Periodico edito dall’associazione PAN - Centro di produzione culturale Via Flavio Gioia, 1 - Brindisi di Montagna (Pz) Tel. 342 32 51 054 e-mail: sineresi.sineresi@gmail.com
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Le vere apparenze Arte e vetrinizzazione sociale, ovvero il mondo magico del selfie Verso un regime postestetico Azzurro di specchi El Anatsui: miraggi ad arte La verità è un’arte (se l’arte non è vana) Kader Attia e la teoria dello specchio Same as it ever was Viaggio alla ricerca dell’impercettibile L’eterno del mito nell’opera di Rori Palazzo La poesia e il pensiero incarnato dell’essere Della deità nascosta La sostanza dell’apparenza In Basilicata puoi farti tutti i film che vuoi Il potere rosa shocking Dei numeri e di vari accidenti E se fossimo solo apparenza? Il castello di Monteserico La fiaba nuova
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Insomma il principio è: “Se appare la Madonna perché non anch’io?”. E si sorvola sul fatto di non essere una vergine. Così in “Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida”, con una battuta simpaticamente tranchant, Umberto Eco sintetizzava l’eccessiva smania di apparire che caratterizza la nostra epoca. Nessuno scandalo, in realtà, considerato il fatto che egli stesso sottolinea che da sempre gli uomini hanno desiderato di essere riconosciuti da quanti li attorniavano. Nessuno scandalo se non fosse che nel passato “ vigeva una distinzione molto rigida tra essere famosi ed essere chiacchierati. […] Nel mondo del futuro (se assomiglierà a quello che già oggi si configura) questa distinzione sarà scomparsa: pur di essere “visti” e “parlati” si sarà pronti a fare di tutto”. Questa differenza di non poco conto ci invita ad una riflessione con la quale, lungi dal voler proiettare scenari apocalittici, intendiamo provare a ristabilire gli equilibri nell’eterno dualismo tra essere e apparire e a indagare l’arcano nell’atavico dilemma se sia preferibile il primo al secondo o viceversa. Perché, e questo sembra indubbio, le due cose sono intrecciate, forse inscindibili, almeno fino a quando non sostituiremo al nostro sguardo sul mondo il bisturi del vivisettore, capace di separare un bel sorriso da una buona disposizione d’animo per analizzarne scientificamente ogni reale corrispondenza. E poi c’è l’arte. L’arte – ci domandiamo- è apparenza o sostanza ? E l’arte è come la vita, perciò è entrambe le cose. L’apparenza, dunque, ha ineluttabilmente due facce, delle quali una è per paradosso capace di amplificare l’essenza e renderla più schietta ed evidente, l’altra, di contro, è votata a soffocare l’essere fino ad annullarlo persino alla percezione di se stesso. Pensiamo alla teoria della visione di Giacomo Leopardi, al suo ermo colle e a quella siepe “che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” : ciò che il poeta vede al di là non è altro che apparenza, forma del suo immaginare, eppure “interminati spazi… sovrumani silenzi e profondissima quiete” che nel pensier egli si finge non sono il vuoto e l’effimero, bensì lo straripare dell’anima, la sua sostanza incontenibile e concreta. Viceversa pensiamo al mito odierno della comunicazione, alla scienza (nel passato si chiamava retorica) che la governa e studia, alla maniacale attenzione con cui oggi si affida alle maniche risvoltate della camicia il messaggio di solerzia, al colore di una cravatta quello dell’ottimismo. Pensiamo al grande urlare di certa politica, ai giganteschi vuoti di certi show, alle scatole vacue di certe innovazioni, alla fama da nanosecondi che nasce e muore a raffica come una frenetica, ciclica condanna. Pensiamo a questo e ci domandiamo l’essere dov’è, anzi, ancor più, ci domandiamo se c’è. Insomma, c’è un’apparenza che è epifania ed un’apparenza che è vuoto e mancanza. La prima è sorella dell’essere ed è per questo eterna; la seconda è solo uno starnuto del tempo. Anna R. G. Rivelli Direttore Anna R. G. Rivelli Collaboratori Rossella Batassa - Daniele M. G. Cafarelli - Merisabell Calitri Linda Cioni - Donato Faruolo - Luna Gubinelli - Cristiana Elena Iannelli - Roberto Lacarbonara - Alessandra Asia Moles - Valentina Moles - Ghino Mori - Giuseppe Passavanti - Mara Sabia - Vito Santarsiero - Antonello Tolve - Melanie Zefferino Direttore responsabile Marco Lovisco Responsabile editoriale Giovanni Cafarelli Progretto Grafico Salvatore Comminiello Segreteria Roberto M. G. Cafarelli
Responsabile sito web Daniele M. G. Cafarelli Referenze fotografiche Giuseppe Satriani Amelio Taddeo Pino Lauria Impaginazione e stampa Vincenzo Cristiano Prezzo di una copia + inserto € 10,00 Abbonamento solo sostenitori € 50,00 Estero € 70,00 Per richiesta abbonamenti info: sineresi.sineresi@gmail.com Registrazione Tribunale di Potenza n.457 del 13 agosto 2015 1
Giuseppe Passavanti
Le vere apparenze
Avanzando nella conoscenza della realtà esterna osserviamo un movimento
che partendo dalle apparenze giungerebbe all’essere vero delle cose, che dall’illusoria superficie dei fenomeni perverrebbe alla profondità luminosa del Vero, ultima tappa di un percorso costruito a colpi di falsificazione di illusioni, di negazione di verità parziali, di distruzione delle apparenze. Verità sarebbe dunque il risultato di un processo di totale e completo rischiaramento intellettuale della realtà. Generalmente assumiamo questa posizione con istinto filosofico irriflesso, forse perché l’edificio della nostra cultura ha nella dicotomia essere apparenza, realtà - illusione le proprie fondamenta. Cerchiamo di approfondire un minimo tale struttura portante del pensiero. Poniamo prima di tutto una serie di domande. La dicotomia apparenza - realtà, concepita come strumento concettuale, è adatta ad un uso circolare, retroattivo? L’apparenza del vero è diversa del suo apparire? Una verità non apparente sarebbe possesso di chi? Procediamo più lentamente e con ordine. Qualcuno, mentre state passeggiando, appare in lontananza e vi saluta. Marco, sì, è lui. Accade però un imprevisto. Egli si avvicina e scoprite che vi state sbagliando: era Michele e non Marco l’amico che vi salutava. Entrambi sono bassi e con una folta e riccia barba. L’illusione che l’amico fosse Marco è dissipata dalla realtà dell’esser Michele. Prima osservazione: quando non eravate a conoscenza della verità, l’illusione stessa era vera. Infatti, prima che Michele soppiantasse Marco, non c’era apparenza oltre la realtà di quest’ultimo. Seconda osservazione: Michele, l’amico che in verità vi stava salutando, non è forse apparso al posto di Marco? Concentriamo lo sguardo su questo passaggio. La verità appare a qualcuno. Essa ha in se stessa una struttura polare, intenzionale. Il vero è pensato e nel pensiero ha la sua vita. Il pensiero è una attività giocata tra pensante e pensato. Una verità non apparente, un pensiero non pensato o addirittura non pensabile, sarebbe inaccessibile e sconosciuta, vuota come una parola senza significato o come un segnale stradale che non indichi alcuna strada. La verità appare, soppiantando altre verità che si fanno passate, che appassiscono nel falso. Come un fiore, il vero si apre allo sguardo di chi lo colga. Vi sono forse fiori che non appassisco-
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no? Verità fuori dal tempo? Il processo di falsificazione dei fenomeni è probabilmente connaturato al movimento di edificazione del vero. In altre parole la verità ha bisogno dell’apparenza per esser tale. Ciò va compreso in almeno due sensi: la verità deve apparire a qualcuno e ancora essa deve distinguersi dal falso per emergere, identificarsi, esser identificata. Da un lato il vero ha bisogno d’esser visto e riconosciuto, dall’altro il falso costituisce lo sfondo da cui il vero emerge, il contorno che dà al vero una figura. La verità è apparenza fra le apparenze, capace - all’interno del circolo fra pensante e pensato - di imporsi come emergente. La dicotomia realtà apparenza non indicherebbe allora alcunché di staticamente predeterminato, ma farebbe riferimento al movimento con cui fra le apparenze la verità emerge in quanto tale, al processo con cui si falsificano i fenomeni verificando nello stesso tempo il vero. C’è però dell’altro da guardare. Il processo con cui il vero si solleva fra le apparenze per emergere in quanto tale non avviene in solitudine, senza testimoni. Affinché l’allucinazione individuale diventi realtà è necessario lo sguardo d’altri. Non è questo un problema di natura quantitativa o numerica: il vero non si vota a maggioranza. La questione va intesa in termini qualitativi. Nell’impermeabile solipsismo di un pensante individuale isolato, di per sé già confutato da un atto qualsiasi della vita quotidiana, la distinzione realtà - illusione, apparenza - essere, resta impraticabile, impossibile. Il vero si dice almeno in due, cosicché la dualità pensante - pensato, la perfetta teorica circolarità dell’immanenza intelligibile, si spezzi dall’interno e si faccia triade. L’apparenza del vero richiede la compresenza di pensanti per accadere, altrimenti nulla la renderebbe distinguibile dal sogno o allucinazione. La dicotomia realtà - apparenza, analizzata un po’ più a fondo (notate, ci muoviamo nella dicotomia facendone uso!), si mostra - nella sua pura strumentalità - come una specie di indicatore che consenta di operare la distinzione fra verità ultime e penultime, fra appassite invecchiate certezze e nuove fiorite e precarie disillusioni. È probabile che le verità definitive siano oltre la nostra portata. La provvisorietà sembra essere il marchio della nostra relazione col vero. Apparenze vere, vere apparenze: questo il mare in cui c’è dato di navigare.
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Antonello Tolve
Arte e vetrinizzazione sociale, ovvero il mondo magico del selfie
Tra i fenomeni che caratterizzano l’era contemporanea, perme-
Rollin Leonard
ata di dispositivi elettronici che – almeno negli ultimi decenni – hanno trasformato radicalmente la sfera interpersonale, il selfie è rischio di una sempre più avvertita vetrinizzazione dell’uomo, definitivamente risucchiato dal vortice un processo di spettacolarizzazione degli individui e della società. Dalla valorizzazione del prodotto innescata con la nascita della vetrina settecentesca si è passati gradualmente ad una venefica ostentazione della intimsphäre e a dannose proairesi collettive che puntano l’indice sull’apparire a discapito del pensare, del riflettere, dell’indagare le cause di una perdita inconsolabile, quella della privatezza (privacy), ormai definitivamente eclissata dalla echo boomers generation, dall’utilizzo costante di fotocamere digitali compatte incluse in smartphone e tablet. Gli affetti, la sessualità, il corpo (quante le immagini quotidianamente condivise sui social network dalla millennial generation), l’attività sportiva, i media, il tempo libero, i luoghi del consumo, gli spazi urbani e persino le pratiche relative alla morte – e come non ricordare i Conformisti e le Irritazioni di Gillo Dorfles? – sono diventate luoghi di dominio pubblico, spazi estroflessi dal proprio perimetro protettivo e catapultati, senza alcuna cintura di sicurezza, nel moskenesstraumen dell’esibizionismo. Se è vero che la cultura dell’autoscatto nata con i reality-TV shows (nel 2004 Francesco Vezzoli con i suoi
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Rollin Leonard
Comizi di Non Amore ha elegantemente informato che il cinema-verità degli anni Sessanta, quello di Pasolini appunto, si traduce nel Grande fratello degli anni Novanta) che porta la popolazione tecnoliquida a raccontarsi e a esibire costantemente il proprio vissuto, rappresenta un rischio allarmante e crescente, è pur vero che nel campo dell’arte si fa pratica diffusa: indagine di un’atmosfera, impegno sociale o mero self-branding e naturalmente personal storytelling. L’artista assume infatti questa scoraggiante compagine sociale per promuovere il proprio lavoro o d’altro canto per disegnare una strategia investigativa, fornendo risposte, utilizzando il sistema del selfie per mostrare la scelleratezza, la catastrofe, la castrazione comunitaria. Già nel 1972 Franco Vaccari presentava alla 36ª Biennale d’Arte di Venezia l’opera Esposizione in Tempo Reale n° 4 dove una scritta sul muro – Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio – invitava i visitatori a rendersi parte della mostra e a creare mediante una Photomatic (macchina per realizzare fototessere), un discorso collettivo. Tuttavia il fenomeno si acuisce in questo primo ventennio del XXI secolo con declinazioni che trasformano l’artista in un “selfista”. Al 2013 risale, ad esempio, National #Selfie Portrait Gallery, progetto ideato e curato Marina Galperina e Kyle Chayka per la Moving Image Art di Londra, che raggruppava brevissimi video realizzati, per l’occasione, da 17 artisti internazionali: Anthony Antonellis, Kim Asendorf & Ole Fach, Jennifer Catron e Paul Outlaw, Jesse Darling, Jennifer Chan, Petra Cortright, Leslie Kulesh, Yung Jake, Rollin Leonard, Jayson Musson, Alexander Porter, Bunny Rogers, Carlos Sáez, Daniel Swan, Angela Washko, Addie
Wagenknecht e Saoirse Wall. «Il progetto rappresenta un meta-commento sul self-brading nell’era digitale. I selfie non sono sempre arte, ma queste opere d’arte sono sicuramente dei selfie» ebbero a dire i due curatori in un’intervista rilasciata a Erin Cunningham del The Daily Beast. Notevole è, nell’ambito di una ricerca dedicata al genere y (quello della generazione y, appunto), il progetto Selfies and the New Photography. 50 Artists/50 Selfies: open call lanciata da Patrick Lichty (artista, curatore e ricercatore nell’ambito della percezione multimediale) nel 2014 o quello organizzato a Milano nello stesso anno dal PhotoFestival che con la mostra City Mobility ha dedicato un focus alla galassia della selfiemania. Con From Selfie to Self-Expression (dal 31 marzo al 30 maggio 2017), la Saatchi Gallery di Londra disegna dal canto suo un itinerario del mondo del ritratto – in mostra opere di vari artisti tra cui Van Gogh, Velazquez, Frida Khalo Tracey Emin, Cindy Sherman e Kutluğ Ataman – per ricordare non solo un genere antico, ma anche e soprattutto per esplorare il potenziale creativo degli autoscatti contemporanei. «Negli ultimi cinque secoli gli esseri umani sono stati ossessionati dal creare immagini di se stessi e condividerle» ha avvertito Nigel Hurst, curatore della mostra. «L’unica cosa che è cambiata oggi è il modo in cui lo facciamo». Accanto alla mostra di notevole interesse è stato il concorso internazionale denominato #SaatchiSelfie che ha offerto la possibilità di partecipare – e i partecipanti sono stati invitati a esprimersi esplorando e promuovendo oggi il potenziale creativo del selfie – a un fenomeno (culturale?) dalla portata mondiale i cui esiti ultimi, tra miracoli e traumi, sono ancora da scrivere.
