Sineresi n.0

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DA TUCCIO

PUBBLICITA’ D’AUTORE

Lia scese dall’auto sbattendo lo sportello; urlò un addio incomprensibile e tremendo contro il gesto di Bruno proteso per trattenerla. Urlò di nuovo. Lo sguardo di lui si irrigidì dentro quell’auto scura, inutile corazza in una guerra iniziata appena, forse già persa. Così lui si lasciò divorare dalla curva che in fondo alla discesa stringeva il collo della sera con un umore ibrido d’amore. Lei si guardò intorno maledicendo l’ora, i tacchi alti e la salita troppo ripida verso il paese; il quartiere già assonnato l’avrebbe lasciata lì, indifferente, se un’insegna ricurva, quasi un sorriso inverso, non l’avesse chiamata a sé da una palazzina spoglia, col giallo caloroso di una luce che la riportò per un istante nell’androne di casa con tutti i giochi sparpagliati di bambina. “Ristorante da Tuccio” c’era scritto. Lia vi si avviò come verso un miraggio, strofinando quasi furtivamente il polpastrello dell’indice sotto gli occhi per ripulirsi del rimmel colato. Entrò concentrando il pensiero su se stessa, evitando di incrociare sguardi quasi a volersi rendere invisibile, e forse ci riuscì; nessuno la fermò, infatti, nessuno le chiese nulla. Lei avanzò nella sala e andò a schiacciarsi contro il fogliame bicolore del parato al tavolo più in fondo dove la penombra si accendeva appena di un mazzo di papaveri in un quadro eterno e immobile e inodore. Lia osservava tutto come dallo spazio lontanissimo; sentiva gli aromi acuti o dolciastri della cucina, lo sfrigolio delle padelle, l’acciottolio dei piatti in un andirivieni di camerieri che ella percepiva ovattato e lento come in una moviola, come se l’esistenza avesse perso smalto e forza e giri sulla discesa fuori, circa mezz’ora prima. In mezzo alla sala il proprietario – lo sguardo vivo di chi decide per sé a dispetto del mondo- parlava a cenni, sorrideva con pudore quasi, ogni suo gesto sembrava svolgersi e riavvolgersi nella stessa moviola in cui Lia cercava di ritrovare un senso a quella sera. Sulla tovaglia damascata continuava meccanicamente a sbriciolare il pane nell’attesa attonita di un pasto, uno qualsiasi, ordinato con un distratto dondolio del capo ad una ragazza gentile che le sciorinava una lista. Restò così un’ora, forse due, forse pochi minuti o un secolo intero, guardando la gente, i tavoli, le lampade, i quadri come un paesaggio fugace dal finestrino di un treno. Bruno la ritrovò lì, ancora stretta nella sua giacca nera, a contemplare nel piatto il rosso lucente dei cruschi come un boccone di cuore da ridividere in due. Racconto di Anna R. G. Rivelli


SINERESI

Trimestrale edito dall’associazione PAN - Centro di produzione culturale Via Flavio Gioia, 1 - Brindisi di Montagna (Pz) Tel. 342 32 51 054 e-mail: sineresi.sineresi@yahoo.com N.0 in attesa di registrazione al Tribunale Direttore Anna R. G. Rivelli Collaboratori Luca Caricato - Sara Errico - Fiorella Fiore Cristiana Elena Iannelli - Loredana Paolicelli Giuseppe Passavanti - Rocco Romanelli Mara Sabia - Angela Maria Salvatore Responsabile editoriale Giovanni Cafarelli Copertina Salvatore Comminiello Impaginaizone e Stampa Vincenzo Cristiano Hanno collaborato a questo numero Associazione Ce.R.M. - Francesco Caputo Dario Carmentano - Sara Errico -Marco Falciano - Giulio Ferroni - Fiorella Fiore - Cristiana Elena Iannelli - Davide Leone - Roberto Moliterni - Loredana Paolicelli - Giuseppe Passavanti - Anna R. G. Rivelli - Rocco Romanelli Mara Sabia - Angela Maria Salvatore - Francesco Vaccaro Prezzo di una copia + inserto € 10,00 Abbonamento solo sostenitori € 50,00 Estero € 70,00

SOMMARIO La ragione di un viaggio Basilicata Contemporanea............................. Scultura lucana contemporanea.................... Dario Carmentano: Vox Populi...................... Semplice come un temporale Salvatore Comminiello.................................... Da arte pubblica ad arte per il pubblico...... Un progetto innaturale: Donato Faruolo...... Il gioco serissimo della vita La scaltra innocenza di Franco Valente......... Roco Falciano: dall’utopia collettiva al nuovo fronte della morale e della poesia............ Castronuovo Sant’Andrea: una nuova identità lucana con il museo internazionale della grafica.............................................................. I luoghi della pittrice Maria Padula: un progetto di valorizzazione territoriale a Montemurro................................................................ Quale parte è la nostra L’urlo per il Sud di Vittorio Bodoni................ Rocco Scotellaro invito alle odorose vie del cuore................................................................ Vito Riviello: “Tutto ciò che ho perso me lo ritrovo in versi”................................................ Quel posto chiaro che in ognuno di noi esiste “L’infinito, a volte” di Ghino Mori............ La guerra delle zanzare................................... Il tempo di una tela......................................... L’arte impermanente: la musica..................... L’organo di Trivigno........................................ Il museo del carnevale di Montescaglioso... Basilicata, i paesi del Cinema........................

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La ragione di un viaggio

Si Parte? Si parte. E perché si parte? “I veri viaggiatori –scriveva Baudelaire – partono per partire e basta” E noi vogliamo essere veri viaggiatori ed incamminarci per avere occhi nuovi sul mondo e idiomi diversi per poterlo raccontare. Ed è ineluttabile che ci si muova da qui, dalla Basilicata, per noi terra del destino, del dilemma e della caparbia decisione. Essere lucani è un dono e una scommessa, una scommessa da fare puntando sulla scoperta, sulla tradizione, sulle emergenze culturali e su un’identità forte ma aggregata in un Sud stanco della sua maschera dolente e deciso finalmente ad essere e ad esserci. La cultura è il sangue di ogni luogo, la sua circolazione è vita. È questa la ragione del nostro viaggio: muoversi, spostarsi, ricercare, condividere… essere Lucani ma non solo, Meridionali, ma anche Italiani, anche Europei, Cosmopoliti, per poter restituire a questa terra una lucanità che non debba essere una patente da esibire a controllo, ma un colore, una luce, un tratto che nell’ampiezza del quadro sappiano esserne cifra. Partiamo. Con una gioventù consapevole e gelosa delle proprie radici, ma decisa a non restare assopita nel passato. Questo è solo il primo passo; ma ogni viaggio, per quanto lungo o arduo possa essere, comincia sempre con un primo passo. Anna R. G. Rivelli


Basilicata Contemporanea di Fiorella Fiore

In una lettera del maggio 1957, indirizzata a Maria Padula e Giuseppe Antonello Leone e utilizzata come presentazione al catalogo della mostra Pittori lucani presso la Galleria del Ponte, a Napoli, Carlo Levi scrive: “Si può sperare di trovare, accostandoli, qualcosa di comune fra i pittori di questa terra; e non soltanto il fatto che essi vi siano nati o vissuti o che i suoi paesaggi e le sue persone siano argomento dei loro quadri. Se questo fosse, se un qualche modo profondo dell’espressione, malgrado le differenze di formazione, di esperienza, di valore e di stile, potesse scoprirsi comune almeno di alcuni di questi artisti; se cioé il rapporto di questi pittori con la loro terra si ritrovasse essere un rapporto reale, legato alla sua storia e alla sua esistenza, ciò, credo, sarebbe cosa non priva di importanza. Una tradizione pittorica lucana, infatti, non è mai finora esistita; come, del resto, può sembrare naturale, in un mondo dove è sempre prevalsa una civiltà contadina”. Nelle parole di Carlo Levi si coglie lo spirito di un tempo, a lui contemporaneo, ma in realtà perdurato a lungo, che riconduceva ogni espressione artistica ad una rappresentazione “socio/antropologica” della civiltà rurale e contadina, sebbene con risultati encomiabili: Michele Giocoli, Italo Squitieri, Luigi Guerricchio, Pasquale Santoro, Mauro Masi, Ninì Ranaldi, Rocco Falciano, Gerardo Corrado, Marino di Teana, sono solo alcuni dei nomi protagonisti di questo sentire. Ma è altrettanto vero che vi erano, e questo già dal tardo Ottocento, altri artisti che si erano allontanati da quel contesto, raccogliendo consensi nazionali ed internazionali: parliamo di Michele Tedesco, Andrea Petroni, Piero Tozzi, Angelo Brando. Ebbene, si può dire che da quel 1957, la sfida più importante per l’arte contemporanea lucana è stata quella prendere consapevolezza della propria storia, cercando di unire i diversi filoni espressivi per recuperare non propriamente una “scuola” di pittura lucana (come si può, d’altra parte, parlare di Scuola dal momento in cui sono mancati e continuano a mancare luoghi fondamentali come le Accademie?) quanto quella che può essere chiamata una “visione” d’insieme. Una sfida che ancora non può dirsi vinta ma che vede, negli ultimi anni, una

Bianco-Valente, opera per “Arte in Transito” - Potenza

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progressiva evoluzione che può riassumersi in una sorta di “resoconto”, fatto da nomi ed esperienze nate sul territorio e in cui gli artisti, pur differenziandosi nei termini propri dello stile e della poetica (sia essa vicina ai temi di quella che la Transavanguardia definì “pittura-pittura” o di un colto figurativismo), hanno trovato un punto di aggregazione. Giovanni Cafarelli, Giacinto Cerone, Pasquale Ciliento, Salvatore Comminiello, Gerardo Cosenza, Rocco Aristide Guarino, Luigi Lapentina, Donato Linzalata, Felice Lovisco, Antonio Masini, Arcangelo Moles, Marco Santoro, sul versante potentino; Dario Carmentano, Giovanni Dell’Acqua, Franco Di Pede, Giuseppe Filardi, Nicola Filazzola, Giulio Orioli, Salvatore Sebaste, su quello materano, sono alcuni dei nomi protagonisti della scena lucana degli ultimi quarant’anni. Artisti che sulla base della loro attività, sia individuale che corale, hanno permesso un’evoluzione della domanda e dell’offerta dell’opera d’arte, in grado di porre le basi per lo sviluppo di luoghi anche istituzionali della cultura. Talune esperienze aggregative degli anni Ottanta, infatti, come il Circolo Culturale La Scaletta, a Matera, o il Collettivo Arti Visive Quinta Generazione, a Potenza, sono stati un fertile humus per la nascita o ri-nascita di luoghi come Palazzo Lanfranchi e il Musma, Museo della Scultura Contemporanea, a Matera, o la Pinacoteca Provinciale a Potenza; a questi, negli ultimi anni, si sono affiancati realtà d’eccellenza anche in provincia, come il MIG, Museo Internazionale della Grafica a Castronuovo Sant’Andrea e laboratori creativi (non ancora del tutto avviati) come quelli del progetto Visioni Urbane o del più affermato Arte Pollino. Un contesto variegato, in veloce e continua espansione, che proprio per questi motivi resta difficile da storicizzare, anche a causa di una dispersiva bibliografia di testi, che vede nel catalogo nato in seno all’esperienza del Padiglione Lucano della Biennale del 2011, un primo punto di riferimento. L’assenza di accademie, il fatto di trovarsi in una terra “alla periferia dell’impero”, porta poi moltissimi giovani artisti non solo a studiare fuori dalla Regione, ma anche a rimanervi, perdendo quindi coscienza e conoscenza dell’arte lucana più recente. Una

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nuova frattura difficile da sanare in questo “tentativo” di ricostruzione di una Storia dell’Arte Contemporanea lucana. Uno studio, però, che negli anni fornirà sicuramente preziosi strumenti per una ricognizione dei temi dei quali stiamo parlando è Index, a cura della Fondazione Southeritage per l’Arte contemporanea, con sede a Matera che, tramite la collaborazione di una rosa di curatori, porta avanti una “mappatura” dei giovani artisti lucani. Su queste premesse, quali sono gli scenari futuri? La Basilicata guarda a Matera e al 2019, anno in cui la città dei Sassi diverrà Capitale Europea della Cultura: l’affermazione di luoghi istituzionali come laboratori di idee e progettualità, come Palazzo Lanfranchi a Matera, il consolidamento di progetti spesso avviati con risultati eccellenti ma poi abbandonati a sé stessi dalle istituzioni (l’esperienza potentina di “Arte in Transito” è in questo senso paradigmatica), la creazione di una rete dell’arte affidata a quelle professionalità del settore che, dopo la diaspora degli ultimi anni, guarda con rinnovato interesse alla Lucania, sono alcune delle strade percorribili affinchè non solo si affermi quella consapevolezza della quale parlava Carlo Levi, ma con e grazie ad essa, si realizzi anche un nuovo “rinascimento” dell’arte lucana, in grado di portare la Regione ad un ruolo centrale nei contesti nazionali e - perché no? - internazionali della contemporaneità.

Palazzo Loffredo Cappella dei Celestini, Potenza Galleria Civica di Palazzo Loffredo, Potenza Musma, Matera L’ingresso di Palazzo Lanfranchi con “La Goccia” di Kengiro Azuma Matera

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Scultura Lucana Contemporanea 1950 - 2014 di Angela Salvatore

Nel complesso della Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci a Matera,una panoramica dedicata agli scultori lucani contemporanei.Un percorso espositivo di opere di artisti originari della Basilicata che hanno operato in regione e al di fuori si essa. Artisti che hanno lasciato un segno e dato un contributo personale in termini di creatività alla scultura contemporanea nazionale e internazionale. La mostra,organizzata dal Circolo culturale La Scaletta, ha fatto registrare un grande successo di critica e di pubblico. Ci piace ricordare come il Circolo Culturale La Scaletta abbia sempre occupato un ruolo importante nell’ideazione e promozione di attività nei rioni Sassi, legando il proprio nome all’allestimento delle grandi mostre. Antonio Paradiso - L’ultima cena Franco Di Pede - L’orante Donato l’inzalata - Prima Porta

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“Nessuno scultore o pittore è infatti in grado di raffigurare il pensiero e la saggezza in sé, perché nessun uomo è in grado di attingere a cose come quelle con gli occhi o per mezzo dell’ispezione”: chiare e convincenti sono le affermazioni dello scultore greco di età periclea Fidia. Parlare oggi di scultura contemporanea non può prescindere dal rimando a un senso di antico che permea in maniera trasversale pensiero, arte e territori. Le grandi mostre nei Sassi di Matera, sin dai primordi, sono intrise di magia, di voluta ed efficace fusione tra arte e ambiente nel tentativo di dare forma concreta ed estrinseca sia all’humus di un luogo che all’estro di chi lo plasma. Il suggestivo scenario di Matera si presta bene a diventare cornice di opere di artisti italiani

e stranieri, poiché capace di accogliere stimoli dall’esterno e di emanare influssi dall’interno. Il fuori e il dentro non collimano ma tendono insieme a raffigurare l’io in un continuum spazio temporale. La miriade di esperimenti artistici nel materano è l’emblema delle infinite manifestazioni dell’arte in epoche di trasformazione e cambiamento degli uomini e della società. A Matera, a partire dagli anni ‘50, varie sono le figure che irrompono nel panorama artistico lucano: i fratelli Andrea e Pietro Cascella con l’arredo ceramico della chiesa di Ludovico Quaroni al borgo la Martella, e Pietro Consagra con le undici sculture denominate “i ferri di Matera”. La fortuna delle esposizioni diventa lo spunto per la nascita di un appuntamento annuale con la scultura contemporanea. Il

Circolo La Scaletta, storico centro propulsore di cultura, assume un ruolo di primo piano a riguardo. Nel 1987, infatti, si sviluppa un’intima e vivace connessione tra uno dei più elaborati esempi di architettura scavata nella roccia e la scultura contemporanea. Il complesso rupestre della Madonna delle Virtù e di San Nicola dei Greci ospita le opere di scultura di artisti contemporanei. Il territorio lucano diventa la culla di importanti appuntamenti annuali che suscitano grande interesse di pubblico e manifestano con vigore il potenziale storico, artistico e antropologico che giace nelle viscere del sottosuolo e ogni volta ispira tutto il resto. La ventisettesima edizione delle grandi mostre nei Sassi, svoltasi dal 15 giugno al 18 ottobre 2014, si carica di una valen-

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za particolare alla luce del significativo e meritato riconoscimento di Matera come Capitale Europea della Cultura nel 2019. Interamente dedicata alle opere di dodici artisti lucani, la collettiva è indice di un lungo percorso culturale che culmina in una vittoria non episodica e circoscritta hic et nunc, ma frutto di lungimiranti intuizioni. La Basilicata ritorna a essere il perno di una produzione artistica matura e versatile in forme e contenuti. Donato Rizzi, Dario Carmentano, Franco Di Pede, Donato Linzalata, Francesco Marino di Teana, Pier Francesco Mastroberti, Rocco Molinari, Giulio Orioli, Antonio Paradiso, Domenico Viggiano, Salvatore Sebaste e Margherita Serra espongono le loro opere intrise dei colori e dei pensieri di una Lucania mai dimenticata ma rappresentata in tutti suoi anfratti. Donato Rizzi, fine studioso di ebraismo, nell’alternanza tra pittura e scultura osserva e coglie i tratti comuni a tutte le culture. La naturalezza delle opere riflette una profonda energia comunicativa che trova la sua massima esemplificazione nell’Autoritratto. Dario Carmentano, invece, si manifesta diviso tra passato e presente. I Sassi, passati da vergogna nazionale a patrimonio Unesco, sono il modello di una realtà italiana che preserva le sue bellezze nelle “cavità delle grotte” ed è in grado di reagire all’aberrante globalizzazione del linguaggio. Franco Di Pede fonde in maniera mirabi-

