nuovi aspetti dell’arte in Basilicata
SINERESI link allegato al n. 5 della rivista SINERESI Il diritto di essere eretici direttore Anna R. G. Rivelli edito dall’Associazione culturale PAN via Flavio Gioia, 1 – Brindisi di Montagna (Potenza) ottobre 2017
Sineresi link Intramœnia. Nuovi aspetti dell’arte in Basilicata 7 luglio – 29 ottobre 2017 Museo archeologico provinciale di Potenza testo critico a corredo del volume Barbara Improta fotografie dell’allestimento Salvatore Laurenzana progetto grafico e coordinamento editoriale Donato Faruolo rapporti con le istituzioni e amministrazione Massimo Lovisco allestimento e testi delle schede a cura degli artisti testo per Marcello Samela di Lucio Pio Samela
si ringraziano Giuseppe Biscaglia, Giovanni Cafarelli, Marco Fabiano, Fiorella Fiore, Piera De Marca, Giovanni Di Trani, Barbara Improta, Claudio Pisani, Anna Grazia Pistone, Anna R. G. Rivelli, Vito Santarsiero, Francesco Scaringi, Enrico Spera, Nicola Valluzzi, Stefania Visconti, il personale del Museo archeologico provinciale di Potenza e chiunque nei mesi della mostra abbia dimostrato il proprio appoggio all’iniziativa e al gruppo.
stampa Vincenzo Cristiano
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Karmil Cardone Dario Carmentano Nicola Di Croce Bruno Di Lecce Donato Faruolo Silvio Giordano Salvatore Laurenzana Pino Lauria Massimo Lovisco Marcello Mantegazza Claudia Olendrowicz Vito Pace Marcello Samela Mariano Silletti Volumezero
nuovi aspetti dell’arte in Basilicata 7 luglio — 29 ottobre 2017 Museo archeologico provinciale di Potenza
Dappertutto i Telchini mormorano contro la mia poesia, ignoranti che non nacquero amici della Musa […] Andate in malora, funesta stirpe dell’Invidia; e in futuro secondo l’abilità non con la pertica persiana giudicate l’arte; e non andate in cerca di un canto altisonante che da me nasca: tuonare non spetta a me, ma a Zeus. Callimaco
Non c’è torto maggiore che si possa fare al bisogno di conoscere che porre delle domande retoriche. La domanda retorica, infatti, non consente la conoscenza, ma avalla un prototipo pregiudizioso con la finzione di una risposta testimoniale. Si chiede esclusivamente per ottenere conferma di quanto già si dà per scontato. Quella retorica, insomma, è una risposta che finge di essere una domanda. La Basilicata da decenni viene incalzata per lo più da interrogativi di tale specie, flagellata da una pioggia di “num” e di “nonne” senza via di scampo. E poco importa se prima era il racconto della morte e ora quello della rinascita a farla da padrone; c’è, in una sorta di tradizione socio-politica, come la pretesa che la narrazione di questa regione debba restare sempre mitologica, di quella mitologia decorativa e vacua che non ha pathos e non ha più nulla da dire. “Intramoenia” è finalmente, a queste domande retoriche, risposta di beffa e di presa di coscienza contro i Telchini di tutti i tempi “che non nacquero amici della Musa”. Quella di “Intramoenia” è testimonianza di una contemporaneità; è mito, se vogliamo, in senso platonico, ovvero allegoria di realtà inattingibili dalla ragione, vivificato e possente, fatto di “creature” nuove che non ripetono, ma dicono e dicono il vero, che plasmano e sconcertano con un idioma bello e terribile come il volto della Natura leopardiana. “Intramoenia” è territorio ( sono quasi tutti lucani i quindici artisti) che esonda dagli argini di una geografia fisica e mentale, cosicché pare quasi una burla quel titolo che esplicita il senso di una chiusura solo per consentire all’arte di violarla, di scavalcare quel muro di cinta per calarsi nel quotidiano, farsi dialogo, espressione politica – nel senso più vero del termine- di un tempo che non vuole essere pedissequamente allievo del passato né supinamente in marcia sulle orme di un futuro precostituito. Non è un caso che “Intramoenia” ha suscitato scandalo e polemiche (ahi, i Telchini di ogni dove! ahi, le pertiche persiane!) tra chi confonde l’arte con la decoratività, con l’attrattività (laddove il binomio cultura/attrattori è la canna di pistola nella bocca di un territorio) e non si rassegna all’idea che l’arte per essere tale deve essere libera e contemporanea a se stessa. “Intramoenia” è stata perché nelle sue risposte hanno trovato inciampo le domande prefatte, perché è stata un “dentro” senza confine. Anna R. G. Rivelli
nuovi aspetti dell’arte in Basilicata
In un frangente di repentini ed epocali rivolgimenti per gli immaginari legati ai territori lucani, Intramœnia si configura come un necessario momento di elaborazione, di verifica, di analisi pubblica, forse anche di delineazione dei caratteri di un’altra crisi. Per lungo tempo percepito come il luogo dell’assenza di infrastrutture narrative che ne consentissero un immediato esaurimento in termini di esperibilità, la Basilicata ha mostrato spesso scarsa resistenza all’accoglimento di ideologie proiettive, e raramente è riuscita a esercitare pressione sugli indirizzi di ricercatori e esploratori, più inclini alla collezione che alla scoperta. I loro sguardi hanno quindi non solo esposto una rappresentazione portatrice di complessi e censure, ma hanno avuto la capacità di conformare in minorità l’autocoscienza dei territori oggetto di indagine. Alle ricognizioni archeologiche, sociologiche, antropologiche, urbanistiche, fotografiche, industriali, cinematografiche e petrolifere che si sono avvicendate negli ultimi due secoli, ne segue in questi istanti un’ulteriore di natura ibrida cultural-turistica cui si rischia di far fronte – ancora una volta – senza avviare un vitale processo di elaborazione culturale che consenta di preservare complessità e di far emergere contraddizioni: se dall’esterno, da parte di avventori equipaggiati per il turismo culturale, non sembra quasi mai pervenire una richiesta intenzionata a ottenere una risposta lontana dalle aspettative di una preordinata e fuorviante autenticità, dall’interno si accetta di buon grado di venir costretti nelle retoriche – ancora una volta – pienamente colonialistiche della vergogna e del riscatto pur di non interrogarsi sulla natura e la portata di una manifestazione di interesse che suona talvolta, infondo, ancora inaspettata o immeritata. Nel simulato appagamento delle questioni, gli artisti che si riuniscono in Intramœnia si costituiscono spontaneamente quali interlocutori fuori dal discorso, in un gruppo aperto, non programmatico, non strategico, ma aggregato intorno alla non casuale concordanza di tematiche e metodologie dell’operare ar-
tistico. Il titolo Intramœnia si riferisce in modo a tratti grottesco all’idea della chiusura entro mura fittizie cui rimandano le idee di confine, di immaginari territoriali, di gruppi di relazione, di collettività. Le opere in mostra, attraverso l’approfondimento di percorsi singolari e divergenti, contribuiscono invece a problematizzare ogni sintesi operata a beneficio di un’idea di territorio come prodotto (anche e non solo culturale) immediatamente disponibile al consumo. È un gruppo che agisce in un contesto di ricerca con prospettiva globale e che testimonia la possibilità di un Sud che non si esaurisca nel peso di una subalternità determinata su base economica. Di converso, suggerisce però l’urgenza di un ribaltamento di quegli abusati paradigmi di attribuzione di valore che hanno portano verso una generale crisi del senso: le distorsioni operate dal meccanismo del debito, la logica di profitto e l’anaffettività degli scambi economici hanno fatto sì che lì dove si abusa delle categorie di comunità, partecipazione, relazione, si parli spesso di compromissione di reciproche libertà. In regime di marginalità economica, la forza di progressione del gruppo è ricercata nella messa in comunione di idee e agire artistico, ponendo la necessità dell’imbastimento di un dialogo al di sopra del conseguimento di qualsiasi obiettivo di carattere produttivo. Intramœnia è tappa intermedia di un percorso che pone tra i propri obiettivi la costruzione di strumenti di verifica dello stato degli immaginari e degli apparati simbolici collettivi. Oltre l’ambizione di documentare l’esistente, cerca l’approfondimento delle ragioni e delle modalità paradigmatiche di un’azione artistica non censita da un sistema culturale a stretta interdipendenza con il sistema economico. — Negli spazi del Museo archeologico provinciale di Potenza, la mostra si articola per nicchie personali e per nicchie condivise: nelle prime gli artisti espongono su propria iniziativa un’opera scelta e allestita autonomamente; nel secondo si intrattiene un’operazione di dialogo tra le opere di due o più artisti.