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Jeff Koons
Roberto Lacarbonara
Domenico Rotella
Verso un regime postestetico
Quando nel 2000 il chimico Paul Crutzen ed il biologo Eugene Stoermer coniano il
termine “Antropocene”, la loro intenzione è quella di identificare una nuova partizione del tempo geologico. La precedente cronologia denominava “Olocene” il periodo che va dall’ultima glaciazione dell’emisfero settentrionale sino ad oggi. Nonostante le divergenze di climatologi e geologi nella determinazione di questa nuova era, è rilevante considerare l’importanza culturale e sociale dell’utilizzo del prefisso “antropo-”. Volendo essere più specifici: le date scelte per la periodizzazione dell’Antropocene mostrano una relazione di co-implicazione tra scienze naturali e processi culturali, sociali e politici. Antropocene indica letteralmente “l’epoca dell’uomo”, ovvero il tempo nel quale l’uomo, come “specie”, è in grado di alterare i cicli ecologici della totalità delle specie naturali. Inoltre, come è noto, la determinazione di un’epoca geologica definisce le occorrenze di un ciclo vitale prossimo a conclusione: laddove il Giurassico stabiliva la scomparsa dei dinosauri quale soluzione di continuità evolutiva, l’Antropocene preconizza l’estinzione della razza umana. Tuttavia, la rincorsa verso il “traguardo” non si alimenterebbe del solo modello industriale e capitalistico – quello relativo allo sfruttamento di ambiente e risorse energetiche (o almeno non solo) – bensì di un modello
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Andy Warhol
Ron Moeckne
Domenico Rotella
Jeff Koons
finanziario più complesso, basato sullo sfruttamento dell’ultima risorsa possibile: il “valore-uomo”, il capitale individuale e collettivo. Se infatti i termini della vetero-economia definivano leggi di correlazione deterministica tra scambio di merci e andamento di titoli, oggi, nell’età dei “derivati”, i crediti finanziari sono vincolati ad altri crediti indiretti, in una sorta di continua speculazione cieca, priva di oggetti, di materie, di merci. Scommettere sul destino dell’umanità è l’ultima frontiera della finanza. Il fenomeno, sebbene non sembri implicare a breve catastrofi geotermiche quali glaciazioni o altri fenomeni di stravolgimento geologico, vede dunque in corso una resa finale caratterizzata proprio dal pieno sfruttamento della risorsa umana: l’uomo come oggetto di speculazione. I fenomeni migratori, le forme più acute dell’austerity economica e le cosiddette guerre di religione sono solo i segni rossi di un termometro sociale già puntato sull’incipiente allarme globale. Cosa c’entra questo con il vecchio umanesimo e con le sue espressioni artistiche, letterarie, culturali? È del tutto evidente che, nelle maglie di questa esasperata speculazione, siano intrappolati anche i valori immateriali, apparentemente meno visibili o manipolabili di quelli dell’economia pesante. Del resto certe dinamiche dell’odierno sistema dell’arte non sfuggono a nessuna di quelle regole di costruzione
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Eduardo Palozzi
del valore immateriale, tipiche di economia e finanza. Anzi, è proprio la labilità auratica del concetto di valore a trovare nell’opera d’arte una merce idonea allo scambio speculativo. Nel recente libro di Pierluigi Panza, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria. Genealogia ed eterogenesi dei fini nell’arte contemporanea” (Guerini Scientifica, 2015), l’autore assume che l’arte debba implicare in ogni caso un conferimento di valore, che avviene nel corso del tempo e con diverse modalità, su un oggetto creato con intenzionalità artistica. Questo conferimento non sarebbe tuttavia determinato dal solo giudizio critico-valutativo o da un soddisfacimento popolare, bensì sulla base di una costruzione di consenso tesa a creare un capitale di visibilità sull’artista o sull’opera. Non a caso si parla oggi di “capitalismo estetico”, di arte che non ha più valore estetico, testimoniale, sociale, identitario o altri acquisiti nella sua storia, semmai “una cedola simbolica” sulla quale investire. Da qui deriva anche il crescente successo di alcune attuali proposte post-estetiche, frutto di una sudditanza finanziaria e di una grande ipocrisia, colpevole di presentare ancora l’arte come “liberissima servitù” (Lutero) dove invece è rimasta solo servitù, per l’industria e per il capitale. “L’arte ha perso un valore monetario relazionato alla quantità di lavoro espressa, ai particolari significati concettuali in essa contenuti o alla sua preziosità o diffusio-
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ne sociale e ne ha acquisito uno che dipende dalla capacità di poter scommettere sull’opera così come si scommette su azioni di società che producono beni immateriali o il cui profitto è determinato dal consenso (come la moda). Il valore finanziario in un’opera è la quantità di denaro che coloro che la collezionano sono in grado di investire per sostenere il loro investimento in arte e farlo crescere. L’opera è un future, una scommessa di ricchezza che dipende da quanto noi, e gli altri sconosciuti collezionisti-azionisti compagni di cordata, siamo in grado di investire per farne parlare, esporla, sostenerla, creare storytelling intorno ad essa. In tal senso, il capitalismo estetico è quello in cui il valore delle merci è conferito dalla loro capacità di essere estetizzate, narrate e pervasivamente condizionare gli orientamenti degli individui consumatori. È il compimento di quello che il filosofo francese Debord chiamava La società dello spettacolo, ovvero quella in cui ogni merce, anche l’arte o il pensiero, per essere vendute, devono essere spettacolarizzate. Questo è un modo di funzionamento del Capitalismo estetico nell’età digitale” (M. A. Marchesoni, Intervista a Pierluigi Panza, Arteconomy, ilSole24ore, 6 settembre 2016). Un fenomeno che faremo sempre più fatica a spiegare ai nostri studenti nelle Università e nelle Accademie. Ma, che vuoi farci…è la finanza, bellezza!
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Merisabell Calitri
Azzurro di specchi
Robert Smithson ed il coraggio di Essere
“Lo specchio è un oggetto e i suoi riflessi sono un concetto di astrazione, uno spostamento di proprietà”. Così si esprimeva Robert Smithson (1938- 1973), che per la prima parte di questo testo sarà solo un nome comune di persona. Risuoneranno meglio così le sue parole, conterà chi è per davvero e ciò che vuol dire al mondo e non che ruolo riveste nella società. Capiremo immediatamente che l’artista è anzitutto uomo, che guarda il suo ambiente, che vive in relazione ad esso, che di stimoli si nutre e che stimoli riproduce, diversi, elevati a potenza, eccellentissimi. Dunque, un tale Robert affermerebbe che lo specchio è un oggetto. E diremmo tutti che fino a questo punto ci piove davvero poco. Lo stesso Robert continuerebbe rincarando la dose, aggiungendo ostacoli al banale, mettendo in difficoltà il sino ad ora disorientato lettore che poco comprende e molto ha da bisbigliare in merito a quanto sin ora è stato blaterato. Lo specchio è quindi sì un oggetto, ma i suoi riflessi sono un concetto di astrazione. Da oggetto a riflessi. La materia è già scomposta. Viviamo in una realtà in cui abbiamo imparato a capire che l’oggetto è ciò che appare. Il riflesso è l’ombra di quell’apparenza che decide però di non assecondare il falso. L’apparenza appare, appunto. Il riflesso non mente, invece. Egli, perché potrebbe farsi persona
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anch’esso, vive di scorcio, di lato, all’ombra delle cose. Proietta la realtà, lo fa ponendosi non come asserzione ma come replica. Il riflesso è risposta ad una affermazione e quell’affermazione l’abbiamo chiamata oggetto. Ma che sia persino un concetto di astrazione questo è tutto da dimostrare. Sta di fatto che l’oggetto diventa immagine. Quindi come nell’arte, anche lo specchio è un pittore che tramite la Mimesis, prende la realtà, concreta, materiale, percepibile al tatto e la rende astratta, visibile ma non tangibile, presente ma assente, anch’essa riflesso di un oggetto, concetto di astrazione. La frase di Smithson non è ancora finita. “ Lo specchio è un oggetto e i suoi riflessi sono un concetto di astrazione, uno spostamento di proprietà”. Quali proprietà si spostano? Quelle materiali senz’altro. Abbiamo già detto che la materia, il corpo solido, sono ormai un contorno con dentro un contenuto, ma sono anche una forma alla quale attribuiamo un significato. Perché nell’oggetto, il significato è apparente, nella forma astratta, il significato è da decifrare, e cambia nome. Da ora in poi si parla di contenuto spirituale. E la spiritualità, si sa, è ricerca. Di sé, dell’altro, di sé nell’altro, o in una dimensione altra che perde la denominazione comune e acquista quella di Oltre. Così Robert Smithson resta uomo, senza nome, perché uomo è
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quanto basta per definirlo, e per definire la sua arte che, per ossimoro, definizioni non ha. È l’arte di un uomo che si fa artiere per altri uomini. Ma oggi chi è davvero l’uomo? Cosa ne è stato del suo contenuto spirituale, della sua eternizzazione oltre le kantiane forme a priori di spazio e tempo? Una società è composta da uomini, dicono in molti. Potrebbe, questa, farsi definizione gravemente errata. Perché se si va al concetto oltre l’oggetto, una società è composta di individui esistenti nella loro fisicità. Ma della loro immagine, del loro riflesso, di ciò che non mente, del loro essere, cosa ne è stato? Oltre, possiamo solo rivolgerci alla dimensione dell’ “oltre uomo” che per alcune parti potrebbe coincidere con la definizione che ne dà Nietzche. Egli parlava di superuomo non come essere potenziato, con poteri ultraterreni o dotato di chissà quali caratteristiche sconosciute ai più. Il superuomo è un “oltre uomo” che ha imparato ad accettare la morte di Dio, ha imparato a vivere in una società priva di riflessi, ove solo gli oggetti contano, dove l’apparenza regna squallida sul trono arboreo sul quale in un tempo remoto sedeva sovrana l’essenza. Robert Smithson sceglie per la sua arte un obiettivo: Essere. Come può farlo? Immaginando continuamente sé e le sue opere allo specchio. Via l’oggetto. Resta il contenuto, che si eleva a spirituale se la ricerca del sacro è spontanea e non premeditata. Già Leonardo da Vinci dipingeva se stesso in una camera degli specchi, che gli restituiva l’immagine della sua anima com’era, e lì meditava su se stesso e sulla sua pittura. Persino le viscere dei corpi che sezionava durante le sue autopsie notturne le poneva davanti ad uno specchio. Lì tutto è più chiaro. Lì c’è la realtà senza l’inganno della mente. L’arte di Michelangelo Merisi da Caravaggio non sarebbe mai esistita senza lo specchio. Il pittore dipingeva solo in presenza di esso. Posizionava gli oggetti, le figure, i modelli, gli dava la luce che voleva, che sceglieva accuratamente per loro, e non dipingeva l’oggetto, ma il riflesso di esso, nello specchio. La prospettiva che l’occhio umano adopera falsa la realtà, aggiusta gli oggetti, stravolge le dimensione e le modulazioni dei toni cromatici, la realtà delle cose, il loro vero essere è allo specchio. E pensare che comunemente esso è l’immagine della vanità, dell’apparenza, della futilità! Altra testimonianza di quanto il mondo di oggi sia inganno. Falsa l’essenza delle cose e schiavizza l’uomo ad immagine e somiglianza di un manichino omologato alla massa, che si muove sterile su di un palcoscenico che non ha scelto per sé. Persino il senso delle parole è alterato ormai. Per questo l’arte di Smithson è specchio. Pareva che si divagasse e invece prima di parlare dell’artista si è parlato della sua arte. Ora gli si riconoscerà il ruolo che ha rivestito, si citeranno le opere che ha realizzato, si tratterà della sua vita e della sua morte. Tutti oggetti. Ma sinora, per omaggiarlo per davvero, occorreva parlare dei riflessi, quelli che ha ricercato con cura, che ha voluto per tutta la vita, che ha riempito di contenuti spirituali, che ha dedicato alla natura, che ha scelto per l’uomo per farlo andare oltre il
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suo corpo, oltre il suo tempo, oltre lo spazio che vive, oltre la mattonella che calpesta, oltre. L’artista nasce a Passaic, nel New Jersey, correva l’anno 1938. Dall’inizio del ventunesimo secolo rimane una delle voci più influenti ed originali che si sia udita nel panorama complesso dell’arte contemporanea. Il suo complesso di idee si articola in forme differenti ma complementari tra loro: disegni, sculture, earthworks, film, scritti critici, progetti e proposte. Con la sua arte ridefinì le convenzioni. Fondatore della Land Art sceglie la natura come mezzo di confronto per l’ “oltre uomo” al quale si rivolge. Solo in essa l’essere umano è davvero se stesso, non ha filtri, non ha bisogno di mentire. La natura, come ogni grande madre, accoglie senza pregiudizi, adora l’unicità, stima i difetti. Vuole l’Essere che tende all’eterno. Rifiuta l’apparire come forma mobile di una dimensione temporale finita. Smithson ha sviluppato un corpo significativo di lavoro che affronta i temi della complessità e della contrapposizione. Pone in relazione la natura con la cultura (Aerial Map- Fort Worth Airport), analizza i monumenti e li mette a confronto con il loro contrario. Sposta ogni punto di riferimento certo per confondere se stesso e chi come lui ha bisogno di perdersi per poi ritrovarsi. E lo fa con gli specchi. Un uomo ritrova ciò che è se ha il coraggio di ammettere che lo sia. E quella rinnovata sacralità, quello “spiritualismo terebrante” di longhiana memoria non può che essere il segreto nascosto nella natura, il labirinto sepolto nella terra
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fertile che Robert Smithson decide di far emergere dal sottosuolo, dal buio di un’assenza che era rimasta tale per non divenire apparenza. Correva l’anno 1970: Spiral Getty andava compiendosi. Veniva alla luce la spirale dell’eterno ritorno, perché eterno è l’essere, mentre l’apparire resta “starnuto del tempo.” Tutto si compie nell’opera di Land Art. La spirale è la terra, il vortice delle tenebre è divenuto voragine di luce, uragano di riflessi che anima il Great Salt Lake. Frangenti di luce, di rocce, d’acqua e cristalli di sale ne compongono la superficie. Anch’essi, come specchi, riflettono quel mondo che ricerca se stesso nella natura, che ha bisogno che l’oggetto del proprio corpo, si faccia concetto di astrazione della propria anima, per Essere, semplicemente Essere, come è giusto che sia colui che il Creatore chiamò uomo, che la scienza rese macchina, che la società fece omologato robot, che l’arte riplasmò di carne e spirito, che l’artista ribattezzò “Specchio”. Siamo l’ombra di un battito d’ali, nati dall’eterno e destinati ad esso, se impariamo ad esercitare in noi e per noi, quello che taluni chiamarono il coraggio della libertà. Smithson liberò la terra e la proiettò in cielo. La prima si fece culla, l’azzurro divenne crepa di mondo, e scelse per sé il colore dei riflessi. E si fece Specchio. D’ora in poi, se qualcuno vorrà chiedersi perché il cielo sia azzurro, saprà cosa rispondersi. Le fiabe del futuro sono ancora tutte da scrivere.