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le antichità e attualità, sviluppando così opere dai tratti essenziali ma intrise del sincretismo culturale del territorio lucano. Donato Linzalata narra storie e memorie di origini diverse attraverso la forma – totem. Scultura e architettura risultano intimamente unite e protese verso l’alto. Francesco Marino di Teana crea sculture monumentali di rimando a un senso di stabilità e forma nello spazio. Alla solidità delle forme, tuttavia, si affianca il movimento del pensiero e la leggerezza delle idee che generano il moto artistico. In Pier Francesco Mastroberti armoniose figure di ballerine, cavalli e pulcinella convivono con elementi religiosi. L’opera poliedrica dell’artista si snoda tra sacro, profano e mitologico. Tecnica e materia sono modulate secondo la mutevole ispirazione dell’autore. Rocco Molinari accorpa elementi diversi nel tentativo di co-

niugare culture solo in apparenza distanti. Riti popolari, divinità e forme dell’ellenismo sono declinate attraverso i materiali più disparati: dal marmo, al tufo, al legno, al cemento sino alle plastiche, stoffe e plexiglas. In Giulio Orioli la costruzione di un nuovo linguaggio è funzionale a rendere il mito storia. Antonio Paradiso nella sua scultura aspira a identificarsi con le forme delle natura. Si avverte un bisogno di appartenenza al magma di una terra in continuo divenire. Domenico Viggiano adopera la coppia come emblema della fusione tra due entità distinte che si ricongiungono e dissolvono all’infinito. Dalla bivalenza si genera L’Amore nella sua più completa manifestazione del dare e ricevere. Salvatore Sebaste usa materie diverse per inglobare retaggi dell’arte Magno-Greca, arte europea degli anni Cinquanta e miti


lucani. Le opere promanano energia attraverso cerchi concentrici che conducono lo spettatore su orizzonti diversi. Margherita Serra dà vita a una sorta di «archetipo immaginario della femminilità”, come definisce Gillo Dorfles il corsetto. In assenza di un corpo, l’involucro ben si presta ad accogliere il visitatore in un gioco di immagini. A curare la mostra e il catalogo Barile edizione è Beatrice Buscaroli, docente di Arte Contemporanea all’Università di Bologna, commissario per la Quadriennale di Roma dal 2003 al 2004 e curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia nel 2009. Yves Bonnefoy nel saggio Lo sguardo per iscritto scrive: “l’elementare sia ciò che il pittore, lo scultore o anche l’architetto trovano sotto i loro occhi o fra le loro mani. ”Modellare lo spirito, rendendolo tangibile e immediato in una sospensione tra trascendenza e immanenza, è l’aspirazione dell’artista la cui opera è in continua trasformazione ed evoluzione rispetto all’idea iniziale.A Matera, dunque, la scultura assume un aspetto inconsapevole - come sottolinea Buscaroli - è più che un’arte diventa parte della storia stessa. Una storia che si contrae, si apre, si chiude, si svela e si nasconde, parte dalle grotte e dalle chiese, dal tufo morbido che si fa svuotare dalle viscere.

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Dario Carmentano: Vox Populi di Dario Carmentano

Nel corso della storia, in ambito ideologico, etico, religioso e politico, si sono costituite ed hanno imperato le macro narrazioni per dare ordine alla struttura culturale ed etico/comportamentale in cui l’uomo “doveva” esperire e conoscere. In passato il senso di appartenenza ad una dimensione sociale e collettiva era forte e motivato, era un sentimento che si traduceva con la parola “amore”, amore per la famiglia, amore per Dio, amore per la patria. L’amore connotava, inducendo a sentirsi figli, genitori, cristiani, Italiani e così via. Nella contemporaneità la fede, ferma ed assoluta con cui l’uomo si assoggettava ai dettami rassicurativi e totalizzanti delle macro narrazioni, si è trasformata in uno scetticismo ed opportunismo che ha portato ad un tracollo delle macro narrazioni stesse. Con il crollo delle macro narrazioni che sostenevano tutto l’apparato etico/morale/comportamentale della società, quasi tutte le attività umane sono state condizionate e determinate dal profitto e dal binomio produttore/ consumatore. L’uomo contemporaneo, attraverso la profonda trasformazione della struttura sociale economica e tecnologica avutasi nel corso del “900, ha scelto l’individualità, preferendo vivere in un relativismo e in una costante molteplicità di occasioni che lo hanno indotto ad esperire la propria vita di volta in volta costituendo da se il suo credo e le sue scelte. Oggi la pressione a cui è sottoposto è

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fortissima e deve rispondere con pragmatismo e scegliere soluzioni temporanee e frammentarie consapevole che non esiste un senso assoluto ed imperituro. Il suo nomadismo ed il dispiegarsi delle sue scelte in itinere costituiscono la sua micro storia personale, ovvero la sua identità o meglio ancora la sua diversità ed alterità. Su questi presupposti è difficile identificarsi in strutture collettive ed assolute e giurare fedeltà imperitura, si è spinti verso una identità mutevole, che scorre. Al contempo la vita collettiva, sociale, istituzionale, anche questa condizionata dalle radicali trasformazioni indotte dalla tecnica, fa i conti con interessi enormi posti su scala intercontinentale che portano alla geopolitica e geoeconomia ed agli interessi che superano ogni valore, confine ed identificazione nazionalistica. L’immaginario collettivo coglie le verità palesi e le contraddizioni imbarazzanti che investono il mondo istituzionale, politico, economico e religioso. In questo contesto che valore assume il sentimento dell’appartenenza? Che senso ha il patriottismo? Che cosa significa essere Italiano? Il progetto “Vox Populi” rimodula il credito narrativo legato ad alcuni simboli dell’italianità ovvero la Bandiera Tricolore e l’Inno di Mameli. Tutte le narrazioni si fondano su una falsificazione della realtà, pertanto attraverso degli spostamenti linguistici e di senso è possibile proporre nuove immagini interpretative inserendo-

si nella narrazione per falsificarla ulteriormente facendola divenire un’altra ipotetica o possibile storia. Lungi da qualsiasi vilipendio, la Bandiera Tricolore nella sua oggettività racconta nuove storie, prende nuove forme, aderisce all’ironia della voce degli Italiani ed alla loro visione della storia.

Articolo, 1 / 2012 stampa digitale su dibond cm. 150x150 Siam pronti alla morte, 2012 stampa digitale su dibond cm. 150x150 Fratelli d’Italia, 2012 stampa digitale su dibond cm.150x150

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Semplice come un temporale SALVATORE COMMINIELLO di Anna R. G. Rivelli

Una cifra personale e inconfondibile è il filo di Arianna che da oltre trent’anni consente all’artista Comminiello di avventurarsi negli insidiosi labirinti della sperimentazione senza fermarsi e senza allontanarsi da se stesso. Il suo percorso, infatti, non conosce soste, ma il suo andare avanti non è mai negazione o ripensamento del passato, piuttosto è un dialogo continuo con quel mondo che, come scriveva il filosofo Albert Camus, se fosse chiaro non consentirebbe all’arte di esistere. Ed è proprio il mondo, con il cumulo delle sue infinite contraddizioni, che tormenta l’artista e, contemporaneamente, lo esorta al cammino, disseminandogli la via di dubbi e di ansie come tracce di possibili mete dell’umanità. Ed è per questo che da quella sorta di caos primigenio, che qualche anno fa esplodeva nelle opere di Comminiello con una gremitissima raffigurazione spesso circoscritta in forme quasi uterine, oggi si fa spazio e si libera un racconto di intensa e filosofica sacralità del quale è elemento propulsore l’ambigua informalità di certi sfondi. Una simbologia a tratti sibillina, a tratti così palese da farsi fabula, occupa perennemente il proscenio nell’opera di Comminiello e svela la complicata semplicità dell’esistenza, il nascere spontaneo della vita, il dominio del tempo, lo stupor delle creature perse nell’infinito. Il seme, la clessidra, la pietra, le isole orfane di una pangea e ancora alla ricerca del proprio posto nell’universo, l’onda di una piena che rapisce e seppellendo salva, l’ichthus, sono elementi base di questa narrazione e continuamente mediano la disputa tra umano e divino, tra cuore e ragione. E l’artista Comminiello, avvertendo la limitatezza della propria condizione di uomo di fronte alla grandiosità della creazione e la pochezza delle sue parole così insufficienti ad esprimerne il senso, si danna nella ricerca di qualsiasi accento che sia capace di rendere plastica la passione che arde nel suo interrogarsi perpetuo. Le sue opere, grazie ad una elaborazione tecnica originale e suggestiva, appaiono come in uno stato di continua metamorfosi, ora gonfiandosi, ora scavandosi, cosicché le tre dimensioni si rincorrono, si piegano, si tradiscono. Le tramature accurate, i

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tocchi d’oro non riescono a volte a trattenere la fuga di elementi in rilievo che sembrano volersi sottrarre all’apparente silenzio del fondo per impossessarsi di ogni vibrazione di luce; altre volte la proiezione è verso l’“interiorità” dell’intaglio che è come uno scavo alla ricerca di sé dentro sé. La contrapposizione di superfici ora lucide, brillanti e geometricamente strutturate, ora scabre e popolate di segni, a tratti quasi miniate, traduce in maniera quanto mai immediata la tormentata ispirazione dell’artista che sussurra il suo verbo nella pacatezza di un colore che improvvisamente si fa urlo nella solennità del nero, nel rosso divino che, assumendo l’atemporalità dell’oro, sferza i confini del qui e ora e si fa eterno. Il tutto senza retorica, senza ridondanza, piuttosto con quella semplicità che in natura sa essere spettacolo, turbamento, spavento; come in un temporale che è ombra e tremore, luce e vita.

ragione e sentimento - 2010 scultura in legno e acetato a rilievo cm.150x60 un passo alla volta - 2014 - trittico cm. 210x95 - vinile a rilievo su legno

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Da arte pubblica ad arte per il pubblico di Sara Errico

di Antela Salvatore

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Nel 1989 il Californian College of Arts and Crafts ospitò una conferenza: City Sites, artists and urban strategies, in cui diversi artisti, critici e curatori vennero chiamati a fare il punto sulla situazione dell’arte contemporanea e sulle recenti tendenze che avevano visto l’arte uscire dai luoghi deputati per sconfinare nello spazio pubblico. Questi interventi confluirono successivamente in un compendio: Mapping the terrain. New genre public art curato dalla critica americana Suzanne Lacy, in cui l’autrice definiva per la prima volta le nuove forme di arte pubblica come new genre public art. Questa definizione poneva l’accento non più sull’oggetto realizzato o da realizzare, ma sul processo partecipativo e collettivo che non solo vedeva l’artista collaborare con il pubblico,

ma poneva in secondo piano l’effettiva produzione dell’artefatto. Strettamente correlato con la new genre public art é il concetto di art in public interest, sempre teorizzato dalla Lacy nel suo compendio, che definisce ulteriormente le finalità prettamente politiche di questi interventi, tesi a condannare l’arte di elite a favore di un’arte partecipata che renda l’audience attore di queste pratiche artistiche e dei cambiamenti sociali ad esse connesse. Questo testo sarà, da allora in poi, considerato il punto zero nell’ambito della ricerca sulla public art. La riflessione sull’arte pubblica é andata di pari passo con la ricerca sullo spazio pubblico che si é trasformato da contenitore per lavori d’arte autoreferenziali a spazio che, racchiudendo in sé moltepli-


ci livelli di realtà e di conflitti, partecipa dell’opera. Si passa così dal site specific degli anni Novanta alle pratiche artistiche di fine XX secolo, il cui fulcro é diventato il dialogo tra artista e pubblico, tra spazio e lavoro d’arte. I cittadini non sono e non saranno più degli inconsapevoli fruitori di un’opera imposta, ma partecipanti attivi del cambiamento dello spazio pubblico : pubblico perchè comune e condiviso. Il costituirisi di un’esperienza : l’arte da oggetto a processo. La ricerca sulla public art é stata accompagnata, negli ultimi venti anni, da numerosi dibattiti nei settori dell’arte e dell’architettura sulla definizione di spazio pubblico, partendo dalla critica e dal conseguente declino della definzione data da Habermas, che vede la sfera pubblica come un democratico spazio accessibile a tutti, in cui i cittadini si impegnano a perseguire il bene comune. Secondo Habermas, in questo ambiente conciliante, tutti gli individui sono universalmente rappresentati e liberi di intervenire e partecipare a temi di interesse generale, poiché la discussione é costituzionalmente garantita. Questa zona esclude dalle proprie dinamiche lo stato e i suoi attori dal momento che critica lo stesso. Tale teoria, aspramente criticata soprattutto dagli studi femministi e post-coloniali, ha come condizione necessaria, per l’esistenza dello spazio pubblico, il mantenimento

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della sfera privata e di confini ben definiti. Secondo le teorie femministe, la definizione habermasiana di spazio pubblico non concepisce in sé le differenze. “Sulla base di questi presupposti, la nozione tradizionale di spazio pubblico, come luogo dai confini fisici precisi, viene sostituita da quella di public realm, un’entità costituita dai processi della comunicazione e dello scambio”, in cui si può sempre meno dare per scontata la coincidenza tra quelli che tradizionalmente venivano considerati luoghi pubblici e quegli spazi dove la new genre public art si esplicita, in quanto luoghi vivi e attivi perché, ad esempio, teatro di lotte per il diritto alla casa, allo spazio pubblico, alla cittadinanza o alla salute. Sono questi luoghi, in cui i cittadini rivendicano la propria sovranità e la partecipazione attiva ai processi decisionali, ad essere gli spazi dove la public art si esplicita nelle forme descritte dalla Lacy. Semplificando : alla sfera pubblica concepita come un luogo omogeneo e definito da precisi confini fisici corrisponde la tra-

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dizionale arte pubblica del monumento in tutte le sue sfaccettature. Al public realm corrisponde la new genre public art, che differisce drasticamente dall’arte pubblica tradizionale, perché tiene conto di tutte le contraddizioni dello spazio pubblico, perché supera i confini tra pubblico e privato per evidenziare una geografia del conflitto altrimenti taciuta, perché coinvolge l’audience nella realizzazione

in una processo decisionale collettivo. La tendenza così inaugurata abbandona realizzazioni artistiche individuali, per superare il rapporto dicotomico tra artista e audience. “Il terreno di incontro non é l’oggetto [...] prodotto in sé conchiuso, quindi intimidatorio, ma il processo, cioé il costituirsi di un’esperienza”. Dal 1989 numerosi sono gli artisti che, superando il concetto tradizionale di


pubblico come unico corpo collettivo, si avvicinano alla new genre public art. Nella maggior parte dei casi si tratta di azioni contestatarie e di supporto ad una classe o gruppo sociale. Tra questi, tre esempi sono significativi nel passaggio dalla public art alla new genre public art. 1)In cosa posso esserti utile? di Cesare Pietroiusti del 1994 che vedeva l’artista offrirsi di compiere una serie di azioni utili per chiunque volesse sottoporre una richiesta. Le richieste erano soprattutto legate a bisogni primari: come il pagamento di una bolletta o la passeggiata al cane. 2)Public Places – Private Spaces di Sophie Calle del 2001, in cui l’artista riflette sugli spazi interstiziali che vedono spazio pubblico e privato incontrarsi, analizzando l’eruv. Un eruv é una tradizione ebraica che, attraverso una recinzione di pali e fili realizzata in luoghi esterni, crea uno spazio privato, così da consentire il trasporto di

oggetti fuori dalla casa, altrimenti vietato durante il Sabbath. 3)Infine Bataille Monument di Thomas Hirschhorn realizzato nel 2001 per Documenta 11, si presta a supportare le comunità turche di Kassel, realizzando tre baracche in legno ospitanti uno studio televisivo, una biblioteca e una mostra dedicata a George Bataille. Questo lavoro si propone di creare un modello espositivo alternativo a quello elitario del sistema – arte. Per concludere : la new genre public art abbandona completamente l’artefatto realizzato in spazi comuni e imposto ad un pubblico a cui non rimane altro che la contemplazione, per immaginare e costruire un diverso assetto sociale. Si sviluppa l’idea che il lavoro d’arte possa essere attivato da più soggetti attarverso proposte partecipative realizzate in sfere sociali più ampie rispetto a quelle tradizionalmente definite.

Parole dal cemento - Rosaria Iazzetta 2007/2008 Plubic Places Private Spaces - Sophie Calle 2001 Bataille Monument - Thomas Hirschoorn 2002 In che cosa posso esserti utile - Cesare Pietroiusti 1994 Totipotent Architecture Lucy Orta 2004/2007

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Un progetto innaturale Donato Faruolo di Francesco Vaccaro

di Antela Salvatore

Ogni cosa sembra dover segnare un’epoca, per poi dover segnare il passo. In preda ai rivolgimenti politici, economici e tecnologici, se nella nostra storiografia un’epoca lontana può durare anche qualche milione di anni, nel 2014 sentiamo già il bisogno di ricostituire in revival quelli che furono gli anni ’00 (del XXI secolo). Con l’avvento del digitale abbiamo dichiarato finita anche la fotografia, forse l’immagine tout court: c’è chi parla di post-fotografia, chi di immagine sintetica. C’è chi ritiene che per la prima volta dalle grotte di Altamira si stia avanzando la pretesa di costituire un’immagine senza segno, senza referente, che non attesta più la vita trascorsa di un soggetto. Regis Debray sostiene che l’immagine tragga la propria urgenza antropologica dalla necessità umana di reagire alla prima manifestazione dell’invisibile: la morte. Di fronte al tema della scomparsa, come nel mito narrato da Plinio sulla nascita della pittura, la fotografia sarebbe in grado di riproporre la vita delle (e nelle) ombre, di ribadire la verticalità della veglia in opposizione all’orizzontalità del sonno eterno. Ma se la fotografia non è più in grado di accogliere le tracce chimico-fisiche del passaggio del soggetto, allora questa magia semantica è da considerarsi persa per sempre? Negli ultimi anni in Italia abbiamo assistito spesso a casi in cui la

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più alta delle verità sociali si è posta in contrasto con una verità che non necessita di sentenze: i casi Cucchi, Aldrovandi, Uva, Giuliani... In ognuno di questi casi, il sopruso non ristorato dalla giustizia ha cercato conforto nell’ostensione di un’immagine. Così Patrizia Moretti, così Ilaria Cucchi, nei momenti di maggiore umiliazione, ristabiliscono disperatamente la sacralità del trapasso mostrando gigantografie dei cadaveri dei loro cari. Nemmeno l’anatomia dei pixel è riuscita a rendere meno dolorosa un’immagine. La ricerca artistica di Donato Faruolo rovista tra le questioni irrisolte nella concezione contemporanea dell’immagine, lì dove questa diventa una scatola nera, un dispositivo socialmente rilevante per cui però non abbiamo provveduto a strutturare una grammatica condivisa e intelligibile. Sempre più spesso decide di non produrre nuove immagini, ma di porre nel laboratorio semantico dell’arte file catturati dalle iconosfere, immagini come residui archeologici di un linguaggio di cui si sono persi i codici. L’icona, l’ostensione, l’archivio, il volume, lo stendardo, il tazebao sono tra i principali dispositivi per questo progetto inattuale, che ferma il tempo del progresso, della raffinazione della tecnica, della ricerca del nuovo, per rimuginare sui rimossi di una cultura già scartata, in cerca delle facoltà ataviche dell’immagine.