guardare oltre l’inferriata di Barbara Improta
«…ié mi sente sempe nu carcirete Ca nun po’ gghì cchiù allè di n anfirriète». — Albino Pierro Mi ha sempre colpito la radicalità della scelta linguistica di Albino Pierro. La banale scelta del dialetto parlato nella sua terra d’origine avrebbe limitato l’orizzonte universale della sua poesia e sarebbe stata letta semplicemente come un fenomeno di resistenza all’imposizione, negli anni ’60 e ’70, della lingua italiana quale dittatura linguistica della società massificata, capitalistica e consumistica. La poesia dialettale a quel tempo si opponeva programmaticamente al colonialismo culturale della società industriale facendo rivivere la lingua comunitaria, paesana, ritenuta portatrice di per sé di valori autentici. Pierro rifiuta entrambi i codici precostituiti e sceglie la devianza, una lingua oscura, solo apparentemente dialettale, in realtà coltissima, «l’ultima lingua della poesia romanza» come l’ha definita Gianfranco Contini. Da questa antichissima lingua morta parte per un percorso tutto personale che lo porta all’invenzione di un idioma inedito che proprio nelle deviazioni rispetto ai codici di riferimento – a volte chiarissime a volte appena percepibili – assume il suo valore di lingua inaudita, inclassificabile, anticonvenzionale e antifolcloristica. Lo stesso paradosso della scelta di un “carcere” concettuale come esercizio di rigore linguistico che sia insensibile alle mode ma ambisca ad una portata universale lo scorgo nel progetto Intramœnia, collettiva di artisti in mostra al Museo Provinciale di Potenza. Si tratta di una scena artistica che, come si legge nel testo di presentazione della mostra che è già un Manifesto programmatico, «testimonia la possibilità di un Sud che non si esaurisca nel peso di una subalternità determinata su base economica»1. Gli artisti sembrano essersi uniti sotto la spinta di una pressante politica culturale neo-coloniale che impone una immagine della regione come luogo di incipiente rinascita – culturale, turistica, economica –
rispetto ad una lunga storia di miseria, materiale e intellettuale. Un Medio Evo invocato a bella posta dagli spacciatori di immaginari a caccia di nuovi territori cui imporre modelli di sviluppo e stili di vita non prima di aver innescato la convinzione di una inferiorità di cui vergognarsi e da cui riscattarsi. Una distorsione percettiva indotta che ha radici lontane: dall’esotismo delle ottocentesche “Indie di quaggiù”2 infestate di ferini briganti all’opacità artistica della Lucania rispetto alle emergenze del Bel Paese fascista allora dominato dall’estetica crociana fino alla poetica del “rimosso” del secondo dopoguerra che renderà la regione il simbolo di una Italia tutta da rifare. Dal rimosso alla vergogna il passo è breve. Nel territorio dell’“assenza imposta”3, un Meridione affetto da congenita labilità ontologica secondo le suggestive interpretazioni degli studi antropologici di De Martino, l’arte contemporanea lucana, dal dopoguerra all’inizio degli anni Ottanta, subiva lo stesso destino del principale polo culturale del Sud, Napoli: la divaricazione sempre crescente tra Nord e Sud, vittima quest’ultimo dei colonialistici progetti disegnati dall’industria culturale settentrionale, in primo luogo il mercato dell’arte. È quasi inutile dire che tutte le forze culturali del Mezzogiorno saranno fortemente condizionate dalla mitologia dello stereotipo naturalista e del “quadro di genere contadino” colmo di sentimento e retorica populista. Questo debito verso la “questione meridionale” aggraverà la divaricazione culturale di cui si è detto, complice una critica d’arte esercitata quasi unicamente dai quotidiani attraverso le recensioni delle mostre intrise di un atteggiamento accomodante, di un linguaggio generico, ambiguo ancora molto diffuso nei quotidiani locali. Nell’assenza di controinformazione gli artisti lucani si promuovono da soli: è del 1981 la mostra alla Fondazione Corrente di Milano 50 anni di pittura in Basilicata curata dagli artisti Gerardo Corrado e Nino Tricarico, primo spaccato di ricerca sull’area lucana. Qualche anno più tardi, un gruppo di artisti lucani fondava una rivista, Perimetro, diretta da Giovanni Cafarelli, luogo di dibattito critico sull’arte contemporanea internazionale. L’intento dichiarato delle iniziative culturali di quegli anni era quello di ridurre le distanze, di lanciare un ponte al di là delle mura che principalmente una critica distratta ed un mercato centralizzato avevano alzato, in definitiva di entrare a pieno titolo nel sistema dell’arte. Indipendente e parallela al sistema dell’arte è, invece, l’attività del progetto Oreste, collettivo di artisti
dall’identità variabile e sfuggente che, intorno alla seconda metà degli anni ’90, mette al centro della sua azione la condivisione, la progettualità, lo scambio di idee, il coinvolgimento del pubblico. Dell’esperienza delle residenze a Montescaglioso, località scelta dal gruppo per le sue caratteristiche di marginalità, si nutre la formazione di alcuni artisti lucani, come Dario Carmentano, che approfondirà, attraverso suoi progetti di residenze – Rupextre – e di mostre come occasioni di confronto tra artisti, la ricerca di Oreste volta alla creazione di comunità allargate ed aperte di artisti ed intellettuali in grado di esercitare liberamente il proprio spirito critico nei riguardi del mondo contemporaneo, metterne in discussione i codici o servirsene per immaginare e progettare mondi diversi. Carmentano trasfonde questo spirito nel gruppo di artisti che, prima di Intramœnia, aveva esposto a Matera al parco La Palomba, nella mostra Chora, territorialità spurie. Già al suo apparire il gruppo si presenta come un “dispositivo di ricerca” (Donato Faruolo, ndr), uno spazio di dibattito intellettuale aperto a chiunque voglia parteciparvi – gli artisti coinvolti non sono presenze fisse – contribuendo alla realizzazione di un laboratorio di riflessione sul mondo contemporaneo. L’obsolescenza delle immagini nell’era digitale, la manipolazione degli immaginari collettivi, la verifica di nuove dinamiche di relazione tra gli esseri umani, la mercificazione del patrimonio identitario dei territori, la crisi del paesaggio ridotto a “riserva indiana” per un turismo sostenibile, il colonialismo linguistico e iconografico imposto dal sistema economico, l’irriducibilità della morte nell’era dell’identità virtuale, il ruolo dell’artista al di fuori del sistema dell’arte, sono alcuni degli stimoli raccolti dagli artisti per innescare opere come macchine di senso, per congegnare un affresco corale ma dissonante in cui ogni tono timbrico è ben riconoscibile. A confermare questo intento di confronto nella differenza, gli artisti hanno scelto di esporre, oltre ad un’opera singola incastonata in una delle nicchie del museo, un’altra loro opera in dialogo con quella di un altro artista del gruppo, con criteri assolutamente imprevedibili, lasciando il fruitore libero di creare le proprie associazioni. E tutto questo partendo da un osservatorio, la Basilicata, che, purificato da tutte le connotazioni e gli immaginari proiettatigli addosso in secoli di conquiste, diventa, come il tursitano “inventato” da Pierro, “un’isola linguistica”, il luogo delle possibilità sperimentali e delle deviazioni dalla tradizione, il contesto ideale per un’arte essenziale, sorgiva, esente
da lasciti immarcescibili, che dell’isolamento fa una ricchezza e non un limite, o meglio nel limite trova la sua forza gnoseologica. Qualche anno fa avevo rilevato in un mio intervento per la Fondazione SoutHeritage l’approccio inevitabilmente indiretto degli artisti lucani all’arte e il carattere metalinguistico della produzione artistica che viene fuori da questo particolare stato di cattività, dalla vertigine di un azzeramento culturale che, ormai mi sembra chiaro, è sia cercato che imposto. A distanza di anni da quella ricognizione l’arte qui rappresentata conferma la sua natura di arte mentale che mai indulge alla pura emozione “retinica” e sensoriale, un’arte intellettuale che riflette su se stessa. Ma al di là dello sperimentare e verificare, l’arte lucana contemporanea è meno autoriflessiva di un tempo, meno chiusa nel proprio empireo, alla meta-cognizione associa la coscienza del mondo in cui è immersa, attraverso i suoi strumenti di riflessione e il suo linguaggio analizza, critica e ridefinisce la realtà contemporanea. Intramœnia è l’opposto della chiusura in un recinto, è la riflessione senza condizionamenti, è la condivisione di idee senza prevaricazione, è l’arte senza scopo. L’indagine profonda del paesaggio è parte importante del lavoro di Salvatore Laurenzana, fotografo e documentarista che esplora da tempo le permanenze e le distruzioni della terra lucana; come un viandante o un pellegrino coltiva la speranza solitaria che vi sia salvezza nella sottile rispondenza delle forme. Lo sguardo limpido sulle cose, i tagli arditi, la prospettiva monumentale, la messa a fuoco su dettagli quasi intimi sono elementi di un componimento poetico sempre in itinere, o sempre in fuga. Sintesi Mediterraneo. Ipotesi di fuga. Composizione 01 è il primo capitolo di un poema visivo di impressioni e visioni sempre differenti ma euritmiche che rispecchia in forma lirica il grande affresco di Predrag Matvejević di un Mediterraneo culla imprescindibile della cultura europea. Pensiero quanto mai attuale oggi che l’Europa volta le spalle ai suoi confini meridionali rinnegando la sua millenaria tradizione di convivenza tra somiglianze e differenze. La pianificazione paesaggistica e la progettazione a basso impatto ambientale sono alla base del lavoro del gruppo di architetti Volumezero, una sfida non da poco nella terra delle ricostruzioni cementifere, dell’invasione barbarica del minieolico e delle dissennate trivellazioni petrolifere. Ad undici anni dalla ratifica italiana della Carta del Paesaggio che vincolava l’intervento