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Nel tempo presente solcato da ondate migratorie è un “grande stregone dell’Africa”, l’artista El Anatsui, a portare
gli sguardi di tutto il mondo su opere fra realtà e immaginazione che uniscono in sé lo splendore del metallo e la struttura di manufatti tessili di tradizione, la pittura e la scultura, ma anche la ricchezza dell’immaginario e la povertà di scarti del consumismo globale, figlio di un modello economico foriero dello spregio di materiali nobili e della vita sulla Terra. Nato nel 1944 ad Anyanko, nella regione del Volta in Ghana, El Anatsui è cresciuto in una missione e si è formato al College of Art di quella che oggi è la Kwame Nkrumah University of Science and Technology di Kumase. Dal 1975 è docente alla University of Nigeria-Nsukka (UNN) nella provincia di Enugu, e da alcuni anni è a capo del Dipartimento di Scultura. Vive e lavora a Nsukka, pur mantenendo uno stretto legame con il suo Paese natale, le cui espressioni culturali – insieme ad altri retaggi dell’Africa e alle suggestioni dell’Occidente – hanno ispirato il suo fare creativo. Emerge come artista a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, in un periodo dominato dai movimenti nati nel cosiddetto “continente nero” ormai indipendente dall’impero britannico, dove l’influenza di questo autore visionario è stata profonda. Nel 1980 vince la residenza d’artista alla Cummington Community of the Arts in Massachussets, esperienza che eleva la sensibilità di questo protagonista dell’arte contemporanea. Oggi vanta quarant’anni di carriera, rivisitata nella mostra itinerante “Africa Remix”, presentata dal 2004 al 2007 a Düsseldorf, Londra, Parigi, Tokyo e Stoccolma. Negli anni successivi, altre mostre personali e riconoscimenti prestigiosi lo hanno visto protagonista sulla scena artistica internazionale mentre i suoi lavori entravano a far parte di collezioni museali illustri in quattro continenti – dal National Museum di Lagos in Nigeria al Setagaya Museum in Giappone, dal British Museum di Londra al Centre Pompidu di Parigi, dal De Young Museum di San Francisco allo Smithsonian Museum of African Art in Washington D.C. e al Metropolitan Museum of Art di New York. In Italia El Anatsui ha esordito nel 2007, alla Biennale di Venezia, quando ha trasformato la facciata di Palazzo Fortuny arricchendola di un meraviglioso sipario-installazione site specific: con Fresh and Fading Memories l’artista infondeva nuova vita all’eredità di Mariano Fortuny e all’antico splendore della Serenissima, di cui Vittore Carpaccio ha ritratto i palazzi adorni di tappeti e arazzi appesi alle balaustre nei giorni di festa sul finire del Quattrocento. Alla luce della città la18
Melanie Zefferino
El Anatsui: miraggi ad arte.
gunare il lavoro di El Anatsui brillava come un mosaico o un arazzo fiammingo dai fili in seta e oro, di cui replicava in qualche modo l’armatura e i nodi con filo di rame e tondi metallici da lattine di recupero. Al contempo, quella stessa installazione evocava la struttura, l’estetica e il simbolismo del kente, il prezioso tessuto che il padre di El soleva tessere rinnovando la tradizione degli Ewe e
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degli Ashanti in Ghana, abili anche nella lavorazione dei metalli. La parola gawu, che nella lingua degli Ewe può significare sia “metallo” che “mantello pregiato”, riassume in sé il senso dei lavori che El Anatsui ha realizzato con filo di rame e metallo recuperato da rifiuti quali lattine, anelli e/o tappi di alluminio da bottiglie di liquori, grattugie di ferro e lastre per la stampa disperse nel territorio della Nigeria come di altri Paesi che stentano a riciclare i prodotti di un “sistema alieno” a fine vita. El Anatsui restituisce loro un’aura preziosa come l’oro in opere di straordinaria bellezza e originalità, che paiono avvalorare la teoria dell’esistenza di un “magnetismo vitale” negli elementi e in tutte le cose inanimate formulata da Franz Anton Mesmer. Questo anche perché la “fluidità”, la policromia e la “trasparenza” delle installazioni “tessil-metalliche” dell’artista, fanno si che esse appaiano come presenze dinamiche, mutevoli. In Ameno: Mask of Humankind (2010) e Stressed World (2015), ad esempio, patchwork o aggregazioni di diversi motivi intrecciati con le più disparate texture di metallo si legano inestricabilmente in un unicum così da rappresentare l’umanità intera. Diverse opere realizzate dal 2002 ed esposte nel 2010 in due mostre indimenticabili (“El Anatsui: When I Last Wrote to You about Africa” al Royal Ontario Museum di Toronto in Canada e “A Fateful Journey: Africa in the Works of El Anatsui” al National Museum of Ethnology di Osaka in Giappone) estrinsecano l’intento dell’artista di eccepire allo stereotipo del metallo quale medium rigido e rivelarne invece l’aspetto duttile così da suggerire idee che vanno al di là delle caratteristiche fisiche di questo materiale. Alle summenzionate mostre itineranti ha fatto seguito “Gravity and Grace: Monumental Works by El Anatsui” al Brooklyn Museum di New York nel 2013. In quello stesso anno El Anatsui ha ricevuto il Charles Wollaston Award dalla Royal Academy of Arts di Londra ed esposto sulla facciata di Burlington house, la sede storica di questa prestigiosa istituzione britannica, TSIATSIA – searching for connection. Realizzata con filo di rame e parti metalliche da tappi di bottiglia, lastre per la stampa e lamiere per il rivestimento dei tetti, questa
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installazione intrinsecamente site-specific da un lato esprime magistralmente il fare alchemico orientato all’astrazione e al simbolismo di El Anatsui, dall’altro riflette impietosamente la realtà dell’Africa orfana dell’equilibrio di cicli vitali e produttivi antichi, che non generavano rifiuti impossibili da smaltire in quello stesso contesto nell’era del consumismo globale, né vite private sul nascere di aspettative che la Natura ha assicurato per migliaia di anni. Vite che oggi attraversano mari per raggiungere i cieli delle grandi città industrializzate immaginando un futuro che potrebbe essere solo un miraggio. TSIATSIA – searching for connection muove dal tema dell’esodo intrapreso dalle genti per oltrepassare barriere fisiche, in muri come quello abbattuto a Berlino o in progress in Israele che hanno ispirato alcune opere monumentali di El Anatsui, in particolare il Gli (2010) alla Rice University Gallery di Houston (Texas), purtroppo chiusa nel 2017. Come ha spiegato l’artista nel suo discorso alla American Academy of Arts and Sciences, di cui è membro onorario dal 2014, nella lingua degli Ewe “gli” significa “muro” o “barriera” ma la stessa parola pronunciata con una diversa intonazione può significare “storia” o “interruzione”. Quale titolo dell’installazione, dunque, Gli offre libertà di interpretazione. Ancora, all’audience dell’American Academy of Arts and Sciences El Anatsui ha raccontato un aneddoto e svelato un aspetto significativo del suo Broken Bridge di specchi e lastre di latta di recupero installato al Musée de la mode de la ville de Paris durante la Triennale di Parigi nella Primavera del 2012. Successivamente l’opera è stata riconfigurata nel Broken Bridge II, installata ed esposta fino all’ottobre 2013 sulla facciata ovest del High Line Art a New York, fra la 21esima e la 22esima strada. Per dirla con le parole dell’artista, “molto tempo fa gli Ewe volevano fuggire dagli abusi del re tiranno Agorkoli di Notsie, nell’attuale Togo sud-orientale. Poiché egli rifiutò di lasciarli uscire dalla città, che aveva una cinta muraria, essi si ingegnarono per indebolire un muro di fango spesso due metri versando acqua potabile in un solo punto, così da potervi aprire una fessura dalla quale passare per raggiungere l’odierno Gha-
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na. Con l’andar del tempo, l’idea di degradare lentamente una superficie all’apparenza impermeabile è diventata parte del mio lavoro”. Sembrerebbe ricorrere anche il tema della barriera fisica, simbolo di un ostacolo all’anelito di libertà e felicità che spinge ogni essere vivente a trovare un modo per superarla poiché, come ha osservato l’artista, “i Gli sono costrutti finalizzati a limitare la vista degli occhi, ma non possono bloccare la vista dell’immaginario: quando lo sguardo non riesce a oltrepassare una barriera, l’immaginazione tende a superarla e vedere cose che, al di là di essa, possono esservi o meno”. Ed è esattamente il processo di questa sorta di miraggio creato ad arte che El Anatsui mostra in maniera superlativa attraverso il suo Broken Bridge, per certi rivelando l’influenza di Anish Kapoor. Nella “tessitura ad arazzo” di El Anatsui compaiono per la prima volta gli specchi in Broken Bridge, ma un mirabile gioco di riflessi fra punti di vista vecchi e nuovi – dunque ancora fra passato e presente, realtà e immaginazione – è Kindred Viewpoints installata sul bordo di un giardino acquatico nelle rovine di una villa in Marocco nel 2016, in occasione della VI Biennale di Marrakech, intitolata “Not New Now”. In quello stesso anno, dopo aver ricevuto il Leone d’Oro alla carriera alla 56a Biennale di Venezia (2015), da The School della Jack Shainman Gallery di New York El Anatsui approda in Australia, presso Carriageworks nell’ambito del Sydney Festival, e con la mostra “Five Decades” porta la magia della sua arte anche nel quinto continente. Dal 6 al 15 ottobre 2017 El Anatsui sarà a Firenze per ricevere il Premio “Lorenzo il Magnifico” alla carriera conferitogli dalla Florence Biennale “per aver magistralmente intrecciato memorie e significati nel suo rappresentare l’essenza dell’Africa ispirando un pubblico globale attraverso la riscoperta dell’inestricabile rapporto fra uomo e natura. La sua arte si estrinseca in innumerevoli lavori di grande impatto visivo realizzati sperimentando creativamente materiali di recupero quali metalli, plastiche e tessili, con cui ha mostrato al mondo che ‘la povertà dei materiali impiegati nell’arte non preclude in alcun modo il raccontare storie meravigliose di grande ricchezza’ ”. Alla luce di quest’ultima affermazione dello stesso El Anatsui, si potrebbe concludere questo excursus sulle sue “storie meravigliose di grande ricchezza” ribaltandone la prospettiva con un antico proverbio Yoruba, un monito per la malcelata avidità del nostro tempo: “chiunque veda la bellezza e non la guardi sarà presto povero”.
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Marco Lovisco
La vanità è un’arte (se l’arte non è vana)
Diciamolo: i selfie, a parte poche eccezioni, farebbero meglio a restare nella memoria degli
smartphone, piuttosto che intasare le bacheche degli amici. Sono immagini uguali tra loro, in cui il soggetto appare troppo grande rispetto allo sfondo che si riesce a malapena a intuire dietro “duckfaces” e dita che indicano una vittoria (perché, in effetti, scattarsi una foto per molti è una conquista da celebrare). Ciò che traspare, tra pagine Facebook, profili Instagram e storie troppo brevi per essere chiamate tali, è la vanità, la voglia di raccontarsi e di illudersi di aver mostrato il meglio di se stessi, tra filtri psichedelici, effetti speciali che forse ci avrebbero stupito in seconda elementare ed effetti seppia che guardano con nostalgia ad un passato che per molti esiste solo nella sua estetica. Sulle pagine del “Time magazine” il giornalista americano Joel Stein nel 2013 aveva legato questa tendenza ad un target di pubblico specifico, la cosiddetta “Me, me, me generation” che comprende i nati dopo la seconda metà degli anni Ottanta, considerati narcisisti e superficiali. Ciò che vediamo quotidianamente, però, ci fa pensare ad un fenomeno ben più vasto, che comprende “selfisti” di tutte le età. L’apparire, nella società dei social, ha sostituito l’essere e la vanità, ha preso il sopravvento sul desiderio di lasciarsi scoprire un pezzo per volta. È un dato di fatto, piuttosto scontato ormai. Che poi questo sia un bene o un male non importa, purché lo si faccia con stile però, perché anche la vanità è un’arte e come tale non va presa con leggerezza. Il desiderio di apparire migliori di quanto siamo e la vanità non possono essere considerati una colpa, anzi. Sono convinto che siano leve importanti per spingere le persone a migliorarsi, a prendersi cura di se stessi perché, non dimentichiamolo, l’uomo è un animale che ha bisogno dell’approvazione degli altri per nutrire il proprio ego. A questa si aggiunge un’altra constatazione: senza la vanità e il desiderio di apparire, non potremmo ammirare alcuni dei capolavori dell’arte che oggi riteniamo immortali. Che cos’è la “Gioconda”, se non il modo in cui la bellissima Lisa Gherardini si fece immortalare da uno dei più importanti artisti dell’epoca, per la gioia del facoltoso marito che avrebbe potuto così ricordarla nel fiore degli anni, bella per sempre? Ma se il sorriso della Gioconda, timido e misterioso sembra lasciare poco spazio alla vanità, non possiamo nutrire dubbi quando ci troviamo di fronte ad un dipinto di Boldini. L’artista ferrarese, corteggiato dalle nobildonne parigine dell’Ottocento, era un maestro nel trasformare la vezzosa vanità femminile in ritratti meravigliosi, in cui il suo tocco “magico” aggiungeva profondità e fascino anche agli sguardi meno acuti e rendeva bellissime anche modelle con cui Venere era stata poco generosa. Per non citare le sculture di Canova; nei suoi ritratti l’estetica diventava algida e perfetta, come se nulla potesse intaccarla. Immortale, come la bellezza di Paolina Bonaparte, la sorella di Napoleone, di cui in pochi probabilmente si sarebbero ricordati se il capolavoro dello scultore veneto, non l’avesse protetta nel marmo per secoli. Poi ci sono i ritratti di Klimt,
Giovanni Boldini - Velazkuez - Frida Kahlo - Kllimt - Ai Weiwei - Modigliani 25
Shahak Shatira
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capace di attribuire alle donne un fascino rischioso, anticipando di decenni la figura della “femme fatale” del cinema noir, bellissima e pericolosa. O i volti di Modigliani, sommamente eleganti con colli sinuosi e occhi di ghiaccio. Analizzando tutti questi ritratti nel corso della storia notiamo due peculiarità ricorrenti: la prima è la capacità di rendere la realtà migliore di quanto non sia, allontanandola dalle miserie del quotidiano per condurla in una dimensione diversa, posta più in alto (chissà dove). La seconda, ben più importante, è che in ogni ritratto è presente l’intercessione dell’artista, che si fa tramite tra il soggetto e l’immortalità, come un sacerdote, capace lui solo di parlare la lingua degli dei, al di là del tempo. Probabilmente è per questo che i selfie che inondano i social e le copertine dei rotocalchi sembrano privi di anima e appaiono frivoli e senza stile. In tutti quegli scatti manca l’intercessione dell’artista, l’unico capace di rendere la vanità un capolavoro, trasformando la frivolezza in bellezza senza tempo. Non è un dettaglio da poco: la scelta di poter fare a meno di un professionista per ottenere un’immagine di se stessi da consegnare alla storia, può essere considerata il sintomo (uno dei tanti) di un malessere profondo che permea la società dei social media e la cosiddetta “me, me, me generation”. La convinzione di poter e saper fare tutto, la superficialità e la mancanza di un adeguato background culturale, il disconoscimento dell’arte e della professionalità sono solo alcuni degli elementi che compongono le immagini che ogni giorno vediamo sul web. La Saatchi Gallery che si definisce “la gallery più seguita sui
social media” sta provando a dare dignità ai selfie, avanzando la tesi che anche essi (come tutto ormai) siano una forma di arte da rispettare. Dal 31 marzo 2017 ha infatti aperto la mostra “From Selfie to Self-Expression” in cui celebri autoritratti come quelli di Velazquez, Frida Kahlo o Rembrandt vengono accostati ai selfie più famosi della storia, lasciando intendere il messaggio che gli autoritratti siano gli antesignani dei selfie. Quello però che sembra sia passato inosservato agli organizzatori della mostra (sponsorizzata da una nota marca di smartphone) è che tra il selfie della mia vicina di casa e l’autoritratto di Rembrandt c’è una differenza sostanziale: la mia vicina non è un’artista mentre un’opera, per essere considerata un’opera d’arte deve prevedere la presenza di un artista, con il suo bagaglio tecnico e culturale. Punto. I selfie quindi non sono opere d’arte, a meno che non li abbia realizzati Ai Weiwei e forse neanche in quel caso possono considerarsi tali, visto che i selfie dell’artista cinese assumono spesso un significato politico, come quando si fotografò mentre veniva arrestato dalla polizia di stato cinese. I social ci hanno fatto illudere di essere speciali, ognuno con la propria bacheca autocelebrativa da riempire di foto di se stessi, ma senza l’intercessione dell’arte e della cultura, non c’è salvezza. Solo la combinazione di sensibilità e cultura può salvarci da una società che sembra aver perso punti di riferimento, dove l’apparire non è più bellezza ma diventa omologazione e cattivo gusto.