Paper / Portrait (after Raffaele Barbieri), 2013, A0, stampa da plotter su carta Paper / Sheep, 2013, A4 x 400 copie, fotocopie in B/B su carta 2, 2010, 100x70, stampa offesett su carta per affissioni stradali

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Il gioco serissimo della vita La scaltra innocenza di Franco Valente di Anna R. G. Rivelli

di Antela Salvatore

L’arte non è un approdo, è un viaggio; un viaggio che non cerca e non teme la meta, non cerca e non teme il ritorno. Sarà per questo che Franco Valente, “artista nomade e solitario” (così lo definisce Lidia Reghini di Pontremoli), osa sfidare la dimensione spazio-temporale con quella fanciullesca incoscienza che, nella sua capacità di toccare l’essenza delle cose, si fa istintiva e filosofica sapientia. L’artista recide, sfronda, filtra; volge il suo sguardo al mondo rinunciando a qualsiasi sovrastruttura; è il suo Es più profondo che contempla le cose e ce le offre scevre e deprivate di calcoli, di logiche matematiche, di costrizioni razionali, nella lucida rappresentazione del gioco serissimo della vita. La perfezione non gli interessa, anzi quasi lo disturba: la perfezione non è parte della vita. Le pale di un mulino rastremato nell’azzurro seppure sbilenche spazzano stelle nella notte, muovono foglie, parlano in qualche modo per raccontare nuove storie o rinnovarne alla

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mente. Così i giochi, le farfalle, le stelle, gli squali o i cavallucci marini negli acquari di sale, ammazzettati come fiori in un vaso, che diventano altro senza rinunciare al sé. Nelle opere di Franco Valente vibra una scaltrissima innocenza che coglie l’irregolarità, sottolinea l’imperfezione e le esaspera con l’assoluta icasticità cromatica del perspex per rinfacciare al mondo la scoperta menzogna di ogni perfezione. Nel contempo l’artista gioca con la purezza dei colori, incastona fluorescenze,

giustappone piani e linee, si lancia nella tridimensione, usa tutto il suo alfabeto di cromie per liberare palloncini tra un pentagramma di dita esultanti e un rigo di stelle leggere, o magici ombrelli tra la tempesta e la gioia. E così scrive lettere e dedica frasi di rosso, sintagmi di giallo e di arancio, attraversando gli orizzonti epici di un idioma sottratto al vero e che tocca il Vero. E sono lettere, le sue, piene d’amore, di chi, per dirla con Ungaretti, non è mai stato tanto attaccato alla vita.


Anna Rivelli incontra Franco Valente in occasione della sua mostra alla Galleria “Memoli Arte”, sede di Potenza di Viale Marconi

Franco Valente come definirebbe se stesso in breve? Si sente davvero “artista nomade e solitario”?E in che misura l’arte può generare -se può generare- una condizione di reale solitudine? In un libro di qualche anno fa Mario Lunetta mi dedica una poesia in cui mi definisce un “Guerriero Cheyenne” rinchiuso in una riserva da dove guardo il mondo intorno che va in tutt’altra direzione. Il mio lavoro, come quello di tanti altri compagni di strada, a ripensarci oggi era troppo avanti rispetto alla percezione della norma e rispetto al mercato dell’arte; eravamo capiti da pochi, ma amati dai poeti.In queste condizioni vivi con dedizione e sofferenza il tuo modo di essere e di percepire l’arte, e paghi per riuscire a conciliare l’economia e i bisogni della vita. Ti isoli e vivi questa situazione con sofferenza, ma nel tuo intimo sei convinto che quella è la strada, che è poi seguire la tua natura. Nella sua biografia si legge di uno stretto

sodalizio con numerosissimi artisti tra i quali molti poeti della levatura di Moravia, Pasolini, Penna, Sinisgalli ecc… Quale interazione esiste tra la letteratura, la poesia in particolare, e le arti figurative? La poesia può sempre tradursi in segno e il segno in parola? Grandi poeti hanno accomunato la parola e il segno; da Montale, che fece una bella cartella di grafica che si chiamava “Ossi di seppia”, a Leonardo Sinisgalli, che fece delle edizioni grafiche, a Rafael Alberti. Emilio Villa e Cesare Zavattini amavano dipingere dei piccoli quadri, Leonida Repaci e Raffaele Carrieri disegnavano; Alberto Moravia, su sollecitazione di Mario

Schifano, disegnava spesso la sua mano tenendola sul foglio e facendo scorrere la matita intorno. Pasolini e Fellini facevano bei bozzetti per le scene dei loro film. I segni grafici di queste persone speciali erano a loro modo tutti magici e pregni della leggerezza poetica del loro mondo. E a proposito di Sinisgalli, passa attraverso di lui il rapporto di Franco Valente con la Basilicata?Che idea si è fatto di questa regione? Ho amato molto Leonardo Sinisgalli, grande poeta, il grande ingegnere, il grande matematico di “Furor mathematicus”, il giovane chiamato da Fermi e Maiorana a far parte della “scuola di via Pani-

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sperna” dalla quale ben presto si staccò. Ed ho per riflesso iniziato ad amare la sua terra, ho amato Montemurro solo dai suoi racconti e dai suoi scritti; e di conseguenza ho amato la Basilicata. La sua Basilicata ritornò poi nella mia vita con l’affetto e la frequentazione con Vito Riviello, poeta vero e dotato di un acume superiore e tagliente e di grande umanità. In seguito, sempre agli inizi degli anni ‘70, ho conosciuto ed amato un altro figlio della Basilicata, il poeta Michele Parrella, da noi molto invidiato per un suo bellissimo cappotto di cammello che portava con un cappello che gli donava molto e lo faceva apparire un ricco signore, cosa questa che lo faceva sempre sorridere perché altro che ricco! Ci si inventava la vita giorno per giorno allora, eppure quelli erano tempi felici. Negli strani percorsi della vita ho sentito nominare di nuovo Michele Parrella per un libro dedicatogli da Gaetano Fierro; mi è sembrata una bella cosa questa, specialmente in una società che si sta dimenticando dei poeti, delle loro

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parole e delle loro riflessioni ed atmosfere. Oggi si va troppo veloce. La poesia ha bisogno di tempo. E a proposito di poesia, con dolore ho appreso che Mango ci ha lasciato, rappresentava l’anima tenera della Basilicata. Parliamo della condizione dell’arte oggi. Le possibilità ipercomunicative della rete esaltano l’arte o la mistificano? La sottraggono all’oblio oppure seppelliscono il meglio con il peggio? La mia generazione, per intenderci quella del ‘68, si nutriva di letture (in particolare Pasolini e Marcuse) e sognava una rinascita. Oggi il bisogno estremo di velocità rende tutto terribilmente superficiale e ansioso. Le possibilità estreme di comunicazione rendono sì il mondo più vicino, ma tutto quello che vediamo attraverso un monitor è reale? In realtà solo il monitor è tangibile, ma il sogno, l’umanità, i sentimenti sono poi reali? Ai grandi vantaggi del comunicare si contrappone la desuetudine a leggere e ad approfondire. Un artista per essere incisivo nel

momento creativo ha bisogno di poesia, umanità profondità e leggerezza; tutte qualità che in questo mondo tecnologico si stanno perdendo. Tre parole per descrivere il declino della società attuale. Ma la cultura ci salvera? Non credo che la cultura ci salverà, ma lo spero; né questa impostazione di società vuole salvare la cultura. In un Paese in cui chiudono librerie e giornali nell’indifferenza di tutti, nel Paese di Dante, Michelangelo e Leonardo manca la volontà politica di valorizzare le nostre radici. Bisogna lottare e continuare ad amare l’arte e la poesia.

Passi felpati, cm 80x122 In Africa n.3, cm 120x180 Piccola auto, cm 100x100


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Rocco Falciano: dall’utopia collettiva al nuovo fronte della morale e della poesia di Marco Falciano

di Antela Salvatore

Rocco Falciano è andato via dalla Lucania tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘60 del Novecento portando con sé un po’ di quella melancholía creatrice che lo avrebbe affermato in Italia e all’Estero; con la sua arte egli è stato capace di cogliere gli aspetti della vita che sfuggono ai più audaci ed irruenti; “l’arte è fare mondi”, diceva in un dialogo con il sottoscritto nel 2010; “non può essere solamente gestualità, atto creativo fine a se stesso, non è solo fare oggetti... Credo che l’opera d’arte debba avere una sua compiuta capacità di rappresentazione del mondo. È più di un oggetto, più di una merce ed incarna una visione del mondo che con essa si vuole creare”. A quasi tre anni di distanza dalla sua scomparsa, ci piace ricordare Rocco con amore, passione ed emozione , le stesse che hanno permeato gli oltre dieci lustri della sua produzione artistica, dal 1958 al 2011. Dopo essersi formato con il pittore di origine irpina Giuseppe Antonello Leone, si fece notare dagli storici dell’arte Corrado Maltese e Fortunato Bellonzi e dallo scultore Renato Marino Mazzacurati (di questo periodo è per esempio la piccola “tecnica mista” su carta colorata, cm 30x32, 1958 dal titolo Giocatori di carte). Mazzacurati medesimo lo invita a Roma dove, a partire dal 1963, frequenta il suo studio e ben presto condivide con lui l’idea dell’arte come forma di espressione destinata ad una chiara funzione civile. A questi anni

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di avvio di una serrata critica sociale e politica appartiene l’esordio delle attività del Centro di Arte Pubblica Popolare. Fondato con il suo amico e compagno di viaggio Ettore De Conciliis nel 19711972, su ispirazione della Marcia della Pace organizzata da Danilo Dolci contro la guerra in Vietnam, ha l’obiettivo di trovare un punto di incontro tra gli artisti, i cittadini, le amministrazioni e soprattut-

to la politica per un rinnovamento della società attraverso forme di espressione, sentimenti e idee comuni. Il primo “Murale” di grandi dimensioni in cui Falciano e De Conciliis parlano di altri mondi possibili alle grandi moltitudini è Bomba atomica e Coesistenza pacifica, dipinto nel 1965, nell’abside della chiesa di San Francesco a Borgo Ferrovia in Avellino, dedicato al Concilio Ecumenico Vatica-


no II e all’Enciclica di Papa Giovanni XXIII Pacem in Terris. L’esperienza del Centro prosegue per più di un quindicennio con varie fasi per poi approdare alle ultime due opere che, insieme all’impresa di Avellino, rappresentano forse le testimonianze più dense di significato. Nel 1975 Giuseppe Di Vittorio e la condizione del Mezzogiorno in Piazza della Repubblica a Cerignola, tre grandi prismi sorretti da una complessa struttura in acciaio di 150 metri quadri, raccontano in numerosissimi «quadri» tutto il percorso del Mezzogiorno con il nume tutelare Di Vittorio a fare da «guida». Un’opera che ha destato sempre discussioni e polemiche ma che è riuscita a convogliare nella piazza sempre tanti visitatori curiosi di leggere il Sud dal versante più complesso di quell’operazione artistica a cui ha partecipato attivamente per due anni anche una parte della popolazione. Un’opera che è restata lì per circa dieci anni, fin quando l’amministrazione di sinistra che reggeva le sorti della cittadina pugliese alla fine della prima metà degli anni Ottanta non decise di avviare una ristrutturazione completa della piazza con la rimozione del “Murale Di Vittorio” che fu smontato in modo del tutto anomalo, cioè fatto letteralmente a pezzi e depositato nella sede della nettezza urbana del Comune. Qui il murale è stato abbandonato per tantissimo tempo senza che si riparlasse più del suo ripristino finché Giovanni Rinaldi, storico del

movimento operaio del Tavoliere e di Di Vittorio, lo ha riscoperto, investendo del problema la CGIL, il Governatore della Regione Puglia Nichi Vendola e coinvolgendo gli autori e la restauratrice Natalia Gurgone che aveva studiato a fondo quel «Murale». Questo, circa 6 anni fa, ha generato un movimento di opinione con la creazione, tra le altre iniziative, di una pagina Facebook per recuperare l’opera. All’inizio degli Anni Ottanta, la svolta tra la prima e la seconda fase della carriera

artistica di Rocco Falciano, che egli stesso chiarisce quando aveva da poco concluso il Memoriale di Portella della Ginestra a Piana degli Albanesi in Sicilia (in ricordo dell’eccidio di donne, vecchi e bambini, da parte del Bandito Salvatore Giuliano durante la festa del lavoro il 1 maggio 1947) sempre con Ettore De Conciliis: “Alle falde di un monte roccioso un muro basso,sottolineato da uno squarcio nel terreno come una ferita profonda lungo la traiettoria degli spari incrociati ver-

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so il Sasso di Barbato, valeva a ricordare simbolicamente l’evento dell’eccidio, in un’area delimitata da grandi massi erratici sparsi. Era una testimonianza scomoda. Alla vigilia dell’inaugurazione, l’onorevole Pio La Torre fu assassinato. Questo lavoro segnò una svolta.Tornai a dipingere il vero, la bellezza della natura anche nei suoi aspetti meno appariscenti, liberamente, alla scoperta di una possibilità di emozione, come implicita scelta contro la minaccia di distruzione dell’ambiente e dei segni del passato, e ideale contrappunto dell’impegno sociale sul fronte della poesia”. Da allora, per trent’anni, la pittura di Rocco, racconta delle intime inquietudini degli uomini e, scrive lo storico dell’arte Valerio Rivosecchi nel 2010, “si dedica esclusivamente, in modo addirittura maniacale, ai luoghi, agli oggetti, agli spazi e alle luci di un ideale tempo perduto: gli interni e i paesaggi in Salento, la valle del Basento nei pressi di Potenza,lontano da tutto ma vicino, dentro il cuore antico e prezioso di quei luoghi. Con tutta la pazienza e l’umiltà necessarie, Rocco ne descrive i silenzi delle lunghe ore pomeridiane, il bianco e il fresco delle grandi stanze, la sottile malinconia delle masserie ormai trascurate, i cortili ombrosi e saturi di vita nascosta, i lecci e gli olivi grandi come querce, i colori sublimi dei fiori di carciofo e di cicoria, i pomodori e le nespole, le melanzane e le castagne, le arance e le mele cotogne. Rare le figure, eppure l’uo-

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mo è dappertutto, o meglio verrebbe da dire, le donne sono dappertutto. La scelta dell’acquerello come tecnica guida in questo viaggio nel tempo perduto delle cose fatte a regola d’arte appare giusta e quasi inevitabile. Tra tutte le tecniche della pittura l’acquerello è quella che consente il minimo margine di errore, e si presenta nuda e senza trucco agli occhi di chi guarda. Una tonalità troppo satura in un angolo qualunque del foglio, continua Rivosecchi, può rendere inutili ore o ore di lavoro, troppa acqua può creare aloni e affioramenti, troppa poca un insopportabile senso di secchezza e di miseria. Nella stesura dei colori la luce corrisponde al bianco del foglio, e gran parte del lavoro di un buon acquarellista consiste nel salvaguardare il bianco-luce in tutti i vari passaggi di velatura, lasciandolo emergere quel tanto che basta”. Detto questo, conclude Rivosecchi, “è evidente il significato etico, ma anche politico, degli acquerelli di Rocco Qui non si tratta di difendere in astratto idee di per sé insignificanti come la tradizione o la buona pittura, o simili, ma di far percepire in modo immediato a chiunque entri in contatto con questi fogli la bellezza di un modello di esistenza basato sulla semplicità, la pulizia, l’onestà, il lavoro. Se questi fogli raggiungono anche solo una piccolissima porzione di verità, si tratta di quella verità che Antonio Gramsci definiva come sempre rivoluzionaria, qualcosa di dirompente ed esplo-

sivo, specialmente in un tempo in cui per noi e le nuove e nuovissime generazioni è sempre più difficile distinguere la verità dalla menzogna”.