sul paesaggio alla sua rilevanza culturale, la Basilicata inscena la farsa di un territorio incontaminato ad uso e consumo del turismo ecosostenibile mentre ne distrugge programmaticamente le risorse naturali, fonti di vita per i suoi abitanti. Hanno qualcosa di grottesco e terribile i giardini di Volumezero che riciclano gli scarti del petrolio, piccoli paradisi sintetici e memento mori di un territorio agonizzante. Al di là di stereotipi urbanistici e modelli di sviluppo territoriale calati dall’alto, Nicola Di Croce, architetto, sound artist e compositore, esorta ognuno di noi a ristabilire un contatto autentico e diretto con il paesaggio, con le città e la loro storia attraverso l’ascolto delle tracce sonore lasciate da chi quei luoghi li abita o li ha abitati. Per Nicola la consapevolezza profonda, istintiva dei luoghi è momento essenziale di una riappropriazione identitaria e comunitaria dalla forte carica progettuale. Lasciar parlare borghi abbandonati o periferie di metropoli, villaggi dell’entroterra o centri storici affollati usando la registrazione ambientale costituisce la base di partenza di un grande archivio di paesaggi sonori progettati dal basso, come dovrebbero essere progettate le città, partendo dal solco dei segni antropici lasciati nell’uso quotidiano. L’istallazione sonora proposta per Intramœnia, Istruttiva serie II, evoca i fantasmi di Craco, borgo abbandonato dell’entroterra lucano, attraverso un flusso sonoro ipnotico ed evocativo a tratti sommerso dalla melodia malinconica di una chitarra folk che accompagna “la storia naturale della distruzione”.4 Mariano Silletti è un fotografo di reportage ma non gli interessa la flagranza del reale né la neutrale registrazione degli eventi, è quel tipo di fotografo che mira a costruire un ponte emotivo con il soggetto che fotografa, che usa la fotografia come strumento per investigare gli aspetti dell’uomo che più gli interessano. Quasi si immerge nella dimensione dell’altro per indagare con pudore il suo mistero che, nonostante la lunga esposizione, rimane fittissimo. Ludovicu è la storia di una indagine investigativa sulla scomparsa di un uomo che Mariano conduce in prima persona perché è il suo lavoro. L’obiettivo fotografico si mette al servizio di questa vicenda avvolta nel buio e ad un certo punto prende il sopravvento rivelando, oltre la tragedia di una famiglia rumena, l’eco di qualcosa di più universale. Sulle cose si attacca una luce sporca, un’ombra fangosa che mi ricorda quella di certi fotografi dell’est Europa ma meno tagliente, meno spietata, illuminata a tratti da una luce mistica o da una
sfocatura avvolgente, dolce e indefinita. L’artista cerca il respiro lungo della fotografia, la simultanea rappresentazione dell’essenza del fotografo al momento dello scatto – i suoi sentimenti, le sue paure, i suoi sensi di colpa – e di quella del soggetto rappresentato – la sua dignità, le sue speranze, le sue delusioni. E soprattutto la rappresentazione dell’invisibile contatto che si è instaurato in quel preciso, eterno istante. Massimo Lovisco impegna il fruitore nel ricostruire le sue opere fotografiche traducendo il codice verbale in codice iconico quasi come se dovesse decifrare un geroglifico tanto il codice utilizzato appare desueto. Eppure pochi anni prima, in un tempo pre-digitale, l’artista stesso immaginava la musica sperimentale delle avanguardie cui non riusciva ad accedere partendo dalla sua descrizione verbale. Absentia è un’opera sull’immaginazione come slancio creativo, come capacità di ripensare infiniti mondi e infiniti spazi in un tempo in cui tutto è accessibile e tutto è rappresentabile; Lovisco rivendica l’azzardo di una coscienza non digitale, la carica eversiva del silenzio esistenziale come antidoto alla fine del mondo. La nostalgia pre-digitale dell’artista ha qualcosa di commovente, come la nostalgia del futuro di Asimov, di un tempo in cui era ancora possibile immaginare un futuro. Nella sua istallazione Suicide girls Marcello Mantegazza lavora per sottrazione, riduce all’essenziale gli elementi della composizione – quadrato, marmo, colore bianco – con tale rigore teoretico da creare un archetipo del monumento funebre, l’idea stessa della morte. L’aspirazione alla purezza del mondo delle Idee si scontra con la realtà di quel titolo e di quei nomi incisi nel marmo: poetesse morte suicide, schiacciate da un mondo di passioni e di costrizioni che nemmeno la Poesia è riuscita a riscattare. Non c’è catarsi in questa gelida evocazione ma solo assenza di vita, lucida, inesorabile, disperante. Quando la purezza formale non basta ad intercettare l’emergere del dramma nelle sue opere, Mantegazza ricorre all’assurdo inventario di nomi (Cadavre exquis), oggetti, parole, esperienze e persino formule magiche (Inventario delle formule magiche scadute), catalogo universale quanto improbabile, basato su libere associazioni mentali che si illude di mettere ordine nel caos dell’esperienza esistenziale. Procede con rigore l’indagine di Donato Faruolo sull’iconosfera sempre più sottile e ramificata della nostra era. Avido collezionista di segni sparsi ovunque per orientare e disorientare, il suo Atlante feticista di ogget-
ti iconici diventa uno strumento di diagnosi collettiva, in grado di intercettare i meccanismi di coercizione degli immaginari e di farne acquisire coscienza. Ad Intramœnia l’artista porta la sua raccolta di cartoline, Postcards, che, ad un primo sguardo, ci attrae per la composizione ritmica di cieli tersi e città sconosciute che è esattamente quello che ci aspettiamo da una cartolina, la rappresentazione sintetica di un luogo di evasione di cui si vuole comunicare, e condividere, l’esperienza. Ma l’inganno si rivela quasi fulmineo nell’ostensione affatto neutrale di cartoline risalenti agli anni della costruzione dell’Italia democratica, i decenni dal 1950 al 1980. Si palesa con orrore davanti ai nostri occhi un ritratto impietoso e grottesco del Paese: l’insistita retorica del cemento, l’ossessione invadente di palazzi e pompe di benzina s’impongono sulla coscienza come sul paesaggio, cancellando in un colpo nell’utopia del progresso la Sehnsucht settecentesca del «paese dove fioriscono i limoni»5. «Ce sont les regardeurs qui font le tableau», ho in mente questa frase di Duchamp di fronte all’opera di Vito Pace. P.s, forse post scriptum, l’enigmatico titolo dell’opera esposta, evoca qualcosa che estenda il suo raggio d’azione oltre se stessa, includendo chi le si pone di fronte. Si può quasi dire che il fruitore è la proiezione dell’artista, e lui la proiezione del fruitore, l’opera d’arte è un rito che senza lo spettatore non avrebbe luogo. Il tema è vedere attraverso, il punto di partenza è il desiderio di conoscenza di se stesso, del passato, dell’amore e del mondo. Un casuale accadimento meta-ironico, la lapide di una donna che ha perso la foto, fa scattare nell’artista l’immaginazione, veicolo primario di conoscenza. Ed è a questo punto che noi siamo chiamati in causa, invitati a guardare in quel vuoto oscuro che si è liberato dall’apparenza per liberare l’apparizione. Per questo rito Vito costruisce una sorta di altare che riproduce il vuoto della lapide: l’apparizione/sparizione della presenza femminile ed il nostro sguardo diventano parte dell’oggetto, dell’opera, immagine cristallizzata della contemplazione estetica o forse del desiderio erotico. Ma cosa vediamo in quel buio noi fruitori? E l’artista? Null’altro che “l’immagine del nostro desiderio”.6 Bruno Di Lecce è architetto oltre che artista, duplice condizione che pone ai due estremi della sua ricerca lo spazio fisico-matematico, da scomporre e ricomporre tramite misurazioni, e il tempo, nell’accezione bergsoniana di durata, flusso ininterrotto di coscienza. Al centro vi è il corpo, il soggetto che si rapporta con il
mondo attraverso questo ritmo continuo di memoria individuale/collettiva e misura astratta. Il ritorno alla pittura di Bruno ha il senso di una sintesi, esprime quella fondamentale unità del reale, quella continuità tra oggetto e soggetto che l’artista ha inseguito in tutta la sua opera. Se a prima vista le sue enigmatiche figurazioni ricordano atmosfere metafisiche è per via dello spazio solidificato negli oggetti, per quella luce intensa ma senza vibrazione, per quel disinteresse per le scale di misure che mescola cose insignificanti ad oggetti simbolici. Ma se in De Chirico la pittura è “speculazione sulla nullità dell’essere” 7, Di Lecce rivendica con un atto di forza la potenza creativa dell’inconscio, lo slancio vitale dell’arte quale riconoscimento del mondo interiore e della memoria collettiva, primo passo necessario per l’intervento attivo nella storia. In qualche modo mi ricorda Gauguin: il ripartire da zero, il percepire la coscienza come sintesi di immaginazione, intelletto ed istanza etica. E Matera è la sua Tahiti. Di Lecce lavora spesso in dialogo con Claudia Olendrowicz, una collaborazione artistica confermata dalla posizione speculare delle loro opere in mostra. Entrambi esplorano il rapporto tra spazio pubblico e spazio privato, storia collettiva e memoria intima ma Claudia si concentra sulla percezione della zona di confine, della soglia tra esterno ed interno dando maggiore rilievo alla dimensione lirica delle stratificazioni della realtà quotidiana. A volte mette volutamente in contatto luoghi tra loro distanti creando un sottile contrasto dall’effetto perturbante e familiare allo stesso tempo. A Potenza l’artista porta nel luogo sacro dell’arte, il museo, luogo pubblico per eccellenza, alcuni oggetti impregnati di vita, di una vita qualsiasi, intima, consumati dall’uso ma risignificati e trasformati in sculture di una strana, fragile bellezza. Nell’interstizio tra banale e monumentale si insinua l’arte di Claudia, di una pregnanza esistenziale silenziosa ma potente. Una riflessione sul processo creativo e sul rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione è l’opera in mostra di Marcello Samela. Per Intramœnia Samela non espone i suoi quadri di paesaggio – recente sua riflessione sulla pittura di genere – ma le macchie, gli schizzi, le tracce pittoriche delle sue creazioni, anzi le tracce digitali delle tracce pittoriche delle sue creazioni. Alla fine di questa rarefazione di rimandi l’artista lascia sulle pareti del museo la traccia dell’idea generativa dell’opera d’arte. Il gesto pittorico nello studio d’artista, luogo della creazione riprodotto in planimetria nel museo, è l’even-