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Linda Cioni
Kader Attia e la teoria dello specchio
“Restare per cinque minuti davanti allo specchio guardando la nostra coscienza senza mentire, è impossibile” (Kader Attia, 2010) 28
Il mondo occidentale non ha più frontiere. La globalizzazione
è arrivata ai confini del mondo come il più impavido e spregiudicato dei conquistadores. Il rischio è l’omologazione, la perdita di un’identità culturale certa, ed è qui che entra in campo la storia, a ricordarci che non siamo solo il riflesso di noi stessi e nemmeno quello che la società ci impone di essere. Ma allora chi siamo veramente? Per rispondere occorre la volontà di calarsi in profondità, infrangere lo specchio delle brame e girarlo verso il muro. Occorre rimanere soli, in silenzio, nel vuoto per esistere nuovamente come identità e non più solamente come vacua apparenza. Siamo il prodotto della nostra storia e delle generazioni che ci hanno preceduto, ecco chi siamo, ma non ce ne accorgiamo più. Non siamo più in grado di farlo. Il cosmopolitismo e l’ibridazione culturale sono proprie della poetica di Kader Attia, vincitore del Premio Marchel Duchamp nel 2016, artista cosmopolita, nato e cresciuto tra la Francia e l’Algeria, oggi cittadino del mondo. Interessato da sempre ai rapporti tra mondo occidentale e orientale, ai conflitti di identità originati da una società multietnica e globalizzata, l’artista rivendica la differenza come valore assoluto. Attraverso la sua arte, che si avvale di media diversi che vanno dalla fotografia, al video sino all’istallazione, intende ragionare sui concetti di “riparazione” e di “riappropriazione” culturale. Per farlo, utilizza materiali grezzi o usati e un linguaggio minimale, che risente delle opere di Robert Morris, Carl Andre e Michelangelo Pistoletto. Lo specchio è da sempre un topos della cultura occidentale, simbolo di vanità, oggetto grazie al quale ogni giorno contempliamo la nostra immagine. Negli specchi di Kader Attia invece non possiamo più rifletterci. In Untitled 29
(2012)essi sono tutti rivolti verso l’interno e ciò che possiamo esperire è solo il tergo dell’oggetto, apprezzarne magari le diverse forme quadrangolari, essenziali, monocromatiche, ma non l’immagine di noi stessi. Non più. Siamo al punto zero del processo di “riparazione” e rievocazione della nostra identità. Dietro agli specchi rimane solo il nulla. Essi riflettono all’infinito un’assenza, anzi sono la presenza di un’assenza, l’esatto contraltare di quello che ci aspetteremmo da uno specchio. Siamo come nel teatro dell’assurdo: Narciso è il nuovo Godot, è scomparso, o forse era lì solo in apparenza, ma in realtà non c’è mai stato. In Repair Analysis (2013), Attia dispone una serie di specchi da lui infranti e poi ricuciti con fil di ferro. Non si tratta semplicemente di riparare qualcosa di rotto attraverso un incollaggio. La “riparazione” per l’artista è da concepirsi come un’evoluzione, un passaggio obbligato a cui sono sottoposte tutte le cose e per questo la cucitura non viene negata o dissimulata; il difetto al contrario diventa il carattere precipuo dell’opera e deve essere accolto senza indugi. Se per Darwin la comparsa di una lesione in un essere vivente avrebbe potuto comportarne la scomparsa o l’evoluzione in una nuova specie che incorporasse il guasto, al contrario Kader Attia concepisce l’intero universo come un infinito processo di riparazione. In Chaos + Repair = Universe (2014), il globo è formato da frammenti di specchio tenuti insieme da suture in rame che lasciano intravedere l’interno rifulgente dell’oggetto. Ciascun tassello, irregolare, diverso da tutti gli altri, acquista valore nell’insieme in cui è inserito. È proprio il non perfetto combaciare dei margini dei frammenti di specchio il presupposto per una successiva sutura, da non concepirsi come un difetto, ma una nuova occasione per scrutare l’altrimenti invisibile luccichio interno. Dinnanzi allo specchio ciascuno scruta il proprio io, quasi mai si accetta come tale. Qui entrano in campo gli stereotipi che la società del consumo mette sul mercato. Modelli di bellezza che superano i confini del mondo, uguali per tutti. La diversità non è più ammessa, diventa strana e può far paura. Mentre malattie come l’anoressia dilagano, nell’era di photoshop celiamo i nostri difetti fisici con discrezione, mostrando agli altri un’immagine di noi che ormai non ci appartiene più. Ecco che dall’essere si passa al semplice apparire. Ecco che dell’esistere rimane solo la bramosia di piacere a tutti i costi e quello che conta veramente sono solo una manciata di likes. Con la serie Repair Analysis l’artista intende abbattere la concezione
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estetizzante del nostro corpo. Protagonista dell’opera non è tanto l’oggetto in quanto tale, ma l’esperienza individuale e temporanea del singolo individuo costretto a contemplarsi, senza filtri, in maniera reiterata negli specchi risarciti, i quali restituiscono un’immagine deformata di noi stessi in cui non ci riconosciamo. Entra in crisi l’oggetto-specchio cui tributiamo massima obiettività e fedeltà di rappresentazione. Lo specchio di Kader Attia diventa un oggetto ambiguo rivelatore di verità nascoste. Esso infrange la superficie liscia delle cose e mostra che c’è qualcosa in più al di là della semplice apparenza. La cucitura rappresenta il confine di un mondo ulteriore. Ma cosa si cela dietro al velo di Maya se non la storia e la nostra vera identità? La spaccatura è come una ferita e rimanda alla corporeità, all’esperire concreto, al sangue e al calore dei rapporti umani, in antitesi rispetto all’immagine virtuale, bidimensionale di noi e degli altri con la quale siamo abituati a rapportarci. Quella ferita però rimanda anche alla storia, poiché è memore di una lacerazione avvenuta che, benché guarita ha impresso qui la sua traccia. L’esistenza intera è una ferita e senza di essa non saremmo quello che siamo. Se c’è una vita, c’è anche un invecchiamento che la società negazionista cerca di eludere. Questa è la grande illusione del mondo in cui viviamo, credere di poter arrestare il tempo, credere di essere immortali. Che cosa sono le nostre rughe e i nostri difetti che tanto mascheriamo se non i sentieri di una storia che è tutta nostra e che ci rende unici? E allora perché cancellarla a colpi di clic? Il rischio dell’omologazione è quello di trasformarci in moltitudini indistinte, come in Ghosts del 2007: un’istallazione concernente un gruppo di donne musulmane genuflesse in preghiera. Attia spersonalizza i loro corpi, rendendoli gusci vuoti e vacanti. Il materiale utilizzato è l’alluminio, un materiale cioè domestico e rifulgente che banalizza il rituale, rendendo le figure quasi aliene e vagamente futuristiche. L’opera incarna la fragilità del sé. Si tratta cioè di una riflessione sulla condizione in cui l’umanità intera versa, così vulnerabile, così mortale, impoverita e destinata alla sparizione. I fantasmi di Attia siamo noi. Siamo come meteore. Siamo come la carta di alluminio, scintillanti in apparenza, fragili di consistenza, poveri nell’essenza. Siamo involucri di un corpo che ha perso di vista il suo spirito. Chi ha il coraggio di voltare lo specchio verso il muro?
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Felix Gonzales
Franco Vaccari
Same as it ever was
Barbara Kruber
Barbara Kruber
Luna Gubinelli
Barbara Kruber
Barbara Kruber Barbara Kruber
Una delle immagini più note dell’artista Barbara Kruger è quella in cui una mano in primo piano mostra un cartellino con su scritto “I shop therefore I am”. Questa fotografia, che utilizza lo stile grafico da rivista, è estremamente chiara, tanto da lasciarci disorientati. Il rifermento a cogito ergo sum, è immediato: mentre Cartesio certificava l’esistenza dell’individuo attraverso il pensiero mettendolo alla base di un intero sistema di conoscenza, nel 1987 la Kruger traduce l’affermazione dell’identità nel superficiale atto di fare shopping. Essere e apparire sono modalità dell’animo che nella società moderna trovano concretezza nel pensare secondo canoni consumistici, attraverso cui viene determinato persino il concetto di uguaglianza: “io sono ciò che consumo e ciò che posseggo”. Ma questa non è certo una novità. Già nella metà dell’ ‘800, Feuerbach, nella sua introduzione all’Essenza del Cristianesimo. osserva che “la nostra epoca preferisce l’immagine alle cose, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparire all’essenza” e non è un caso che Guy Debord abbia scelto questa frase per introdurre il suo libro culto del 1967, la Società dello spettacolo, con cui annunciava
Barbara Kruber
un mondo fatto di immagini in cui la parte determinante della produzione sarebbe toccata allo spettacolo. La predominanza dell’apparire sull’essere è stata una costante comunemente accettata durante tutto il XX secolo, in cui i mass media e la generalizzata tendenza al divismo hanno preso piede in maniera decisa. All’interno di un contesto simile, la canzone dei Talking Heads Once in a Life Time diventa la colonna sonora ideale: Un giorno potresti chiederti: come ne uscirò? Dov’è quella bella auto? E potresti dire a te stesso: questa non è la mia bella casa. Questa non è la mia bella moglie. Nel video esposto al MOMA di New York, il protagonista, David Byrne, esegue una danza da burattino, con un bell’abito con tanto di farfallino, mentre sullo sfondo vintage scorrono immagini di danze tribali a cui il ritmo dei suoi movimenti si ispira. L’arte, in questo caso unita alla musica, ci fornisce un’altra chiave di lettura. Apparire è sinonimo di esistere, quindi dello stare al mondo, e per affermarlo mostriamo noi stessi in modo eclatante, rituale, attraverso la danza, il rapporto con gli altri, la politica, per stabilire in modo non effimero il nostro passaggio sulla terra. Eppure lo 33
Zadok Ben David
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scopo rimane vivere il presente, e non “puntare all’eternità”. In People I saw but I never met, opera di Zadok Ben-David, scultore yemenita classe 1949, migliaia di figure in alluminio di diverse dimensioni riproducono persone che l’artista ha visto per le strade del mondo ed ha immortalato nel loro essere quotidiano, spogliate di ogni sostanza e peso. Le silhouettes ritagliate dal metallo sono uguali nella loro diversità e a disposizione nella loro leggerezza. Una sintesi dell’umanità eterogenea ci appare come se fosse disegnata nell’aria. Potremmo quasi sostenere che si tratta di una metafora del tipo di mondo in cui viviamo, mondo in cui siamo abituati ad osservare gli altri senza considerarne la sostanza perché diamo per scontato che quello che vediamo è ciò che è. Concentrati sull’aspetto estetico d’effetto, nemmeno ci si rende conto che potremmo essere noi quella moltitudine rappresentata, magari scattiamo una foto pensando di essere immuni al gruppo. Presi da noi stessi e dalla nostra esistenza, leit motiv della società individualista, non ci accorgiamo che l’atteggiamento adottato nei confronti dell’altro è lo stesso con cui guardiamo a noi, alla nostra essenza. E così la bellissima opera di Zadok BenDavid si trasforma in riflessione inquietante, perché siamo alla mercé dei nostri simili e, allo stesso tempo, come loro destinati a “ritagliarci” uno spazio appena percepibile nella società. Per questo, circondati da innumerevoli strumenti di comunicazione, cerchiamo di emergere dall’anonimato e mostrarci agli altri. Ogni piccolo gesto diventa degno di essere ripreso, rappresentato, anche se poco vissuto. Profetica in tal senso fu Fototessera di Franco Vaccari, opera esposta durante la Biennale di Venezia del 1972. Con una macchina Photomatic messa a disposizione dei visitatori, Vaccari cede l’autorialità del gesto artistico allo spettatore, al fine di coinvolgerlo attivamente. Deliberatamente sceglie di essere mero stimolo di un processo creativo per lasciare ai passanti la possibilità di scattarsi una fotografia che diventa “impronta” di un’esistenza. Anticipando incredibilmente ciò che è la realtà odierna, l’artista lascia l’uso ossessivo della macchina alla folla anonima di utenti che cerca in ogni modo di documentare il presente e di trovare visibilità. Anche laddove non sembra
esserci via d’uscita, l’arte ancora una volta ci offre una possibilità di trovare uno sguardo differente, risolvere i “conflitti” volta per volta: una montagna di caramelle a disposizione dei passanti in una galleria; chiunque può prenderne una e mangiarla. L’installazione di Félix Gonzalez-Torres è lì per essere consumata. A noi la scelta di prendere o meno una parte dell’opera. Passandoci accanto possiamo approfittare dei dolci a disposizione. Quelle caramelle, nel loro insieme, pesano esattamente 80 kg. Il peso corporeo ideale del compagno dell’artista morto di Aids, il titolo Untitled (portrait of Ross in L.A.) ce lo suggerisce. Man mano il peso dell’insieme diminuisce e l’opera si consuma scomparendo così come è stato consumato dalla malattia lo stesso Ross. Eppure quelle caramelle che comunicano allo spettatore il senso di una profonda assenza, rappresentano in egual modo la possibilità di far vivere “metaforicamente” una parte di Ross in ognuno di noi. Sofferenza, amore, speranza di essere ricordati sono parte della nostra essenza che cerchiamo di oscurare per vivere leggeri il presente, come le figure di Zadok Ben-David, per non pensare all’inevitabile destino che condividiamo con l’umanità. La superficialità sottolineata nell’opera della Kruger ci ricorda che consumare è lo scopo unico imposto dal capitalismo, per farci credere che possiamo trovare soddisfazione soltanto possedendo oggetti e mostrandoci come gli altri ci desiderano. Essere è sinonimo di apparire e, nel cercare di sopravvivere, ci ricorda Gonzales Torres, abbiamo sempre una possibilità, quella di scegliere consapevolmente ricordando che i nostri gesti hanno un effetto sugli altri. Questa consapevolezza ci aiuta a realizzare che le mosse da burattini, le danze eccentriche, non sono che una replica di atteggiamenti in cui l’umanità ricorre spesso inseguendo il bisogno di “esserci”. E ancora, parafrasando “Once in a Lifetime”: sudati, epilettici, possiamo ritrovare noi stessi dall’altre parte del mondo, decidere di vivere in una capanna, chiedendoci “dove porta quella strada?”, “ho ragione o torto?”, non possiamo rimuovere l’acqua dal fondo dell’oceano, solo scegliere di provarci. Once in a lifetime, water flowing underground. Same as it ever was. Same as it ever was.
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Viaggio alla ricerca dell’impercettibile
Quello proposto da Cerith Wyn Evans è un viaggio ultrasensoriale, un viaggio che par-
te dall’analisi di fenomeni fisici e sconfina nella filosofia, nell’immaginazione più pura, creando nuovi modi di vedere e nuove costruzioni sulle quali basarsi, nuovi modi di esistere. Nella poetica dell’artista di origine gallese e londinese di adozione, l’esistenza è la questione centrale, il punto di fuga, la rivelazione dell’impercettibile. Esistere è luce e la luce è materia organica, è comunicazione, è apparizione; senza luce non esisterebbe nulla, neanche l’arte. Il lavoro di Evans sfrutta i meccanismi de linguaggio verbale e non verbale rompendo con le tradizionali forme di comunicazione, e mette in discussione le nostre nozioni di realtà e cognizione, di percezione e soggettività, aprendosi a nuove ed inaspettate potenzialità espressive. Il debutto come filmaker negli anni ‘70 e l’interesse per la fisica hanno un peso rilevante nella sua produzione e nella realizzazione di cortometraggi sperimentali che sfruttano sapientemente alternative e originali forme di comunicazione e una varietà di materiali insoliti come fuochi d’artificio, lampade, luci al neon, codice Morse, piante e sfere a specchio. Ma la vera novità apportata da Evans non è tanto il materiale inconsueto, piuttosto lo scopo per cui quello stesso materiale viene utilizzato; il neon largamente adottato nella sua produzione non è di per sé una novità nell’arte contemporanea se ripensiamo ai neon di Maurizio Nannucci o Bruno Nauman, ma lo è piuttosto il fatto che quel neon non costituisca più un mezzo per disegnare o comunicare diventando una forma apparentemente astratta di spazi intuibili solo con la mente. L’autore in E-C-L-I-P-S-E, una delle sue più note opere realizzate in occasione dell’Anno Internazionale della Luce ed esposta nel Museion di Bolzano in occasione della sua personale tra il 2015 e il 2016, racconta l’esperienza di un’eclissi solare, ispirata all’eclissi del 2005, con un’installazione al neon luminosa. Il grande ingegno di quell’opera è stato il raccontare un fenomeno di oscuramento come l’eclissi con la luce. Quelle dell’artista britannico sono opere che si rivelano principalmente con l’intelletto; in una intervista rilasciata dall’artista si discute dell’importanza dell’impercettibilità e dell’indefinibilità di fenomeni come il suono e la luce che, evocando fluttuazioni continue, meritano di essere contemplati nello spazio espositivo. La sua celebre struttura molecolare raffigurante L.S.D. suggerisce una nuova via d’uscita, contemplando l’esistenza di una dimensione altra e aprendo le porte della percezione. E ancora il bosone di Higgs, oggetto di con-
VERNISSAGE
Cristiana Elena Iannelli
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sueta ispirazione, che ha suggerito, prima della rivelazione della sua forma, intuizioni e disegni accuratamente studiati e ripresi nelle forme da Evans, affermando l’idea per cui in alcuni casi è proprio l’immaginazione a precedere la scienza. Ma l’estetica altamente raffinata di Evans si traduce nella più recente esibizione organizzata per la Tate Britain Commission 2017, sostenuta dalla famosa casa d’asta Sothebys ed ospitata nelle tre maestose sale in stile neoclassico specificatamente progettate per accogliere esposizioni, le Duveen Galleries. L’evento, tra i momenti culturali più importanti della stagione estiva londinese, è stato affidato quest’anno proprio al grande Cerith Wyn Evans che ha saputo perfettamente tramutare la commissione affidatagli in una delle installazioni più dinamiche dell’arte contemporanea, in un viaggio sperimentale da percorrere stimolando i sensi dello spettatore. In Forms in Space.. By Light (In time) la luce traccia forme differenti sospese in aria come cerchi concentrici, archi, curve spezzate, grovigli di linee che si arrampicano verso il tetto e piani luminosi che riempiono lo spazio e oltre. Forme che si ripetono, si dilatano, si stringono e si alzano nello spazio, forme che suggeriscono agli elementi infinite letture possibili; l’energia è massima, il movimento e la torsione rimandano ad una danza ottica complessa ma raffinata, creando un universo di grande precisione e accuratezza formale, completamente a sè stante. L’occhio oscilla seguendo il ritmo di fasci luminosi sospesi, senza riuscire completamente a slegare gli elementi immediatamente successivi che si ripetono in un gioco di gesti e moti che trovano ispirazione nel teatro giapponese Noh, una tradizionale forma teatrale sviluppatasi nel XIV e XV secolo che unisce elementi di danza, di recitazione drammatica, musica e poesia in una forma espressiva estremamente preziosa. L’effetto è altamente scenografico, Cerith Wyn Evans non dimentica quella lezione cinematografica di cui è stato ed è tuttora sapientemente consapevole, lezione che conferisce alle sue sculture, nonostante l’allestimento statico e sospeso, un aspetto decisamente spettacolare, filmico. Sono forme di realtà altre e rumori di altri universi, simili e lontani da quelli che conosciamo, che ci lasciano compiere un viaggio memorabile tra i territori impercettibili della nostra esistenza.