Giuseppe Di Vittorio e la condizione del mezzogiorno, Cerignola, (opera distrutta) Natura morta su un tavolo, 1996, cm 86,4x71 Castagne e melagrane, 2002 Scena familiare borghese, 1966, cm 150x200 Fiori di carciofo, acquerello, 2000, cm 76,3x55,8

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Castronuovo Sant’Andrea: una nuova identità lucana con il museo internazionale della grafica di Cristiana Iannielli

di Antela Salvatore

Il Museo Internazionale della Grafica è la recente struttura museale, che dal 2011 ospita nello storico comune di Castronuovo Sant’Andrea, in provincia di Potenza, opere grafiche di artisti contemporanei internazionali. Protagonisti indiscussi della raccolta grafica comprendente 350 opere, sono i grandi maestri dell’incisione delle maggiori correnti artistiche del Novecento, dal cubismo al surrealismo, all’astrattismo e ancora, quei movimenti artistici minori nati negli anni Quaranta e Cinquanta del XX secolo, attorno ai nomi Cobra e Gruppo Uno, passando naturalmente per una forte componente lucana con Mauro Masi, Pietro Consagra, Giacinto Cerone, Pasquale Santoro e Antonio Masini, per citarne solamente alcuni. Quello del Novecento è un secolo di trasformazioni sociali, di inquietudini provocate dal dramma bellico ed è l’occasione per molti artisti di esprimersi con grande libertà inventiva attraverso personali percorsi artistici, dimostrando piena consapevolezza del linguaggio incisorio. Perfettamente integrato con la Biblioteca Comunale “Alessandro Appella”, il MIG convive con una considerevole mole di

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volumi, oltre 30.000; un patrimonio cospicuo, tutto “lucano”, di cui, maggiormente la zona del Parco del Pollino con i suoi 24 comuni, ma anche il territorio contiguo, fruisce in maniera più immediata, data la relativa distanza geografica. La struttura, che porta il simbolo di una ragnatela da un’incisione di Guido Strazza, svolge con l’omonimo Atelier un ruolo fondamentale per la diffusione dell’Ars grafica, attraverso sperimentazioni didattiche di tecniche d’incisione calcografica. Al suo interno l’Atelier accoglie l’intero

studio calcografico, completo di torchio e attrezzature e libri sull’argomento, donato dall’artista toscano al MIG. In linea con le iniziative culturali contemporanee, il MIG vi partecipa con le proprie attività; tra le iniziative più recenti, le Giornate del contemporaneo, la VII in particolare con una mostra di litografie cariche di segni colorati di Joan Mirò, Le essencies de la terre, e la II Giornata Nazionale delle famiglie al Museo. Un crogiolo di proposte didattiche, rivolte ad un tipo di pubblico diversificato, dai più pic-


cini ai più grandi, studiato nei dettagli e in relazione all’età dei fruitori, naturalmente con metodologie, materiali e supporti didattici appropriati. Laboratori e mostre temporanee edite per la prima volta in Italia come quella con le 120 litografie originali della cartella Krieg und Kunst, che documentano la terza delle celebri se-

cessioni che hanno segnato il XIX secolo europeo, la Secessione di Berlino, e allo stesso tempo interattive, con la partecipazione diretta del pubblico, cimentato in quest’ultima mostra, nella creazione di un’opera da realizzare in relazione al movimento artistico e con le varie tipologie di materiale messe a disposizione dal museo. Ma il punto di forza del museo Internazionale della Grafica, oltre alla cospicua documentazione grafica, resta il ruolo di custode di una forte identità territoriale, nonostante la diffusione internazionale, che anche grazie alla collaborazione con il Musma di Matera si incastra perfettamente in un più ampio progetto di valorizzazione della nostra Lucania. Situato nel centro storico del paese di Castronuovo Sant’Andrea, il Museo Internazionale della Grafica torna a risvegliare l’antico abitato circostante, risvegliando al contempo un’espressione che ha decisamente segnato la storia dell’arte e la produzione artistica del XX secolo.

Museo internazionale della grafica Auguste Renoir, incisione Pierre Bonnard, incisione Ben Shahn

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I luoghi della pittrice Maria Padula: un progetto di valorizzazione territoriale a Montemurro di Davide Leone

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Cento anni fa nasceva a Montemurro in provincia di Potenza la pittrice neorealista Maria Padula. Nel 2015 l’associazione Bellivergari, nata con il compito di promuovere la figura dell’artista lucana e di suo marito Giuseppe Antonello Leone, ha iniziato una serie di attività per divulgare l’opera di Maria Padula. In questa cornice s’inserisce il progetto “I Luoghi della Pittrice”, finanziato attraverso un bando del GAL AKIRIS rivolto ai Luoghi della memoria e cofinanziato dal comune di Montemurro. I Luoghi della Pittrice è un progetto che può essere letto su diversi livelli. Il primo ed il più evidente è la costruzione di un museo diffuso a Montemurro, passeggiando per le strade ed i vicoli del paese sono segnalati i luoghi dove la Pittrice dipingeva i suoi quadri, inoltre è possibile guardare sui propri dispositivi mobili (cellulari o tablet) i quadri relativi alla scena che si sta visitando. La volontà è quella di raccontare il processo creatore dell’atto artistico. Già a questo livello si può riscontrare un’interpretazione molteplice, perché non solo si avvicina l’interlocutore alla comprensione della scelta del soggetto da parte dell’artista, ma si propone un confronto tra la scena attuale e l’interpretazione pittorica. Questo arricchimento della realtà, che infrastruttura Montemurro come uno smart village, è l’esito finale di una complessa azione progettuale, che ha avuto lo scopo di far emergere il ricordo della figura

di Maria Padula attraverso diverse testimonianze e di costruire una comunità che si riconoscesse in questo stesso ricordo. Gli strumenti utilizzati dal progetto hanno intrecciato la realtà fisica dei luoghi con quella virtuale delle comunità sociali di internet. La prima azione portata avanti dal progetto ha riguardato l’individuazione di una serie di attori privilegiati in grado di ricordare l’artista Maria Padula. Lo scopo era quello di costruire una storia minuta a partire dalle persone che avevano conosciuto la Pittrice in maniera diretta. Sono state individuate cinque categorie di interlocutori: •Amici e conoscenti; •Acquirenti dei quadri; • Modelli; • Studenti; • Compagni di lotta politica. Già questa categorizzazione fa emergere la complessità della figura di Maria Padula che non riesce ad essere schiacciata nel solo ambito artistico. Il suo impegno nell’insegnamento e nella divulgazione della condizione femminile e di quella contadina insieme all’impegno come ma-

dre sono inscindibili dalla sua arte. Le testimonianze raccolte sono state categorizzate ed ordinate per temi in un canale you tube . La visita di questo luogo virtuale è l’occasione per ricostruire un racconto non lineare ma tematizzato della personalità artistica, e non solo, di Maria Padula. Chi arriva sul canale you tube può scegliere tra più di 150 video per ascoltare e vedere le testimonianze degli intervistati. Inoltre il canale ospita una lunga intervista alla pittrice realizzata nei primi anni ’80 da Tonino Calvino ed Antonio Sanchirico. Questo lavoro di coinvolgimento non ha solo lo scopo di offrire una testimonianza, ma ha anche riunito un’eterogenea comunità attorno alla figura di Maria Padula. I temi individuati dai brevi filmati sono: Ho conosciuto Maria Padula; Come dipingeva Maria Padula; Il quadro che ho avuto da Maria Padula; Ho posato per Maria Padula; Maria Padula e la politica; Maria Padula e l’insegnamento; I territori di oggi, i cambiamenti nella val d’Agri. A queste sezioni va aggiunta la

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già menzionata intervista degli anni ’80. L’ulteriore strumento attivato dal progetto è un sito internet , che fa da snodo ai differenti materiali del progetto. Oltre alle gallerie tematizzate, che raccolgono la maggior parte delle opere della pittrice assumono una particolare importanza le mappe del progetto. Si tratta di strumenti di raccordo che mettono in un quadro di coerenza le opere pittoriche e letterarie di Maria Padula con il territorio raccontato. Su queste mappe è, infatti, possibile rintracciare il rapporto tra l’interpretazione artistica ed il territorio: i quadri e gli scritti sono ricollocati nello spazio che raccontano. In un certo senso si ripropone un percorso a ritroso dell’interpretazione artistica in cui un luogo viene sublimato nell’opera. In un certo senso l’intento è di avvicinare gli utenti al’esperienza dell’artista. Per completare e chiarire ulteriormente il senso della mappa, le opere d’arte, collocate nello spazio geografico, sono commentate dai brani delle interviste raccolte anche nel canale you tube. Ciò che si viene a costruire è un iperluogo in cui la realtà geografica è arricchita di ulteriori contenuti. Ciò è vero tanto nel mondo virtuale di Internet, grazie alle mappe del sito, quanto nel mondo fisico, dove la funzione di arricchimento della realtà è affidata alle mattonelle tecnologiche che, grazie al Qr code, rendono possibile la fruizione delle opere nel luogo in cui sono state pensate

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e realizzate. L’ultimo aspetto importante del progetto riguarda l’animazione territoriale svolta sui social network. Questo strumento in realtà è stato il primo ad essere sviluppato e pubblicato. L’intenzione è stata quella di animare non soltanto le reti vicine, raggiungibili tramite la metodologia delle interviste, ma anche quelle lontane, soprattutto degli emigrati che costituiscono un’importante comunità. La pagina facebook del progetto ha più di 400 “mi piace” ed ha prodotto un ingente numero di interazioni, allargando la base di conoscenza su Maria Padula. Il progetto è stato sviluppato da Davide Leone e Giuseppe Lo Bocchiaro che lo hanno ideato insieme a Rosa Maria Leone, Giusi Candia e Valentina Dibiase. Queste ultime due hanno svolto il compito di referenti locali, mentre Rosa Maria Leone ha provveduto a mettere in ordine la memoria storica e Leone e Lo Bocchiaro hanno svolto un ruolo di coordinamento e di costruzione dei contenuti del progetto. I risultati dei “Luoghi della Pittrice” sono stati presentati pubblicamente a Montemurro il 5 Gennaio 2015, presso la sala dell’ex convento di San Domenico. La giornata si è suddivisa in due momenti. Il primo ha riguardato una visita guidata ai luoghi reali della pittrice così come individuati nel progetto. Il gruppo di persone, giornalisti e studiosi hanno giocato con


il territorio e con l’arte di Maria Padula. Grazie ai loro smartphone e tablet ed all’interfaccia delle mattonelle gli intervenuti hanno potuto apprezzare l’opera artistica della Pittrice e riflettere sul valore di testimonianza antropologica delle opere che, spesso, ritraggono un mondo contadino in dissolvimento. L’esperienza è stata arricchita anche dalla lettura di alcuni brani scelti delle opere letterarie di Maria Padula, curata da Giuliana Pettinari insieme a Giusi Candia, Valentina Dibiase e Valeria Megna. La visita si è conclusa alla casa dell’artista, dove è stata allestita una piccola mostra di alcuni dei quadri visti durante il percorso e di alcuni oggetti appartenuti all’artista. In questo modo è stato palese il rimbalzo tra reale e virtuale che rappresenta la cifra dell’intero progetto. La seconda parte della giornata si è svolta sotto la forma canonica di un convegno. Dopo i saluti istituzionali degli enti patrocinatori: il GAL AKIRIS ed il comune di Montemurro; sono interventi la Porf.ssa Maria Adelaide Cuozzo docente di Storia dell’arte contemporanea presso l’università della Basilicata, la Dott.ssa Rosa Maria Leone e l’Arch. Davide Leone. La Prof.ssa Cuozzo, che ha recentemente curato la voce “Maria Padula” sul dizionario enciclopedico Treccani, ha tratteggiato la figura artistica di Maria Padula come la prima artista donna lucana strutturata, intendendo con ciò il fatto che la Padula aveva svolto studi regolari di arte e aveva

fatto della pittura la sua professione. Gli interventi di Rosa Maria e Davide Leone, rispettivamente figlia e nipote della Pittrice, hanno raccontato il progetto nelle sue interazioni con il territorio ed hanno anticipato alcune delle iniziative che l’associazione Bellivergari intende portare avanti nel 2015 in occasione del centenario della nascita di Maria Padula. Il Progetto “I Luoghi della Pittrice” sperimenta coerentemente sul territorio di Montemurro le teorie recentemente espresse da Tomaso Montanari nel suo “Istruzioni per l’uso del futuro”, tentando di ricollegare opere d’arte e territorio. In questo senso si rifiuta la logica delle grandi mostre di superstar dell’arte che, spesso, propongono discutibili confronti e che decontestualizzano l’arte dal periodo storico e dal contesto entro cui si sviluppa. L’auspicio è che si possano trovare nuovi spazi e luoghi per rendere l’arte ed il territorio sempre più fruibili ed intellegibili, anche attraverso le nuove tecnologie.

Casa Museo, Montemurro La posa delle mattonelle, cm 12x8,13 Nature Morte

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Quale parte è la nostra L’urlo per il Sud di Vittorio Bodoni di Anna R. G. Rivelli

Il Sud, luogo umano-terrestre i cui orizzonti simbolici e geografici si saldano nell’ombra metafisica di una visione infernale, è il territorio spirituale e concreto di Vittorio Bodini, paese dell’anima e insieme planimetria reale di un paesaggio maledetto in cui castigo e penitenza si fondono nell’obbligo morale di un legame ineludibile. Un Sud, quello di Bodini, che è la sua terra salentina, ma anche la Spagna, così presente nella sua vicenda biografica e professionale, e ancora in fondo ogni luogo ai confini del mondo cui è negata quella luce quieta e positiva che privilegia un Nord ( da intendersi anch’esso in senso lato) alle cui “incognite finestre” la luna guarda, a dispetto di quell’ “esule provincia” ove di lei “solo la nuca appare”. Il paesaggio del Sud è statico, scabro, col bianco freddo delle case di calce, con una luce che morde e un’aria polverosa; con angeli-pipistrelli che sorvolano il tramonto, con l’ispida durezza delle piante di fichi d’india e con le dolenti vergini, negazione di un eros pur languido e palpitante nella frequente simbologia delle lunghe chiome sciolte. Ma “quanta rabbia di esistere diventa amore” scrive il poeta; e quanto amore a denti stretti si risolve nel suo linguaggio

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ardito, nel fiero incontro con le astrazioni sconfitte ed esaltate dalla concretezza violentemente passionale delle cose in cui si trasforma il tempo (“moriva il giorno come un gran gallo suicida”), la luce che “pare di carne cruda” o l’aria “piena di sangue” di un “tramonto da bestia macellata” che “cade a pezzi…sulle terre del Sud”. E un medesimo espressionismo linguistico fiorisce quasi inatteso anche nelle immagini più tenui e delicate, come “il fiato sottile delle costellazioni” o l’uomo addormentato che “pareva parlasse in un orecchio alla terra” o l’anima del poeta stesso che è “una persiana verde con due occhi dietro”. Eppure, a dispetto del cromatismo cupo di certe immagini e di squarci paesaggistici dominati dall’aridità, dal buio, dal vuoto e dall’assenza, e nonostante la maniera surreale-ermetica con cui il poeta indurisce il linguaggio spesso preferendo agli aggettivi formule alternative, trapela dai versi di Bodini tutt’altro che una sensazione di bruttezza o una reale volontà di distacco; si percepisce piuttosto il lacerante dissidio che contrappone amore e morte in una romantica aspirazione alla fuga ed insieme nel desiderio di totale abbandono, in quel dolce naufragare le-

opardiano che in Bodini diventa il “vorrei essere fieno sul finire del giorno/portato alla deriva” della poesia Finibusterrae. Talvolta a contraddire il buio appaiono le ghirlande di peperoni rossi, le zucche e i datteri gialli, il basilico, i garofani, i gerani, le piante di limoni, tutti simboli di una realtà arcaica e di una società arretrata che tuttavia alimentano, con la carica nostalgica della loro antica dolcezza, quella rabbia di esistere che –dicevamo- finisce col diventare amore. Ed è proprio la forza impetuosa di questo sentimento che illumina la poesia di Vittorio Bodini –poesia di denuncia certamente- e le dà palpito e calore e voce perentoria. Una voce che ancora urla il diritto del Sud ad esistere, ancora rivendica lo sguardo della luna sulle sue non incognite finestre. Vittorio Bodini è infatti un nostro grande, grandissimo poeta contemporaneo che tuttavia è spesso ignorato dalla cultura ufficiale e difficilmente –forse maientra in quei libri di scuola da cui a poco a poco stanno scivolando via molti autori del Sud in questa Italia a cui ancora è necessario domandare “Quale parte è la nostra?/ Non saremo null’altro/ che rozzi testimoni di questo esistere?”


MA I POETI NASCONO AL SUD Finibusterrae Vorrei essere fieno sul finire del giorno portato alla deriva fra campi di tabacco e ulivi, su un carro che arriva in un paese dopo il tramonto in un’aria di gomma scura. Angeli pterodattili sorvolano quello stretto cunicolo in cui il giorno vacilla: è un’ora che è peggio solo morire, e sola luce è accesa in piazza una sala da barba. Il fanale d’un camion, scopa d’apocalisse, va scoprendo crolli di donne in fuga nel vano delle porte e tornerà il bianco per un attimo a brillare della calce, regina arsa e concreta di questi umili luoghi dove termini, meschinamente, Italia, in poca rissa d’acque ai piedi d’un faro. E’ qui che i salentini dopo morti fanno ritorno col cappello in testa.

Battono colpi a case addormentate. Ne trasale la luna, e l’azzurro che nasce, a corolle, negli anditi. Noi parliamo del logos e dell’amore, sorpassando più volte le nostre case, i taccuini dei letti dov’è già fatta ogni somma, e i pesci d’oro che evaderanno dai nostri petti nel sonno, nuotando per le tenebre della stanza e pronunziando le oscure frasi dei sogni. Ma tu, luna, le incognite finestre illumini del Nord, mentre noi qui parliamo, nel fondo di quest’esule provincia, ove di te solo la nuca appare.

I pomodori secchi I pomodori secchi attaccati a uno spago e le donne dai cuori di cicoria. I pomodori secchi e i datteri gialli, e le donne che colgono le olive fra gli olivastri, con la bocca viola; tutto è univoco e perso a furia d’esistere. Dove hai nascosto, cielo, l’altra ipotesi? Quale parte è la nostra? Non saremo null’altro che rozzi testimoni di questo esistere?