to, la porzione di realtà che noi mentalmente possiamo ricostruire ma è anche la chiave di lettura delle sue opere pittoriche, oggetti mentali mascherati da magmatici grumi di colore. Nel mondo delle immagini della società contemporanea rovista Dario Carmentano, irridente iconologo della “nachleben” la “sopravvivenza” di simboli, riti e miti nella memoria collettiva. Questo scandaglio – selvaggio, ironico, dissacrante – gli serve per smascherare l’inganno alla base della persuasività dell’immagine: la sua è un’operazione linguistica di grande valore morale perché liberatoria, a tratti divertente a tratti scandalosa, sempre di forte impatto visivo perché violento è il linguaggio del potere. Carmentano infatti flirta con i linguaggi del potere economico, politico, religioso, sembra quasi cedere alle lusinghe della loro seduzione, in realtà li corrode dall’interno usando paradossi, ossimori, giochi di parole che riscrivono la storia iconografica dell’Occidente sulle basi di un nuovo umanesimo. Linea di confine è l’istallazione proposta da Pino Lauria, performance fotografica in quattro atti in cui il travestimento e la posa teatrale giocano con il concetto di identità molteplice con delicatezza e tensione estetica. Il chiaro intento estetizzante dell’artista blocca il fluire della performance nella posa ponendo gli “oggetti emblematici” così creati sulla linea di confine tra arte e vita, immagini viventi tra pittura, scultura e fotografia. Sul confine metamorfico tra civiltà e natura sta l’essere androgino del primo “tableau vivant”, come una creatura di Piero di Cosimo o di Matthieu Barney. Le altre tre immagini si prestano ambiguamente ad un gioco infinito di rimandi, dal travestitismo artificioso del barocco all’ermafrodito classico fino all’immaginario più comune dell’estetica queer. Questa dama/madonna/dragqueen vive in una dimensione sospesa tra rigoglio vitale e sottile senso di morte, incarnazione di un Eros primigenio, libero dalla repressione della civiltà. Silvio Giordano è l’artista/alchimista che crede nel potere metamorfico dell’arte, nella sua capacità di innescare il cambiamento, la trasformazione della realtà attraverso un linguaggio singolare, sempre rinnovato. Al centro del mondo utopico di Giordano vi è l’artista libero pensatore, il “divino artigiano” che alza continuamente il tiro, si espone in prima persona a dispetto di un mondo reale che sembra sordo al richiamo mistico e concreto dell’arte. Nella serie Sistema degli spiriti di Galeno il suo rapporto con il medico di Pergamo è lo stesso di Rem-
brandt con il dottor Tulp: la distorsione anatomica del cadavere dissezionato nella Lezione di anatomia è solo apparentemente ingenua, in realtà l’artista impone la sua visione della realtà gareggiando orgogliosamente con lo scienziato che, non a caso, porta il bisturi come un pennello. La stessa fantasiosa commistione di scienza e arte, di natura e cultura, di spirito e carne è in questi sensuali, ironici, barocchi papier collage. Zum Bild das Wort era uno dei motti di Aby Warburg. Dare parola all’immagine attivando i meccanismi della memoria culturale stratificatasi in secoli di civiltà visiva mi sembra uno dei temi più presenti nell’opera di Karmil Cardone. Crono ovvero la ciclicità del tempo, l’inesorabile corso della storia e la sua eternità non trova miglior simbolo che nella potenza del mito classico. La carica energetica delle immagini antiche non si dissolve ma persiste, riemerge e s’intreccia ad altri segni riattivando la sua pregnanza. Il profilo bidimensionale, inconfondibile del dio sembra camminare nella memoria oltre che nella storia, dai vasi greci alle metope dei templi, dalle decorazioni classiciste dell’età moderna alla grafica pubblicitaria del Novecento. La sua pervicace tendenza all’epifania la fa riapparire infine su fogli di quotidiani esposti su una di quelle strutture che si usano per le affissioni pubbliche che, non a caso, rimanda agli Acta Diurna populi Romani, resoconti di ciò che di rilevante accadeva affissi nei luoghi pubblici dell’antica Roma. L’engramma, o traccia mnestica, fluttua leggero sugli eventi drammatici del “secolo breve” 8, pur ridotto ad una sagoma essenziale non perde nulla della sua suggestività di imperturbabile, spietato falciatore d’istanti. 1 Donato Faruolo, Testo di presentazione della mostra Intramoenia – Nuovi aspetti dell’arte in Basilicata. 2 Francesco Faeta, Da vicino e da lontano. Fotografi e fotografia in Lucania, Franco Angeli, Milano 2010. 3 Raffaele Danzi, Aldo La Capra, Pietro Basentini, L’assenza imposta, Il Gruppo Editore, Napoli, 1969. 4 Winfried Geor, Gli anelli di Saturno, Adelphi, Milano, 2010. 5 Johann Wolfgang von Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni di apprendistato, Adelphi, Milano 1974. 6 Octavio Paz, Apparenza nuda, Abscondita, 2000. 7 Giulio Carlo Argan, L’arte moderna. Dall’Illuminismo ai movimenti contemporanei, Sansoni editore, Firenze, 1989. 8 Eric Hobsbawm, Il secolo breve, 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano, 1995.
Karmil Cardone Dario Carmentano Nicola Di Croce Bruno Di Lecce Donato Faruolo Silvio Giordano Salvatore Laurenzana Pino Lauria Massimo Lovisco Marcello Mantegazza Claudia Olendrowicz Vito Pace Marcello Samela Mariano Silletti Volumezero
nuovi aspetti dell’arte in Basilicata 7 luglio — 29 ottobre 2017 Museo archeologico provinciale di Potenza
KARMIL CARDONE Crono, 2013 disegno su quotidiani del 1918, del 1989 e del 2011 cm 60 × 135
L’opera Crono nasce da una riflessione sul tempo e sulla ciclicità della storia. Crono, simbolo del Tempo, acquisendo sembianze antropomorfe, si fonde nelle dinamiche della storia; percorrendo le pagine di tre quotidiani originali, attraversa lo spazio temporale di un secolo, per poi ritrovarsi al punto di partenza, dove fine e inizio coincidono, in un eterno ritorno.
Artista visuale nato a Potenza nel 1985. Ha compiuto studi artistici, conseguendo la maturità presso l’Istituto statale d’arte di Potenza. Si è laureato in Storia dell’arte e spettacolo presso l’Università La Sapienza di Roma. Nel 2014 si è trasferito a Londra nel quartiere di Brixton dove ha indagato le nuove forme della modernità, sperimentando nuovi linguaggi estetici. Ha vinto una residenza artistica a Venezia dove ha proseguito la sua ricerca artistica legata alle luce intesa come conoscenza della verità e superamento del mondo materiale sul cammino verso la realtà assoluta. Recentemente si è trasferito a Taormina, in Sicilia, per continuare la sua ricerca immaginifica, cercando l’armonia che si rivela in tutte le cose della natura.
KARMIL CARDONE
Tra le sue più importanti esposizioni: Studio 73 Art Gallery, (Brixton, Londra, 2016), Borders & Disorders, a cura di Andrea Chinellato e Luca Curci (Venice Art House Gallery, Venezia, 2015), Mediterranea 16, Biennale dei giovani artisti (Mole Vanvitelliana, Ancona, 2013), New Future, a cura di Manuela Valentini (Palazzo Poggi, Bologna 2013), IX Edizione del Premio Celeste, ex–GIL (Roma, 2012), 3ª Biennale dei giovani fotografi italiani, Centro della fotografia d’autore (Bibbiena, 2012), Word Event Young Artist (Nottingham, 2012), XV Biennale de la Méditerranée (Salonicco, 2011), Padiglione Italia – Basilicata, 54° Esposizione internazionale d’arte alla Biennale di Venezia, a cura di Vittorio Sgarbi (Potenza, 2011).
DARIO CARMENTANO Siam pronti alla morte, 2011 stampa lambda su dibond cm 30 × 30
Schiava di Roma, 2011 stampa lambda su dibond cm 30 × 30
Credo, 2007 stampa lambda su dibond cm 30 × 30
Fratello d’Italia, 2011 stampa lambda su dibond cm 30 × 30
A me!, 2007 stampa lambda su dibond cm 30 × 30
Papà, 2007 stampa lambda su dibond cm 30 × 30
S’è cinta la testa, 2011 stampa lambda su dibond cm 30 × 30
Gesù 2007, 2007 stampa lambda su dibond cm 30 × 30
L’Italia s’è desta, 2011 stampa lambda su dibond cm 30 × 30
Three, two, one, ignition, 2002 stampa lambda su dibond cm 30 × 30
Dove sta scritto? Questo è il dilemma! Verba volant scripta manent. Le parole non fanno testo rimangono delle opinioni, invece molti scritti e testi risultano incontrovertibili. Noi stessi, nella nostra incontrovertibile fisicità risultiamo dei “verba volant”, mentre solo la nostra firma valida un atto o un assegno bancario. Quindi alla domanda «dove sta scritto?» il Giudice, il Vigile Urbano, il Prelato, lo stesso Papa, muniti tutti della propria uniforme e della propria autorità, tirano fuori la Bibbia, i Vangeli, la Costituzione, i Codici vari, le Leggi e le Norme, ecc., e si fregiano di dimostrarlo con grande sicumera, suffragata dalle loro Verità. E se la domanda fosse «Chi l’ha scritto?» ci accorgeremmo che ad averlo scritto è stato un essere umano come noi, che in realtà ha scritto una sua opinione e forse addirittura una bugia. L’umanità, inspiegabilmente, continua a credere in abnormi bugie e le difende fino alla morte.
È nato a Matera il 24 febbraio 1960. Vive e lavora a Matera. Autodidatta, si è formato come incisore presso la Grafica di via Sette Dolori. Nel 1990 fonda l’associazione culturale Arterìa. Nel 1999 fonda Faro, Coordinamento associazioni per l’arte, che produrrà una serie di eventi e incontri tra artisti e associazioni culturali del Sud Italia. Nel 1999, conosce i fautori di Oreste, il collettivo di artisti relazionali con cui collaborerà all’organizzazione di Oreste, programma di residenza per artisti e curatori, e parteciperà alla 48ª Biennale di Venezia. Negli anni duemila, oltre a sperimentare le possibilità elaborative della grafica computerizzata, la sua ricerca si incentra sul valore risanato e primordiale dei simboli, al ragionamento sulle radici fonetiche e culturali di una frase, al cuore di tante icone che spesso non percepiamo nella loro inte-
DARIO CARMENTANO
grità originaria. Per farlo usa un atteggiamento ironico e dissacrante, ribaltando le ovvietà popolari (e spesso populiste) con senso umanistico, rispetto dei modus e sintetica calibratura visiva. Nel 2010 attiva nella città di Matera la residenza per artisti e studiosi Rupextre, giunta alla sua quinta edizione. Ha partecipato a rassegne d’arte di carattere internazionale in Italia, Francia, Austria, Belgio, Lussemburgo, Germania, Russia, Cuba, Brasile, Ungheria, Giappone, Polonia, Slovenia, Olanda, Norvegia, Svizzera, USA, Australia, Grecia.