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Medusa
Nella lotta dell’oggi tra apparenza ed
esistenza, Rori Palazzo si afferra con forza all’immagine tremolante e potente dei sogni e dei miti per restituire consistenza alle immagini più vere della nostra intimità. Un percorso che schiva l’immagine veloce ed effimera del web per gettare l’ancora della visione in luoghi remoti ma straordinariamente attuali. Qui presentiamo un percorso a due tappe dove analizzeremo la prima fase della sua ricerca intitolata Dream, necessario presupposto per la più recente serie dedicata al riafforare prepotente del mito: La natura mista dei corpi. DREAM Rori Palazzo nella serie Dream (2012 – 2013) si è cimentata nel racconto del sogno; come una collezionista di frammenti ha raccolto e tradotto in immagine storie di sogni. Difficile è conservare il ricordo del sogno senza aggiungere qualche ritocco necessario per rintracciare il nesso tra le cose; se spesso, come argomenta Freud, involontariamente nel ricordo si colmano i difetti di coesione del sogno, a maggior ragione è inevitabile l’aggiunta di nuovi nessi per la creazione di un immagine che visualizzi l’esperienza onirica vissuta da un’altra persona. La scelta ponderata di luoghi, idee e oggetti utilizzati per
Giulia Ingarao
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L’eterno del mito nell’opera di Rori Palazzo
Edipo la sfinge e le carezze
comporre le scene ritratte, elude i rischi che potrebbero accompagnare tentativi di interpretazione letterale aprendo, invece, il sipario su uno spazio di incontro tra l’attore del sogno e l’ascoltatore/interprete. È proprio dall’ascolto che Rori Palazzo parte per immaginare le sue fotografie, dando avvio ad un lentissimo ma ineludibile processo di empatia che ha come risultato la creazione di un visione onirica ibrida. Come una delle più note e giocose creazioni di gruppo surrealiste, il cadavre exquis, l’immagine nasce dalla associazione di elementi intimi che appartengono tanto al ricordo del sognatore come all’immaginario onirico della fotografa che traduce la visione in forma. Gli scatti di Rori Palazzo restano dunque sospesi nel territorio dell’incerto dando forma allo “stato di sogno” che, come scriveva Breton, “è oggi molto difficile delimitare”. I tre ritratti della serie Dream sono immagini ossimoriche, specchio di un precario ed elegante equilibrio di elementi contrastanti: i contenuti stranianti e la ricerca minimalista della resa formale. In La mia Casa (Alessandra) tutto galleggia sullo specchio d’acqua: la scala, la casa di bambole, le montagne del paesaggio, mentre l’orizzonte scorre infinito annullando tempo e speranza. L’immobilismo è reso proprio dalla purezza forma-
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La mia casa
le dell’immagine costruita geometricamente come un incrocio di linee perpendicolari. Le proporzioni sono stravolte, la casa è troppo piccola per essere abitata e la montagna, disegnata dalla mano incerta di un bambino, impossibile da scalare. Anche in Tsunami (Alice) la casa appare come rifugio incerto, trampolino di lancio verso l’abisso. Il balcone si affaccia su un precipizio profondo, presente e passato si mescolano e l’immagine bagnata da gocce d’acqua appare come sotto vetro, paralizzata nella impossibilità di comunicazione e movimento. L’angoscia sottesa ai due scatti della serie, risulta sedata dalla bellezza formale, un equilibrio seduttivo di forma e colore, enfatizzato dalla scelta del bianco e nero che conferisce alle visioni fotografiche un’atemporalità straniante. Infine, nel terzo sogno, Fittier happier (Giulia), viene messo in scena il senso di inadeguatezza proprio della società contemporanea, dove l’unica possibile risposta è la fuga, una corsa che lascia dietro di sé il fumo della non consistenza. Il dramma dell’impazzimento ordinario è raccontato da Rori Plazzo con la stessa intensità di una scena di teatro antico, di cui le scale che corrono verso l’alto sono evidente citazione. Tutta l’immagine è giocata sui contrasti: bianco/nero, azione/immobilismo, rumore/silenzio; è proprio la misura del contrasto a materializzare il sentimento, carico di inquietudine, di non appartenenza al proprio microcosmo.
LA NATURA MISTA DEI CORPI Chi di noi è Edipo qui?Chi la Sfinge? Sembra che si siano dati convegno interrogazioni e punti interrogativi. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male1 L’opera di Fernand Khnopff L`arte o la Sfinge o le carezze (1896) incarna l’archetipo della femme fatale, iconografia ricorrente nel simbolismo europeo di fine Ottocento. L’Edipo dipinto da Khnopff è una figura androgina; vulnerabile e deciso al contempo, si regge su uno scettro che tiene saldo, pronto a brandirlo per difendersi. Accanto vi è la sfinge, creatura enigmatica per eccellenza, metà donna e metà felino che, nonostante si appoggi a lui con volto beato e sensualità animale, mostra le zampe posteriori tese, pronte all’attacco. Entrambe le figure svelano la loro doppia natura e incontrandosi si carezzano; il raziocinio ha vinto sulla bestialità ma questa vittoria - l’aver risolto l’enigma posto dalla sfinge - porterà Edipo alla tragedia; la sua intelligenza è anche la sua cecità, poiché premio di questa vittoria sarà per lui, - inconsapevole - uccidere il padre e sposare la madre. Rori Palazzo parte da quest’immagine per costruirne 43
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Narcisse
una nuova, che ne ribalta le sorti; la sfinge - la riconosciamo dalle gambe maculate e dal volto spigoloso e sognante - è uomo e donna al contempo e tiene tra le mani, come un oggetto caro, il corpo vulnerabile di Edipo dalle morbide fattezze femminee. La figura di Edipo è incompleta, non ha più gambe né volto, è privato del suo essere individuo poiché è inserito, come una perfetta forma ad incastro, nel corpo della sfinge che ormai, appagata, lo accoglie nel suo grembo come parte di sé. Le fotografie di Rori Palazzo abitano in un’atmosfera sospesa che si nutre dell’immaginario surrealista e del potere evocativo del mito ma, nel momento in cui esistono come composizione, acquisiscono un’intensità d’immagine che le rende possibili, restituendo concretezza al pensiero evocato. Il tema della metamorfosi ritorna nella fotografia della Medusa, dove in primo piano emergono gli occhi che pietrificano e i capelli che imitano il fluire agitato delle spire dei serpenti. Il corpo giace immobile e nudo, le forme sembrano quasi svanire nell’aria densa, mentre la bocca chiusa e carnosa racconta la terribilità dei suoi misfatti. La temibile divinità preolimpica aspetta inerme l’arrivo di Perseo, il solo che, grazie all’aiuto degli dei, metterà fine alla sua vita tagliandole la testa, come illustra una delle più note metope del tempio C di Selinunte. Restiamo nel territorio dell’ibrido davanti alla terza fotografia della serie: Il satiro. Creatura filiforme dai tratti misti, ritratto nel momento di sosta dopo i rituali di danza, appare sospeso più che immobile; il capo ricciuto e le corna poggiate al suo fianco, ne rivelano la natura semidivina, metà uomo e metà capro. La lunga gonna che copre interamente le zampe, dichiara la sua appartenenza al thiasos dionisiaco, spazio di metamorfosi e danza al quale i satiri accedono direttamente bevendo vino puro: «quel fuoco liquido che solo Dioniso controlla, e che conferisce a questi esseri ibridi una prodigiosa abilità, permette loro di librarsi della pesantezza, di superare le frontiere della condizione umana, assolutamente non in direzione della bestialità, ma, per una volta, librandosi in una leggerezza sovrannaturale»2. Così il satiro di Rori Palazzo racconta fiero la sua natura mista: le sue gambe leggere e sottili fanno da specchio a quelle da capro nascoste sotto la lunga gonna nera, mentre la mano aperta rimanda alla vitalità della danza, che invece sembra essere svanita nel resto del corpo, chiuso in una perfetta armonia formale. Dall’analisi di queste tre fotografie emerge la ricerca della soggettività della visione; l’immagine creata da Rori Palazzo si apre a diverse possibilità di lettura dichiarando la sua non univocità. I personaggi ritratti svelano la loro natura eterna, le cui radici affondano nelle verità archetipiche del mito, e guardano con sospetto alle forme inconsistenti e veloci che troneggiano sugli schermi, nuovi interfaccia dell’oggi. 1. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Rizzoli, Milano 1992, p. 39. 2. J.-L Durand, F. Frontisi-Ducroux e F. Lissarrague, Tra i due mondi del vino in La Città delle immagini, Edizioni Panini, Modena 1986, p. 115. www.roripalazzo.com
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Andrea Galgano
La poesia e il pensiero incarnato dell’essere
Luigi Pirandello 46
Pirandello nel suo saggio L’umorismo, pubblicato nel 1908, sulla base delle suggestioni del
Candelaio di Giordano Bruno (specie nel motto «In tristizia hilaris in hilaritate tristis»), scomponendo e compenetrando la distinzione tra comico («sentimento del contrario») ed umoristico («avvertimento del contrario»), mette, ancora una volta in scena, «l’abisso che è nelle anime», la rivendicazione inesausta di un destino degli esseri umani, come accaduto nei Sei personaggi in cerca d’autore, per cui, come scrive nella Prefazione «non è possibile credere che l’unica ragione della nostra vita sia tutta in un tormento che ci appare ingiusto e inesplicabile»: «Ma l’umorista sa che le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita insomma, così varia e complessa, contraddicono poi aspramente quelle semplificazioni ideali, costringono ad azioni, ispirano pensieri e sentimenti contrari a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori ordinari. E l’impreveduto che è nella vita? E l’abisso che è nelle anime? Non ci sentiamo guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili finanche a noi stessi, come sorti davvero da un’anima diversa da quella che normalmente ci riconosciamo? Di qui, nell’umorismo, tutta quella ricerca dei particolari più intimi e minuti, che possono anche parer volgari e triviali se si raffrontano con le sintesi idealizzatrici dell’arte in genere, e quella ricerca dei contrasti e delle contraddizioni su cui l’opera sua si fonda, in contrapposizione alla coerenza cercata dagli altri; di qui quel che di scomposto, di slegato, di capriccioso, tutte quelle digressioni che si notano nell’opera umoristica, in opposizione al congegno ordinato, alla composizione dell’opera d’arte in genere». È la chiamata all’esistenza. Non solo all’esistere ma all’essere, alla nostra genesi radicale, all’irriducibilità dell’io in relazione. Il problema della verità si impone in tutta la sua evidenza. È il dramma che si fa carne: «[…] Ce n’accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in quell’atto, e che dunque una atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per una intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell’atto!». L’eterna domanda sull’essere, allora, si colora del bivio e della crisi di una pretesa storica. La stessa denuncia della crisi dell’uomo moderno, si fa, in Pirandello, domanda incompiuta di verità, estrema weltanschauung che avverte la frattura insondabile, come dice l’interrogazione di Mattia Pascal: «E se tutto questo bujo, quest’enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all’indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora?» (Il fu Mattia Pascal). La poesia è il luogo fertile che richiama alla domanda sull’essere. Si potrebbe dire che gremisce la domanda elementare sull’essere, inducendo un
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Gregori Corso
percorso di origine e pensiero oltre ciò che appare. Rivelando e svelando la sua domanda di chiarità, essa permette l’emersione di ciò che nel fondo dell’essere si deposita come un grido, un sospiro, un bisbiglio di aria lucente. Presentandosi, riporta il fiato della physis, il suo annuncio oltre la caduta della maschera. Mario Luzi, in Aprile-Amore, tratto da Le primizie del deserto (1952), partendo dalle interlocuzioni di Leopardi prima e di T.S. Eliot poi, conclama tutto il folto fondo delle parole in una sorta di inquieta commistione di amore e morte, propulsione e inquieta vitalità. La fisica della realtà sembra popolare l’incrocio di uno smarrimento e di un soffio ma, allo stesso tempo, abbraccia tutta la materia vivente. Si dispone tra l’obnubilamento e la interrogazione ultima, perché questa pena possa durare oltre questo attimo: «[…] È incredibile ch’io ti cerchi in questo / o in altro luogo della terra dove / è molto se possiamo riconoscerci. / Ma è ancora un’età, la mia, / che s’aspetta dagli altri / quello che è in noi oppure non esiste. / L’amore aiuta a vivere, a durare, / l’amore annulla e dà principio. E quando / chi soffre o langue spera, se anche spera, / che un soccorso s’annunci di lontano, / è in lui, un soffio basta a suscitarlo. Questo ho imparato e dimenticato mille volte, / ora da te mi torna fatto chiaro, / ora prende vivezza e verità. / La mia pena è durare oltre questo attimo». La poesia di tutti i tempi cerca la sollevata riscoperta dell’essere ma si nutre anche dell’effimero. Non censura nulla, per divenire fedele a ciò che c’è. Tutta la nostra creaturalità e finitudine è ridestata da questa
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sete d’infinito, come la litania notturna di Pound dinanzi all’immeritata visione di Venezia, il dire l’umano della Achmatova, o il grido lacerato e nomade di Ungaretti dinanzi al figlioletto, che riporta, attraverso le viscere, lo sfarzo ineliminabile dell’esistenza. Il grande poeta polacco Zbigniew Herbert, partendo da un dettaglio riscontrabile apre la possibilità di un’osservazione, di un’obbedienza che divengono gradienti di salvezza dinanzi alla vita che appare e si dispone in tutta la sua potenza visibile. Ecco cosa dice in Lo sgabello, testo del 1983, tratto da Rapporto dalla città assediata: «Alla fine questo amore non si può celare / piccolo quadrupede su gambe di quercia / dalla pelle indicibilmente ruvida e fresca / oggetto quotidiano senza occhi ma con un viso / su cui le rughe delle venature indicano maturità / asinello grigio il più paziente asinello / ha perso il pelo per i troppi digiuni / e accarezzandolo il mattino la mia mano / sente solo un ciuffetto di setola legnosa / - lo sai mio caro c’erano ciarlatani / che dicevano: mente la mano mente / l’occhio quando tocca forme che sono vuoto - / era gente cattiva invidiosa delle cose / voleva pigliare il mondo all’amo delle negazioni / come dirti la mia gratitudine ammirazione / accorri sempre al richiamo degli occhi / spiegando con l’immobilità della tua mimica / al povero intelletto: siamo autentici - / alla fine la fedeltà delle cose ci apre gli occhi». La profonda e florida inquietudine dell’essere è una chiamata che rileva le cose. Una domanda innominata che risveglia la coscienza verso ciò che è abissale e corrispondente, in
quella fecondità che diviene l’alito di un cammino e anima, come cosa più concreta posseduta e rapporto amoroso (e drammatico) con l’eterno, come scrive Walt Whitman: «Fate la vostra parte verso l’eternità, / piccola o grande che sia, fate la vostra parte verso l’anima». La datità incancellabile, vissuta già dallo sguardo leopardiano, che attesta, vive, riportando tutto alla lontananza e all’indefinitezza, si riscopre nel poeta ebreo-tedesco Erich Fried e nella sua sottigliezza profonda. Il suo itinerario elementare è il recupero dell’origine che ha bisogno di appropriarsi di un’attualità eterna, di un segreto vitale che ferisce e fa vivere ed è l’ultima parola sul mondo, sfuggente e senza tempo, come un sogno lieve o un nutrimento felice, parvenza esiziale o dramma dell’esistere senza via d’uscita. È l’esperienza che si fa domanda sulla realtà, la riscoperta dell’eros come assedio innocente. Forse gioia minima ed elementare o la cifra di una firma immensa che si persegue, e dove la contemplazione e la percezione che si riscopre, nel dono commosso all’altro. Secondo Irene Battaglini, scrittrice e psicologa dell’arte: «L’eros è la frazione libera dell’essere, quella parte dell’elemento vitale che appartiene al pensiero incarnato, che si fa largo tra le rovine del mondo, per riportare linfa laddove psiche sembra essersi arresa, sembra flettersi lungo la deriva di Chrono. Eros è una risorsa potenziale dell’essere, nella misura in cui, alla stregua di un fenomeno transizionale di Winnicott, connette la personalità in nuce, del poeta e dell’uomo, al suo Sé più autentico e profondo, in una forma rinnovata
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che implica il raggiungere l’Altro, e il farsi raggiungere. Per questo credo che la poesia sia una fenomenologia dell’essenziale che de-opacizza, che permette all’Io di essere attraversato e modificato, per diventare un Sé non soltanto realizzato, ma anche rinnovato, originale, come riviviscente. Erich Fromm sostiene, in Fuga dalla libertà (1941), che «la questione decisiva non è quel che si pensa, ma in che modo lo si pensa. Il pensiero che è frutto della riflessione attiva, è sempre nuovo ed originale». Il passaggio nel fuoco iniziatico della parola è per il poeta una fase indispensabile per accedere all’essere, inteso in questa accezione che non è soltanto filosofica, ma in qualche misura intrapsichica e in buona parte interpersonale, poiché la parola è per eccellenza il luogo in cui l’essere si fa sia espressione sia comunicazione. Il linguaggio poetico proprio dell’essere è dunque un fenomeno di abbondanza, di abbondanza di pensiero e di lume, come se si aprisse all’improvviso il fondo di un imbuto e ne emergesse, incisa nel tempo, una “parola piena”». Arsenij Tarkovskij (1907-1989) ha mostrato attraverso una lunga e cadenzata testimonianza di luce smerigliata i suoi raggi in un secolo di guerra e splendore. L’essere contro ogni forma di censura, caduta o ripiegamento. La sua voce messaggera, che spazia nelle due dimensioni, fa vibrare l’arsi della propria terrena partecipazione al mondo, spingendola fino al linguaggio dell’eterno, alla sua destinazione di orizzonti e macerie umane. Il gesto dell’eterno imbratta di bellezza ciò che è umano, confondendosi e mischiandosi dove «debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza»: «E lo sognavo, e lo sogno, / e lo sognerò ancora, una volta o l’altra, / e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà, / e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno. / Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo / un’onda dietro l’altra si frange sulla riva, / e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello, e il reale, e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra. / Non mi occorrono le date: io ero, e sono, e sarò. / La vita è la meraviglia delle meraviglie, e sulle ginocchia della meraviglia solo, come orfano, pongo me stesso, / solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi / di mari e città risplendenti tra il fumo. / E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia».