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Rocco Scotellaro invito alle odorose vie del cuore di Mara Sabia

Rocco Scotellaro. Uno dei poeti maestri. Si riconosce nel-la sua una delle maggiori voci poetiche del Novecento ita-liano: una voce forte, ruvida e gentile che molto ha inse-gnato. Della poesia e della vita. Abitualmente si tende a far emergere dalla sua produzione letteraria, oltre che dalla sua breve vita, temi quali l’impegno politico, “i contadini del Sud”, la ricerca del rimedio alla fame per la sua terra orfana di Cristo, come nella definizione dell’amico Levi. Eppure, a ben guardare tra i versi scotellariani, si scorgono motivi apparentemente lontani dai citati e, forse, meno noti. Così si scopre un poeta altro; un altro Rocco Scotellaro, che poco ha a che fare con la Questione Meridionale, la politica, il martirio del carcere, la perduta schiavitù-libertà contadina, con Levi – e il levismo - che tanto diede, e tanto tolse, a Scotellaro e alla sua fama, così come alla Lucania stessa. Si scopre lo Scotellaro altro. Si scopre e si studia, così, l’uomo, umano troppo umano, spesso impulsivo, giocoso; l’uomo che amava le donne, ma anche i Classici e i Romantici. Altro che schiavitù contadina. Facile sale, allora,

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alla mente il confronto tra Rocco Scotellaro e Pablo Neruda: lo stesso intenso fervore impegnato aleggia nei versi di entrambi, le stesse accese note di passione, ma anche lo stesso adorante ritorno alla bellezza, allo sconfinato mistero dell’universo femminile, simbolo del quale diventa il volto bianco di città di una straniera o quello delle donne lucane che “portano la toppa dei capelli neri sulla nuca” . Di Neruda, Giuseppe Bellini ha scritto: Ha rivendicato le vie del cuore, senza ripudiare la sua funzione di poeta civile, soprattutto in qualità di uomo impegnato col proprio tempo, sinceramente solidale con il prossimo, coinvolto fino alle radici nella sua situazione drammatica . Si potrebbe sottoscrivere il medesimo pensiero anche a proposito del poeta di Tricarico, benché diverse le origini e le situazioni. Ed è, dunque, brevemente, per le scotella-riane vie del cuore che si vorrebbe invitare il lettore. In una interpretazione evocativa, scevra da alcuna annota-zione critica, tra i ritratti di quelle donne paesane, figlie della miseria nera, fanciulle “dai seni ster-


Carlo Levi - Basilicata ‘61 Ritratto di Rocco Scotellaro

pigni” o figlie “della quercia e della macchia” o, ancora, delle signorine di città. Tutte, tutte con la parola di Rocco Scotellaro, di-ventano creature dagli “odori di tutti i giardini” . Nei giardini germogliano fiori odorosi e le donne vi dimorano come querce possenti ed evocano i profumi selvaggi del bosco, e segreti aromi campestri. Nella splendida poesia Reseda, odore perso e ritrovato Scotellaro scrive: Avevi tutti gli odori dei giardini seppelliti nei fossi attorno le case; tu sei, réseda selvaggia, che mi nutri l’amore che cerco, che mi fai sperare. Poi aggiunge: (…) io ti guardo e mi bevo il tuo sorriso, amica del caso, scoperta del cuore che deve colmare la sua sera. La donna-reseda è scoperta che colma la sera del cuore del poeta, lo solleva dalle angosce. Pianta profumatissima, la reseda ha proprietà lenitive, insite già nel nome: reseda viene infatti dal verbo latino rĕsēdo, che si traduce con calmare, guarire, alleviare. Non è raro, dunque, come si può dedurre celermente dai versi appena citati, che le donne cantate da Scotellaro siano soventemente assimilate a piante, fiori, vegetali. E non è raro che le donne scotellariane siano figure salvifiche, guaritrici. Esiste in merito una poesia emblematica. E non a caso è il componimento che dà il titolo a tutta una sezione della silloge È fatto giorno: È rimasto l’odore della tua carne nel mio letto. È calda così la malva Che ci teniamo ad essiccare Per i dolori dell’inverno. Il titolo è preso dal terzo verso: È calda così la malva. È qui, tutto qui il senso della donna in Scotellaro. L’incipit è volto alla persistenza dell’odore, parola magica che ricor-re anche in molte poesie scotellariane. Parola evocatrice che dà senso ad un “sen-

so”. Chi percepisce un odore vie-ne automaticamente catapultato nella situazione e nel tempo in cui l’ha avvertito; l’odorato è l’unico senso ca-pace di una associazione immediata tra sensazione e si-tuazione. Senza filtri. Un odore è molto più di una sensa-zione temporanea, è qualcosa che poi ti porti dietro, attaccato a qualche angolo di anima. In questo caso l’autore parla chiaramente dell’odore della tua “carne” nel mio letto. Potrebbe sembrare una frase indelicata. Invece no. Appena un verso più avanti e la marcata sensualità si smorza nel caldo della malva. Perché poi la malva? Mia nonna, contadina vera, di quelle con ancora “la toppa dei capelli” - non più neri - “dietro la nuca”, con la malva cura tutto. Ancora oggi. La malva nella tradizione villica lucana è un toccasana generale: si cura con l’infuso di malva il mal di denti, il mal di pancia, il raffreddore; è un tonificante per l’utero delle partorienti e, misto alla camomilla, è un antidoto contro l’insonnia. Si dice “la malva da ogni male salva”. L’odore, che emanano quei fiori messi ad essiccare nelle soffitte buie, è caldo, caldo davvero come potrebbe essere quello di una bella donna, appena levata dal letto.

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La donna paragonata alla malva diventa, di conseguenza, una riparatrice universale. È un unguento, una medicina, una pozione. La donna, nei versi scotellariani, è un toccasana generale. La donna in Scotellaro salva. Come la malva. Non è un caso, allora, che proprio ad una donna il poeta si rivolga, si confidi e si congedi in Saluto, componimento del 1948 escluso da Carlo Levi dal corpo della silloge È fatto giorno. È questa una fanciulla vestita di ginestre, un fiore selvatico, timida e chiusa come un acerbo fiorone, figlia della quercia e della macchia, vegetale tra i vegetali. E non è un caso neanche che sia paragonata a una Madonna molto venerata in Lucania, Santa Maria di Fonti. A questa figura femminile che, come la donna di È calda così la malva, ha in sé caratteristiche erboree e salvifiche, il poeta dice: “Io non ti voglio dire quante strade odorose ho da rifuggire” . Non sentirai mai più la maggiolata, la figlia della quercia e della macchia. Vestivi dei fiori delle ginestre Ridonate all’incolto pendìo. Inviolata eri e chiusa Come acerbo fiorone. Avevi l’occhio bianco dei faveti Spaurito, simile alle lepri Prese nel laccio delle mute. Io quando t’assalii Sentii il tuo ventre ridere. E le tue guance arrossate Erano un altro selvatico fiore Lasciato al pascolo. Io non ti rivedrò mai più La figlia della quercia e della macchia. Né ora che ricorre la tua festa, la festa dei ceri e le contorte nicchie e dentro il viso nero di Maria di Fonti che pare tua madre giovane.

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Sei la prima voce, sei alla testa del corteo delle vergini in veli, e vai spargendo dai cesti vessilli di ginestra e madreselva profumata d’incenso. Io non ti voglio dire Quante strade odorose ho da rifuggire. Le rifuggite strade odorose sono quelle della sua terra, lastricate, durante le processioni, di petali e incenso: sap-piamo il poeta morirà a Portici, quasi un esiliato. Scotella-ro, in questi versi, è un viandante nostalgico che non met-te radici, a differenza delle sue donne fiorite sui pendii selvaggi come piante forti. Esiste, dunque, tutta una strana alchimia, nell’opera poetica di Scotellaro, in parte accessibile solo a chi conosca la cultura contadina, a chi abbia note, appunto, le proprietà della reseda e della malva. Scotellaro è stato un grande conoscitore del suo Sud ed interprete perfetto delle sue criticità come delle sue grazie e, insieme, un poeta passionale, lieve, descrittivo, capace di cantare come pochi le proprie odorose vie del cuore. La poesia scotellariana, così imperniata da immagini campestri, anche quando erotica, non si configura quale attività secondaria o parallela all’impegno politico del poeta, portata avanti in momenti di otium, ma è arma stessa della sua denuncia. Fluisce nel suo stesso programma. Rocco Scotellaro è soprattutto uomo e poeta che mette a nudo le sue passioni con lo stesso eccezionale fuoco che lo ha contraddistinto in ogni fase della vita. Le sue donne arboree sono esse stesse generate e cantate dall’essenza della terra lucana e dalle sue profonde contraddizioni. Ad altre righe, forse, andrà affidato il ritratto più dettagliato delle donne scotellariane, che ancora hanno molto da svelare; nel frattempo si porge questo invito, che è un ben piccolo tributo, appassionato e riconoscente, all’uomo completo Scotellaro e soprattutto alla sua “poesia dei sensi”.


IL SAGGIO

Nell’ insieme della poesia di Vito Riviello, da L’astuzia della realtà (1975) fino a Monumentanee (1992), si configura il vario affacciarsi di un nucleo originario, di una primitiva forza comica, verso le voci della comunicazione contemporanea, verso l’orizzonte affollato ed invadente del linguaggio dei media. Quel nucleo originario affonda nel retroterra lucano, in quell’ universo “meridionale” da cui Riviello proviene e che ha avuto tanta parte nella sua formazione: ma la sua non è una Lucania contadina, ancestrale e folclorica, assolutamente separata dai segni del presente “moderno”; è invece una Lucania cittadina e piccolo borghese, coltivata nella capitale lucana, la Potenza degli anni ‘40 e ‘50, nel gioco di passioni e di interessi di un mondo certo “provinciale”, ma curioso, assetato di cultura, aperto verso orizzonti nazionali ed internazionali, anche se continuamente tarpato in questa sua apertura: un mondo comunque richiamato dal fascino di ciò che di più “moderno” poteva provenire dal “centro”. Riviello ha saputo entrare, insieme con viva partecipazione e con ironico distacco, entro le pieghe più intime di quel tessuto provinciale e piccolo borghese, ne ha estratto la colorata materia (fatta di esibizioni e di pudori, di incongrue aspirazioni, di piccoli oggetti familiari, di voci di retrobottega e di dopopartita, di un brulicare di commercianti sull’orlo del fallimento, di accaniti ascoltatori della radio, di cascamorti e di dongiovanni senza donne da conquistare, di bizzarri viveurs frequentatori del teatro di varietà e pronti a rovinarsi per le soubrettes di passaggio) insieme ad un senso di insufficienza, di sproporzione, che appunto spinge sempre a volgere lo sguardo altrove, a cercare altri universi. Borghese, nei suoi modelli culturali e nel suo stesso tessuto “antropologico“, doveva offrirsi sullo scorcio degli anni ‘40, all’uscita dalla guerra e dal fascismo, come proiettata verso un sogno di citta, verso una figura “urbana che non riusciva ad assumere, ma che forse già conteneva in sé (o sognava di contenere in sé), senza riuscire ad esserlo. Fallite quelle promesse e travolte dal vento dell’emigrazione, di Potenza rimaneva un’immagine di citta metafisica, di possibilità non realizzata ma definita in una sproporzione: e questa sproporzione nutriva una “memoria.” priva di ogni aura patetica, di ogni ripiegamento li-

Vito Riviello: “Tutto ciò che ho perso me lo ritrovo in versi” di Giulio Ferroni

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rico o nostalgico, una “memoria” intimamente regolata da una spinta comica (dato il legame del comico con la sproporzione, con lo scompenso tra livelli diversi, con la differenza di potenziale). Si ritrovano qui le modalità in cui lo spirito comico di Riviello emerge proprio da questo fondo meridionale, lucano, cittadino, piccolo-borghese, nello squilibrio di potenze scatenato a Potenza e da Potenza: un fondo dietro cui si affacciano le tracce appena visibili di arcaiche maschere greco-itatiche congelate in rictus indecifrabili, l’eco lontana dell’enigmatico sorriso apulo del venosino Orazio, l’ humour nero e celeste, cosmopolita e parigino del surrealismo novecentesco, l’ammiccare verbale e corporeo dell’avanspettacolo meridionale (fino alla smorfia slogata e metafisica della moderna maschera del grande Totò), e ancora le varie coniugazioni dell’assurdo postbellico. Partendo da queste radici, capaci di agire sul disporsi stesso del linguaggio, sulla sua interna dimensione gestuale (esaltata da una vocazione incoercibile alla scena, all’ oralità), dalla sproporzione entro di esse data e da esse innescata, Riviello si è messo ad ascoltare le molteplici voci della comunicazione contemporanea; ha come precipitato quegli scambi di potenza nel calderone dei linguaggi che, a partire dagli anni ‘60, sono andati sempre piu affollando il “centro”, che hanno fatto e detto la nostra cultura onnivalente, omogenea e policentrica, disintegrata e moltiplicata: i linguaggi della modernità e del metropoli pervasiva, di quella “città” penetrata un po’ dappertutto, fino a divenire ‘’postmoderna”, telematica, derealizzante. Con il suo originario senso della sproporzione Riviello ha preso di petto singoli frammenti della evanescente realtà verbale e fisica in cui siamo oggi immersi, ha fatto sprigionare scintille dal suo vuoto, ha giocato con l’ assurdità del suo indifferente apparire; ha manipolato comicamente i nostri linguaggi più normali e onnivalenti, che percorrono i media in tutte le direzioni, da Roma a Parigi a New York a Potenza (da quello del dibattito culturale, a quello della politica, della cronaca, dello spettacolo, della pubblicita, della televisione). E ha cosi mostrato la loro inconsistenza, facendone nello stesso tempo scaturire illuminazioni comiche, scariche di potenziale elettrico, solidarieta magiche, incongrue, sinistre, im-

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bambolate allucinazioni. Giocando con le parole, combinando ecombinando certi pezzi della nostra quotidiana comunicazione postmoderna, frasi e formule in cui i media sembrano riassumere il senso e il colore del tempo e della storia che si fa giorno per giorno, si è posto come uno degli analisti più sottili della fatuità del presente: ha contribuito a svelarne la natura (per dirla con it suo Totò) di “quisquilie, bezzecole, pinzellacchere”, e ha ricavato da questa sua analisi beffarda e sfrontata qualche scheggia di “meraviglioso”, come in un sogno ad occhi aperti sempre ironico e pronto a smentire se stesso, a fare qualche passo in più, a scoprire qualche nuova incongruità, sproporzione, qualche ulteriore scivolamento e improponibilità del senso. Nella prima educazione letteraria di Riviello si è dato un fecondo rapporto con alcuni “maggiori” geograficamente vicini, come Rocco Scotellaro, Ernesto De Martino, Leonardo Sinisgalli e Alfonso Gatto (mentre da un altro punto di vista non poteva mancare la suggestione di Carlo Levi): in quell’ orizzonte lucano e meridionale occorreva d’altra parte fare i conti con una prima esigenza di confronto con la “realtà”, con il richiamo di un mondo concreto e definito, che agiva pur entro la fortissima disposizione a scoprirvi sproporzioni e incongruità. In questo confronto con la realtà Riviello incontrava subito lo sperimentalismo di “Officina” e poi giungeva a sfiorare con curiosità (pur senza condividerne la programmatici ideologica) le esperienze della neoavanguardia. Tralasciando le non trascurabili esperienze precedenti (e la prima raccolta Premaman, apparsa nel “cruciale” 1968), il libro che qui si presenta prende avvio significativamente dai testi de L’ astuzia della realtà (risalenti agli anni 1967-1974 e raccolti insieme nel 1975): il titolo stesso di questa prima sezione mostra in tutta chiarezza come l’originaria materia “realistica”, attinta per lo più a occasioni e situazioni concrete del mondo urbano e piccoloborghese di cui si è detto, faccia sprigionare “astutamente” inedite combinazioni, conduca al di là della realtà data, nello spazio della sorpresa, dell’imprevisto, del “meraviglioso”. Riviello segue qui più direttamente la via di un “realismo surrealisitico”, di un suo surrealismo lucano, domestico, piccolo-borghese, legato all’utopia, alla bizzarria, al ricordo delle “buone cose di pessimo

gusto” vissute e toccate dall’autore stesso nell’adolescenza a Potenza. Un rilievo particolare assume così il sogno, che si pone come proiezione interna a quella realtà urbana meridionale: come una sua modalità, un suo rivolgersi verso altro da sé, verso possibilità difficili da afferrare, mai davvero afferrate e conquistate. E’ un sognare che si svolge dal torpore della piazza della città di provincia: sogno di una cultura cosmopolitica, sogno di essere su di una scena pubblica, il sogno insomma della provincia italiana del dopoguerra, di un’adolescenza e di una giovinezza che, partendo da una realtà tanto circostanziata, fatta di rapporti, di affetti, di situazioni e occasioni minute e paradossali, si rivolge verso le promesse e le possibilità del “moderno” (e, in tutt’ altro orizzonte, può venire in mente La strada per Roma di Paolo Volponi). Un grande sogno e un insieme di sogni particolari che in Riviello fanno come evaporare la realtà, la proiettano verso un gioco insieme aereo e assurdo, leggero e bizzarro. Dai luoghi e dalle presenze di quel mondo emergono inedite configurazioni (si veda ad esempio Al morto mulino d’acqua,); ma nello stesso tempo la credibilità di quel sognare viene vanificata dall’emergere di frantumi del linguaggio convenzionale, dai primi usi banali e meccanici della cultura di massa, che pure l’utopia “potentina” sembra come purificare, riscattare dalla loro invadente volgarità, rendere quasi familiari e simpaticamente consueti. Il tema del sogno, in più diretto rapporto con la matrice surrealista, continuerà comunque ad affacciarsi nell’opera di Riviello, svolgendosi sempre più verso un senso di spossessamento, che raggiunge la sua definizione più dispiegata, quasi trionfante, in M’hanno sognato (nella raccolta Tabarin), in cui l’ io personale si riduce (con il sostegno di una serie di giochi e di accostamenti vocalici) alla consistenza di un sogno fatto da altri, al tempo evanescente di una figura del sonno. Nelle prime fasi della poesia di Riviello il sogno della città “moderna” è comunque strettamente legato ad una ironica nostalgia della città perduta, del mondo un po’ vecchiotto della provincia incongruamente proiettata verso la modernità, di personaggi e situazioni di una vita insufficiente, rivolta indietro, banale e povera ma dotata di una sua “aura”: una nostalgia che arretra a ricordi degli anni 30’ e ‘40 e ancora