NICOLA DI CROCE Hearing voices, facing the void, 2013 – 2015 field recordings, strumenti acustici min 10:48
Ascoltare l’abbandono attraverso un archivio dislocato nel tempo e nello spazio, eppure vicino al punto da parlare, suggerire il tracciato che da poetiche sonore conduce a politiche territoriali. E viceversa, muove da una nicchia a un esilio marginale, fronteggia il vuoto, richiama il ruolo consapevole di chi se ne prende cura. La traccia nasce da un archivio sonoro realizzato a Craco, e compone un paesaggio sonoro che dialoga con la voce del poeta lucano Domenico Brancale, i cui frammenti dialettali si fondono a quelli dell’ambiente acustico in una sintesi che esplora il rapporto tra ambiente antropico e produzione culturale. Il tema dell’abbandono e la sua stretta relazione col contesto partecipano a un discorso più ampio sullo spopolamento dell’entroterra italiano, e spingono a una riflessione che è profondamente legata al mondo dell’ascolto. Ci si interroga allora su quello che resta, su quello che resiste, o viceversa su quello che scompare fagocitato dal flusso delle trasformazioni; ma soprattutto sulle modalità di percezione di queste trasformazioni.
Sound artist, musicista, architetto e dottore di ricerca in Pianificazione territoriale e politiche pubbliche, nasce a Potenza nel 1986. La sua ricerca si concentra sul rapporto tra ambiente sonoro e pianificazione della città e del territorio. Questo rapporto esplora i processi di rigenerazione urbana, l’arte partecipativa e le molteplici traiettorie di sviluppo locale attivabili attraverso la maturazione della consapevolezza all’ascolto. La registrazione ambientale (field recording) è al centro della sua pratica artistica, che procede verso una ridefinizione della percezione del paesaggio, laddove il linguaggio sonoro diventa dispositivo narrativo, dunque strumento intimamente progettuale. Membro e curatore dell’Archivio italiano paesaggi sonori (Aips), ha sviluppato il suo percor-
NICOLA DI CROCE
so attraverso residenze artistiche (tra cui Dimora OZ, Palermo 2014; Fondazione Aurelio Petroni, San Cipriano Picentino 2015) e visiting presso centri di ricerca in Italia e all’estero (tra cui Cresson, Grenoble 2015; Sarc, Belfast 2015). Ha presentato installazioni e performance in importanti festival nazionali e internazionali (tra cui Internet Festival, Pisa 2015; Algoritmo, Bagnoregio 2016) pubblicato album (Istruttiva serie, Kohlhaas 2015), articoli (Audible everyday practices as listening education, Interference Journal 2016) e saggi (Geografie sonore, Linaria Editore 2016), e collaborato con importanti istituzioni culturali (tra cui Biennale di Venezia, 2013 e Vilnius Academy of Arts, 2014).
BRUNO DI LECCE 1900, 2016 olio su tela cm 30 × 24
L’abitudine, 2017 olio su tela cm 42 × 29
Senza titolo, 2016 olio su tela cm 30 × 24
La mosca, 2016 olio su tela cm 50 × 60
Dismisura, 2017 olio su tela cm 37 × 26
Il pittore, 2016 olio su tela cm 50 × 60
La soglia, 2017 olio su tela cm 30 × 22
Unitá di misura, 2015 olio su tela cm 32 × 18
Il lavoro recente di Bruno Di Lecce si concentra su una pittura che sembra caratterizzata da una forza centripeta che vede nel piano immaginario della “tela” uno spazio possibile da cui partire per andare in profondità. Nel suo lavoro cerca di disfare un’idea attraverso l’atto pittorico. Quest’ultimo diventa misura che non sfocia mai nella gestualità espressionista e neanche in una pura dimensione processuale. Bruno rintraccia, nel suo processo creativo, tre momenti che in linea di massima ritornano: il primo é il tema “allegorico” che nasce alle volte direttamente sulla tela senza traccia di disegno, il secondo è “l’assurdo” che ricorre talvolta alla negazione dell’idea iniziale, il terzo momento é quello della “sintesi” che é superamento della volontà di espressione, oblio. A quel punto il lavoro risulta estraneo al suo stesso autore: pur conservando un eco riconoscibile, l’immagine ha acquistato una sua propria natura.
È nato a Matera nel 1980. Si laurea in Architettura a Roma nel 2006. Dal 2008 vive e lavora a Berlino. Se la natura era il luogo dell’enigma, dell’ignoto, dell’alteritá, per Bruno Di Lecce la cittá è il luogo in cui l’uomo può riconoscersi nelle proprie opere. Il corpo diventa quindi il confine in cui le volontá dell’umano e della natura di cui esso fa inevitabilmente parte si scontrano. Come artista visivo è interessato all’immagine intesa nella sua fisicitá, concretezza e apparenza. Con i diversi dispositivi tecnologici a disposizione, tutti siamo degli image-makers, delegando l’atto del vedere e un’illusoria rappresentazione del vero ai dispositivi tecnologici. Per Bruno, quindi, la pittura è uno strumento e la tela un piano sul quale si gioca una partita con l’enigma:
BRUNO DI LECCE
chi perde vince, e vincere è ritrovare un’innocenza, un attrito primordiale con la realtá. Tra le mostre: Cottbusser Tor (Vesselroom Project, Berlino 2014), Ghostbusters, or how to stress photography (Kunsthal Charlottenborg, Copenhagen 2013), Seven Gates (XIV Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo, Skopje 2009), VEMA La nuova cittá Italia-y-26 (X Biennale di Architettura di Venezia, 2006), Identitá e contaminazioni (Galleria A.A.M., Roma 2006). Nel 2013 è selezionato per una residenza al Kunstverein di Francoforte.
DONATO FARUOLO Postcards, 2017 65 elementi da serie di cartoline, alluminio dimensioni variabili
La produzione di un’immagine è sempre un’involontaria assunzione di posizione nei confronti della storia. Alcuni studi volti a destrutturare le estetiche della fotografia, da Vilem Flusser a Franco Vaccari, evidenziano come ogni immagine partecipi all’esaurimento di un programma del fotografabile, quindi all’emersione di una coscienza collettiva. Postcards è una partitura sconnessa di cartoline dagli anni ’50-’80 che prova a disinnescare il senso sacrale delle immagini identitarie dei luoghi. Grattacieli, piloni, condomini qualsiasi tra strade di paese, vialoni di periferia e palazzine conficcate in paesaggi naturali: nel dispositivo pretenzioso e logorroico della cartolina, l’immagine pare giustificare la propria sommessa presenza appellandosi all’anonimato frugale e catartico di una modernità conquistata. Ogni luogo appare orgogliosamente irriconoscibile, ogni cartolina appare mossa da gusto del paradosso. Ma in questo nostro ritrovato senso di grottesco è celata anche l’incapacità di fronteggiare una nuova l’inadeguatezza per quello slancio ideale e massimalista che fa apparire questi scenari come sghembi epigoni delle visioni di Boullée, Ledoux o Leroy.
È nato a Potenza nel 1985. È artista e graphic designer per l’arte, il teatro e il cinema. Diplomato all’Accademia di belle arti di Palermo, specializzato in Comunicazioni visive all’Università Iuav di Venezia, master in Relational design (Abadir, Catania), laboratorio di alta formazione in Design per i beni artistici e culturali (Università della Calabria). È membro dell’associazione che dal 2011 produce a Palermo il Sicilia Queer filmfest. Membro della commissione Visual design per Adi Design Index (2016 – 2019). Primo premio Sicilia felicissima per la comunicazione visiva (2017). Si occupa di immagini e fenomeni visivi come rivelatori di ansie, fallimenti e irresolutezze nella definizione dello statuto culturale di un’epoca. L’ostensione dell’immagine, l’archivio, il tazebao, l’icona, il volume, l’antologia sono tra i principali stru-
DONATO FARUOLO
menti attraverso i quali indaga il funzionamento delle immagini come dispositivi efficienti. Tra le mostre: le personali Paper (2013), Pictures/Preview (2015), Un’indagine (2016); la project room Appendix (2009); le collettive Arrivi e Partenze – Italia (Ancona 2008), Mediterranean Design (Instanbul 2009). Per la grafica: Sicilia felicissima (Catania 2017), Fahrenheit 39. Rassegna dell’editoria indipendente (Ravenna 2015), Millennials Aiap. La nuova scena della grafica italiana (Milano 2015), Il linguaggio dell’innovazione (Cosenza 2015).
SILVIO GIORDANO Sistema degli Spiriti di Galeno_01, 2013 paper collage cm 140 Ă— 200 Sistema degli Spiriti di Galeno_02, 2013 paper collage cm 140 Ă— 200
Le opere della serie Sistema degli spiriti di Galeno sono composte con la tecnica del paper collage: figure ritagliate da libri di anatomia, botanica e zoologia incollate su cartoncino e incorniciate. Sono ispirate alle illustrazioni e alle teorie di Galeno di Pergamo, grande medico grecoromano i cui punti di vista hanno dominato la medicina europea per più di mille anni. Galeno era un uomo di grandissimo intelletto, studiava l’anatomia degli animali per poi applicarla a quella umana, correggendola con un po’ di sua fantasia e distorcendo le conoscenze alessandrine basate sull’osservazione dei cadaveri. Legava l’anatomia allo spirito, operando questa suddivisione: Spirito Naturale nel fegato, Spirito Vitale nel cuore e Spirito Animale nel sistema nervoso. Come il grande medico ridisegnava a modo suo l’organismo, cosi lSilvio Giordano ridisegna anatomie colorate che inglobano fiori o uccelli.