Francesca Woodman
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Mara Sabia
Della deità nascosta
“Egli somiglia moltissimo a quei Sileni esposti nelle botteghe degli scultori che gli artisti raffigurano con in mano zampogne e flauti e che poi aperti in due fanno vedere che nell’interno contengono immagini di Dei.” (Platone, Simposio) Così Alcibiade, ubriaco, dichiarava la sua ammirazione a Socrate. Sileno è il dio degli alberi, figlio di Pan, il dio silvestre, e di una ninfa. Sileno non è una gran bellezza, anzi rappresenta i topoi contrari alla bellezza classica: è anziano, corpulento, calvo, peloso, spesso ubriaco, reso ancora più orrido da atteggiamenti animaleschi eppure possiede i doni della saggezza e della divinazione. Il filosofo che gli somiglia è grande, il più grande, dice Alcibiade, poichè non con strumenti, ma soltanto con le nude parole, delizia ed eleva gli uomini. E questo lo rende simile a un dio. Possiede intimamente la deità che è componente eterna; non è paragonabile ad un artista, ad esempio, che eleva gli animi con la musica del suo flauto, ma vi riesce soltanto con le parole. Il filosofo, è più di un uomo, è quasi un dio, è ben oltre la sua umanità, rimane grande grazie alla sua “deità”. Noi non sappiamo neanche che “forma” estetica avesse Socrate, ma probabilmente la forma della sua “deità” è giunta fino a noi ignorando il tempo. Che ne sarà dunque, invece, della società che abitiamo, sprofondata nei social, assoggettata all’assioma di ciò che è forma è sostanza? La nostra è una società che trova, probabilmente, una delle chiavi di lettura già in un certo Pirandello. Le maschere indossate dall’uomo contemporaneo rivelano l’incapacità dell’adattamento alla società che pure egli stesso ha contribuito a formare, a plasmare: l’uomo per incontrare gli altri deve “prendere forma”. Che forma può prendere? In cosa può cristallizzarsi? Cosa o chi può apparire? È, dunque, egli un’anima liquida che si adatterà a chi avrà di fronte. Che assumerà un ruolo. Che apparirà, ma non sarà. Sarà nulla, anzi, nella sua essenza. Tolta la maschera non avrà volto l’uomo pirandelliano. Di conseguenza lo stesso
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(uomo) saggio sarà confuso nella miriade, avrà vita soltanto finché avrà guscio, forma, apparenza e, quindi, a differenza di Socrate, avrà perso la sua deità. Nessun Sileno, dunque, solo un elemento di una carica di apparenze tradite, di incapaci, disadattati, figure che diventano pure forme, addirittura parodie inconsistenti. Cosa resta della nostra eterna deità? Della commistione del saggio con l’eterno? “Cara vestiti in modo principesco e sarai una principessa”, consiglia l’intellettuale romana, parlando di inviti a serate tra poeti e letterati “che contano”. “Cara, dovresti fare una campagna video, non appari altrimenti...” così consiglia di dare vita ai versi il musicista raffinato. E un altro: “L’ambiente, qui, merita il tuo vestito e la tua bellezza”, dimentico del fatto che si è in un convegno di critica letteraria. Dunque appari e sarai. A salvarci, o meglio, a salvare la nostra parte di deità, di essenza, sarà, probabilmente ancora una volta, il tendere alla nuda, perfetta parola: qualcosa che somiglia all’Amore, che non si preoccupa di apparire. Quello che -come scrive Luzi- aiuta a vivere, a durare, […] che annulla e dà principio. Ciò che è e non appare. Che per dirla con Rabindranāth, Tagore o con Kurt Cobain (!) è: Vieni come sei. Se qualcosa ci fa sopravvivere a noi stessi, immettendoci nel flusso vitale del Cosmo, se ne infischia della forma. Non ha bisogno di video né estetica ed esiste al di là dei nostri occhi, perché esiste verso l’interno di noi. Là si cela il nostro vero elemento, la nostra deità, ciò che è la nostra essenza. È che per coglierlo bisogna essere abbastanza eterni da saperlo leggere. Calvino ce lo insegna. Con la chiusa di una novella complessa, talvolta oscura, e bellissima. E in fondo ad ognuno di quegli occhi abitavo io, ossia abitava un altro me, una delle immagini di me, e s’incontrava con l’immagine di lei, la più fedele immagine di lei, nell’ultramondo che s’apre attraversando la sfera semiliquida delle iridi, il buio delle pupille, il palazzo di specchi delle rètine, nel vero nostro elemento che si estende senza rive né confini. (Italo Calvino, Senza colori, in Le Cosmicomiche,1965)
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E D U A R D O C A S A N O VA
Daniele M. G. Cafarelli
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Il potere rosa shocking
Distruzione di uno stereotipo nella pellicola di Eduardo Casanova
Mai come oggi è possibile affermare con certezza che si sta vivendo nella società
delle immagini, dei consumi e soprattutto del consumo delle immagini. Una società sintomatica di una cultura della velocità, una cultura che ci intima di avere fretta, di gestire la nostra vita in maniera celere e che molto spesso ci impedisce di conoscere fino in fondo non solo il mondo, ma addirittura noi stessi, trasformando la velocità di cui la società si fa vanto in una sconcertante superficialità. In questo mondo delle apparenze ha quindi il potere chi è capace di imporre il proprio modello di apparenza, la propria immagine sugli altri, e trasformarla in canone di bellezza e desiderabilità definitiva (cercando di mascherare l’impossibilità di ogni desiderio di sopravvivere a se stesso). I media appunto diffondono le immagini di cui noi siamo fruitori e noi, ponendoci nella condizione di inferiorità della quale già ci avvertiva Pasolini denunciando la televisione, vogliamo imitare quelle immagini, mascherare la nostra natura, perché quelle immagini che corrono da uno schermo all’altro sono emblemi di uno status sociale che il mondo “preconfezionato” dell’intrattenimento, dello sport, della pubblicità ci spinge a desiderare. Proprio di un’estetica “preconfezionata” e pubblicitaria si serve il regista spagnolo Eduardo Casanova che con il suo “Pelle” (“Pieles” in originale, 2017) cerca di abbattere questo albero genealogico, ribaltando l’immagine fino quasi a distruggerla (in particolar modo quella considerata canonicamente bella), quasi violentando l’inquadratura con il forte contrasto che deriva dall’accostamento del rosa shocking, praticamente onnipresente nella pellicola, con la diversità e le deformità che in alcuni casi diventano polemicamente grottesche. L’ossessione della società per il corpo diventa qui un’ossessione del suo disfacimento, e questo non riguarda solo i protagonisti deformi, ma anche i comprimari normodotati che orbitano loro intorno, a partire dalla maitresse del bordello all’inizio del film, fino alla cameriera della tavola calda. Il corpo e tutte le azioni ad esso collegate, dal mangiare all’amplesso, sono viste in maniera traumatica, quasi di rigetto. Il rigetto e il rifiuto sono temi portanti della pellicola: il primo è quello dei protagonisti verso se stessi e il proprio corpo, mentre il secondo è operato dalla società verso di loro. Società che, tra le altre cose, risulta essere fortemente nevrotica e questa nevrosi emerge con maggiore forza in due personaggi, la psichiatra di Chris (uno dei protagonisti affetto da somatoparafrenia) e il padre di Samantha, quest’ultimo così ossessionato dalla paura di perdere la figlia da costringerla a soffocare la propria individualità. Le storie dei vari protagonisti si incontrano con grande abilità narrativa, mostrando che dietro ad ogni personaggio e alla sua apparenza si nasconde qualcosa di più che una macchietta. Questo però trova un’eccezione nel personaggio di Benavides, produttore dello show televisivo in cui Vanesa (un’altra protagonista affetta da acondroplasia) interpreta Pinkoo, emblema dello status di desiderabilità. Lo scarso spazio riservato al personaggio del produttore e la di lui povera caratterizzazione diventa un atto polemico poiché Benavidez rappresenta quella categoria di persone di potere (come i media televisivi) che irradiano quello stereotipo di bellezza che questo film tenta di sfatare e distruggere.
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Anna R. G. Rivelli
La sostanza dell’apparenza
Come in un gioco di scatole cinesi, l’essere e l’apparire spes-
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so si nascondono o, forse meglio, si svelano a vicenda, ricordandoci che in fondo la vita è un po’ l’una e un po’ l’altra cosa. Per questo abbiamo scelto “Paride”, il cortometraggio del regista pugliese Carlos Solito, per argomentare il tema di questo numero di Sineresi, perché “Paride” fa emergere quella che in un certo senso potremmo definire sostanza dell’apparenza, la concretizzazione cioè, in questo caso dolorosa, dell’omaggio al “pare”, che mentre rincorre una esteriorità perfetta, svuota di senso la realtà, mortificandola al ruolo di mero e non voluto accidente. Gioco di rimandi tra essere e apparire è pure la scelta della location della pellicola: Lagonegro, “la mia città” su cui –cantava Mango- “c’è un cielo grande che ti spalanca il cuore ”. La cittadina lucana, infatti, si fa testimonial della bellezza eclettica di una regione, la Basilicata, che è forse ancora una tra quelle che nell’immaginario collettivo più risente di una proiezione stereotipata di mitizzazioni antiche, incrostazioni di un tempo passato che passato bisogna considerare. E di tutto questo ci parlano Carlos Solito e Paride Leporace, il primo rispondendo alle nostre domande, il secondo consentendoci uno sguardo sulla realtà della Lucana Film Commission da lui stesso diretta.
