che diventa puro esercizio di potere, miope e inefficace. Con i motori al minimo, nessuna Organizzazione può dare il meglio di sé, né può pensare di migliorarsi. La benzina nel motore la mette chi si occupa della governance dell’azienda e, senza questo intervento top-down, non c’è Sistema che possa sviluppare miglioramento delle proprie performance. Lo sono i professionisti delle Organizzazioni, che ormai sono rassegnati all’eterno presente e che non intendono assumersi nessuna responsabilità nel perturbare il Sistema. Sono stanchi, spesso anche con lecite motivazioni.
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libera la Qualità Ma non esiste Sistema immobile se anche soltanto un elemento si muove. E allora perché continuare a ritenere che tutto possa e debba cambiare soltanto se “gli altri” sono disposti a cambiare? Ci aiuta ancora Italo Calvino, una delle menti più illuminate del ‘900, uno che ha sempre avuto a cuore il cambiamento e che ci indica una strada possibile:
«L'inferno dei viventi non qualcosa che sarà; se ce n'è uno è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio.»25
Euridice ed Orfeo Pittura murale I sec. d.C.
Calvino parla d’inferno, non cerca di rassicurare o minimizzare la condizione di estrema difficoltà. Però ci dice che molti finiscono per confondersi nell’inferno e, se ci è concesso, quelli che si confondono, alla fine, colludono. Per gli altri si prospetta una situazione faticosa, attenta e di disponibilità ad apprendere. “…cercare e saper riconoscere…” non sono sinonimi: quando andiamo per funghi, alcuni li pestano ma non li vedono, eppure ci sono. Forse avere un po’ più disponibilità a riconoscere e meno fretta a liquidare il tutto come inadeguato potrebbe essere un buon modo per dare anche un segnale di appartenenza e di capacità di
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Italo Calvino, Le città invisibili, 1972
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libera la Qualità valutazione critica, che i vertici dell’Organizzazione, se non sono stupidi, non possono che tenere in considerazione. “…chi e che cosa…” ancora una volta una coppia semantica: risorse umane e risorse materiali, persone e cose, individui e processi. Non tutti fanno parte dell’inferno. Cominciare a discriminare e valorizzare quanto di buono c’è e da lì costruire, spietati nell’analisi ma mai rassegnati, secondo la prospettiva gramsciana del “pessimismo della ragione e ottimismo della volontà”. Una volta distrutto, proprio nell’ottica del pessimismo della ragione, abbiamo però anche cercato, perché siamo davvero ottimisti nella volontà, di delineare dei percorsi possibili. Percorsi di superamento dell’aporia organizzativa, incapace di apprendere da se stessa e dalla propria esperienza. Percorsi di sdoganamento di termini e tecniche, spesso confinati in una clausura epistemologica fatta di linguaggi criptici e di approcci per soli iniziati. Percorsi dialettici, dove il fine e il mezzo trovano reciproca significazione, dove il mezzo è coerente con il fine, lo prefigura e non ne è mai giustificato. Percorsi dove gli strumenti si integrano all’interno delle relazioni sociali tra individui che li usano. Percorsi che, infine, sono concreti ed hanno già avuto manifestazioni applicative, testimoniate da chi ha avuto coraggio, forza e determinazione e che ci ha raccontato che è possibile ed efficace quanto qui ipotizzato: non teoria quindi ma prassi esperita nella quotidianità. Percorsi, ancora, non sempre onerosi, perché esistono nella rete – non solo in quella virtuale – risorse di tutti, che possono essere utilizzate per produrre senso e per ottimizzare le nostre idee; trovano qui applicazione pratica, se ne sostanziano e sviluppano esperienze che sono, a loro volta, trasmissibili e divulgabili, senza che, essendo prodotti intellettuali, debbano essere necessariamente caricati dal “pizzo” dei loro autori. Siamo all’inizio. La strada da fare è molta. Siamo pronti a imparare ancora tantissimo. Nell’introduzione abbiamo fatto riferimento al contesto sociosanitario-assistenziale, poiché questo è l’ambito all’interno del quale si sono sviluppate la maggior parte delle nostre azioni e storie. Non c’è niente, assolutamente niente, che non possa essere mutuato e applicato anche in realtà differenti, sia nell’ambito del terziario, più o meno avanzato, sia nell’industria.
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libera la Qualità La Qualità non è un modello che ha un ambito di riferimento privilegiato. Richiede invece un’attenzione che tutti e in qualunque contesto possono adottare: è una veste, mentale e culturale che può davvero diventare determinante per garantire una migliore produttività delle Organizzazioni e una maggiore tutela degli individui che le fanno vivere.
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libera la Qualità Simone Peruzzi Nato a Firenze il 7 aprile 1962, ha una lunga esperienza nel Terzo settore come educatore e amministratore di società di servizi. Contamina la sua formazione umanistica con contributi di natura manageriale e andragogica. È socio fondatore di Antiforma srl, società di consulenza e formazione, della quale è anche Amministratore e Rappresentante della Direzione per il Sistema Gestione Qualità. Esperto di Sistemi gestionali per la Qualità e per la Sicurezza. Lavora da anni nel mondo della sanità e della socioassistenza in qualità di formatore e consulente.
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