È nato nel 1977. Vive e lavora tra Milano e Potenza. Nel 2009 vince il Premio Celeste, sezione videoarte. Collabora a Mammut di Robert Gligorov, con la partecipazione di Sting, Saturnino e Vittorio Cosma. Nel 2010 vince Roma Europa Web Factory videoarte. Partecipa alla Biennale di videoarte in Korea (Sungkok Art Museum), alla 25 Manifestation internationale VideoFormes (Clermont Ferrant, Francia), e a Things, a cura di Irini Bachlitzanaki (TAF The Art Foundation, Atene) che vede la partecipazione di Jan Svankmajer e Fischli & Weiss. Segue Sport Your Food a cura di Rosella Canevari (Museo della scienza, Milano). Nel 2012 ha accompagnato con le sue immagini la lectio magistralis di Umberto Galimberti Il corpo nella cultura occidentale per il Festival città delle 100 scale.
SILVIO GIORDANO
Nel 2014 vince il primo premio RAI e Camera di commercio. Nel 2014 viene invitato da Magnolia e Sky a Masterchef 4. Nel 2015 prende parte a La Milanesiana, ideata e organizzata da Elisabetta Sgarbi (Fondazione del Corriere della sera, Milano). Nel 2015 partecipa a Indigestum a cura di Valerio Dehò (Palazzo Bottigella Gandini, Pavia). Nel 2015 ha esposto in The future of Italy (Mudec, Milano), esposto nel museo, lungo i Navigli e sulla Darsena. Nel 2016 realizza il film The Prince of Venusia, sulla musica e i tormenti del madrigalista Gesualdo da Venosa.
SALVATORE LAURENZANA Sintesi Mediterraneo / Ipotesi di fuga, 2017 Composizione 01. Omaggio a Predrag Matvejević. Mostar, 7 ottobre 1932 – Zagabria, 2 febbraio 2017 7 fotografie a lettura speculare, stampa laser su carta Fuji Velvet su pannello in mdf rivestito in tela cm 215 × 60
testo a corredo dell’opera tratto da Breviario Mediterraneo di Predrag Matvejević
«I suoi confini non sono definiti né dallo spazio né dal tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo: sono irriducibili alla sovranità o alla storia, non sono né statali né nazionali: somigliano al cerchio di gesso che continua ad essere descritto e cancellato, che le onde e i venti, le imprese e le ispirazioni allargano o restringono.»
Sintesi Mediterraneo / Ipotesi di fuga è la prima tappa di un progetto più ampio e in itinere orientato a una ricerca visiva su aspetti simbolici e narrativi insiti nel concetto di Mediterraneo. È basato sulle suggestioni poetiche contenute nel libro Breviario Mediterraneo di Predrag Matvejević. Ipotesi di fuga. Composizione 01 racconta dell’attrazione e della curiosità che il Mediterrano alimenta nell’aspirazione del navigante al raggiungimento dell’altra riva: sette immagini a lettura speculare che “parlano” di approdi, di distacchi e di viaggi intrapresi tra insicurezze e speranze; di sogni e spinte irrefrenabili, di culture e storie che chi si sposta porta con sé, alimentando quell’infinito spettro vitale che rende unica quest’area geografica… e in mezzo c’è sempre il mare. Il testo a corredo, ovviamente estratto da Breviario Mediterraneo, parla di indeterminabili confini che spingono a varcare sempre nuove soglie. Per Laurenzana Intramœnia è uno sprone a ridefinire nuovi confini nell’arte lucana, operazione necessaria a innescare quei percorsi di ricerca che spingono sempre oltre il lavoro di un artista: un impulso che lo ha portato a dare inizio al progetto Sintesi Mediterraneo.
Fotografo e videomaker. Vive e lavora a Potenza, dove è nato nel maggio del 1968. Usa il mezzo fotografico e audiovisivo come ponte per esplorare e interpretare visivamente gli aspetti della vita e della conoscenza, collaborando con architetti, paesaggisti, filosofi, sociologi, poeti, compagnie e festival teatrali, musicali, cinematografici, operando sia come interprete visivo di concetti e tematiche che come documentatore di eventi connessi a festival e iniziative culturali. La ricerca personale converge verso il racconto, nelle sue varie declinazioni visive, del rapporto che intercorre fra gesto umano e impatti conseguenti. Ha appena terminato il documentario dal titolo Acqua che Scorre, visioni riflesse dagli orti di Tricarico. Tra le mostre: Soma Pneumatikon (Venosa, 2017), con trenta dittici che indagano e metto-
SALVATORE LAURENZANA
no in relazione il corpo/gesto dell’attore/danzatore e la forma dell’albero, Escaliers. Città di verticalità e luce (Potenza, 2005), Diramazioni (Arte in Transito, Potenza, 2009), Manifesta. Piccola rassegna dell’orgoglio artigiano (Potenza, 2012), Ottantotto per l’inaugurazione del Centro Cecilia (Tito, Potenza, 2013), Narrazioni dello sguardo lento. Una montagna di risorse (Calvello, Potenza, 2014), Cento scale. Settimo ballatoio. Festival città delle 100 scale (Potenza, 2016). Tra le produzioni video: Mal d’Agri, documentario sulla petrolizzazione della Basilicata (2012), Narrazioni dello sguardo lento. Una montagna di risorse (Calvello, Potenza, 2014), Acqua che scorre. Visioni riflesse dagli Orti di Tricarico (documentario, 2017), Montedoro, aiuto regia per il lungometraggio di Antonello Faretta (2013).
PINO LAURIA Linea di confine, 2010 installazione, quattro stampe fotografiche cm 50 × 70 cad.
Focalizzando programmaticamente su caratteri di natura spiccatamente estetica più che psicologica, Linea di confine è un’analisi di Pino Lauria tesa a restituire le essenze del maschile e del femminile condensate in un unico soggetto. Il lavoro si sviluppa in trenta fotogrammi, ed è realizzato in collaborazione con l’attrice e modella Stefania Visconti. In una sovrapposizione vibrante e sfumata del maschile e del femminile, la percezione dell’immagine scivola naturalmente verso il riconoscimento di un paradigma e contemporaneamente verso la sua negazione. Gli studi di genere sostengono che l'identità di genere non sia una realtà rigidamente duale, ma un continuum ai cui estremi sono posizionati i concetti prettamente culturali di maschile e femminile. Il “transgenderismo” può essere quindi considerato, in chiave politica, come un movimento che propone una visione fluida dei generi tesa al riconoscimento del diritto dei singoli ad autodeterminarsi fuori dagli stereotipi e dalle istanze sociali di conformazione.
È nato ad Accettura (Matera). Nel 1974 consegue la maturità artistica presso l’Istituto statale d’arte di Potenza. Nel 1984 frequenta la scuola calcografica presso la Grafica di via Sette Dolori di Matera. Nel 1990 con un gruppo di artisti materani contribuisce alla fondazione di Arterìa. Nel frattempo si sussegue una intensa attività espositiva in numerose città italiane. Sue opere sono presenti in diverse collezioni pubbliche e private. Ha inoltre realizzato le copertine di tre volumi e altrettanti CD sull’opera dei compositori lucani dal ’500 ai giorni nostri a cura della Regione Basilicata e della Biblioteca provinciale di Matera. Ha partecipato a Progetto Esserci curato dal critico Philippe Daverio. Si sono interessati alla sua produzione critici e giornalisti della stampa spe-
PINO LAURIA
cializzata nel settore. Ha collaborato nel 2008 alla realizzazione del cortometraggio Profondo Sacro di Gianni Maragno come fotografo di scena. Citato nel corso L’arte lucana dell’’800 e del ’900 all’Università della Basilicata, a lui è stata dedicata la tesi di laurea Il restauro nell’arte contemporanea. Un caso di studio. Pino Lauria e le sue opere di Anna Paterino. Inoltre ha partecipato alla 54a Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia, Padiglione Italia a cura di Vittorio Sgarbi. Ha partecipato al progetto di micro-residenza e scambi interdisciplinari per artisti Ozio abitare (2015), Etere (2014), entrambi a cura di Arterìa, Matera.
MASSIMO LOVISCO Absentia I, 2017 tavolo, giradischi vintage, vinile con selezione produzione sonora del 1995-98, fotografia, testo dattiloscritto dimensioni variabili, fotografia cm 20 Ă— 15 Absentia II, 2017 cornici, testi dattiloscritti che descrivono fotografie mancanti dimensioni variabili
Absentia focalizza sul tema dell'assenza declinato in tre installazioni. Absentia I è un giradischi vintage con un 33 giri di composizioni del ’95-’97, anni in cui Lovisco, ventenne affascinato da un’irreperibile musica futurista, cercava di comporla da sé partendo da descrizioni trovate sui libri. Era un mondo non connesso che lasciava ampi margini esplorativi. Absentia II è una riflessione sulla fotografia. È possibile oggi avvertire l'assenza di un'immagine? Due fotografie inedite dalla produzione predigitale di Lovisco sono presentate senza essere mostrate. Eliminate per sempre dalla visione altrui. Rimarranno inedite. Al loro posto, nelle cornici, la loro descrizione dattiloscitta. Il fruitore potrà immaginarle, farle proprie, introiettarle unicamente seguendo il testo. Absentia III è un calendario dell’anno 11976 in una scatola di legno. Nel 1983 il matematico Brandon Carter, seguendo una teoria legata alla distribuzione dei grandi numeri e applicandola al numero degli umani comparsi sulla Terra dal primo uomo a oggi, arrivò a ipotizzare che l'umanità si estinguerà intorno al 10000. Il calendario sarà perfettamente funzionante nel 11976 ma non ci sarà più nessuno a poterlo consultare.