Scrittore, fotografo, giornalista e regista. Così si legge nella tua
Carlos Solito
biografia. Ma, in due battute, chi è Carlos Solito? Un narratore. Tutto ciò che faccio ha un fine ultimo: raccontare. Credo che questa sia la vera mission dell’uomo su questo pianeta, raccontare le epoche, la storia, creare un immenso database per un futuro infinito. È evidente che crediamo che questo sia il nostro mondo, ma lo è di tutti gli esseri viventi che lo abitano. Noi ce ne siamo appropriati indebitamente e, con quella grande arma che abbiamo, l’intelligenza, lo stiamo violentando e plasmando ai nostri bisogni. Sarebbe bello, invece, se in punta di piedi (dovremmo prendere esempio dai felini) riuscissimo a viverlo senza fare il nostro becero rumore e, come tutte le creature, stare un po’ più in silenzio per osservare e raccontare. Ecco, io faccio questo. Perlomeno m’illudo di farlo. Parliamo di “Paride”, l’intenso tuo ultimo cortometraggio in cui l’apparenza da salvaguardare diventa violenza e dolore per tutti. Da dove nasce l’idea? E “Paride” è un monito o solo una constatazione? Paride nasce da una storia vera che ho avuto l’onore di osservare da vicino. Una storia di tutti i giorni la cui specialità è che può essere di tutti noi. Credo che la cifra straordinaria dello stare al mondo debba essere la semplicità. Ambientato in un piccolo
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borgo dell’Appennino lucano; Paride ritorna a casa dopo aver appreso delle drammatiche condizioni in cui versa la salute della madre. Questo sofferto rimpatrio lo costringerà a riaprire le ferite del passato e ad accettare le dure vicende familiari che lo hanno costretto alla fuga, a riscoprire, liberando desideri soffocati e sentimenti repressi, l’amore verso un altro uomo: Domenico. Come il suo omonimo della mitologia, il giovane protagonista dovrà scegliere il dono più ambito tra le promesse dell’esistenza – l’amore - rompendo gli schemi e accettando un duro prezzo da pagare. Paride, prodotto da Francesco Lopez della pugliese Oz Film (insieme a Comune di Lagonegro, Gal Cittaddella del Sapere, Lucana Film Commision) è un invito ad amare, una storia di diversità, coraggio e sentimenti viscerali. Un percorso basato sul delicato rapporto tra genitori e figli, passando attraverso ricordi e sapori, luci e ombre, malattia del corpo e guarigione dell’anima. Pieno di silenzi e sguardi, il film è stato ambientato nel centro storico di una delicatissima Lagonegro tra le cornici sconfinate di un paesaggio forte, pieno di montagne, valli, boschi dell’area meridionale di una Basilicata inedita, romantica. Tu ami viaggiare, hai girato il mondo, ma le tue radici sono salde nella tua terra natale, la Puglia, che in un modo o nell’altro riaffiora sempre (ricordiamo anche il tuo ultimo libro “Sciamenesciá”, che raccoglie storie ambientate in un paese immaginario del Salento); la location di “Paride” è Lagonegro, in Basilicata. Ritieni che una certa sudditanza alle apparenze sia un problema che riguarda soprattutto il nostro Mezzogiorno oppure, come si dice, ogni mondo è paese? Ogni mondo è paese, non v’è dubbio alcuno. Il problema è che per molto tempo abbiamo pensato che i nostri luoghi fossero luoghi minori perché lontani da una centralità apparente un dato momento. Ogni luogo è al centro di qualcosa e al margine di qualcos’altro. Sicuramente, da partigiano della bellezza posso dire che per fare festa ci vuole la terra, ci vuole il sole, ci vogliono le nuvole, l’orchestra dei silenzi, le cime delle zolle, un solo albero sotto il quale danzare con un po’ di vento generoso e, a un palmo sottoterra, piantare il seme di un sogno. Nella sostanza
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chi crede che Lagonegro sia meglio o peggio di un altro posto, be’ pecca di leggerezza. Ogni luogo, soprattutto in Basilicata, ha un’energia forte della quale nutrirsi. A proposito di Lagonegro, provate a camminare e salire sulla vetta del Sirino o, sotto una quercia, sedetevi tra le gobbe terrose del Farno: vedrete quanta bellezza primeva, ce n’è un mare! Ripetiamo: scrittore, fotografo, giornalista e regista, tutti “mestieri” che espongono al pubblico e che spesso, in particolare da una gioventù assetata di facile visibilità, vengono apprezzati per quello scintillio che li circonda, per quella notorietà che riescono a dare. Vuoi parlarci, invece, della fatica che c’è dietro? Non s’è mai visto un alpinista che raggiunge una vetta direttamente da valle. Per salire occorre individuare vie, camminamenti, appigli non sempre facile da raggiungere. Ma la misura di una scalata, di un cammino, sta proprio nel suo percorso che DEVE essere colmo di ostacoli per poter far comprendere quanto l’arrivo sia effimero e soprattutto la fine di qualcosa che sta nel mezzo. A ogni modo occorre leggere tanto, conoscere i mondi di altri autori e che la realtà non fa mai rima con un pugno di I like. Questa rivista ha come sottotitolo “Il diritto di essere eretici”, frase rubata a un discorso di Gaetano Salvemini, tenuto a Parigi nel 1935 in occasione di un convegno di scrittori per la difesa della cultura. “La cultura –disse Salvemini- è il diritto di essere eretici”. Ti congedi da noi commentando questa frase? Eretico è colui che non accetta dogmi divini per fede e basta. Eretico è colui che esplora e trova risposte a domande che non tutti si pongono. Eretico è colui che vuole arrivare in vetta ma conoscendo ogni centimetro del fianco della montagna per arrivarci. Eretico è il liberale che inficia con sani quesiti il dogma, ponendolo in discussione. Eretico è colui che, armato di contraddizione, uccide il proprio sapere di ieri per costruirne un altro oggi e domani, così via, attraverso la forza di basi culturali e conoscitive (lo studio). Un grande eretico, intellettualmente parlando, è stato per me Francesco De Sanctis di cui quest’anno ricade il bicentenario della nascita. Ecco, la politica oggi dovrebbe tornare a studiare questo grande uomo.
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Paride Leporace
In Basilicata puoi farti tutti i film che vuoi
Quando la finzione del cinema è il vero di un territorio
Ad una rivista come la vostra, che ha la sensibilità di analizzare un cortometraggio come quello di
Carlos Solito, da noi sostenuto con convinzione, mi piace raccontare e narrare alcune delle buone pratiche che abbiamo utilizzato nel corso del nostro giovane Tempo. Siamo nati nel pieno della piu grande crisi economica della storia del capitalismo globale. Abbiamo varato delle misure anticicliche keynesiane che hanno permesso un virtuoso utilizzo dei fondi europei che hanno fatto nascere “Il bando alla crisi”. La campagna promozionale ha adottato il riuscito claim “In Basilicata puoi farti tutti i film che vuoi”. E questi film sono stati realizzati producendo ricadute dirette e indirette di significativa rilevanza economica e spesso anche artistica. Dal 2013, anno del «Bando alla crisi», per ogni euro ricevuto dall’Ente pubblico l’impresa cinematografica ne ha speso sul territorio almeno 4: non solo attraverso un indotto legato alle strutture ricettive ma anche e soprattutto con l’investimento nelle risorse umane. Sono stati 544 i lavoratori impiegati come maestranze locali e 9 le start up nate nell’ambito cinematografico. E alcune di queste stanno dimostrando essersi ben posizionate sul mercato. Tra il 2015 e la prima parte del 2016, ragionando in termini di bandi assegnati, abbiamo prodotto nove lungometraggi e moltissimi cortometraggi. Una ricerca del MiBACT ha accertato che siamo la regione italiana che finanzia più cortometraggi, dopo il Lazio. Palestra molto utile per la creatività locale che spesso ha avuto ragioni di lavoro per riconnettersi al proprio territorio. A questi si aggiungono progetti speciali come la serie tv “Sorelle”, andata in onda nel palinsesto tv di Rai1, con la firma pregiata di Cinzia TH Torrini. Una media di sei milioni di spettatori a puntata. Matera raccontata nel presente e non come quinta religiosa e cristologica. Un successo di critica che ha riconosciuto un ruolo alla città come protagonista di una fiction valorizzata nella sua unicità paesaggistica e monumentale. E il pubblico, composto anche da under 14 che si sono riconosciuti nei piccoli protagonisti della storia, ha spesso costretto genitori e nonni a venire a Matera per vedere “La casa di Elena”. Abbiamo fatto molto, inevitabilmente sbagliato qualcosa, ma siamo stati tutti animati da grande passione superando le fobie di qualche scoraggiatore militante che non manca mai dalle nostre parti. Se riguardo indietro vedo la stanza tutta vuota da dove siamo partiti e ora posso guardare nelle due sedi di Matera e Potenza a tanto lavoro fatto. Una serie TV con i messicani, un film cinese, l’inizio di un accordo con gl’indiani di Bollywood. Grazie ad Enzo Sisti le grandi produzioni americane hanno fatto segnare aumenti di Pil alla Basilicata,crescita delle maestranze locali e ricadute d’immagine sui media di tutto il pianeta. Abbiamo ottenuto David di Donatello sostenendo progetti innovativi come “Noi e la Giulia” e “Veloce come il vento”. Abbiamo realizzato un protocollo d’intesa con la consorella della Calabria facendo nascere “Il progetto Lu.Ca” dimostrando che può esistere un federalismo virtuoso che coopera per migliorare risultati ed ottenere economie di scopo. Che questo progetto, poi, contribuisca a far rappresentare l’Italia all’Oscar da un film innovativo ed esplosivo come “A Ciambra” della giovane rivelazione Jonas Carpignano fa parte delle umane sorti che spesso premiano gli audaci. Non avevo previsto tutto questo. Ma dati causa e contesto, mi piace molto che il nostro lavoro culturale permetta di dire che qualcosa nel Sud e in Basilicata sta cambiando.
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Mimmo Paladino (rielaborazione)
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Alfonso Ernesto Navazio
Dei numeri e di vari accidenti
Le relazioni complicate che esemplificano la vita
A giocare con i numeri e con le coincidenze non si finisce mai. A scuola abbiamo imparato a far da conto e a risolvere le equazioni mescolando un po’ di numeri. Un insieme di simboli astratti. Messi lì come se stessero apparentemente aspettando qualcosa, affamati di rivelarsi. Numeri qualunque e solitari che non aspettano altro di ritrovarsi, combinandosi e svelando, ogni volta, la propria esistenza. A volte sospettosi di trovarsi. Se non appaio non esisto! E l’incubo collettivo del nuovo secolo si materializza anche qui. Da decine migliaia di anni abbiamo usato i numeri naturali (uno, due, tre….). Solo nell’ultimo secolo e mezzo c’è stata una loro formalizzazione rigorosa. Nel frattempo sono stati usati numeri di tutti i tipi, anche quelli che non lo erano (almeno a prima vista). Ma alcuni (i grandi professori) stanno ancora discutendo se devono concedere o meno il diritto di esistenza. I numeri sono nati per contare. Frutto della elaborazione del nostro pensiero, si mostrano evidenti. 1, 2, 3….[ovviamente ce ne sono molti di più. Si chiamano numeri naturali N; quelli con il segno meno davanti -1,-2,3 che insieme a 1, 2 3,… formano i numeri interi Z; quelli frutto di divisioni [cioè possono esprimersi come rapporto tra due numeri interi (numeri razionali Q) e quelli che non possono esprimersi come tale rapporto (numeri irrazionali I)]. Tutti insieme (Q e I) formano i numeri reali R (quelli che usiamo per la maggior parte delle nostre attività). Oltre i numeri reali ci sono i numeri complessi C. Stanno li. Pronti a combinarsi attraverso relazioni più o meno complicate. Relazioni le cui soluzioni ci permettono di affrontare la vita quotidiana [qualcuno le ha contate (ancora una volta!) e ci sono ben 17 equazioni che ben descrivono ciò che facciamo. Ci sono numeri che esistono. Stanno lì sullo sfondo delle nostre azioni e li possiamo sempre vedere. Ma ci sono anche quelli che vogliono apparire a tutti i costi. Si svelano e…. diventano irrilevanti. Prendiamo un numero a caso: 42. Sommiamogli il numero che si ottiene riscrivendo le cifre in ordine inverso, cioè 24 (chi si occupa di enigmistica lo chiama bifronte). Otteniamo 66, che è un numero palindromo (numeri che potremmo definire i “narcisi” dei numeri, poiché si riflettono identici, come in uno specchio): si legge allo stesso modo da destra a sinistra e da sinistra a destra. Niente di eclatante. Proviamo allora con un altro numero: 87. Sommandogli 78 otteniamo 165. Se continuiamo a sommare al risultato il suo bifronte 561 arriviamo a 726; i passi successivi sono 726+627=1353, 1353+3531=4884, e arriviamo finalmente a un palindromo. Appaio quindi esisto! Con 199 abbiamo 199+911=1190; 1190+0911=2101; 2101+1012=3113. La domanda sorge spontanea: prima o poi si arriva sempre a un palindromo? La risposta è “non si sa”. Tutto questo vale dappertutto? In Matematica si parla esclusivamente di costruzioni dell’intelletto, non è neppure chiaro cosa debba costituire una «apparenza» e cosa invece la «realtà». [In questo senso, la geometria euclidea (quella che abbiamo imparato a scuola : il punto, la retta,….) è un esempio. Si pensi al fatto che la geometria del nostro Universo appare euclidea, ma è in realtà iperbolica (e qui i discorsi si fanno più complessi. Pensiamo ad una sella di cavallo e immaginiamo di viverci su)]. Con i numeri ci viene tutto più facile. E questo che c’entra con la nostra discussione? La realtà non sempre ci appare per quello che è. I numeri sono solo numeri.
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Ghino Mori
E se fossimo solo apparenza?
La volontà di apparire non va mitizzata - la cosa che si manifesta direttamente ai gelo Mosca: la moglie Dida gli fa osservacome avviene oggi nel mondo dei social e dei selfie - ma neppure esecrata. La psicologia e la psichiatria degli ultimi decenni hanno sviluppato un occhio teorico più benevolo nei confronti della tendenza un po’ vanitosa e narcisistica a mettersi in mostra. Anche la vanità che richiede attenzione è uno dei mille sentieri attraverso i quali la personalità cerca di strutturarsi, differenziandosi pian piano dalla dipendenza verso il contesto e il mondo delle tradizioni culturali dei padri. L’omologazione culturale non sempre è positiva, specie quando, come nel tribunale di Norimberga, a fronte di massacri, genocidi e milioni di morti, ci si sente rispondere: “ho obbedito agli ordini”. Forse sarebbe stato meglio disobbedire e farsi un selfie! L’apparire è una comunicazione del proprio esistere, come il vagito del bambino appena nato. È probabile che l’apparire delle cose, senza che noi ne cogliamo l’essere più profondo, sia inevitabile e connaturato non solo alla vita umana ma alla Vita tout-court. È possibile infatti cogliere l’essenza più intima del mondo e degli esseri umani che ci circondano? È possibile far cogliere agli altri la nostra vera essenza? A detta dei primi pensatori greci sembrerebbe proprio di no. Ai primordi delle elaborazioni filosofiche già si faceva distinzione tra il fenomeno, cioè 64
sensi come dato dell’osservazione empirica (Aristotele), o come modo di essere delle cose sensibili nei confronti delle essenze ideali (Platone); e il noumeno, vale a dire quell’essenza ideale che non cade nel dominio dell’apparenza visibile e tangibile, e che può essere acquisita solo con le facoltà più alte della razionalità. Questa distinzione ha attraversato tutta la storia del pensiero occidentale, tanto che il filosofo irlandese Berkeley (1685-1753), con la sua celebre frase “esse est percipi”, affermava l’immaterialismo, nel senso che le cose che ci sembrano materiali e concrete non hanno realtà alcuna al di fuori del loro essere da noi percepite. Le percezioni sono nel soggetto che le percepisce, non al di fuori in un ipotetico mondo materiale. La fisica quantistica del XX secolo ha dato una mano a questa speculazione filosofica, con la costatazione che le cose che vediamo e tocchiamo e che ci sembrano compatte, sono costituite - detto in modo pedestre da un non fisico - da spazi per gran parte vuoti. Con tragica angoscia, che trasmette pari pari al lettore, Pirandello applicò questa visione ai rapporti umani in uno dei suoi romanzi più famosi, Uno, nessuno e centomila. La trama ha inizio da un insignificante dettaglio che riguarda appunto il modo di apparire agli altri del protagonista Vitan-
re che il naso gli penderebbe leggermente verso destra. Da ciò prende le mosse tutta la successiva condotta di Vitangelo, il quale, con scelte di vita e comportamenti per lui inusuali, cerca di modificare l’opinione che la moglie e le persone hanno di lui. Sorge così nel protagonista la consapevolezza che ciò che egli crede di essere non è quello che la gente pensa. La sua identità è travisata e ognuno ne ha un’opinione diversa. Alcuni difetti che lui stesso ignorava erano invece familiari a chi gli stava intorno. Quindi si rende conto di non essere più lui, ma un altro, anzi, uno per ogni persona che incontra e per ogni azione che compie. Che ci si voglia mostrare o meno, pare che nelle nostre relazioni umane siamo comunque destinati ad un eterno apparire, senza la possibilità di comunicare all’altro un briciolo della nostra “vera” interiorità - ammesso che ne siamo consapevoli! Un mio conoscente di sicura fede cattolica, con cui per anni mi sono intrattenuto di tanto in tanto a discutere di paranormale, esoterismo e mondi ultraterreni - nei quali, tra l’altro, io credo! -, un giorno che si parlava di simili argomenti ebbe a dirmi: “ma tu non sei ateo?”. Ecco! Io potrei sforzarmi, come Vitangelo Mosca, di apparire a questo signore in un modo, in nessun modo o in centomila modi differenti, ma
per lui, cattolico praticante, il mio modo di pensare non è inquadrabile nei suoi modelli confessionali… quindi sono “ateo”! E a proposito di paranormale, una delle occasioni più interessanti per comprendere la differenza tra il mondo materiale che appare, e la dimensione delle forme e degli archetipi della psiche non percepibili dai sensi, è costituita dalle materializzazioni che avvengono in certe sedute medianiche. L’oggetto materializzato - chi fosse interessato a simili argomenti stia però attento ai trucchi da baraccone! - raffigura una forma ideale, un’idea, che sul piano della materia non è visibile, ma, con il tramite della forza energetica del medium, riesce a mostrarsi agli occhi dei presenti rivestendosi di sostanza materiale. Breve nota personale: non mi sforzo minimamente di persuadere gli scettici circa la verità di quanto appena affermato, convinto come sono che in simili realtà la coscienza moderna, giustamente imbevuta di criteri scientifici, non si accontenta di prestar fede alle altrui narrazioni. E allora - lo dico a chi ne fosse incuriosito - siate scientifici! Occorre farne esperienza di persona, ricercare, indagare, investigare, come si fa per qualunque oggetto di studio della ricerca. Provare… per credere!