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più indietro, verso l’inizio del Novecento e verso l’Ottocento, e che in Dagherrotipo (1978) raggiunge vari effetti “gozzaniani”. Gozzano è del resto un autore molto presente a Riviello, che ne svolge l’insegnamento in una chiave di paradossale aggressività, ironizzando in modo estremo richiami e citazioni letterarie, facendoli scontrare con lacerti e spezzoni di un linguaggio quotidiano che trova nei vari media il suo veicolo essenziale (si veda per esempio in Previsioni del tempo l’effetto comico dato dalla sovrapposizione tra il linguaggio delle previsioni del tempo e la citazione del celebre attacco dantesco di Purgatorio, VIII). Tra ironia e nostalgia, come sguardo insieme parodico e affettuoso a vecchie statuine da soprammobile, si svolgono d’altra parte gran parte dei richiami di Riviello alla storia più o meno recente (da quella risorgimentale, filtrata proprio da Gozzano, come rivela Gozzaniana in Assurdo e familiare, a quella che si confonde con il mito classico). Una serie compatta di testi “storici” è costituita da Sindrome dei ritratti austeri (1980), galleria di “uomini illustri”, figurine che si moltiplicano in svolazzi da teatro di varietà, in gesti deformati e rappresi, quasi con il piede in aria sulla scena in attesa di una cadenza che si perde. La storia e i suoi personaggi vengono così immessi direttamente nel ritmo della quotidianità contemporanea, della banalità urbana, che li illumina con gioia quasi infantile: in questi “ritratti” si mette in scena la contraddittorietà dello sguardo indietro, si interroga la paradossalità del nostro rapporto con il passato, della consuetudine a farne parte del presente, a condensarlo in figurette disponibili e compresenti. Come esplicitamente sottolinea Ottica della storia, questo sguardo azzera i contrasti, finisce per far andare a braccetto, “in tandem”, personaggi che furono nemici irriducibili, appiattisce tutto nella contemporaneità di “una foto di scuola”: il gioco poetico ruota, scherzando in tutta leggerezza con queste figurette (tra cui emergono in modo particolare Tasso, Napoleone, D’Annunzio), sull’ implicità assurdità della storia e della tradizione, sul loro inevitabile imbrogliare le carte, sull’ affogare dei loro segni e delle loro tracce nella indeterminata coscienza di chi le guarda “da dopo”, di chi ne afferra e considera le immagini dentro di sé. Riviello ha amato da sempre agire comicamente

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sulle parole attraverso una serie di confronti vocali, mettendo in contatto e in contrasto termini semanticamente molto lontani, attraverso l’individuazione o la creazione di identità fonetiche: il suo comico linguistico agisce sulle parole più consunte, più segnate da usi convenzionali, rivitalizzandole attraverso paronomasie, ripetizioni in forme diverse, spostamenti e deformazioni elementari, e trascinandole in evanescenti cavillazioni, in insistenti ed aleatorie combinazioni, in prolungate esplosioni di nonsense. Questa azione sul linguaggio rinvia a certa comicità del teatro di varietà novecentesco, alle capziosità metafisiche del grande Petrolini, ai riavvolgimenti linguistici di Totò, a tutta la tradizione dell’avanspettacolo e del cabaret : e prende pienamente il campo a partire da Tabarin (1985), che tocca livelli di comicità irresistibile, tra sogno, nostalgia, beffa, piacevole ritratto di situazioni curiose e sospensione di ogni senso possibile, di ogni credibilità delle forme e delle convenzioni linguistiche. Il delirio fonico si aggroviglia su singoli nuclei verbali (come connessione e connettere in Manicheismo) o si inceppa in frantumati balbettii, in richiami deformati e sconnessi a lingue straniere, soprattutto a un francese da variété (come in Piano del Conte). Questo delirio mette in dubbio la consistenza delle cose, della loro nominazione, dei tentativi dell’io di imporsi sul fluttuante avvolgersi della realtà e della parola: su questa strada Assurdo e familiare (1986) svolge un più serrato ed aggressivo confronto con i linguaggi e i simulacri dei nostri anni, con le formule stereotipate e le inerti convenzioni della cultura nei suoi diversi gradi (dalla cultura letteraria e filosofica all’universo della musica leggera e dello sport). Si infittisce l’orizzonte della parodia, che si rivolge alle forme della polemica culturale (Iniuria verbis), a certe modalità della scrittura poetica (Alla maniera ermetica, particolarmente graffiante in anni di ritorni orfico-ermetici), a usi e schemi del linguaggio dell’attualità (da Status quo, a Il pensatore di Rodin), ecc. Ma la gamma del gioco e dell’invenzione è qui amplissima, ricavando squarci di trionfante “assurdità” fonica (su cui agisce anche la suggestione di un maestro dell’assurdo come Eugène Ionesco) dalle più diverse voci della quotidianità collettiva e di massa, come mostra Interruptum, che prende spunto dalle inter-


ruzioni dei radiocronisti delle diverse partite della trasmissione radiofonica domenicale Tutto il calcio minuto per minuto, e risolve il suo delirio in un inatteso omaggio a Totò (interrotto in “To... tò”). Ma attraverso il gioco scatenato di questa raccolta (di cui si sarebbe tentati di citare, uno per uno, quasi tutti i componenti) si affacciano inquiete interrogazioni sul finale nonsense dell’ esistenza, sull’evanescenza del tempo e dell’esperienza (come inPoco fa). Riviello attraversa tutta la rarefazione dei linguaggi del presente postmoderno: il sogno impossibile della “città” meridionale, piccolo borghese e moderna, è stato oggi definitivamente sommerso dal dominio della comunicazione artificiale e fittizia, in cui si mescolano e si frantumano i linguaggi del consumo quotidiano, della pubblicità, della politica, della burocrazia, del cinema, del giornalismo, dello sport, della musica e del turismo di massa, con sovrapposizioni tra lingua ufficiale, dialetti, frammenti di lingue straniere. L’insieme di questi linguaggi trova il suo luogo di unità, lo sappiamo bene, nella tele-visione, nel suo darsi come apparenza rumorosa e indifferente, velenosa e neutra: una forma in cui la vita sembra trasformarsi in gratuito scorrimento, svuotarsi di peso e di rilievo. Ma in questa cultura del simulacro, dominata dalla televisione, Riviello sente affiorare il residuo di un fondo arcaico e magico-diabolico, di un “sacro” perverso e allucinato, non privo di minacce iettatorie. I’ apparire postmoderno si rivela solidale e contiguo con le “apparizioni” della più antica superstizione. È questo l’orizzonte che presiede ad Apparizioni (1989), in cui la comicità del nostro opera un corto circuito tra il più antico mondo folclorico e il levigato universo telematico: attraversa il mondo di “apparizioni” a cui ci riduce l’universo dominato dalla televisione, passa in rassegna le “apparizioni” della chiacchiera culturale, dei discorsi della filosofia metafisica e postme-tafisica, di figure diaboliche e di figure sacre. Tornando al pas-sato contadino veniamo affascinati da una surrealistica e familiare apparizione della madonna (Apparizione); ma tutto il tessuto della cultura che abbiamo alle spalle, tutto il consistere delle nostre vite e dei nostri discorsi, si risolve ormai nel puro emergere dell’apparire televisivo (si veda Panoramica): e si mol-

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tiplicano le visioni del precipitare e risolversi di un’intera civiltà in brandelli di immagini, di indeterminate prospettive (si vedano ancora Commento televisivo d’artista straniero all’ alluvione di Firenze, e le due poesie sulla questione meridionale, La questione meridionale e Mappa). Dopo i giochi di parole di Kukulatria (1991), esercitati su singoli lessemi, e in particolare su nomi geografici (con punte di quasi metafisica evaporazione), l’ultima delle raccolte che costituiscono questo libro, Monumentanee (1992), vuole offrire, come rivela il titolo, immagini “istantanee” della vita dei nostri anni, scatti presi al volo ma che si pongono come “monumenti” di questo presente. Un presente che è “detto” da un linguaggio in primo luogo televisivo, che filtra entro di sé eventi, situazioni, misteri, fatti e fattacci della cronaca e della storia in cui siamo immersi. Anche qui Riviello parte per lo più da singole parole o modi di dire diffusi e li sottopone a combinazioni, spostamenti, avvolgimenti, che ne svelano l’ assurda normalità: e molto bene lo mostra già la prima poesia, A chi, che ruota intorno alla domanda “A chi giova”, tante volte formulata negli anni passati dal linguaggio politico e giornalistico per i tanti fatti oscuri che hanno agitato l’Italia. Numerosi sono qui i testi che si riferiscono ai vari “misteri” della cronaca italiana, che smantellano giocosamente il vano chiacchiericcio che li ha accompagnati, che colpiscono certe parole salite sulla scena, diventate moneta corrente, pure formule che finivano per nascondere la realtà di quanto stava accadendo (si vedano ancora Presunzione, Soapopera, Gladiator). Insieme all’ eco di questi recenti “misteri” italiani si affacciano domande sulla storia e sull’identità italiana, richiami alla guerra del golfo, frammenti “aggiornati” di vaniloquio piccolo-borghese, mentre il Poema del pescattore, offre una singolare fittissima “storia del mare”, del suo cancellarsi dall’esperienza, in un accavallarsi di luoghi comuni culturali e subculturali, come in una divertita e sbilenca saga telematica. E anche qui, nel suo spericolato giocare con l’assurdo, Riviello tocca livelli di inquietudine metafisica ed esistenziale, come in Il buio del nero, e in Teorema. E nei due ultimi testi, Le parole e La memoria caduta, si offre come il suggello del dissolversi degli strumenti stessi della poesia, della cultura e

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dell’esperienza, nel crogiuolo vuoto e simultaneo del presente: rarefarsi e perdersi delle parole, del loro intimo rapporto corporeo con la realtà e con la verità (“Le parole evocano il vero /se si diceva mister c’era il mistero”); fine della storia e abolizione del passato e del futuro, in un semplice gioco di parole con riferimenti “meridionali” (“Abolito il futuro con la caduta del muro / la battaglia di Canne è un canneto / d’un canonico di Canosa”). Nel percorso che questo libro permette di seguire, si può insomma verificare come la maschera comica assunta da Riviello, sorta dal fondo del perduto orizzonte meridionale cittadino e piccolo borghese, corroda la convenzionalità e la ripetitività dei linguaggi e delle situazioni da cui siamo presi, la loro atteggiata e improbabile serietà, la loro pretesa di normalità e di normatività, la loro supponenza e convinzione di sé: mostra la loro evanescenza e futilità, riducendo il linguaggio ad una infantile libertà di associazioni e deformazioni vocali, squarciata da una interna e solo a tratti affiorante malinconia per qualcosa di perduto e di inappagato. Un gioco scatenato e spesso esilarante (specie se affidato all’ oralità e alla presenza fisica dell’autore), in cui la coscienza della sproporzione della parola e del linguaggio introduce un filo di tristezza e di nostalgia, come del resto accade in tutta la comicità a cui Riviello si ispira. Questa maschera beffarda ci lascia una immagine assai vivace di questo scorcio di fine millennio, della sua realtà e del suo linguaggio: conserva nel suo “monumento” comico le ridicole e velenose miscele dell’Italia postmoderna, ne trae occasione di autentico piacere comico, e ci invita ad allontanarci da esse, ci mette in guardia dal continuare a prenderle troppo sul serio.

Si ringrazia il movimento civico We Love Potenza per la gentile concessione delle fotografie che hanno partecipato al primo concorso fotografico digitale “Saluti da Potenza” Foto di Eleonora Araneo, Primoclass, Nicola Figliuolo

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Trasfigurazioni in anni luce Nella mutazione dei sogni, si sviluppa il reale. Le orme delicate d’ombre rivelano l’intera sostanza da cui nascono acqua, fiori di temporale segni in fuga per l’universo. Hai atteso con pazienza l’arrivo delle parole, le rondini portanti al centro i fili dell’orizzonte, la resa plausibile agli azzurri innalzanti. Lo scritto appare terso, unitario e totemico, gesti e sogni compenetrati. La forma è difforme, la leggibilità più chiara non è nella norma ma nella misura ondivaga del richiamo dei segni. E’ solo quello che è: un’impronta totale.

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Amore boschivo sorgivo che stupiva gli uomini anch’essi scossi dal vento anzi percossi. Le quercie erano nonne e i nonni querci, immobili, grandi creatori d’ombre per digiunar sull’erba. Questi alberi hanno camminato molti hanno fatto gli alberi nelle lontane Americhe, altri sono stati abbattuti disboscati da celebri coiffeurs pour arbres.

La questione meridionale Nella mia terra adombrata d’ombre d’uomini hombres, si sposavano gli alberi le bianche cerre coi cerri dalle chiome dominanti, le acacie provocanti in tulle bianco e i telemoni acaci, forti ed elastici, fecondi idilli senza potature, cedre con cedri dalle radici cedrate.


Noche

Futura

Io che faccio notte in verità non ne sono capace, fabbricare una notte riuscì a qualche artigiano del medioevo, bisogna avere due torri in faccia una lancia alle spalle e vino nero, un mare nero come prospettiva esaltante, aver visto i morti morire, io che faccio notte su notte produco insonnia, sogni ma chi fabbrica le notti ha visto il giorno calmarsi, con la calma dei forti.

Vi ricordate i futuri campi di sterminio? A prima vista sembravano simili a quelli del passato ma a vederli più da vicino si discostavano per tecnologia avanzata, anche il dolore anche l’angoscia senza più psicanalisi. Spettacolarizzata la visione animata degli eccidi dei massacri e delle tecniche efferate. Intervalli pubblicitari degli strumenti usati da quelli medievali ai giorni nostri perfino tipi di corda in casa degli impiccati, spregiudicate correlazioni con vittime autostradali e morti d’etnie obliterate, naufragi esodali e scontri a fuoco nell’urbano a quest’ora in altre ore di questo tempo

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Quel punto chiaro che in ognuno di noi esiste “L’infinito, a volte” di Ghino Mori di Anna R. G. Rivelli

“L’ora della riflessione suona sempre dopo quella dei fatti. E se di certi avvenimenti reali gli studiosi non sono a conoscenza, li ignorano volutamente o inconsciamente li rifuggono, a me è parso opportuno non abbandonare nel dimenticatoio del sapere i fenomeni concreti di cui sono stato testimone”. Con queste parole Ghino Mori chiarisce immediatamente in premessa oggetto e scopo del lungo e minuzioso lavoro che prende corpo nelle oltre trecento pagine del volume “L’infinito, a volte”, libro sconvolgente e prezioso che, mentre chiude a qualsiasi classificazione di genere letterario, apre ad una visione del mondo e della vita certamente difficile da metabolizzare per chi preferisce vivere nella stasi rassicurante delle proprie strutture razionali, ma contemporaneamente capace di testimoniare un orizzonte oltre l’orizzonte a quanti non “ignorano volutamente” bensì hanno accesso a quell’apice di conoscenza che da sempre è e resterà il sapere di non sapere. Mori, psicologo e psicoterapeuta di origine lucana, raccoglie in questo libro quei “fenomeni concreti” con i quali inaspettatamente – ma forse non casualmente, come egli stesso ci dirà – si trovò a convivere in un periodo della sua vita quando, studente di medicina a Milano, appariva probabilmente più proiettato verso l’abbaglio del matematicamente certo che non verso le nebbie un po’ in-

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quietanti di ciò che comunemente si usa definire paranormale. Mori insomma è un testimone; un testimone, peraltro involontario, che in queste pagine registra minuziosamente, a volte quasi con distacco, i fatti a cui ha presenziato e di cui è stato partecipe per offrirli alla propria ed altrui riflessione, senza pretesa di convincere nessuno, ma anche senza alcuna

intenzione di lasciare spazio al benché minimo dubbio sulla veridicità di quanto racconta. “Il gruppo degli amici di là”, infatti, è percepito dall’autore come reale e concreto, non diverso e non meno importante di quegli affetti terreni che con esso condividono l’intensa dedica del libro. “L’infinito, a volte” è dunque il racconto


di un’esperienza straordinaria durata circa un decennio (siamo tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta) che l’autore ha condiviso con una collega universitaria inizialmente inconsapevole delle proprie doti medianiche, con un insieme eterogeneo di persone aggregatesi per quell’imprevedibile casualità che sempre più nel corso della narrazione apparirà invece come una studiata e sapiente “regia”, e con quelle Entità che si presentavano all’improvviso a propria discrezione per dialogare con loro, vincendo progressivamente, con la forza della propria evidenza, resistenze, scetticismo e miscredenza. Visioni, telescrittura, trance, viaggi astrali, metempsicosi, percezioni extrasensoriali, psicometria: sono questi i fenomeni di cui si parla; argomenti certo non facili da trattare perché nascondono sempre l’insidia di un’ingannevole appariscenza e il rischio di un’accoglienza fredda (se non anche di un giudizio calunnioso) nei confronti di chi ne parla. Ghino Mori, però, non indulge agli eccessi, evita i toni entusiastici e le esasperazioni trionfalistiche, e piuttosto riflette insieme al lettore non soltanto sulla straordinarietà dei fenomeni di cui è testimone, ma anche, se non soprattutto, sulle prospettive e sui temi a cui essi conducono. E sono forse proprio queste prospettive e questi temi che danno al racconto fascino e forza, per quelle verità che sembrerebbero essere state scritte

nel Dna stesso dell’umanità ed essersi perse nel corso dei secoli anche grazie alla “sicumera dogmatica” dei movimenti religiosi di tutti i tempi, spesso sostenuta da quell’istinto di sopraffazione che solo sopravvive negli “spiriti piccoli”. La bimba Amelia, Gabriele, Nesia –le Entità che comunicano attraverso la giovane medium – parlano in realtà di un’assenza di confine tra due dimensioni, quella terrena e quella ultraterrena, e di una relazione pressoché ininterrotta tra spiriti e “spiriti incarnati”; e parlano dei singoli come parte di un Tutto, di una complementarità proficua e necessaria, dell’importanza del rispetto della diversità, dell’inesistenza del tempo; indicano l’energia che noi siamo, quel nostro “quid” più profondo che sottrae la vita al puro caso, il percorso di una evoluzione spirituale che non approda al castigo eterno, ma ad un’occasione nuova di crescita. E ancora, parlano

dell’Amore - quello concreto che non può esistere nell’immaturità della coscienza, quello che non crea dipendenza e non pretende il possesso- , dell’anima che è anche degli animali (anch’essi come noi parte di quel medesimo Tutto), della volontà da cui la crescita spirituale non può prescindere, della Fede che è tutt’altro che un cieco credere. E su questi temi e sulle parole di questi “amici di là”, avvalorate dai riscontri concreti di cui di volta in volta il lettore viene messo puntualmente al corrente, Ghino Mori medita e fa meditare argomentando in modo serrato, sottoponendo alla nostra attenzione la Parola Sacra, il verbo della Scienza, il flusso della quotidianità. Ma dal lettore non pretende nulla. “La fede non è ciò che voi credete – aveva detto Gabriele – Non è il cieco credere, né il falso convicimento. Tanto meno l’abbandono. Tanto meno la concessione. Tanto meno lo sforzo. O l’evadere. La fede è quel punto chiaro che in ognuno di noi esiste. È il seme, il seme dello spirito, lo spirito che illumina, custodisce”.