È nato a Potenza nel 1976. Si è formato al Dams arte dell’Università di Bologna dove si è laureato in psicologia dell’arte e ha collaborato per testate musicali come fotografo. La sua ricerca, partita dallo studio della fotografia come processo sensoriale, è approdata alla realizzazione di progetti e installazioni site-specific che vanno oltre la materialità dell’opera incentivando il fruitore a essere parte attiva del lavoro. Le sue ultime ricerche sono concentrate sullo studio delle relazioni e delle reti emozionali tra le persone e sull’ipotesi di creazione di micro comunità. È fondatore di Amnesiac Arts, associazione che si occupa di ricerca e diffusione dell’arte contemporanea e fa parte del team di direzione artistica e gestione del Cecilia, centro per la creatività di Tito (Potenza). La sua attività artistica è in-
MASSIMO LOVISCO
centrata anche sui suoni (ambientali e sintetizzati) e sulla sperimentazione musicale. Mostre da segnalare: oltre alle personali Voyage Voyage (Catanzaro 2009) e Lovisco al Quadrato (Melfi 2007), le partecipazioni a Loop Festival (Barcellona 2014), Videoart Yearbook. L'annuario della videoarte italiana (Bologna 2013), Paesaggi/passaggi interiori (Potenza 2012), Gesto, Segno, Disegno (Macc, Calasetta 2012), Arrivi e Partenze – Italia (Ancona 2008), World One Minutes Exhibition (Pechino 2008, evento inserito nella programmazione ufficiale delle Olimpiadi), 59 Seconds (New York 2006 e Pan, Napoli 2008), Cityscapes (Pecci, Prato 2006). Nel 2006 è vincitore del contest Pagine Bianche d’Autore Basilicata a cura di Luca Beatrice.
MARCELLO MANTEGAZZA Suicide Girls, 2016 installazione ambientale, legno verniciato, marmo di Carrara inciso a sabbia dimensioni variabili
Suicide Girls è un’installazione ambientale consistente in sette cubi di legno bianco verniciato di 24 centimetri per lato che riportano in sommità una lastra di marmo di Carrara. Su ognuna delle sette lastre è inciso il nome di una poetessa suicida. Le lapidi, prese singolarmente, sono il risultato della più determinata tensione verso il prototipo della lapide funeraria: marmo di Carrara, carattere graziato, composizione a epigrafe, incisione del nome nella pietra. A questo sforzo di anaffettività e privazione di sensi, fa da contraltare la fredda attitudine al catalogo, alla lista, al censimento, all’inventario, condotta con abnegazione e controllo verso il più rigoroso degli esiti. Il corto circuito tra indagine del tema mortuario e applicazione di un algoritmo classificante riesce a scatenare un profondo senso di disturbo dovuto alla capacità dell’artista di anatomizzare gli immaginari per poi condurli al vivo del trauma, per far emergere l’innocente atrocità che è in essi.
Nato nel 1974 a Potenza, si è diplomato nel 2003 all’Accademia delle Belle Arti di Roma. Attualmente vive e lavora a Rieti. È rappresentato dalla galleria 3)5 Arte Contemporanea. Porta avanti una ricerca sui concetti di vita e morte, permanenza e trasformazione, scorrere del tempo, pericolo, corruzione, consunzione ed estraniamento attraverso diversi linguaggi espressivi. Si orienta verso forme e contenuti di matrice pessimistica ed esistenzialistica, con un’ossessione per le catalogazioni e gli inventari, gli elenchi e le numerazioni, cercando in esse di imbrigliare un meraviglioso incomprensibile e indecifrabile a parole. Da segnalare: l’intervento site specific Spoiler: you will die®, per il Museo di Acquapendente (Vt), a cura di Serena Achilli, in Urban Vision Festival, per le collezioni permanenti del
MARCELLO MANTEGAZZA
Maam (Roma) e del Dif (Formello), a cura di Giorgio De Finis; la partecipazione a Dif Wunderkammern / Le stanze delle meraviglie, a cura di Giorgio De Finis, Dif, Formello; la presenza a Setup Contemporary Artfair, 3)5 Arte Contemporanea, (Bologna); _3 | Spazio al cubo, Città delle 100 scale festival, Potenza; Chora (Parco scultura La Palomba, Matera); la partecipazione alle edizioni 2015 e 2016 del Festival Algoritmo, curato da Serena Achilli a Civita di Bagnoregio e la presenza nei cataloghi Dif / Il museo dovunque e Maam, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, Città Meticcia, entrambi a cura di Giorgio De Finis.
CLAUDIA OLENDROWICZ Steinschwamm, 2016 spugna, sapone, pigment, stoffa di pantaloni dimensioni variabili Torso des Torso, 2015 maglietta, sapone dimensioni variabili Next, 2014 tasca di un pantalone, gesso cm 15 Ă— 15 circa
Il lavoro di Claudia Olendrowicz riflette sui modi in cui si costruiscono le identità, ossia sulle modalità e la portata dell’influenza che spazi, contesti, esperienze private e collettive esercitano sugli individui. Nel lavoro Steinschwamm la spugna, dopo aver assorbito il sapone liquido e colorato, si indurisce assumendo le sembianze di un frammento, di una parte di un’unità più grande. La deformazione della spugna rende più evidente, in senso metaforico, l'esperienza che la spugna ha interiorizzato. Ognuna, inoltre, esibisce la sua unicità anche attraverso l’abito che indossa. Il lavoro oscilla tra la struttura data della spugna e il gesto che interviene a renderla unica. Tutto sommato le singole unità, raggruppate poi insieme, evocano possibili altre strutture.
CLAUDIA OLENDROWICZ
È nata nel 1983 in Germania, a Königs partecipato al workshop A fiction in reality. Art, PoWusterhausen. Si laurea nel 2008 all’Accademia litics & Architecture, diretto dall’artista Carlos Garaidi belle arti del Bauhaus di Weimar e nel 2017 in coa, Fundación Botin, Santander. pedagogia sociale all’Universitá di Potsdam, vive e lavora a Berlino. Mostre personali: Cottbusser Tor (Vesselroom Project, Berlino, 2014), Irish Spring (126 Artist-Run Gallery, Galway, 2013), Irrgäste (Interno 4, Bologna, 2012). Mostre collettive: Chora (Parco scultura La Palomba, Matera, 2016), Show what you want to show (Melkweg Expo, Amsterdam, 2015), Eine Enzyklopädie des Zarten (Wunderkammer Schlossmuseum, Weimar, 2015), A fiction in reality. Art, Politics & Architecture (Fundación Botin, Santander, 2014). Nel 2013 ha svolto una residenza al Frankfurter Kunstverein, Frankfurt am Main. Nel 2014 ha
VITO PACE P.s. – Lapidarium, 2007 fotografia cm 200 × 150 P.s. – Altare, 2007 legno cm 70 x 70 × 120
L'arte per Vito Pace è tutto e il suo contrario, luogo di paradossi e libertà, di narrazione e affabulazione. Le sue opere sono elementi di una storia, la sua ricerca artistica è ricerca di oggetti narrativi. Un universo infinito di luoghi, segni e frammenti di reale, composti con ironia per suggerire ed evocare il senso di un continuo cambiamento, di azzeramento e rinascita, principio imprescindibile del fare arte. É il paradosso della "presenza dell'assenza": P.S. Post Scriptum o anche Post Mortem, come evocazione di qualcosa – qualcuno – che non c'è. Non c'è più? Non c'è mai stato? La risposta di Vito è tutta nelle sue opere, come l'altare che sorregge una cornice. Vuota. Lo spunto è arrivato da una lapide del cimitero di Avigliano in cui manca la fotografia, ma nel buio della cornice vuota non c'è un lugubre riferimento alla morte, quanto uno spazio da riempire, lo specchio oscuro dell'Io: ciascuno deve porvi quanto sente. Il vuoto si è riempito di infinito, prescindendo dal ritratto di una persona per diventare immensità. La cornice diventa così ironico objet trouvé di duchampiana memoria, dadaista al contrario: cornice che racchiude immagini dell'infinito, cornice vuota che imprigiona lo spazio.
È nato il 22 dicembre 1966 in Basilicata. Vive e lavora a Karlsruhe (Germania) La sua filosofia è estendere i confini, rimuovere le barriere che inibiscono il processo creativo e sottolineare che diversità e irregolarità non devono essere temute, ma piuttosto abbracciate. La sua ricerca è concentrata su spazio e identità ed espone l’“accadere” dell’opera d’arte, il suo realizzarsi nel mondo come processo e non la sua condizione di oggetto materiale. In altre parole, la sua attenzione è rivolta all’azzeramento dell’elemento poetico ed emotivo dell’opera, a favore di un’esplicitazione del procedimento necessario a realizzarla. Le opere sono realizzate attraverso tecniche differenti, come scultura, disegno, arti performative e visive, cercando di raggiungere l’esposizione del concetto che diviene lavoro e del
VITO PACE
processo atto a realizzarlo. È fondatore della casa editrice indipendente Baustellen Büro (baustellenbuero.com). Dal 2000 è Visiting Professor presso l’Università di di Scienza Applicate di Pforzheim, in Germania. Tra le mostre: Pink Me Not (2017, Casina pompeiana, Napoli), Portrait Des Künstlers Und Autobiografische Reflexion Für Eine Ausstellung In Einer Postsozialdemokratischen Und Populistischen Gesellschaft (2016, Laf – Projektraum Pforzheim – laf-ev.de), Fünfzig Zigarren Für Das Licht Der Zukunft (2015, Kunstverein KISS Kunst im Schloss Untergröningen e.V.), A L L E ! (2015, Städtischen Galerie Karlsruhe).
MARCELLO SAMELA Black Dog, 2017 acrilico e tempera su carta su mdf cm 27,6 × 20,7 n.2 tavolozze dell’artista acrilico su cartone cm 20,8 × 29,5 cad. Fantasy, 2017 n.4 stampe su vinile su forex cm 40 × 40 cad.