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Maria Antonietta Falanga
Il castello di Monteserico
Esistono luoghi dove si può imparare ad ascoltare il rumore del silenzio, dove la natura offre spetta-
coli di luce suggestivi a seconda delle stagioni e dove è ancora possibile udire la voce del vento. Uno di questi luoghi si trova a 15 km da Genzano di Lucania, su un rilievo roccioso dove sorge il Castello di Monteserico, rude e solitario maniero da tempo dichiarato monumento nazionale. Lì vi è una pace ed una quiete che solo i falchi e gli stormi di uccelli riescono a rompere. Il castello si staglia solitario sulla cima di una montagna e rappresenta un interessante esempio di architettura medievale in Basilicata. Edificato nell’ XI secolo, il castello domina un vasto territorio collinare, in posizione strategica lungo importanti direttrici viarie, originariamente coperto da ampie zone boschive e al confine tra i territori bizantini della media e bassa valle del Bradano. Oggi si notano, lungo la strada sterrata che porta al castello, una moltitudine di case concesse dopo la riforma agraria ai latifondisti, vuote e spettrali, la maggior parte decadute e distrutte dal tempo e dall’incuria dell’uomo. Il maniero nasce sotto i Normanni come baluardo difensivo dell’abitato, nella fase in cui l’incremento demografico e l’espansione urbana del borgo circostante rendono necessario l’ampliamento della cinta muraria difensiva del fortificato. Nella prima metà del XIII sec. perde la sua connotazione strettamente militare per assumere la dimensione di ”Domus”, prevalentemente legata allo sfruttamento delle risorse agricole del ricco territorio antistante, diventando uno dei capisaldi della struttura amministrativa del Demanio Regio di Federico II (1230), organizzato per l’allevamento dei cavalli e la produzione di granaglie. Tale modello viene successivamente adottato anche dagli Angioini e poi, ulteriormente potenziato, dagli Aragonesi nel 1500. Fu Aquilina Sancia, feudataria spagnola, moglie di Arnao del Bosco, cavaliere catalano, eletta poi signora di Monteserico, a prendere a cuore il piccolo borgo e portarlo al suo massimo splendore, tanto da fondare poi, all’interno della città di Genzano, il monastero delle Clarisse dove ella stessa soggiornò dopo la morte del marito. Il paesino ebbe una notevole importanza in quegli anni. La stessa Aquilina nel suo testamento mostrò un forte attaccamento a queste terre e al territorio di Genzano. Nel frattempo la continua estensione delle zone destinate al pascolo e alla semina, a scapito delle aree boschive e dei territori che garantivano le risorse essenziali per la sopravvivenza della popolazione, aveva determinato il graduale spopolamento dell’abitato fino alla sua totale scomparsa intorno al 1430. Dell’antico borgo rimane oggi solamente la piccola chiesetta, poco distante dal castello, dedicata alla Madonna. Il castello di Monteserico appartenne nei secoli successivi a diversi nobili signori locali. Dal XVII alla fine del XVIII sec. fu proprietà del genovese Grimaldi dei Doria e di alcuni discendenti della famiglia Sancia. Rimase abbandonato, quindi, per più di mezzo secolo, finché nel 1857 non venne acquistato da baroni locali, i dell’Agli-Cetti, quando però già era diventato un luogo inabitabile. La struttura del castello si presenta formata da una torre quadrangolare centrale, che conserva le testimonianze architettoniche più antiche della dimora, e da un recinto più basso sorretto da barbacani. La massiccia torre centrale si sviluppa su tre livelli, di cui uno interrato, costituito da una cisterna che serviva per la raccolta delle acque piovane. Al maniero si accede tramite una rampa pavimentata con acciottolato. Superato il portale di ingresso, si entra in una
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corte quadrata che separa il mastio dalla massa esterna che lo recinge. In origine l’ingresso era collocato esattamente al lato opposto a quello attuale, aperto solo in epoca recente ( XIX sec.), ed era costituito da un portone ogivale con cornici in pietra. La pianta del piano terra è divisa in due parti con un arco che sostiene una volta a botte a sesto acuto. Ai due piani superiori si accede mediante una scala a chiocciola. Già in condizioni di totale incuria e abbandono, nel 1969 il castello subì il crollo dell’ala nord e il cedimento del perimetro murario di alcuni locali interni. Con il terremoto del 1980 l’edificio venne ulteriormente compromesso. Nel 1989 venne acquistato dal Comune di Genzano di Lucania e venne realizzato un progetto di recupero, redatto dalla Soprindendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Basilicata, per la sua messa in uso. Tale progetto prevedeva il restauro e il recupero funzionale del castello per la valorizzazione turistica delle risorse storico-culturali, per il completamento del sistema dei castelli della Basilicata. Come accade per ogni castello, anche intorno a quello di Monteserico girano nu68
merose leggende: si racconta che nel 1897 il popolo di Genzano, in seguito ad un sogno fatto da un vecchio asceta, si riversò in massa sotto la fortezza dove tutti si misero a scavare sul fianco settentrionale in cerca della Madonna sognata dal vecchio, arrecando non pochi danni alla struttura. Altre notizie certe riguardano il soggiorno dell’attrice Lydia Borelli, una delle principali icone del cinema muto italiano e internazionale all’indomani della prima guerra mondiale. La permanenza di questa giovane attrice ha lasciato un segno e un ricordo indelebile che si perpetua e si tramanda nella memoria orale degli abitanti di tutta la zona: una donna bellissima che camminava nuda fra le alte spighe del grano bagnato di rugiada. Ad oggi il castello è aperto al pubblico e negli ambienti della fortezza sono allestite mostre tematiche che illustrano la storia dell’edificio e i lavori di restauro eseguiti.
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LUCANIA INVENIENDA
Maria Dolores Chirico
La fiaba nuova
Il castello di Brindisi di Montagna torna al suo splendore
Quando si parla di Brindisi di Montagna, piccolo paese lucano il cui nucleo
originario sembra risalire al III secolo a. C., immediatamente il pensiero corre ad uno dei più grandi attrattori del nostro Mezzogiorno: “La storia bandita”, spettacolo multimediale che, tra verità e leggenda, narra la storia di Carmine Crocco, ambientandola nel suggestivo parco della Grancia, nello scenario naturale di un antico e fitto bosco. Non a tutti, però, è noto che più ancora forse del cinespettacolo, la grande attrazione del piccolo borgo è da sempre l’antico castello medioevale che troneggia sulla rocca alle cui pendici si sviluppa l’abitato. A chi percorre la superstrada Basentana esso appare maestoso e fiero ai confini del cielo. Il brindisino Andrea Pisani, nel suo libro “Dall’Albania a Brindisi di Montagna all’Italia”, edito intorno agli anni 30 del ‘900 e riprodotto in ristampa anastatica nel 1989, così ce lo descrive: “Il castello è l’edifizio più antico. Le linee generali e la struttura compatta e massiccia dei muri di piccole pietre calcaree, l’assenza di stucchi, capitelli e cornici, la figura tozza e quadrangolare senza torrioni, cortine e merli, la forma delle finestre, piccole rispetto a tutta la mole, non accompagnate da verande o loggiate, con una torre isolata, che snella sfida dal vertice del picco il precipizio e i secoli: tutto ciò ricorda non una fortezza militare vera e propria, ma un’abitazione medioevale dei primi tempi, di ritiro e di raccoglimento. Si vorrebbe far risalire la costruzione al IV secolo dell’era volgare, ai tempi, cioè, di decadenza dell’impero romano; ma anche se debba riferirsi a qualche secolo dopo, lo stile e la maniera non si allontanerebbero di molto, e sarebbe più accettabile la prima ipotesi che ci rimanda col pensiero alle orde assalitrici di Arabi e Saraceni, che risalivano dal golfo di Taranto lungo la vallata del Basento, ed alla necessità di trovar riparo e difesa sulle creste dei monti e nel folto dei boschi: necessità di salvezza che determinò la formazione in luoghi inaccessibili di molti paesi lucani; mentre la minaccia, lo spavento e la fretta di certo non avrebbero potuto favorire lo studio e l’arte accurata di architettura. Doveva a quei tempi aver la rupe un aspetto assai più selvaggio, circondata sino in cima da fitte boscaglie, specialmente sul lato orientale. E il casamento fu dall’epoca delle signorie, da Carlo Magno, un luogo di convegno dei coloni che, tenuti sparsi nei dintorni, s’incontravano in esso per compiere atti di omaggio, di sottomissione e per pagare decime e terraggiere. I Coronei, accingendosi alla fondazione del paese, trovarono nel castello una panetteria: un posto, cioè, di rifornimento di pane e di altri viveri. La torretta, alta. m. 7,50 e altrettanto profonda, con una fossa scavata nel macigno, con due feritoie che alla fossa danno luce ed aria, dovè servire d’isolamento e di prigione, e spesso di patibolo per i depredatori, i ribelli e coloro che cadevano in disgrazia dei signori; e quelli che vi trovavano la morte del Conte Ugolino, venivano poi gettati dalla rupe in pasto alle volpi ed ai corvi: su ciò
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molto si sbizzarriva la fantasia popolare. La torre fu dai duchi Anteriori convertita in una chiesetta e dedicata a S. Michele, il santo prediletto dei Longobardi, che lo avevano dipinto nei vessilli e inciso nelle monete: fu convertita forse per cancellare le torture e le ingiustizie: forse per dar sede all’Arcangelo nel punto più elevato del paese, più vicino al cielo, simboleggiando l’elevazione a Dio: come in ogni tempo sulle vette più eccelse dei monti è stata simboleggiata la divinità nell’erezione dei santuari”. In realtà il primo documento attestante l’esistenza del castello brindisino, gli “Statuta Officiorum” emanati da Federico II, risale al 1240; da esso veniamo a conoscenza del fatto che il castrum Brundusii de Montana era uno dei numerosi castelli che costituivano la rete di controllo e il sistema difensivo su tutto il territorio che gli Altavilla avevano trasmesso in eredità all’imperatore. Va sottolineato che la piccola fortezza, pur signoreggiando dalla sua altezza l’intera valle del Basento, si avvaleva della vicinanza del fiume ( all’epoca almeno in parte navigabile) e dei numerosi tratturi tracciati lungo le sue sponde, i quali erano fondamentali per mettere in comunicazione tra loro le aree interne della Basilicata e i castelli che le presiedevano lungo quelli che erano itinerari frequentati dalle truppe imperiali. Nel corso dei secoli il castello ebbe sorti alterne più o meno fortunate; si sa oggi, in particolare grazie agli studi di F. Bruno e G. Magri, che non fu toccato, come si era creduto in passato, dal terremoto del 1456; tuttavia insieme al borgo esso cadde in abbandono fino a quando, nel 1536, il paese stesso ritrovò nuova vita grazie all’arrivo di una colonia di profughi provenienti dalla città albanese di Corona. Più o meno contestualmente, però, il castello si trasformò da fortezza in residenza a disposizione dei vari feudatari, dai Sanseverino ai Fittipaldi, passando per altre nobili famiglie quali quelle dei D’Erario, degli Antinori e dei Battaglia. Appare notizia certa, invece, una distruzione del maniero conseguente al terremoto del 1694. In ogni caso, le diverse vicende che lo avevano coinvolto, avevano tuttavia consentito al castello di Brindisi di giungere ancora in un discreto stato di conservazione quasi fino ai giorni nostri. Intorno agli anni 50 del ‘900, infatti, ancora si potevano ammirare nella loro interezza le strutture fondamentali e addirittura parte degli infissi. L’incuria e il vandalismo dell’ignoranza successivamente lo depredarono, facendolo diventare un rudere. Oggi, però, il castello è rinato a nuova vita e di nuovo può essere ammirato in tutta la sua maestosa e rude bellezza. È quasi completamente stato portato a termine, infatti, un recente restauro dell’intera struttura, il quale ha recuperato e restituito alla fruizione i vari ambienti dell’antico castrum, mettendone in luce le stratificazioni risalenti ad epoche diverse. Il borgo sembra oggi aver ritrovato il suo “signore”, tanto è affascinante la presenza vivificata del castello affacciato da un lato sulla rocca a picco e dall’altro sull’abitato ancora oggi sede di una attiva comunità. Completato del tutto il recupero anche della parte esterna (recupero che prevede la sistemazione dell’ampio piazzale nonché la costruzione di un anfiteatro), il castello di Brindisi di Montagna, come nelle intenzioni dell’ amministrazione comunale,è destinato a diventare location deputata ad ospitare eventi culturali ed artistici, nonché sede di una biblioteca specialistica. 73
Sara Liuzzi
A Taranto un nuovo spazio per l’Arte Ex-Convento dei Padri Olivetani (sec. XIII)
A Taranto nasce il CRAC Puglia, Centro di Ricerca Arte Contemporanea, un nuovo spazio espositivo dedicato alla ricerca e alla progettazione dei linguaggi del contemporaneo, nonché sede del “PIANO EFFE” (Archivio Storico Nazionale del Progetto d’Artista). Questo spazio viene istituito, per iniziativa della storica Fondazione Rocco Spani onlus, ente giuridico riconosciuto, operante da oltre trent’anni nel campo della ricerca e della didattica artistica a favore di minori a rischio di devianza. La sede del CRAC Puglia è ubicata nel centro storico di Taranto, nell’ex Convento dei Padri Olivetani (sec. XIII), ospita già la collezione dell’Archivio Storico Nazionale del Progetto d’Artista (disegni, studi preparatori e progetti di autori storicizzati, da Alviani a Beuys, da Carrino a Spagnulo, da Mainolfi a Munari, da Pascali a Sordini, ecc.), avviata nel 2015 grazie al patrocinio e al sostegno dell’Assessorato Industria Turistica
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e Culturale della Regione Puglia, e rappresenta l’avvio di un piano di documentazione sull’arte, focalizzato soprattutto sugli strumenti metodologici del disegno, dello studio preparatorio e della pianificazione di teorie e prassi del linguaggio artistico. Una ricerca che si apre sia al progetto che al processo, al di là del prodotto finito. Negli spazi del CRAC sono state già ospitate mostre temporanee, talk, workshop, videoproiezioni, azioni performative e laboratori di didattica artistica. Il CRAC, presieduto da Giulio De Mitri, artista rigoroso e raffinato intellettuale, si avvale della direzione artistica del critico Roberto Lacarbonara. Ricordiamo i recenti eventi: “Lungo le acque del Bidente”, a cura di Renato Barilli; “Giuseppe Spagnulo. Ritorno a Taranto” a cura di Aldo Iori e Bruno Corà; “Tracce su carta. Aspetti del disegno italiano contemporaneo (1948-2000)”. A cura di Massimo Bignardi.
I LUOGHI DELL’ARTE
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Santino
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Piero D’Alaimo
Ariose carte su cui sembrano apparire fantasmi della memoria o di storie immaginarie,piccole e preziose tavolette (frammenti lignei in compensato, stucchi e trattatti con colori ad olio,con bitume, incisioni collage di carte da imballaggio e carta velina bianca o avorio ),parallelepipedi che tridimensionalizzano lo spazio della pittura per dar vita a storie circolari, laterali,spigolose. il suo è un cosmo che si rivolge alla storia di qualcosa che non ha confine,alla storia delle idee suggerirebbe Foucault, quella degli aspetti secondari e marginali,delle conoscenze imperfette (dell’alchimia,della frenologia,dei temi atomistici), “delle filosofie umbratili che ingombrano “e vivacizzano “le letterature, l’arte,le scienze,il diritto,la morale e perfino la vita quotidiana degli uomini; storia di quelle tematiche secolari che non si sono mai cristallizzate in un sistema rigoroso e individuale,ma hanno formato la filosofia spontanea di quelli che non fanno filosofia “ (Foucault )
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Tatanto Corso Vittorio Emanuele II, 17 ex Convento Padri Olivetani 78