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La guerra delle zanzare di Roberto Moliterni

Roberto Moliterni (1984) è cresciuto a Matera. Dopo gli studi in cinema, nel 2010 ha vinto il Premio Malerba per la sceneggiatura In prima classe. Ha pubblicato Fare un corto (Dino Audino editore, 2012), collabora come rubricista a diverse riviste e ha un blog su Donna Moderna. L’ultimo suo lavoro per il cinema è il documentario Mater Matera, scritto assieme ad Andrea Di Consoli e diretto da Simone Aleandri, co-prodotto da Clipper Media e Rai Cinema. Assieme a due amici, è ideatore delle carte da gioco “Materane”. Arrivederci a Berlino Est è il suo primo romanzo

IL RACCONTO

Abitiamo in una zona che si chiama la Marranella. Il nome - come tutti i nomi che hanno le cose - non è casuale. Prima c’era una palude che ora non c’è più. O meglio: non si vede. Perché sotto le nostre villette costruite bene, ma anche sotto i nostri palazzi alti c’è ancora l’acqua della Marranella. Lo si capisce bene certe sere d’estate, quando in altri quartieri fa caldo, ma tutto sommato si sta bene e qui, invece, fa caldo, ma c’è anche l’afa che ci mette addosso un secondo vestito.

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Il primo giorno di pioggia, a settembre, è un piccolo, meraviglioso spettacolo. La temperatura che scende di qualche grado. Un sorriso che si abbozza sotto i baffi. Le zanzare, pensiamo, presto non ci saranno più. Anche quest’anno, in un modo o nell’altro, siamo sopravvissuti. La Marranella tornerà ad essere un quartiere uguale agli altri, solo un po’ più freddo forse. È stata una guerra


spietata, combattuta con l’astuzia e con l’ingegno, ma anche con la forza bruta, con la cattiveria. Non siamo stati cattivi da subito, all’inizio eravamo persino tolleranti, benevolenti: a fine aprile era, in fondo, un segno inequivocabile della primavera che arrivava. Siamo diventati cattivi poco a poco, giorno dopo giorno, ora dopo ora, puntura dopo puntura. A fine maggio, nel cuore della notte, siamo stati aggrediti da uno stormo feroce di zanzare. Si sono calate su di noi come la Luftwaffe. C’è da dire che le zanzare non hanno pietà e che, anzi, sono vigliacche. Attaccano quando non le puoi vedere, quando sei inerme, quando sei distratto e attaccano ad oltranza e senza sosta, finché non sei sfinito. Non è astuzia la loro, è vigliaccheria. Non è una guerra leale quella che combattono, è una guerriglia domestica. L’abbiamo chiamata la «notte dei lunghi aculei» ed è da lì che abbiamo incominciato anche noi a fare la guerra. Abbiamo rinunciato al sonno - tanto ormai era compromesso -, acceso la luce e ci siamo alzati, con l’intenzione precisa di sterminarle tutte, a una a una. Abbiamo utilizzato l’arma più antica, tramandata dai genitori e da generazioni di ammazzatori di zanzare: la pezza bagnata. Quella non bagnata non funziona, perché, quando la lanci contro una parete, non aderisce e, anche se sfiora la zanzara, alla fine non l’ammazza. Con l’artiglieria da terra abbiamo perciò bombardato il cielo della stanza. Nudi in mutande, in piedi sul letto a cercare di prenderle senza far cadare il lampadario oppure a freddarle al volo sopra la testiera del letto, mentre aspettavano che spegnessimo la luce e ci distraessimo per tornare a colpirci di nuovo. Schizzi di sangue sul soffitto, schizzi di sangue sul muro. Abbiamo creduto di aver vinto, abbiamo spento la luce e siamo tornati a dormire. La «notte dei lunghi aculei” l’abbiamo spuntata noi. E invece nel cuore più prezioso del silenzio è ricominciato sottile un ronzio, prima lontano, poi vicino e poi di nuovo lontano e poi vicino, vicinissimo. Dentro l’orecchio. Un tentativo di colpirla a mano libera, a vuoto.

Di nuovo la luce, di nuovo nudi in mutande in piedi sul letto. La guerra non era finita affatto. Era solo cominciata. Dal giorno seguente, puntuali alle 16, quattro o cinque stormi di zanzare hanno incominciato a disporsi, pronte all’invansione, davanti alla porta-finestra che dà sul cortile-giardino. Le sentivamo ronzare persino attraverso il doppio vetro, sbatterci contro in moti ciclici di idiozia. Ci siamo messi a guardarle a lungo con in faccia una domanda complessa: «e mo’ come cazzo facciamo a uscire?». Ci siamo informati, abbiamo letto su internet, abbiamo chiesto agli amici, alla saggezza dei nonni. «Non tenere i sottovasi, è lì che si formano i nidi». E abbiamo tolto tutti i sottovasi dal cortile-giardino. «Provate a mettere una monetina di rame nei sottovasi» E abbiamo ripreso i sottovasi che avevamo precedentemente buttato, abbiamo fatto incetta di monetine da 1, 2 e 5 centesimi e le abbiamo infilate sotto le piante. Quando siamo tornati le zanzare c’erano, le monetine di rame erano sparite. «Prendi il basilico, l’odore allontana le zanzare». E siamo corsi dal verduraio egiziano e ne abbiamo comprate sei, tutte quelle che aveva. Poi ci siamo tornati per comprare i pinoli. Per le quattro settimane successive, non abbiamo mangiato altro che pesto genovese. L’unica cosa che ha tenuto le zanzare un poco lontane è stata la fiatella di aglio. Giorno dopo giorno, tentativo dopo tentativo, è arrivata la fine di giugno. L’estate in città ha incominciato a farsi bollente, insopportabile. Anche di sera. Abbiamo detto: «Non è possibile: abbiamo il cortile-giardino e non possiamo usarlo! Stasera, ceniamo in giardino!» Siamo andati al supermercato e abbiamo riempito il carrello di candele alla citronella, di tutte le forme e dimensioni. Abbiamo preso anche una gabbietta, una di quelle che le zanzare

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vengono rincogionite dalla luce UV e poi vengono fulminate da una scossa elettrica. Poi siamo passati dalla farmacia e abbiamo comprato i bracciali, quelli colorati che tengono lontane le zanzare. Ce ne siamo presi uno per il polso, uno per la caviglia e, per sicurezza, anche uno di taglia XL che abbiamo adattato per il collo. La sera il cortile-giardino sembrava San Siro, tante erano le fiaccole che abbiamo acceso e noi sembravamo dei miliardari in vacanza con i braccialetti bianchi e la finta collana di plastica. Abbiamo apparecchiato sul tavolino di legno sotto l’albero di limoni e portato l’acqua, il vino, il pane le pietanze ancora fumanti come nei film americani, dove tutto è sempre perfetto. Ci siamo guardati e ci siamo sorrisi. Forse, per una volta, abbiamo vinto. Invece, ci siamo rigirati verso la tavola e nel piatto non abbiamo trovato più le nostre bistecche al sangue, le avevano prosciugate le zanzare. Poi ci siamo guardati in testa e abbiamo visto che stavano sopra di noi, raggruppate in stormi. Abbiamo preso i piatti e siamo corsi in casa, inseguiti dalle bestie che si sono spiaccicate contro il vetro della porta-finestra. Alla fine siamo andati a controllare nella gabbietta elettrica, volevamo vedere quande zanzare aveva fulminato. Una, molto piccola. Certe volte ci mettiamo a guardarle, come possono stare per ore a tentare di entrare sbattendo contro il vetro e ci chiediamo: perché? Perché sono così cattive? Mica noi andiamo di proposito nel cortile-giardino a ucciderle! Perché loro invece vengono da noi col preciso intento di farci del male, di succhiarci la vita, il sangue, le energie? Sembra una cazzata, ma è un problema serissimo di filosofia etica, sull’origine metafisica del male. Il cinese da cui compriamo le cineserie una mattina ci ha visti, sfatti e distrutti, pieni di bozzi di punture di zanzare e quando eravamo lì lì per pagare, con il suo sguardo saggio e antico, ci ha sorriso e poi ha tirato da sotto il bancone una racchetta col manico nero e la testa verde fosforescente. Ha premuto un pulsante e sul manico della racchetta si è accesa una lucina verde, poi ha avvicinato la racchetta al bancone e sono schizzate delle scintille,

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si è sentito scoppiettare. Era una zanzara. «Quant’è?» gli abbiamo chiesto, con un sorriso largo e soddisfatto. Se qualcuno dei nostri vicini ci ha sentito o visto dalle finestre nei giorni a venire, il nostro appartamento gli deve essere sembrato uno di quei strani laboratori dove gli scienziati pazzi fanno degli esperimenti fuori dall’ordinario, creano mostri come il dottor Frankenstein o la macchina del tempo. Rumori continui di scosse e scintille, urla disperate oppure di gioia, imprecazioni. Sul campo sono cadute centinaia di zanzare, seccate sul pavimento o ridotte in polvere dalla racchetta. Ci sentivamo onnipotenti. Ci siamo abbracciati e baciati e abbiamo fatto l’amore. Per qualche giorno le zanzare sono sparite. Anche quelle più piccole non si vedevano più. Allora abbiamo incominciato a parlarci e poi subito a litigare, perché non c’era più niente che ci teneva uniti. Nessun nemico comune da combattere. Allora, per non arrivare alla rottura ci siamo messi a guardare la televisione, lei da un lato del divano, io dall’altro. Mentre stavamo seduti, ci siamo sentiti pungere, pizzicare. Erano tornate, finalmente erano tornate. Ci siamo guardati e abbiamo sorriso. Ora che piove e le zanzare non ci saranno più per tutto l’autunno e poi l’inverno che cosa ci terrà uniti? Bisognerà pazientare qualche giorno, aspettare il freddo che ci barricherà in casa. Il freddo forse ci terrà uniti.


Il tempo di una tela di Giuseppe Passavanti

Jackson Pollock

Proviamo a immaginare l’attività di un pittore intento a dipingere un quadro. Il cavalletto sostiene una tela bianca: nessun segno la copre, nessun gesto s’è impresso sulla sua trama, la sua spazialità è ancora disorganizzata. Il pittore miscela un colore sulla tavolozza, intinge il pennello e poi segna la tela. A quel gesto ne seguono altri: segno dopo segno il quadro prende forma. Che significa in questo caso “prendere forma”? Forse che la spazialità della tela, a lavoro concluso, è una totalità organizzata, un sistema organico di relazioni determinate e simbolicamente rilevanti, non banali, non tautologiche? Che relazione c’è fra lo spazio organizzato della tela e, nella sua massima generalità, il tempo? Il rituale artigianale che fa emergere da un grumo di materia un che d’artistico, il “prendere forma” della tela, avviene certamente nel tempo. È nel tempo che l’opera è prodotta, nel tempo l’opera è fruita, nel tempo l’opera decade, nel tempo è restaurata. Diciamo tante volte “nel tempo”. Di che tempo stiamo parlando? Distratti dalla nostra discussione non ci accorgiamo che il pittore ha terminato il suo lavoro: egli ce lo mostra. Cosa vedete? Spazi organizzati, relazioni cromatiche, figure, ma non relazioni di tipo temporale, nessun “prima” cui faccia seguito un “poi”. Effettivamente il tempo di composizione del quadro è invisibile, anzi il tempo del quadro è invisibile. L’opera pittorica ha l’aspetto di una totalità perfetta, conclusa, quasi rinchiusa nell’istante dell’ultima pennella-ta, cristallizzata nell’assenso o nel dissenso

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del proprio artefice che di lei più non si curerà, che l’ha oramai lascia-ta alla sua autonomia di “figlia d’arte”. Un Crono figlio di un dio minore, senza poteri divini, può intaccare il sostrato materiale dell’opera, ma non può scavalcare, se così si può dire, la cornice ed entrare nel quadro, non può accedere alla totalità di significato cui l’opera pittorica è portatrice e modificarla. Un tempo astratto e così depotenziato riduce la storia di un quadro a un mero resoconto estrinseco delle sue alterne fortune, dei suoi proprietari, dei luoghi in cui esso è stato esposto. Sappiamo bene che le cose non possono stare così. Se degradassimo un qualsiasi quadro a mero prodotto visivo astratto dal tempo, se lo trattassimo come una ri-strutturazione cromatica della tela “vuota” capace di produrre istantaneamente una sensazione di piacere o dispiacere in chi la osservi, non potremmo rendere conto degli effetti, del ruolo e della funzione che l’arte ha ricoperto nella storia umana. Un tempo astratto, una mera successione di istanti identici tra loro e fra loro reversibili e liberati della loro carica creatrice, è estraneo ad un’opera pittorica come ad ogni altro prodotto fatto con arte (artefatto); estraneo ancor più, aggiungiamo, all’uomo stesso e, in fondo, alla natura vivente che ovunque è intessuta di tempi e memorie. Quale sarà il tempo di una tela? Riflettiamo ancora sul gesto pittorico basilare espresso dall’artefice del quadro: l’atto di-segnare la tela. Di per sé preso l’atto del segnare ha una durata uguale al tempo che il pennello impiega a scaricarsi sulla tela. Ogni pennellata di colore ha come controparte non visiva il tempo occorrente alla traduzione dell’intenzione artistica nell’estensione della tela. Il tempo delle singole pennellate, così come il tempo di composizione del quadro che ne è la sommatoria, è completamente indifferente al senso di ciò che si produce. Ecco perché possiamo definire “astratto” questo tipo di tempo. Ci sarà forse un tempo “concreto” di composizione? Concentriamo lo sguardo sullo stato della tela quando è interessata dalle pennellate del pittore. Essa trattiene il colore, non lo lascia sparire nel nulla, ne ha memoria. In virtù della “memoria” della tela, l’ordine della successione dei tratti che la segnano

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non le è e non ci è indifferente. E ancora: i tratti passati sono in relazione con i tratti presenti e futuri in un ordine che non può essere meramente lineare. Gli istanti in cui possiamo suddividere il tempo di una tela paiono fra loro qualitativamente differenziati e compiono, se così si può dire, un percorso orientato verso una direzione che non possiamo invertire; le relazioni fra i tratti nel tempo appaiono come non se-quenziali ma simili ad un sistema che abbia più punti di retroazione. Difatti, per fare un esempio, il quinto tratto pittorico può benissimo interagire col primo, e non neces-sariamente col quarto che lo precede. Il senso dell’opera, che emerge come tale solo al termine della sua composi-zione, non è un effetto lineare della somma delle pennellate sulla tela vista a sua volta come una sequenza lineare di cause ed effetti (pennellate e segni). Come in ogni totalità che si rispetti anche nel quadro il Tutto si presenta come maggiore della somma delle parti: se è vero che c’è effetto visivo, esso però non ha solo una causa. Ciò che possiamo ammirare a lavoro concluso è il frutto di una sintesi di tempi che a noi si presenta nell’istante, sincronicamente. Tuttavia, la comprensione di ciò che osserviamo richiede del tempo. Osservare un quadro non significa forse mettere in gioco il nostro tempo vissuto con il tempo della tela? Crono ci pareva indifferente ed estrinseco alla tela ed a ciò che su di essa s’imprime. La tela dipinta, tuttavia, ha in sé una storia, una concrezione di gesti durevoli, che lascia emergere una totalità simbolica. Il tempo della storia, di ogni storia, non è un tempo astratto, indifferente al contenuto di ciò che in essa si muove. Il quadro può parlarci perché possiede la stessa qualità di una memoria. Come un ricordo, ha sempre qualcosa di nuovo da comunicare, un senso o un dettaglio nuovo da scoprire, una luce nuova in cui lasciarsi osservare. Ogni volta che riosserviamo un quadro già conosciuto abbiamo l’occasione di riappropriarcene in maniera diversa: ciò che dovrebbe apparire come un morto dato di fatto si rinnovella ad ogni visione, si fa perturbante nella sua antica novità, in una fluidità di senso che attende lo sguardo di qualcuno che la vivifichi ancora.