Constable, 2017 acrilico e tempera su carta su mdf cm 30 × 13,5
Seguendo un’analisi di matrice strutturalista, è opportuno concentrare l’attenzione su un limite che prescinde quello geograficamente delimitante. Marcello Samela conduce pertanto un’indagine concettuale di quel confine circoscritto da pareti entro le quali avviene la riflessione intellettuale e artistica. L’intento è quello di rivelare le latenti potenzialità creative insite nelle tracce lasciate tra le mura dello studio. Qui, i segni parzialmente incontrollati degli impasti sulle tavolozze sono convogliati in un discorso creativo selezionando le mescolanze più prossime ai criteri del pittorico. La volontà di indirizzare queste tracce caotiche verso un composto elaborato, conduce a un riordinamento sistematico di segni. Le tinte in deflagrazione sui supporti di mescolatura e preparazione, vengono dunque imbrigliate nella geometria razionale della planimetria dell’atelier. Intramœnia concerne l’idea di un incastellamento metafisico tra le mura della Basilicata, ma prima esiste lo studio, luogo che custodisce la ricerca di nuove grammatiche. La visione interna, la riflessione di queste singolarità creative, si palesa in una natura più universale che locale, ciò rivela che le espressioni dell’estro posseggono un lessico di gittata internazionale che prescinde le realtà locali e la fisicità oggettuale del concetto di limite.
È nato a Montreuil Sous-Bois (Francia) nel 1959. Si trasferisce in Italia nel 1982, ad Avigliano, dove attualmente vive e lavora. La sua attività artistica inizia a Parigi nel 1977 frequentando l’atelier di Manessier, nipote di Alfred, pittore astratto del secondo dopoguerra, e seguendo contemporaneamente corsi serali di figura dal vero. Dal 1989 a oggi espone in mostre personali e collettive. La sua azione artistica si avvale dei più disparati linguaggi dell’arte contemporanea, adoperando la pittura, le elaborazioni digitali, la fotografie, le installazioni e la performance. Tuttavia, ammiratore dell’arte del passato, e in particolar modo di quella pittorica, i suoi lavori sono intrisi di quel calore che associamo alla tradizione e che conferisce alle opere un tono di familiarità.
MARCELLO SAMELA
Per Intramœnia Samela intende rivelare le latenti potenzialità delle tracce pittoriche involontariamente lasciate tra le mura del proprio studio: i segni parzialmente incontrollati degli impasti lasciati sulle tavolozze sono selezionati secondo criteri propri di un discorso pittorico e convogliati in un contesto autoriale. Questa transizione di contesto è esplicitata da una transizione del medium, restituendo il tutto in un elaborato digitale. L’indagine concettuale diviene pretesto per una riflessione sul procedimento creativo stesso: il processo che ha condotto all’ideazione eguaglia in valore le qualità formali dell’opera compiuta.
MARIANO SILLETTI Ludovicu, 2013 – 2014 stampe fotografiche fine art in bianco e nero, 8 pezzi cm 40 × 60, cornice cm 70 × 50 Ludovicu, 2013 – 2014 stampe fotografiche fine art a colori cm 10 × 10, cornice cm 20 × 20
Ludovicu, rumeno, cinquantasette anni, da sette in Italia, malato di Alzheimer, è scomparso. Un giorno di dicembre 2013 è uscito di casa e non è più tornato. Veronica, sua moglie, lo ha atteso invano per ore, invano. Ludovicu è il primo progetto realizzato nel corso di un'indagine investigativa, un ulteriore strumento di ricerca non solo documentale ma anche funzionale, quasi in maniera inaspettata, a definire il binomio “carabiniere-fotografo”. Un’occasione per raccontare in modo diverso un fatto di attualità con lo sguardo di un carabiniere o, meglio, un modo diverso di interpretare la realtà approfittando di un punto di osservazione privilegiato, inside the story. La cronaca e l’emozione personale per una storia come tante altre, quasi banale fino a quando non incontri lo smarrimento e la paura negli occhi di una moglie sola, disperata, qui si fondono, si mescolano. Gli scatti raccontano dell’ansia, dell’affanno, della ricerca ostinata, della voglia di ritrovare quest’uomo, uno sconosciuto fino a quel momento; l’obiettivo ha sfocato per tentare di dire meglio quello che stava accadendo. Ad oggi Ludovicu non è ricomparso.
Mariano Silletti è un fotografo di strada e d'arte con sede a Matera. È nato a Pisticci nel 1972. Realizza progetti a lungo termine con l'obiettivo di esplorare la condizione umana negli ambienti urbani quotidiani e comuni. I suoi progetti sono stati pubblicati su importanti magazine internazionali (Burn, Gup, Vieworld, La Repubblica, International Street Photographer). Nel 2012 è finalista del Leica Talent Italia. Nel 2014 il suo progetto Domus Sapiens è stato selezionato come miglior lavoro del Leica Talent Italia. Nel 2015 è finalista al Siena International Photography Award. Sempre nello stesso anno Ludovicu, uno dei suoi lavori più conosciuti, è stato premiato al Festival della Fotografia Etica di Lodi e al Moscow International Foto Awards nonché esposto al Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna di Palazzo
MARIANO SILLETTI
Lanfranchi di Matera, diventando anche un libro autoprodotto a tiratura limitata (300 copie). Tra le mostre: 2017, Museo Provinciale (Potenza); 2016, Casa dei Carraresi (Treviso), Galleria Arti Visive (Matera), Cortona On The Move – Off Circuit (Cortona), Photo Romania Festival (Cluj-Napoca); 2015, Palazzo Lanfranchi (Matera), Festival della Fotografia Etica (Lodi); 2014, Area8 (Matera); 2013, Orvieto Fotografia (Orvieto); 2012, Galleria Arti Visive, (Matera). Tra le pubblicazioni: 2016, GUP Magazine; 2015, Photographic Museum of Humanity, La Repubblica, The Mammoth’s Reflex, Pholio Magazine; 2014, Clic.hé Magazine, International Street Photographer Magazine, La Repubblica; 2013, Vieworld Photo Magazine, National Geographic Italia; 2012, National Geographic Italia, Leica Lab; 2011, National Geographic Italia, Leica 24×36.
VOLUMEZERO Olio su terra, 2017 carta e acciaio zincato su derivati del petrolio cm 100 × 100 × 250
Se non vi è niente di più prezioso di un giardino, non vi è perdita più grande della sua distruzione. L’installazione è ispirata alla storia recente della Basilicata, l'antica Lucania, terra di foreste e boschi, incontaminati giardini realizzati dalla natura. È un atto di accusa per la Basilicata di oggi, ormai terra di pozzi e giacimenti, scorie e sversamenti. È una riflessione sul destino di questa terra, sulla sua struggente bellezza sempre più violata, calpestata, svenduta. È un lamento e insieme il desiderio di una speranza, racchiusa nel battito d’ali di una farfalla che qualcosa, nonostante tutto, possa ancora salvarsi. Forse.
Volumezero è uno studio di architetti e paesaggisti attivo dal 2007 e fondato da Antonio Graziadei, Alberto Petrone e Gerardo Sassano, ai quali si è unita, nel 2017, Giorgia Botonico. L’approccio progettuale di Volumezero è teso alla ricerca del minimo impatto sul paesaggio: azzeramento del consumo di suolo, minore spreco di risorse possibile, minimizzazione degli interventi nel restauro, il tutto secondo la filosofia del fare il più possibile con il meno possibile. Lo scopo è ridurre a zero il volume di intervento nella progettazione. Volumezero studia gli elementi e le dinamiche dei paesaggi urbani sviluppando per essi forme e modalità di intervento sperimentali attraverso il coinvolgimento della comunità. Gli utilizzi innovativi di spazi pubblici e luoghi urbani sottoutilizzati o marginali diventano elementi centrali degli interventi
VOLUMEZERO
progettuali, definendo nuovi paradigmi del paesaggio urbano contemporaneo. I progetti di Volumezero sono presenti su libri e riviste di settore, tra cui Architettura del Paesaggio #33 (2017), Paisea #29 Espacio peatonal (2014); On the Move (Blauwdruk, 2015) a cura della fondazione Landscape Architecture Europe e NIP, Key Time to Change (2016).
SALVATORE LAURENZANA VOLUMEZERO Oscureremo le stelle. Totalmente, 2017 fotografia digitale stampa su pannello Kapamount cm 70 × 50
Olio su terra, 2017 carta e acciaio zincato su derivati del petrolio cm 100 × 100 × 250
MARIANO SILLETTI
NICOLA DI CROCE
Ludovicu, 2013 – 2014 quaderno, tecnica mista installazione dimensioni variabili
Hearing voices, facing the void, 2013 – 2015 field recordings, voci min 10:48
MARCELLO MANTEGAZZA MASSIMO LOVISCO Cadavre Exquis, 2011 installazione a parete, 21 fogli da antologia della lirica italiana di inizi ’900 archiviati e incorniciati dimensioni variabili
Absentia III, 2016 cassetta di legno, calendario del 11976, struttura espositiva in ferro e legno dimensioni variabili
VITO PACE
DONATO FARUOLO
Pianta in completa autonomia organizzativa in relazione all'impegno ideologico di creare una coerenza artistica, 2017 tecnica mista installazione, dimensioni variabili
Pictures / everyone, 2017 elemento da serie di 30 stampe b/n su carta con cornice dimensioni variabili, cornici cm 30 Ă— 30 cad.
MARCELLO SAMELA
BRUNO DI LECCE
CLAUDIA OLENDROWICZ
Nello studio, 2017 decoupage, carta, tempera, acrilico dimensioni variabili
Rivelazione, 2015 olio su tela cm 54 × 39
Plaster, 2016 pantalone, sapone, curcuma cm 25 × 25 circa
Tardo autunno, 2015 olio su tela cm 40 × 50
DARIO CARMENTANO
PINO LAURIA
La Madonna delle Grazie, 2004 collage su cartone cm 21 × 28
Disappearance, 2014 installazione, legno, cotone mimetico, gesso, pigmenti naturali; statua cm 90 cm 70 × 170 × 45
KARMIL CARDONE
SILVIO GIORDANO
Stardust, 2017 stampa su forex cm 90 × 60
Sistema degli Spiriti di Galeno_03, 2013
paper collage cm 140 × 200
PI A Z Z A D E LL A COS T I T UZI O N E I TA LI A N A 70/ 71 — P OT E NZ A —