L’Arte impermanente: la musica di Loredana Paolicelli

La musica, un pianeta incredibile, un mondo dove i suoni così evanescenti nascono dal nulla e si dissolvono nel silenzio, oltrepassando la cortina delle nostre sensibilità, toccando corde del nostro animo e della nostra sfera emotiva. I suoni sono come una lama, entrano senza possibilità di replica. Ci feriscono drammaticamente o ci rinvigoriscono, ci eccitano o ci deprimono, ci esorcizzano oppure ci indemoniano. L’arte della musica è impermanente, è languida, è qualcosa che può incitare guerre o determinare nostalgia, o essere la memoria dell’amore di intere generazioni. Avviene nell’epoca della “riproducibilità tecnica” benjaminiana ma anche nelle epoche precedenti quando non c’erano riproduttori di suono come vinili e cd. Tutti amano la musica, tutti vorrebbero studiare uno strumento musicale in modo anche amatoriale. Tutti vorrebbero ascoltare un concerto ed emozionarsi delle note interpretate da un cantante, da un pianista, da un’orchestra e cosi via. Non fa differenza di quale genere si parli, se di popular music o di classica o ancora di jazz , etnica o world music, hip hop o tecno, l’importante che abbia la capacità di farci rimanere attaccati alla sedia o di farci danzare fino all’alba. La musica entra di diritto nelle nostre vene, nei neuroni, nella memoria di ognuno ecco perchè non ne possiamo più fare a meno. Il nostro ruolo di operatori, musicisti, or-

ganizzatori di concerti, docenti di musica è talmente importante, che potrebbe costruire l’educazione di una generazione intera. La performance implica studio, prove, messa in gioco non solo dell’emisfero emotivo ma anche dell’ emisfero logico. Significa tenuta di concentrazione, memoria, coordinamento, attenzione massima, impiego di migliaia di calorie, ma soprattutto tanta energia al punto di

saper diffondere la propria aura ad una platea incredibilmente vasta. Il magnetismo dell’artista sul palco musicale è soggetto da sempre a fenomeni di fanatismo assoluto, questo per l’immensa energia che diffonde e profonde all’umanità. C’è poi la questione dell’impasse fra artista ed interprete. Chi è il vero artista chi compone musica o chi la interpreta? Interpretare significa far parte del cerchio

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dei 3 soggetti estetici come diceva lo strutturalista Bachtin, secondo cui la pagina scritta non può avere un senso estetico senza chi la interpreta, che a sua volta non può comunicarne senso se non per chi l’ascolta, cioè il pubblico. La musica dal vivo quindi ha 3 soggetti estetici indissolubili e l’interprete è un ri-creatore di senso rispetto all’Opera scritta dal compositore. L’approccio compositivo invece è totalmente creativo, allo stesso tempo gode di una logica tutta sua che si evince dal fatto che la composizione solitamente è un atto di messa a punto strutturale . Laddove il genio creativo arrivi all’apice del suo stesso riconoscimento, là probabilmente le clausole compositive precedenti ed antecedenti in termini di linguaggio vengono totalmente sovvertite. Diciamo che il genio artistico compositivo è di default un sovversivo. La parte espressiva e la propria storia di vita e di sé pervade

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l’interprete così come pervade inconsciamente il compositore non accademico, il genio artistico. Attraverso l’uomo interprete /compositore , l’altro uomo potrebbe salire su vette altissime di godimento, libertà di animo permettendo. Esperienza personale vissuta fuori e dentro il palco di un teatro. Come in tutte le cose che fanno crescere bisogna essere liberi dentro, con punti chakra aperti per inondarsi di ogni suono pervadente e per poterlo diffondere con tutta l’umanità che è insita in quel suono stesso. Come pianista impiego queste parole per definire l’arte che mi appartiene, ma anche come organizzatrice del VIVAVERDI da 18 anni, posso testimoniare che la commozione del pubblico, l’esaltazione di una standing ovation, la gioia ed il ringraziamento di chiunque, è quanto di più soddisfacente possa esistere. Il compito di operatore culturale, prima an-

cora di appassionato di musica, si esplica quando senti che ciò che hai messo sul palco procura una commozione grande sotto la pelle delle persone. La cultura dello spettacolo dal vivo, oggi nella nostra Regione siglato da un nuovissimo DDL, deve appartenere all’educazione, deve essere l’imprinting della nostra società e delle nostre città lucane nell’ottica di completamento del processo di Matera Capitale Europea 2019 e della Regione Basilicata tutta. La musica deve essere il collante di una società solidale e pronta senza pudore a denunciare la propria emotività e a dispensare sia lacrime sincere che sorrisi al prossimo. La musica può. La musica è anima, è interiorità, è spiritualità. E’ il girotondo del mondo.


Non ci sei più. Il tempo è un incantesimo finito e la sua ombra d’oro ammaina l’ultima notte e il giorno e l’ora e tace. Eppure io qui, io vivo, in questo angolo di lotta eterno che non ha posa e che mai trova senso. Io resto, io esisto, sono. E tu mi torni, come la vita più lontana tenue, vivo e struggente suono d’armonica controvento. da “ Nei giorni in cui si sfrena la nostra moltitudine “ edizione Memoliarte 2008 - 55 -


Associazione Culturare C.e.R.M.

Lucania invenienda est, piuttosto che delenda come alcuni vorrebbero e da più parti si paventa. La Basilicata è, infatti, terra che conserva tesori inestimabili ancora troppo nascosti. Nel 1753 il maestro Leonardo Carella del Vallo di Novi realizzò per la chiesa Madre di Trivigno uno straordinario organo a canne ancora oggi posto sull’architrave della porta maggiore, racchiuso in una bellissima cassa di risonanza in legno dorato con prospetto a tre aperture concave lateralmente e convesse al centro, delimitate da paraste. La decorazione ad intaglio è costituita da motivi floreali e volute fogliacee. Alla sommità, nel fastigio, è incluso uno stemma coronato, l’antica “Arma” di Trivigno: tre pini in campo verde. La facciata dello strumento è costituita da una cuspide centrale di sette canne di stagno e da due campate laterali con nove canne ciascuna. La tastiera, a 45 tasti con estensione da do 1 a do 5, è in bosso ed ebano e tra i dodici registri ce ne sono alcuni di notevole rarità, come quelli di “uccelleria” e “cornamusa

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LUCANIA INVENIENDA

L’Organo di Trivigno


scozzese”. Coeva all’organo è la cantoria, anch’essa in legno dorato con fascia continua ornata superiormente da un festone a motivi floreali dipinti e il prospetto diviso in tre parti: quella centrale, bombata, formata da tre pannelli in cui sono dipinte le Virtù Teologali; quelle laterali, concave e lineari, divise rispettivamente in due riquadri raffiguranti le Virtù Cardinali. Le figure dipinte si legano concettualmente alle sette note musicali; come queste, infatti, creano meravigliose armonie, così le sette Virtù possono armonizzare la famiglia, la comunità civile, la società tutta. L’organo costò alla collettività committente 150 tomoli di grano e 75 ducati in contanti. Restaurato negli anni novanta, si è ben presto deteriorato essendo rimasto inutilizzato per circa venti anni. Per questo da qualche anno è stata costituita un’associazione culturale (Ce.R.M.) che, in

collaborazione con il Conservatorio “Gesualdo da Venosa” di Potenza, ha messo in opera una serie di iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica e le Istituzioni al fine di recuperare lo storico strumento e riportarlo all’antico splendore. Così, grazie all’Amministrazione Comunale, ai fondi regionali e alla supervisione della Sovrintendenza, nell’estate del 2013 il prezioso strumento è stato rimesso a punto dall’organaro Giampiero Catelli ed è stato restituito alla collettività che ne ha potuto apprezzare il valore in occasione del Festival di musica sacra “Thesaurus Musicae”, organizzato dal Conservatorio di Potenza che da alcuni anni fa tappa a Trivigno, e in occasione del Festival organistico di musica sacra che si è tenuto dal 22 dicembre 2013 al 17 gennaio 2014 e che ha portato a Trivigno nomi illustri come il sopranista Paolo Lopez.

Chiesa Madre di Trivigno (Pz)

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IL Museo del Carnevale a Montescaglioso miti e riti del bosco, cicli del tempo, fertilità della natura e della terra nel carnevale della basilicata di Francesco Caputo

Il Carnevalone di Montescaglioso ha origine nel mondo contadino tra massari, pastori e braccianti. I costumi sono realizzati ogni anno con pelli di animali, tela di canapa, di juta ma anche con la plastica dei sacchi per le sementi del grano, carta, cartoni e stoffe di vecchi vestiti. Alle prime luci dell’alba del Martedì grasso, i gruppi iniziano il lungo rito della vestizione nonché la preparazione dell’asino e del caprone. Il corteo ha precise figure e gerarchie che vanno rispettate nella collocazione e nelle funzioni all’interno del corteo. La sfilata è aperta dalla parca che rotea il lungo fuso, simbolo della ruota del tempo. Seguono i suonatori dei campanacci. La “Quaremma”, vestita di nero e con in braccio un neonato, prossima a divenire vedova di Carnevalone. La carriola e Carnevalicchio in fasce, ove depositare le offerte. La sposa gravida, più o meno legittima di Carnevalone. Il caprone simbolo delle forze della natura. La fortuna impersonata da una maschera che gira con un pappagallo addestrato, dopo una piccola offerta, ad offrire il biglietto con la frase del destino. Il Cucibocca che con un grande ago minaccia di cucire la bocca dei presenti. Chiude il corteo il vecchio Carnevalone destinato ad essere bruciato allo scoccare della mezzanotte. Verso mezzogiorno i vari cortei, giungono nella piazza principale del paese per un’ultima

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scampanata. Si conteggiano gli incassi in denaro e natura preparandosi alla lunga e scellerata notte di bagordi, vigilia della Quaresima. Il pomeriggio sfilano i “matrimoni“, gruppi di coppie, spesso di soli maschi, accompagnati da fisarmonica e possibilmente da carrozza e cavallo. Sfilano lentamente e irriconoscibili ed ogni tanto fanno una sosta ed un giro di ballo. I costumi sono tipici della buone famiglie contadine. E’un carnevale meno sguaiato e più controllato delle sfilate della mattina. A sera inoltrata cambia tutto. Entra in scena il carnevale rocchettaro e pop. Alcuni carri di notevoli dimensioni sui quali per molte settimane giovani e meno giovani hanno sudato e lavorato. Riciclano tranci di carri acquistati altrove, rimontati, integrati e riadattati secondo i temi locali. Musica a tutto volume ma soprattutto davanti al carro centinaia di giovani e giovanissimi scatenati in balli e danze. Non c’è biglietto, tutti sono liberi di partecipare. I carri sfilano per tre serate e l’ultima, il Martedì Grasso, è conclusa dall’intervento di un DJ di fama nazionale. E’ la caratteristica che fa il successo del Carnevale di Montescaglioso. A notte avanzata nel pieno del Carnevale pop, compare il funerale di Carnevalone. Un fila di preti e frati esaltati precede il feretro di Carnevalone portato a spalla dagli amici disperati e seguito dalla vedova allucinata


che in grembo porta già Carnevalicchio. Il corteo si fa largo tra la folla e in piazza il feretro è bruciato, mentre la consorte dell’estinto partorisce Carnevalicchio. A mezzanotte in punto dal campanone della Chiesa Madre, partono quaranta lugubri rintocchi che segnano l’avvio della Quaresima. Inizia la penitenza, la festa è finita, ma Carnevalicchio è già nato e pronto per il prossimo anno. Anzi è già il protagonista della lunga cena notturna che chiude il Carnevale. Al mattino del Mercoledì successivo nei vicoli già compaiono le sette figure della “ Quaresima “ appese ad una corda per ricordare a tutti gli obblighi del buon cristiano per la Pasqua che è vicina. I riti di Carnevale costituiscono l’occasione nella quale le pulsioni più profonde della civiltà agropastorale del sud Italia emergono in tutta la loro spettacolarità e complessità. In ogni paese si rinnovano tradizioni diverse ma accomunate da antichi substrati condivisi: il rapporto con il bosco subito come minaccia, culla delle forze indomabili ed oscure della natura, ma vissuto anche come risorsa; l’invocare la fertilità della terra; la cacciata del vecchio; l’esorcizzare la temuta malannata; inizio del nuovo ciclo stagionale ed agricolo; la transumanza e i pastori nel loro eterno andare e tornare dai pascoli e dai boschi; la misura del tempo e della natura che determina-

no i cicli della vita umana. La realizzazione di un allestimento dedicato al Carnevale tradizionale di Basilicata, nelle sale dell’Abbazia di S. Michele Arcangelo di Montescaglioso, nasce per dare la giusta visibilità a tradizioni ed antichi riti che altrimenti rimarrebbero nell’anonimato. Gli stessi costituiscono l’occasione per radicare il senso di appartenenza delle comunità al territorio, la consapevolezza della propria identità; rappresentano il valore aggiunto delle nostre comunità; sono tradizioni degne di nota e costituiscono, altresì, attrattori turistici necessari a favorire la destagionalizzazione dei flussi turistici nella Regione, tale da favorire l’economia locale. Il museo attualmente presenta le maschere note ed inconsuete del Carnevale di alcuni comuni della Basilicata. L’intento è di ampliare l’allestimento museale in tempi brevi, poiché lo stesso suscita notevole interesse e curiosità da parte dei numerosi ospiti, turisti e visitatori, che quotidianamente raggiungono l’Abbazia di Montescaglioso

Maschere per strada Museo del Carnevale, Abazia di San MIchele Arcangelo, Montescaglioso

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Basilicata, i paesi del cinema di Rocco Romanelli

Leggendo un libro, guardando un film, ascoltando musica, ammirando un quadro o una scultura, ognuno proietta il proprio vissuto attraverso i sensi che sta usando, trasformando le opere d’arte in rappresentazioni delle esperienze individuali. La Basilicata è così, mutevole al variare degli sguardi, polimorfa e screziata, eppure tela bianca su cui tratteggiare visioni. A chi vuole costruire una storia, la Basilicata offre scenografie per atmosfere cangianti, paesaggi contrapposti in una sola regione, condizione ottimale per le esigenze di un regista. Il primo fu Carlo Lizzani che scelse, per il suo “Nel mezzogiorno qualcosa è cambiato”, una location lucana. Il film è del 1949 ed usa i Sassi di Matera quale simbolo di una miseria con cui il sud inevitabilmente si coniuga. Ma è solo la prima opera che vedrà la Capitale della Cultura per il 2019 come attore muto, perché i Sassi di Matera riversano la propria poesia in geometrie serafiche. Il sacro stilla da ogni aspetto della Lucania ed è forse per questo motivo che le pellicole più celebri hanno avuto come tema il sentimento religioso, inteso nelle estensioni più varie, dicotomia di regola e

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paganesimo che da sempre si intrecciano nel nostro salmodiare. I percorsi del cinema sacro in Basilicata cominciano nel 1964 con Pier Paolo Pasolini e il suo “Il Vangelo Secondo Matteo” realizzato appunto a Matera. Pasolini sceglie i Sassi perché puri, privi di contaminazioni moderne, arcaici come la vita dei personaggi che vivono nella sua pellicola e come gli attori, tutti non professionisti, che sembrano usciti dalle sacre rappresentazioni che ancora oggi impreziosisco-

no le nostre festività religiose. I lucani vivono un racconto sommerso, un sussurro che ha avuto troppi nomi poi stratificati nelle pietre delle loro case. Un artista, abituato a vedere il mondo con prospettive inattese, non può rimanere sordo a queste storie perché i paesi e gli abitanti si fondono in un unico gesto che a volte è preghiera, altre è bestemmia feroce. Aliano, Guardia Perticara, pietre tra le argille, echi dispersi dai venti aridi ed oggi statue classiche dalle forme ro-


mantiche. Guardia Perticara è la sfida di un popolo alla damnatio memoriae, è la bellezza che vince sulla distruzione. Percorrere i suoi vicoli è come abbandonarsi in un labirinto lapideo dove le case non sono semplici abitazioni, ma fonte di racconti che traspirano attraverso le mura e si fondono con il vento che bisbiglia sui selciati. Nel panorama infinito di valli e colline bianche, sorge timido Aliano, il piccolo comune della provincia materana, che il grande letterato e pittore piemontese Carlo Levi immortalò nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli”. Confinato alla metà degli anni trenta per ragioni politiche,

Levi ne percorse le strade, ne incontrò gli abitanti, ne scoprì e amò la cultura, tanto da richiedere nelle sue ultime volontà di essere seppellito tra i suoi contadini. L’infinito come forma di gratitudine è la più sublime delle immortalità. Guardia Perticara e Aliano, è in questi centri che Francesco Rosi girerà nel 1979 “Cristo si è fermato ad Eboli”. In Basilicata il visibile dialoga con le presenze diafane, spettri crepitanti di focolari domestici mai spenti. Capita che interi abitati siano occupati da tali memorie indistinte, come Craco il paese dell’entroterra lucano abbandonato a metà del secolo scorso per una frana. E’ un punto

in cui le tracce dell’uomo si sono diluite negli imperativi della natura creando contrasti opachi tra la terra e la storia. Qui, come a Matera, Mel Gibson vede i luoghi della passione di Cristo, quinte che stillano profezie silenti, affidate alle visioni che ognuno può accendere. La Basilicata si invera nelle emozioni che suscita, le cristallizza nelle sue montagne e le sublima attraverso le sue foreste. Ammirandola ci si perde nella vita di un sud che non permette distrazioni, perché travolge e ammalia con la sua possanza. Craco, foto di Canio Scattone Matera, foto di Canio Scattone

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Mangiare è uno dei quattro scopi della vita... quali sono gli altri tre, nessuno lo ha mai saputo. Proverbio Cinese

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Tutta la storia umana attesta che la felictà dell’uomo, peccatore affamato, da quando Eva mangiò il pomo, dipende molto dal pranzo. (Goerge Gordon Byron)

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